Ogni antropologo è figlio del suo tempo. Il mondo che ci si presenta davanti è un mondo in rapido movimento (T. Ingold 2000) e le scienze sociali devono rapidamente analizzare e comprendere i cambiamenti. Un'antropologia, che in questo senso evidenzi, affronti e, se possibile, risolva i disagi sociali presenti nelle nuove società multiculturali, che hanno più visibilità nelle grandi metropoli europee e americane e si delineano sempre di più come "città globali" (R. Cohen 1997). La globalizzazione ci presenta un mondo dove tradizione ed innovazione si intersecano in un continuo mutamento: un "termine che solo qualche decennio fa era quasi sconosciuto e che oggi invece è una parola chiave." (U. Hannerz 2001: 7) La ricerca si prefigge di analizzare come la conservazione dell'identità culturale e religiosa della comunità sikh nella provincia di Roma, la sua pratica e la sua istituzionalizzazione possano costituire una base per l'inclusione sociale o se invece favoriscano l'esclusione sociale o l'autoemarginazione. Le ragioni della scelta sono: i sikh sono una minoranza nella minoranza. Minoranza degli immigrati indiani, che sono minoranza essi stessi; gli studi eseguiti da ricercatori italiani sul gruppo di migranti provenienti dal Punjab sono stati effettuati solo nel nord Italia. Manca, di conseguenza, uno studio approfondito sulla condizione dei migranti sikh nella provincia romana; l'interesse verso un movimento religioso di tipo monoteistico. Ho utilizzato una metodologia qualitativa, con i metodi dell'osservazione partecipante, dell'etnografia intesa come una "etnografia pubblica" (B. Tedlock 1991), la raccolta di storie di vita, "un'azione indispensabile" (M. Marzano 2006), una "potenzialità" (M. I. Macioti 1995: 9) "che dà luogo all'emergere dei fattori cruciali di un vissuto personale, che non è mai solo individuale ma profondamente innestato nel corpo sociale" (R. Cipriani 1987: 26) forse la più adatta per approfondire il tema della percezione del cambiamento culturale e del rapporto tra comunità di approdo e di partenza nella vita sociativa degli attori sociali e il metodo dell'antropologia visiva (F. Faeta 2006). Per comprendere meglio i fatti sociali, ed interpretarli, ho utilizzato come teoria di riferimento le tre fasi dei riti di passaggio indicate da Van Gennep (A. Van Gennep 1981) – separazione, margine (transizione), riaggregazione – considerando la migrazione come un fatto sociale totale (A. Sayad 2002). Delle tre fasi sopra elencate la seconda, ovvero il margine o transizione, è la più importante, proprio per la possibilità dell'attore sociale di superare o meno di tale fase e produrre una chiusura o una apertura verso l'esterno. Il lavoro è composto da cinque capitoli preceduti da una introduzione che comprende la nota metodologica e concluso da brevi riflessioni finali. Il primo capitolo prende in esame la costruzione dell'identità sikh. Il secondo capitolo considera gli aspetti inerenti alla migrazione sikh in Italia in generale e a Roma in particolare. Il terzo capitolo è l'etnografia di due eventi importanti della comunità sikh. Il primo è il Vaisakhi, la festa che della fondazione del Khalsa. Il secondo evento è il D-Day, il giorno del turbante, manifestazione di rivendicazione dei diritti sociali, culturali, politici e religiosi da arte della comunità sikh. Il quarto capitolo è la restituzione dei risultati della ricerca agli attori sociali in un confronto dialogico tra ricercatore e soggetti della ricerca e ultimo passaggio metodologico.
La strategia di Lisbona, del 2000, ed il suo rilancio 'Europa 2020', sono programmi di riforme, che mirano a fare dell'Europa "l'economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo". Tra le priorità, l'Europa richiede una maggiore circolazione di conoscenza e alti livelli di innovazione, che possano funzionare come fattori di crescita economica e di coesione sociale. Diverse analisi e programmi europei riportati nella ricerca hanno evidenziato che, il livello di coesione e di cittadinanza attiva, richiesti dall'Europa per affrontare le sfide della globalizzazione, sono interdipendenti dal livello di educazione ed istruzione. Ovvero, i cittadini più istruiti e con più competenze sono anche quelli più mobili e più partecipi ai problemi e agli obiettivi dell'Unione europea. Il focus della ricerca è la mobilità degli individui (altamente) qualificati: dopo lo scoppio della crisi economica del 2008, la mobilità, o migrazione, di questi individui si è accentuata, soprattutto in invio dai paesi che hanno più sofferto per la recessione ( Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia). Una percentuale molto alta di questi migranti ha preferito restare in Europa, scegliendo come meta di soggiorno la Germania, la Gran Bretagna, la Francia o la Svizzera. Allo scoppio della crisi, infatti, alcuni Paesi membri si sono rivelati più innovatori di altri, tanto da uscire, quasi indenni, dalla recessione economica. Tenendo come termine di paragone le direttive e le normative europee, questa ricerca esamina alcune pratiche nazionali, così da poter misurare il livello di adesione alle direttive centrali, ma anche il livello di riuscita dei programmi comunitari. La questione sottolineata riguarda, infatti, la problematicità esistente fra il Metodo del Coordinamento Aperto europeo, strumento di realizzazione della Strategia di Lisbona, e le scelte governative nazionali. Le normative europee non sono "hard law", ovvero non impongono restrizioni né decisioni; la Commissione europea ha solo un ruolo di sorveglianza nei confronti delle strategie nazionali. Questa atipica situazione politica comincia ad essere definita problematica proprio dopo il 2008: nei paesi più deboli, come il nostro, la migrazione in uscita è già stata identificata come 'fuga di cervelli', ovvero perdita di sviluppo, a vantaggio di stati membri più forti. Il canale migratorio esaminato è quello di Italia-Germania e Italia-Svizzera; questi paesi, oltre ad essere fra le mete principali ( e storiche) dei nostri connazionali all'estero, sono anche fra i Paesi che meglio hanno superato la crisi. La prima e la seconda parte della tesi costituiscono il framework di riferimento: abbiamo inquadrato la migrazione internazionale attuale, che risponde alle spinte della globalizzazione, del neoliberismo e dell'economia della conoscenza; nella terza parte, invece, andiamo a definire quale sia il modello normativo europeo per la gestione della mobilità qualificata, come effettivamente funziona tale tipo di mobilità, dopo la crisi del 2008; ed infine descriviamo la contraddittoria situazione italiana e la sua 'fuga dei cervelli'.
Il patrimonio castellano in Sicilia vanta oltre trecento manufatti che afferiscono principalmente a tre tipologie: bizantino-araba, evoluzione del castrum su cui si innesta il tipo normanno; federiciana, modulata su criteri compositivi; aragonese, in spiccato rapporto col territorio. Abbandonati o variamente reimpiegati in Età Moderna, essi vanno incontro, dalla seconda metà dell'Ottocento ad oggi, ad una riscoperta che avvia, sulla secolare stratificazione, significativi ma poco studiati interventi. Pertanto l'obiettivo della tesi è contribuire alla conoscenza dei restauri del patrimonio castellano in Sicilia, eseguiti fra la seconda metà dell'Ottocento e la fine del Novecento. Attraverso la valutazione di istanze e orientamenti culturali, prassi operativa, linee d'intervento, cultura del Restauro, si è suddiviso l'arco temporale della ricerca in ambiti storico-culturali caratterizzati da coordinate concettuali e operative utili ad individuare alcuni interventi-tipo e studiare approfonditamente, tra questi, i più significativi o emblematici. L'analisi del singolo esempio, fondata su indagine d'archivio bibliografia e sopralluoghi, valuta: a) contesto culturale, committenza e architetto; b) la complessa decodifica dello stato di fatto, spesso non attestato, tramite l'analisi delle fonti storiche, iconografiche, bibliografiche, e archivistiche; c) restauro, inteso come approccio operativo, rapporto con le stratificazioni, esiti dell'intervento. La ricerca individua un primo ambito storico-culturale nel secondo Ottocento. In un clima di Gothic revival e ripristino dell'architettura normanna, l'aristocrazia locale avvia il restauro dei castelli di famiglia e li trasforma in residenze, al fine di celebrare il casato ed evocare il medioevo normanno. L'operazione, non sempre priva di riferimenti colti, modifica il volto del manufatto. Il restauro (1872-80) dalle "opere avanzate" del castello di Erice, di fondazione classica, diretto dal conte A. Pepoli (1848-1910) esemplifica il fenomeno riscontrato: riconoscimento del monumento, istanza autocelebrativa, corrispondenza di committente e architetto, ripristino del manufatto, progettazione di giardino pittoresco e dependance eclettica. Un secondo ambito, caratterizzato dai primi studi castellologici e da nuove scientifiche e conservative posizioni della cultura nazionale del Restauro, si individua nel primo Novecento. La giovanissima soprintendenza guida con interesse le prime indagini ed operazioni di consolidamento e liberazione, scongiurando demolizioni e usi incongrui. Un particolare intervento, condotto sul castello aragonese a Mussomeli (1909-11) da E. Armò (1867-1924), che aderisce a nuovi approcci conservativi, è volto al solo restauro del monumento senza contemplarne un riuso. Il rudere è approfonditamente indagato, documentato, consolidato e integrato, in linea con le normative nazionali. Fra rari casi significativi vanno ricordati il ripristino (dal 1932) del catanese Castello Ursino, destinato a museo e supervisionato da F. Valenti (1868-1953), e il restauro dei ruderi di Acicastello (dal 1940) diretto da P. Gazzola (1908-79) che anticipa nuove tendenze. Il terzo ambito prende corpo nella seconda metà del Novecento, contrassegnato dall'avvio della castellologia siciliana, da numerosi interventi e da alcune problematiche: la presenza del demanio militare, la rinnovata fruizione del bene, la ricerca di congrue destinazioni d'uso. I restauri, in mutevole contatto col dibattito disciplinare, attestano varie tendenze, dalla selezione critica dei valori, alla demolizione, fino alla conservazione allo stato di rudere. L'intervento nel federiciano Castel Maniace a Siracusa, pianificato da G. Giaccone nel 1951, riproposto e avviato da G. De Angelis d'Ossat nel 1977 attraversa il passaggio fra diversi indirizzi e conferma dette problematiche. Alla luce della ricerca si può affermare che nell'età contemporanea si assiste ad una nuova fase della storia del castello, in cui il Restauro è un decisivo protagonista e riveste un ruolo determinate nella gestione, conservazione e rifunzionalizzazione della stratificata architettura. Nell'attuale panorama degli studi castellologici siciliani, l'indagine illustra un momento decisivo, tuttavia non sufficientemente sondato, ovvero la stagione dei restauri condotti con nuove consapevolezze ed obiettivi di salvaguardia, dall'indubbio riflesso sul volto storicizzato del patrimonio castellano isolano. Senza pretendere di essere esaustivo, lo studio conduce una prima lettura storico-critica del dato, ne individua ambiti e sviluppi, offre un quadro generale di riferimento e fornisce un indirizzo sistematico per ulteriori indispensabili indagini del vasto soggetto. Inoltre, alla luce delle attuali criticità e potenzialità, si propone come base per un futuro programma strutturato di conoscenza, volto alla conservazione valorizzata di uno specifico, problematico e alquanto sostenibile patrimonio culturale e territoriale.
Questa ricerca indaga gli aspetti culturali e materiali della storia della costruzione di uno spencer Liberty, che viene qui esaminato come documento storico. Questo capo faceva parte di un vestito da sposa e fu indossato il 12 ottobre 1912, giorno delle nozze, da una quindicenne a Villa Platina, entro i confini di Minas Gerais, regione del sud est del Brasile. La ricerca prende le mosse dalla cultura materiale per svilupparsi poi nel campo della storia, considerando aspetti economici, culturali e politici, della società platinense: una società rurale e tradizionale che si trovava agli albori del sistema repubblicano (periodo denominato di Republica Velha) e coincidente con il movimento artistico dell'Art Nouveau, in Italia denominato Liberty. La tesi indaga dunque le relazioni tra la società, il suo sistema di vestiario e il suo collegamento con la moda occidentale, tenendo sempre presente la storia dell'oggetto. La tesi si struttura su cinque assi: ¬la persona che ha posseduto l'oggetto stesso, l'ambiente produttivo, l'ambiente formativo dei sarti, la stampa e le comunicazioni e, infine l'oggetto. La ricerca si basa su diverse fonti: iconografiche, censimenti, libri contabili, periodici e riviste di moda, manuali tecnici della manifattura degli abiti (modellistica, taglio e cucito), periodici politici ed economici, archivi, testimonianze orali, oggetti manufatti del periodo, materie prime, la ricostruzione filologica dell'oggetto, ecc. L'obiettivo principale di tale indagine è comprendere processi e problematiche proprie delle materie prime, della commercializzazione, dei procedimenti di lavorazione, dei costi, delle mode e delle gerarchie sociali che questo manufatto presenta nelle varie fasi di lavorazione, di taglio ed assemblaggio. ; This research questions the material and cultural aspects of a Liberty Spencer construction, which is examined here as a historical document. This clothing was part of a wedding dress and was used about 12 October 1912, the wedding day, by a 15 years old girl. The weeding took place on the border of Minas Gerais, southeast region of Brazil. This research starts from material culture perspective to develop into the fields of history, considering economic, political and cultural aspects of the platinense society. That was a rural and traditional society on the beginning of republican system (so called Republica Velha), the same period of the Art Nouveau artistic movement, named Liberty movement in Italy. Thus, the thesis questions the relationship between society, its vesture system and its link with occidental fashion, considering the object history. This thesis is structured on five axes: the person who owned the object; the productive environment; the dressmakers professional qualification environment; the press; and finally, the object. This research is based on several sources: iconographic, census, accounting books, fashion newspapers and magazines, technical manuals of clothes manufacturing (modeling, cutting and sewing), political and economic periodicals, archives, oral testimonies, artifacts of the period, raw materials, the philological reconstruction of the object, etc. The main object is to understand the process and the raw materials, commercialization, manufacturing, cost, fashion and social hierarchy problematics that this artifact represents in the various manufacturing stages, of cutting and assembly.
L'obiettivo di questa ricerca è stato quello di definire attraverso l'analisi di studi specialistici che coprono più ambiti disciplinari il significato della conservazione dei paesaggi vulcanici nei suoi diversi aspetti, in altre parole quel complesso di conoscenze (culturali, storiche, semantiche, metodologiche, teoretiche e tecniche) che concorrono alla formazione della cultura del progetto paesistico per gli operatori chiamati a recuperare, riqualificare, pianificare e progettare questi territori vulcanici ad alta specificità ambientale nell'ambito del secondo Novecento. La tesi si articola in quattro capitoli principali, organizzati in sottoparagrafi. Mentre nel primo di questi capitoli si analizza il rapporto in termini giuridici fra il territorio ed il paesaggio, nel secondo si vuole dare una "lettura" alla controversa nozione di paesaggio in quanto di difficile definizione perché la parola paesaggio esprime insieme la cosa e al tempo stesso l'immagine della cosa e pertanto facilmente criticabile a causa della sua ambigua doppiezza. Per poi affrontare nel terzo capitolo le specificità dei paesaggi vulcanici risultati di strette interconnessioni tra numerose variabili fisiche e biologiche. Fondamentale come in qualunque intervento di conservazione è la conoscenza e l'analisi del paesaggio e la comprensione delle relazioni funzionali che storicamente si sono determinate e che hanno dato luogo ai paesaggi che ci sono pervenuti. L'osservazione del paesaggio trascendendo ogni valenza estetica, può interpretarsi come chiave di comprensione del linguaggio del territorio: comprendere tale linguaggio diviene un processo intuitivo, che si concretizza decifrando e capendo le regole interne che caratterizzano la grammatica e la sintassi del territorio. Ma è possibile leggere il paesaggio? Solitamente quando si parla di lettura ci si riferisce a un insieme di segni di cui si conoscono i significati e grazie ai quali si trasmette un pensiero. Il paesaggio formato da tanti segni riconoscibili può essere "letto", interpretato. Una interpretazione che non riguarda però semplicemente i singoli elementi, isolati attraverso una operazione di scomposizione, ma il loro significato in quanto parti di un insieme, come e perché sono connessi nello spazio. La varietà degli elementi visibili può essere tale da rendere estremamente complicata la lettura, senza contare tutto ciò che nel paesaggio resta celato, impercettibile. Le numerose aree disciplinari impegnate negli studi e nelle riflessioni sul paesaggio testimoniano la complessità della questione paesistica, dove gli approcci operativi interdisciplinari hanno permesso di superare la complessità di molti problemi e di guidare in modi sostenibili le trasformazioni del paesaggio. In questa ottica, la conservazione del paesaggio mira ad approfondire la conoscenza, l'etimologia, la genesi ed ad individuare le forme di tutela. La nostra società riconosce nella tutela del patrimonio culturale una necessità inderogabile, connaturata all'essenza stessa del bene, che fonda nel proprio valore intrinseco il suo diritto ad essere tramandato alle generazioni future; dove la stessa Costituzione Italiana all'articolo 9 dichiara che "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". In questa ottica legislatori e soprintendenze hanno operato ed operano per la conservazione dei beni culturali con strumenti come vincoli, cataloghi, archivi, anche se poi avviene che il riconoscimento di un valore ed un regime vincolistico non sono sufficienti a preservarli. Questo perché il vincolo nel senso stretto del termine, può comportare la "cristallizzazione" di una entità vitale, che spesso finisce per danneggiare ciò che voleva proteggere. Nel quarto capitolo analizzando dei casi specifici effettuando un confronto tra gli strumenti di tutela e urbanistici di dette aree vulcaniche ho dedotto che per poter proteggere e conservare il nostro patrimonio non basta individuare e bloccare le azioni potenzialmente dannose, magari conservando le testimonianze più preziose con una sorta di "congelamento" che in ultima analisi negherebbe la più elementare fruizione potenzialmente nociva, ma occorre avere un atteggiamento propositivo fermo restando il rispetto dello stesso. Anche perché da non molti anni il dibattito sui temi paesistici ha imboccato una svolta, dalle preoccupazioni conservative e vincolistiche alla ricerca di metodologie d'intervento e norme attive, che consentano lo sviluppo del territorio compatibile con il mutare delle esigenze collettive. In questa ottica la progettazione paesaggistica che richiede un complesso di conoscenze (culturali, storiche. semantiche, metodologiche, teoriche e tecniche) che concorrono alla formazione della cultura del progetto paesistico può rappresentare un valido strumento per il raggiungimento di questo obiettivo. La svolta è stata sancita dalla Convenzione Europea del Paesaggio che ammette tra gli obiettivi delle politiche del paesaggio anche la creazione di nuovi paesaggi per soddisfare le aspirazioni della popolazione interessata. Leggiamo nella presentazione della Convenzione: "Il testo prevede un approccio operativo articolato in relazione ai diversi paesaggi. Le specifiche caratteristiche di ogni luogo richiederanno differenti tipi di azioni che vanno dalla più rigorosa conservazione, alla salvaguardia, riqualificazione, gestione, fino a prevedere la progettazione di nuovi paesaggi contemporanei di qualità". In questo modo viene ad essere superato l'approccio settoriale al Bene Culturale, con la usuale azione di tutela puntuale concentrata sui singoli "oggetti": il Bene è ora messo in relazione con il contesto, in una visione di sistema. Il Codice dei Beni culturali e del paesaggio ha riconosciuto i Beni paesaggistici come parte del patrimonio culturale superando la vecchia dicotomia che vedeva da un lato i Beni culturali e dall'altro i Beni paesaggistici e ambientali. Il testo di legge ha cosi recepito i nuovi orientamenti che distinguono il concetto di paesaggio e quello di ambiente, il primo risultante dell'opera dell'uomo e dagli agenti naturali sul territorio, il secondo come sistema degli elementi fisico-chimici fondamentali (suolo, acqua, atmosfera) e biologici. Il paesaggio è infatti definito dall'art.131 del Codice come "una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni" in una visione quindi improntata di storicità e in grado di recuperare quella dimensione estetica che sembrava perduta. La legge 9 gennaio 2006, che ha ratificato la Convenzione Europea del paesaggio costituisce una sorte di "rivoluzione copernicana" nella politica paesaggistica italiana. Per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico compare una definizione univoca di paesaggio e di politiche paesaggistiche. Dopo decenni d'incertezze viene affermato in modo chiaro che il paesaggio è costituito essenzialmente dalla percezione del territorio che ha chi ci vive o lo frequenta a vario titolo e viene altresì detto che le persone hanno il diritto di vivere in un paesaggio che risulti loro gradevole. Infine si è giunti al recente Decreto Rutelli 26 marzo 2008 n.63, nel quale si afferma ancor di più che il paesaggio è un valore primario e assoluto che va tutelato, Decreto subito battezzato dagli organi di stampa "salva paesaggio". Quest'ultimo ha innescato una stagione di nuovi conflitti fra Stato e Regione per la determinazione delle rispettive attribuzioni, in tema di paesaggi, con conseguenti motivi di incertezza e confusione sul piano applicativo. Secondo il Decreto Rutelli la materia della tutela del paesaggio spetta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, in forza degli artt. 9 della Costituzione. Le Regioni, invece mirano a far ricadere la "materia" nell'ambito del governo del territorio o della "valorizzazione dei beni culturali ed ambientali"(art. 117 Cost.), convinti che il paesaggio sia solo un aspetto del governo del territorio, che rientra nella potestà legislativa concorrente delle Regioni. L'intrinseca ambiguità della questione paesaggistica emerge peraltro fin dalla questione teorica sull'argomento a causa dell'ambivalente capacità del termine di definire insieme l'oggetto e le sue rappresentazioni. Né consegue che i paesaggi sono tanti quanti sono le modalità di percezione-proiezione che di volta in volta vengono messe in azione, dando luogo a inevitabili frizioni interpretative. Questo perché sia paesaggio che territorio sono termini che si riferiscono a concetti, sono cioè paradigmi che servono ad estrarre da una realtà non definita alcuni caratteri significativi rispetto alle intenzioni del soggetto, conseguentemente non esistono concetti univoci e consolidati, bensì relativi e variabili a secondo delle epoche, degli apparati disciplinari, della cultura e delle pratiche reali all'interno dei quali il termine viene concretamente definito. La scelta dei vulcani della Sicilia e della Campania, è dovuta anche al fatto che essi sono stati d'eccezionale richiamo per gli artisti e gli scienziati d'ogni tempo, ed in particolare degli anni dell'illuminismo e del romanticismo, hanno rappresentato motivo d'ispirazione nella letteratura, nel teatro, nella pittura, nella scienza della terra. Pertanto restano una risorsa per il turismo internazionale culturale sempre più interessato ai problemi dell'origine della terra e della sua evoluzione, nel tentativo anche di dare una risposta alle domande essenziali dell'uomo, una risorsa da valorizzare ed utilizzare per il cammino della scienza, che noi tutti abbiamo il dovere di conservare; essi sono il risultato di strette interconnessioni tra numerose variabili fisiche e biologiche, luoghi dove la natura e la storia hanno plasmato il paesaggio, dove gli scenari naturali fanno da sfondo alle vicende umane, in un susseguirsi di avvenimenti che hanno costruito il patrimonio storico, la sua identità culturale. La ricchezza dei paesaggi vulcanici è testimoniata dalla loro evoluzione geologica, la cui valutazione è complessa e spesso di non immediata percezione a causa dei segni e caratteri complessi che si sono succeduti nel tempo. Valorizzare il patrimonio rappresentato dai vulcani ed i loro paesaggi, un'eredità tangibile dell'intera umanità, per le sue capacità di attrarre l'immaginario collettivo mondiale, costituisce una importante risorsa economica che se gestita con accortezza, può contribuire a sostenere lo sviluppo del territorio. Tutelare e sviluppare le potenzialità di questi giganti del fuoco significa salvaguardare tutto il patrimonio culturale, sociale del luogo. Il paesaggio vulcanico per la sua natura, presenta situazioni paesaggistiche particolari: dove valori naturalistico-storico-culturali coesistono con grandi sistemi antropici; l'uso residenziale del suolo ha prodotto le più rilevanti alterazioni dal punto di vista paesaggistico, generando pressioni sul territorio. Alla forza della presenza vulcanica, che modella il paesaggio, si contrappone la forza creatrice dell'uomo, che paradossalmente distrugge. La pressione antropica comporta la perdita semiologica e quindi la perdita d'identità del paesaggio; alla distruzione operata a vario titolo nel passato, possono e devono contrapporsi processi di ricostruzione; tra questi interventi mirati alla salvaguardia e valorizzazione dell'immagine, col massimo rispetto delle dinamiche evolutive naturali connesse al vulcanismo. Uno studio del paesaggio diretto alla formulazione di un contributo per la definizione generale ed operativa di suggerimenti inerenti alla tutela e l'uso del territorio nell'ambito individuato: cioè siti ad alta specificità vulcanica. Considerando il paesaggio non come "risorsa" ma come "patrimonio" Territoriale, cioè come un sistema costituito da strutture di lunga durata con regole inerenti la loro conservazione. Per ciò che concerne gli obbiettivi della ricerca: premesso che il paesaggio è, insieme fenomeno e concetto, entità reale e rappresentazione; esiste in presenza di elementi fisici, i quali prendono senso per le relazioni reciproche, mi sono proposto di fornire suggerimenti ai fini della conservazione dei beni protetti (paesaggi vulcanici), che non si riducono a porre ulteriori parametri di controllo del territorio, ma devono promuovere i valori paesaggistici, con la conseguente valorizzazione degli stessi.
Sullo sfondo dei percorsi (e dei ricorsi) della statuomania sviluppata dai livornesi fra Otto e Novecento, il saggio intende interrogarsi su forme, pratiche e ragioni del successo della mediatizzazione della monumentalistica in epoca liberale; un processo culturale che costituisce una pagina fondamentale, quanto inesplorata, della storia della comunicazione politica di massa nella penisola italiana. A seguito del processo diffuso della «rimediazione» tipico dei circuiti comunicativi del lungo Ottocento, ogni statua può contribuire, infatti, alla scrittura di una molteplicità di storie virtuali a partire dagli immaginari che prendono forma da (e su) una varietà di palinsesti editoriali e visuali. Attraverso le stampe sciolte così come tramite le cartoline postali, per mezzo sia delle riviste che delle dispense illustrate, la monumentalistica municipale si proietta su un palcoscenico più ampio e raggiunge un pubblico più largo, fungendo al contempo da vettore di identità civica e da segmento di un'imagerie nazionale in costruzione dall'audience stratificata ed estesa.
In questo contributo si propone una interpretazione dell'indagine di Enzo Cervelli sulla figura di Gioacchino Volpe, vista come un prisma attraverso il quale ricostruire la storia della cultura italiana tra Otto e Novecento nei suoi aspetti ideologici di anticipazione del fascismo. Attraverso l'individuazione, nell'analisi della produzione volpiana, dei temi della nazione, del discorso generazionale nel mancato incontro con il marxismo, dell'irrazionalismo storiografico, della soggettività autobiografica – alcuni dei quali elaborati con decenni di anticipo rispetto ai tempi della ricerca – Cervelli tracciava un complesso e labirintico affresco della cultura italiana ed europea fra età liberale e fascismo, che prendeva le mosse da un problema storico di natura essenzialmente politica. Historiography as history. Gioacchino Volpe (and his surroundings) In this contribution an interpretation of Enzo Cervelli's investigation into the figure of historian Gioacchino Volpe is advanced. Cervelli's Volpe, it is argued, is seen as a prism through which to reconstruct the history of Italian culture between the nineteenth and twentieth centuries, notably in its ideological aspects of anticipation of Fascism. Cervelli was able to discern, across the whole of Volpe's historiography, a number of topics, such as nation and nationalism, the generational discourse, the missed encounter with Marxism, the historiographic irrationalism, the autobiographical subjectivity, some of which elaborated decades before the maistream research did. By leveraging on these issues, Cervelli traced a complex and labyrinthine fresco of Italian and European culture during the late liberal age and Fascism, which took its cue from a historical question of an essentially political nature. ; This contribution advances an interpretation of Enzo Cervellis investigation into the figure of the historian Gioacchino Volpe. Cervellis Volpe, it is argued, is seen as a prism through which to reconstruct the history of Italian culture between the nineteenth and ...
Il presente contributo ha l'obiettivo di indagare il ruolo delle radio democratiche/libere, nella strutturazione e riconfigurazione delle relazioni comunicative quotidiane. Le emittenti libere, con la loro nascita, hanno creato le condizioni di una concreta partecipazione collettiva attraverso un rovesciamento di prospettiva delle "tradizionali" forme di comunicazione diventando, assieme al loro patrimonio sonoro, mezzi attraverso i quali poter analizzare e studiare il vissuto sociale e collettivo. In particolare, l'oggetto di studio di questo contributo si concentra su Radio Popolare, emittente milanese nata nel 1976. La scelta è frutto della peculiarità della stessa, che non ha mai interrotto un percorso di innovazione, ora modificandosi nelle sperimentazioni, ora trasformandosi per effetto di fertili esperienze. Per questi motivi, il valore dell'archivio di Radio Popolare è rappresentato dalla presenza massiccia di fonti dirette e non ufficiali con una descrizione realistica e non convenzionale della storia e della rappresentazione di una nuova memoria collettiva. L'obiettivo è quello di voler indagare una metodologia di trattamento e uso delle fonti sonore, in particolare quelle relative all'emittente milanese, come fonti storiche in grado di raccontare in presa diretta i cambiamenti sociali, politici e culturali della storia italiana. Mettendo infine a confronto il dialogo aperto e diretto del passato e del presente fra l'emittente e gli ascoltatori si può arrivare a comprendere la rappresentazione quotidiana attraverso l'onda e attraverso questo specifico mezzo di comunicazione, la sua capacità di incidere nelle scelte degli ascoltatori e la permeabilità agli input ricevuti dalla comunità dei suoi ascoltatori.The purpose of the present paper is to examine the role of the free/democratic radio stations in structuring and reshaping the connections of daily communication. The birth of the free radio stations has actually allowed collective sharing, as they subverted the perspective of the 'traditional' communication media and became valuable instruments in the analysis of the society and community experience, thanks to a massive voiced heritage. More specifically, the object of our study is 'Radio Popolare', a milanese station established in 1976. This has been chosen due to its peculiar characteristics; the station has always pursued the path of innovation, experimenting different forms and being constantly transformed by productive experiences. For these reasons, the value of Radio Popolare archives lies in a huge amount of direct and unofficial sources, an unconventional and unfiltered point of view on history and representation of the collective memory. Our goal is to find a method in the usage of these sound sources (particularly the milanese radio ones) as proper historic sources able to narrate in live broadcast the social, political and cultural changes of Italian history. Moreover, following between past and present an open and direct emitter-listener dialogue, we will eventually see in the radio waves and in the "on-air" a concrete representation of the daily routine, and we will comprehend the unique nature of this peculiar communication means, able to influence the listeners' choices but, at the same time, receptive and open to inputs given by the listeners community itself.
Questa ricerca tenta di offrire un contributo di terreno alla conoscenza delle reti sociali e delle condizioni di vita dei migranti del Bangladesh a Roma, coniugando un approccio di tipo etnoantropologico alla riflessione sul servizio sociale e più in generale sul welfare mix. L'indagine muove da una lettura olistica dell'intervento sociale, ovvero dal presupposto della non segmentabilità delle sue problematiche, che nascono in stretta assonanza con un preciso ambiente socio-culturale la cui comprensione costituisce una conditio sine qua non dell'elaborazione delle politiche sociali come più in generale della governance sui territori. A tal fine si cerca di mettere al servizio del welfare un uso intensivo dell'osservazione partecipante e di tecniche d'inchiesta qualitative su di un campo multisituato, che comprende sia la città di Roma che il Bangladesh, in ossequio alla condizione di spiccata transnazionalità vissuta dai migranti. Si procede così all'analisi della struttura della collettività bangladese, della sua relazione con la popolazione autoctona, del suo rapporto con i servizi e della sua capacità di dare vita a forme di autoaiuto attraverso la normale interazione sociale e le espressioni associative, con una specifica attenzione per il community liaison, il community care e in generale per le possibili applicazioni del concetto di sussidiarietà orizzontale sulla collettività residente a Roma. I risultati mostrano come l'emigrazione, che interessa in linea di massima i ceti intermedi della società bangladese, contribuisca a creare fenomeni di polarizzazione economica e sociale, acuendo in molti casi le sperequazioni che le preesistono e creando un sostanziale peggioramento della qualità della vita per una parte della collettività. Un processo che porta all'emersione di un'élite economica e politica, che in molti casi tiene anche in mano le redini del terzo settore, e la cui azione fa della "collettività bangladese" e della sua proverbiale solidarietà interna poco più di un mito. Anche il rapporto con i servizi si dimostra difficile e la capacità del sistema del welfare mix di intercettare i bisogni dei migranti appare fortemente impedita innanzitutto dall'apparato legislativo. Per quanto infatti questi fenomeni si nutrano di tendenze endogene alla collettività essi sono notevolmente favoriti dalle condizioni sociali, economiche e legali dell'inserimento dei migranti a Roma e dal loro rapporto con la società civile, che al momento attuale sembra essere ancora ad un grado di sviluppo embrionale, come dimostra la mancata inclusione delle associazioni 'virtuose' all'interno del sistema del welfare mix. Lo scarso accesso ai percorsi di cittadinanza come più in generale alle risorse economiche e sociali del paese di immigrazione sembra così contribuire in maniera significativa ad istituire una separazione fra i bangladesi e gli italiani che permette ai citati processi di polarizzazione di agire liberamente con ricadute estremamente negative sull'esistenza di migliaia di persone.
La tesi ha l'obiettivo di esporre e analizzare criticamente i temi più importanti del pensiero di Karl-Otto Apel. Nei tre capitoli in cui è suddivisa la tesi si presenta inizialmente la posizione di Apel su uno specifico argomento, e poi si compie un'analisi critica di essa facendo riferimento alla letteratura secondaria (in particolare tedesca) riguardante la filosofia apeliana. Lo scopo finale del lavoro è quello di evidenziare l'originalità, i punti di forza e i punti deboli della pragmatica trascendentale sviluppata da Apel, la quale si sostanzia nell'ambizioso tentativo di rinnovare la filosofia trascendentale partendo dalle irrinunciabili acquisizioni della svolta linguistica che ha caratterizzato il pensiero filosofico del XX secolo. Il primo capitolo ha come oggetto il concetto più peculiare della riflessione apeliana: quello di fondazione ultima (Letztbegründung). Tale concetto è centrale sia in riferimento alla filosofia teoretica sia in riferimento alla filosofia pratica, e per questa ragione la sua analisi precede la trattazione specifica della teoria della verità e dell'etica del discorso. Nella prima parte del capitolo si illustra l'evoluzione del concetto negli scritti apeliani, in particolare il significato che assume la nozione di "riflessione" negli anni Ottanta, in seguito all'influenza esercitata sulla filosofia di Apel dalle analisi di Wolfgang Kuhlmann in riferimento alla fondazione ultima. Apel riprende da Kuhlmann la problematica nozione di fondazione ultima strettamente riflessiva, con la quale i due autori tentano di superare le numerose obiezioni che sono state rivolte alla Letztbegründung. Dopo l'esposizione delle principali critiche a tale nozione e l'illustrazione di una possibile alternativa alla fondazione ultima strettamente riflessiva, nell'ultima parte del capitolo si analizza più nel dettaglio l'argomento trascendentale sviluppato da Apel e si chiariscono ulteriormente le ambiguità del concetto di riflessione che egli adopera. Infine, si propone una ridefinizione degli argomenti trascendentali e, a partire da ciò, si traggono le conseguenze per la filosofia apeliana. Nel secondo capitolo, dopo la disamina del fondamentale rapporto tra la questione circa la giustificazione di validità della conoscenza e la questione concernente la costituzione del senso dell'oggettività all'interno del pensiero di Apel, si entra nel dettaglio della sua concezione del linguaggio. La corrente filosofica dominante lungo l'intera storia del pensiero occidentale privilegia la funzione rappresentativa del linguaggio, relegando la dimensione comunicativa di esso a oggetto di studio di discipline esterne alla filosofia. Secondo il pensatore tedesco, invece, l'aspetto distintivo del linguaggio umano è costituito dalla sua doppia struttura performativo-proposizionale. Nel capitolo si ricostruisce la teoria del significato che emerge dalle riflessioni apeliane, la quale si fonda su una particolare interpretazione della teoria degli atti linguistici sviluppata da Austin e Searle, e da cui emerge un'ambiguità di fondo rispetto al rapporto tra semantica e pragmatica. Successivamente, di conseguenza, si approfondisce tale rapporto ricorrendo alle considerazioni di altri autori sul tema, in particolare Wilfrid Sellars e Robert Brandom. Nell'ultima parte del capitolo si analizza la teoria della verità e della realtà sviluppata da Apel, Più nello specifico, si affrontano le critiche che sono state rivolte all'identificazione di verità e consenso argomentativo nella comunità ideale della comunicazione, e alla concezione del consenso ideale come un'idea regolativa che è implicita nella pratica argomentativa e senza la quale le nostre asserzioni perderebbero il loro senso. L'aspetto maggiormente problematico riguarda il ruolo del consenso come criterio determinante di verità. Infine, si approfondisce la dicotomia nominalismo-realismo concettuale per comprendere pienamente il peculiare realismo apeliano, che egli riprende da Peirce. Nel terzo capitolo e ultimo capitolo si affronta il tema dell'etica del discorso. Nella prima parte, dopo aver illustrato la strategia di Apel volta alla fondazione post-metafisica di un'etica universale, si analizzano le obiezioni fondamentali che sono state mosse contro di essa, in particolare riguardo alla possibilità di fondare norme morali partendo dai presupposti del discorso argomentativo e circa il rapporto tra dimensione volitiva e dimensione cognitiva nella riflessione etica di Apel. Nella seconda parte del capitolo, dopo la disamina della distinzione tra la parte A dell'etica del discorso, riguardante la fondazione di norme morali fondamentali, e la parte B, concernente l'applicazione delle norme nelle situazioni storiche concrete, si approfondisce il rapporto tra morale, diritti umani e democrazia che caratterizza il pensiero apeliano. Da questo punto di vista il confronto con Habermas risulta illuminante. Nell'ultima parte del capitolo, infine, si mettono in luce le criticità della parte B dell'etica del discorso di Apel, in particolare del tentativo di fondare la parte B derivandola dalla parte A, e si propone una strategia alternativa che consenta di valorizzare la proposta etica apeliana evitando il pericolo di un eccesso di formalismo.
none ; Il mio lavoro si è concentrato sulla fortuna delle antichità giuridiche e costituzionali germaniche nell'Europa moderna. Seguendo le evoluzioni del pensiero politico e giuridico francese, inglese e tedesco in un periodo compreso fra il XV ed il XIX secolo, ho indagato le condizioni, i motivi portanti e i principali sviluppi del revival delle consuetudini barbariche descritte nella 'Germania' di Tacito, nella sua continua oscillazione fra motivi politici e motivi scientifici. Da un lato, infatti, s'è trattato di indagare una 'fortuna politica'. In questo senso, la mia tesi configura un lungo itinerario nel 'primordialismo giuridico' europeo moderno, inteso come movimento di idealizzazione d'un universo etnogiuridico concepito come originario ed incorrotto – quello dei nostri selvaggi europei –, usato come metro di misura per giudicare le involuzioni della società moderna e per stimolare progetti di lotta e rielaborazione identitaria. Tuttavia le esplosioni primordialiste dell'Europa moderna tradiscono tutte una indubitabile radice 'scientifica', che va identificata nella nascita e nello sviluppo degli studi storico-giuridici europei moderni, dal Rinascimento al XIX secolo. Anche la propaganda primordialista più involuta e contorta non si spiega se non s'è prima spiegata la forza d'attrazione che, fin dalla prima modernità, le antichità giuridiche (ed in particolare quelle barbariche) hanno esercitato sullo sviluppo delle scuole storiche del diritto moderne, le quali, aprendo le migliori intelligenze europee all'indagine sulle fonti originarie degli ordinamenti costituzionali del vecchio mondo, costituiscono la più lontana radice delle moderne scienze etnogiuridiche e folkloriche. ; MITO, RITO E PRATICHE SIMBOLICHE ; European Intellectual and Cultural History; History of Ideas. European Ethnology. History and Economic History. Rural and Agrarian Studies. Politics and Political Theory. Legal History and Philosophy of Law. Costitutional History. Legal, Social and Medical Anthropology. ; open ; Ciasca, Andrea ...
Presentazione Termino il mio "cursus" affrontando l'analisi di un'opera, la maggiore fra le numerose risultanze dell'intensa attività letteraria di uno scrittore e pubblicista siciliano. Il documento di uno degli scrittori più interessanti e significativi della storia culturale e letteraria italiana del secondo Novecento. Quanta linfa e quanto prestigio vi ha apportato la Sicilia: letteratura di costume, di denuncia sociale e storica, di effusione di profondo ed intenso lirismo, saggistica di ponderata analisi e di sofferta meditazione. Nello specifico di quest'opera, data la complessità degli elementi che la compongono, evidenzio inizialmente alcuni aspetti che consentono già una prima lettura della storia. L'ho vista in prospettiva critica allargata all'utilizzo sapiente delle presenze di artisti celebri (Antonello da M., Goya), sulla rappresentazione di opere pittoriche famose, rapportate a vicende politiche e storiche epocali nella vita della Nazione italiana. Poi, come ha finora valutato appieno la critica, l'importanza e il valore di questa narrazione risiedono nell'eleganza e novità di una scrittura che, ritengo, abbia stravolto la precedente astratta verbosità della lingua italiana. L'ha fatto costruendo un universo narrativo le cui radici e strutture assumono vitalità da una matrice dialettale. Una scelta di stile che mira a narrare, a far vedere la Sicilia. Intanto nel ripercorrerla è necessario assumere una prospettiva dialettale (alla quale ho contribuito con un vasto Glossario, in appendice). Di certo Consolo è stato scrittore di parole, ancorché di cose. L'esperienza letteraria gli ha dato l'occasione di ripensare e di rielaborare le radici della propria sicilianità e ne ha fatto una nuova modalità espressiva, radicata nelle stratificazioni culturali della realtà isolana. Il risultato non è stato una ripetizione tematica, meno che mai un arretramento: anzi, ne ha fatto un avanzamento linguistico, culturale, superando la stantìa "querelle" sulla sicilianità. Mi è stato agevole cogliere anche degli aspetti contraddittori. Questa sua lingua oppositiva, che descrive vicende storiche popolari, si fa ricercata, colta, molto composita; ma per realizzare il suo progetto narrativo, ritengo che lo scrittore ne abbia fatto una costruzione di "troppa letteratura". Mi è parso che non sempre la sua struttura linguistica corrispondesse alla struttura sociale cui fa riferimento (se si eccettua l'Appendice dialettale). La lingua contiene la società ed è strano che in tanti passi pare che se ne isoli, quasi narcisisticamente, descrivendo pur con efficacia, ma non corrispondendo alla struttura sociale in riferimento. Ne ho ricavato la sensazione che nel lavoro di questo narratore il linguaggio articolato, 2 ricamato, sia spesso divenuto un apparato concettuale, prima ancora che espressivo. In qualche passo anche disomogeneo, per l'inserimento di fatti ed elementi di natura extra-letteraria e ci è sembrato per niente utili alla funzione dell'opera. Ma Consolo, oltre che di parole, è stato anche scrittore di cose e genti di Sicilia. Nello spazio aperto della Storia ha ritagliato quello di una vicenda di uno qualsiasi degli sperduti borghi siciliani; una qualsiasi delle sue numerose dolenti storie. Uno di quegli episodi di "minima historica", di fatti cruenti e umili, il cui sviluppo ha prodotto il suo momento letterario. Tale che una vicenda paesana e contadina in Sicilia in lui è diventata il polo di una inedita visione come "Teatro del mondo". Diventa moralismo implicito nella condanna di un'intera fase della nostra storia. Nel descrivere e nell'interpretare i fatti, questo scrittore è rimasto ancorato a una visione e ci è parso anche forzata nel portare questo atteggiamento, più che al culturale o all'analisi storica, all'ideologia. Tuttavia, al di là della varietà di posizioni culturali e letterarie compresenti nell'opera consoliana, mi è rimasto impresso anche il tono incalzante. Unito al linguaggio articolato, il narratore controlla il ritmo in crescendo del racconto, fino alle sequenze conclusive tragiche, dove la narrazione tocca il punto di tensione massima: la serie di gesti che si traducono nell'atto violento istintivo dettato dalla spinta verso la libertà e la morte di umili, di oppressi. Queste note in premessa vogliono soltanto anticipare questo mio lavoro, risultato di una serie laboriosa e composita di ricerche. Assieme allo sviluppo di temi e simboli che ho esteso e presento come una nuova ipotesi di lettura di un testo letterario di tutta evidenza importante.
Marco De Marinis distingue la nuova teatrologia degli studi teatrali contemporanei di matrice europea-continentale, e in particolare italiana, dai Performance Studies anglo-americani, pur riconoscendo la presenza di legami fra i due campi di ricerca, quasi inevitabile sia per motivazioni culturali sia per ragioni storiche. De Marinis sostiene, inoltre, che oggi l'interesse della teatrologia italiana è tutto rivolto al "fatto teatrale", inteso come «il complesso dei processi produttivi e ricettivi»2. In Il corpo dello spettatore. Performance Studies e nuova teatrologia (2013)3, egli illustra come le applicazioni dei paradigmi classici e degli schemi nuovi della cultura teatrale contemporanea si siano radicati nel solco della interdisciplinarità, contestualizzando l'analisi teorica degli studi teatrali lungo la frontiera che separa il Novecento dal nuovo secolo. Se da un lato afferma che non si possono trascurare evidenti punti di contatto fra la nuova teatrologia e i Performance Studies, dall'altro evidenzia una oggettiva peculiarità degli studi teatrali continentali, e in particolare italiani, definendo il loro oggetto come «l'insieme dei processi e delle pratiche che fondano e circondano il fatto teatrale»4, e precisando che il centro di questo oggetto è «la relazione teatrale per eccellenza, quella che lega l'attore e il pubblico, e quindi, in definitiva, lo spettatore stesso con l'insieme dei processi e delle pratiche ricettive che lo riguardano»5. La peculiarità transculturale del teatro contemporaneo emerge ben chiara in De Marinis già dagli anni della pubblicazione di Semiotica del teatro (1982) e poi di Capire il teatro (1988)6, ma diventa un inequivocabile precetto teorico nelle sue ultime riflessioni che sono state il filo conduttore del convegno Thinking the Theatre - New Theatrology and Performance Studies. Peraltro, dall'ultimo ventennio del Novecento ad oggi la transculturalità dei generi letterari e artistici ha influenzato gli studi teatrali, fino a mutarne gradualmente gli obiettivi. Così le funzioni dello spettacolo, seppure ricercate negli elementi tradizionali dell'arte scenica, attore, danzatore, suono, spazio, spettatore, testo, vengono spesso ricavate da precetti filosofici, antropologici, psicoanalitici, sociali, gender e transgender, e sempre meno si tende ad esplorare il contesto politico in cui il teatro agisce, e le pratiche di cui il teatro si serve per interpretare o denunciare conflitti, soprusi, disagi culturali e sociali. Una progressiva diminuzione dell'uso del termine rappresentazione e un uso più frequente del termine performance ha generato anche sostanziali equivoci non solo di natura semantica ma anche di natura semiotica. Le forme e i modi del Nuovo Teatro – che De Marinis aveva individuato già a partire dal suo primissimo concepimento e che la nuova teatrologia è riuscita a contestualizzare in questo inizio secolo – vengono formulati dalla generazione che è cresciuta nutrendosi più di recezione di idee che di pratiche teatrali, più di processi e di sistemi astratti che degli sviluppi dei processi e dei sistemi di rappresentazione. Nella sessione da me presieduta si è potuto constatare come soprattutto le proposte degli artisti più giovani siano oramai distanti dal teatro storicamente inteso. La prassi teatrale è stata completamente smarrita nel lento smantellamento novecentesco, e la parte teatrale residuale di ogni nuovo "gruppo" ha bisogno del sostegno delle pratiche di altre forme d'arte: insomma, il Nuovo Teatro post-novecentesco è senza teatro.
Come, dunque, studiare Ernesto Basile oggi e quale ambito della sua copiosa produzione analizzare? Alla luce dello stato degli studi odierni si potrebbe ritenere che possa essere stato detto tutto. Tuttavia, ci sono diversi ambiti che si offrono a ulteriori indagini, a nuove letture e ricerche. Tra questi, vi è quello dei viaggi, non irrilevante, per diverse ragioni. Una prima motivazione, che vale per Ernesto Basile così come per altri architetti, è quella più interna ed è strettamente legata alla natura stessa dell'architettura e dei luoghi, alla formazione continua dell'architetto e al ruolo che hanno i viaggi nel processo di costruzione o assimilazione del patrimonio di immagini e dei portati teorici. Solo entrando dentro gli spazi, girandoci attorno, osservando il mutare delle ombre col variare della luce, cogliendo il colore dei materiali e dei contesti, osservando la gente muoversi e "modificare lo spazio", si può fare un'esperienza attiva, formativa, sincera e diretta, riducendo i filtri posti tra il fruitore e l'opera architettonica. In questo senso e per l'arco cronologico di cui questa tesi di dottorato si occupa, è esplicativo e fa da guida lo studio di Fabio Mangone sugli architetti nordici in Italia dal 1850 al 1925. Mangone li definisce «viaggiatori specialistici» e mette in evidenza nuove tendenze rispetto all'immaginario e alla pratica più ampia e antica del classico Grand Tour, già documentato da numerosissimi esempi di letteratura odeporica e studi odeporici. Un'altra, non meno importante e di carattere metodologico, è quella legata ai concetti di transfers culturel, cultural exchanges e histoire croisée, introdotti negli Anni Ottanta da Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, applicabili a diversi ambiti dello studio storico, e in particolar modo agli studi sui viaggi degli architetti. Possiamo riassumere cosa si intende per transfert culturel, cultural exchanges e histoire croisée, attraverso le parole di Michael North che, in un suo saggio sulla storia economica, ne fa un'analisi comparativa: «Cultural exchange and cultural transfers have become an independent field of research in the last 20 years. This began in the 1980s, when Michel Espagne and Michael Werner coined the term "transfers culturels" to refer to the transfer of elements of a "French National Culture" to Germany and its reception there during the eighteen and nineteen centuries. Espagne, Werner and their followers focussed on national cultures in order to avoid some of the shortcomings of comparative history by contextualizing questions of transfer, reception, and acculturation». Sulla scia delle sollecitazioni avviate anche dai contributi di Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, le riflessioni attuali nell'ambito storiografico vertono sempre più sul rapporto fra la realtà delle vicende nazionali o regionali e quelle più ampie e di carattere internazionale o generale, quindi su cosa è al centro e cosa è periferico. Questo tipo di analisi può essere usato come filtro di indagine per rispondere ad alcune questioni fondamentali nel caso Basile, cioè per sapere quanto, in cosa e in che modo il suo modernismo è debitore a realtà "extraterritoriali" e quanto, in cosa e in che modo, al contrario, il "fenomeno Basile" sia invece il frutto di particolari condizioni ambientali locali, portatrici di istanze identitarie fondamentali, attraverso lo studio dei suoi viaggi. Un'ulteriore lente di ingrandimento con cui potere osservare aspetti specifici all'interno del più ampio fenomeno dei viaggi specialistici e dei contatti internazionali è quello dei legami con gli espatriati, in forma privata, come nel caso della corrispondenza ad esempio, o in via ufficiale nella partecipazione a concorsi internazionali con il ruolo di giurato, come accade a Ernesto Basile. Se non è difficile sapere, attraverso le letture consultate da Basile, di quale patrimonio di immagini egli disponesse, al contrario, pur sapendo che ha viaggiato, andando in luoghi che potremmo chiamare "strategici" per le vicende architettoniche europee a lui contemporanee, nelle quali - è opportuno dire - si trovava dentro, non è stato, ad oggi, documentato in modo sistematico quali architetture e spazi egli abbia effettivamente visitato e chi abbia incontrato nelle sue mete. Lo studio dell'archivio di Ernesto Basile (che nonostante alcune lacune - si pensi all'esigua quantità di corrispondenza a noi pervenuta - è uno dei più cospicui fra quelli del Novecento italiano) ha consentito di potere avviare un'indagine sugli spostamenti, le mete di viaggio, le impressioni, le tappe, gli appuntamenti, puntualmente annotati nei taccuini e nelle agende personali. Basile stesso parla di viaggi e ne organizza. Egli ne scrive, ad esempio, quando fornisce un reportage dall'Esposizione di Parigi del 1878, oppure quando, in un modo per certi aspetti ancora più significativo, racconta di "Un viaggiatore italiano del secolo XVI", che parte «dall'estremo della Sicilia al lembo delle Alpi», scritto dal quale lo studio dei suoi viaggi ha inizialmente tratto spunto. Un'attenzione particolare all'interno del tema generale, è stata certamente richiesta dall'occasione del viaggio del 1888 a Rio de Janeiro, che vede Basile incaricato della progettazione per la Nuova Avenida de Libertação, nella capitale brasiliana, a ridosso del cambio di regime, a seguito del quale questo importante lavoro viene interrotto. Per questo motivo gli studi sono stati estesi alla cartografia di Rio de Janeiro e alla storia urbanistica della città. Le carte storiche di Barcellona, Parigi e di altre mete europee, per il solo periodo relativo ai viaggi esteri di Basile, quindi per un periodo compreso fra gli anni 1876 e 1900, rientrano tra gli utili strumenti di questo lavoro. L'indagine è stata svolta su tutto l'arco di attività - dal 1876, anno del primo viaggio di studio documentato, ed effettuato con il padre Giovan Battista Filippo Basile, alla volta di Parigi, passando per diverse città italiane, al 1932 anno della sua morte – e ha avuto come principale sfida metodologica la sua profonda natura multidisciplinare. In prima istanza coinvolgendo la storia dell'architettura, la scienza archivistica e l'odeporica, quindi molte altre discipline. Si è analizzata la produzione scritta di Ernesto Basile relativamente ai viaggi, evidenziandone le continuità e le discontinuità in relazione alla più vasta produzione architettonica. In merito a quest'ambito, esce fuori un quadro che getta una luce soprattutto sugli esordi e il clima particolarmente favorevole per una classe di giovani artisti e professionisti, che si raduna nel triennio 1878-1880 intorno alla redazione del periodico scientifico, letterario e artistico palermitano «Pensiero ed Arte», e che si fa strada, a volte guidata per mano dai predecessori, altre in opposizione alle voci più ufficiali e tradizionali delle accademie. La funzione di guida, in questo caso, è certamente quella del padre, Giovan Battista Filippo Basile, ma questa guida viene affiancata da altre figure di rilievo, quali ad esempio quella di Gaetano Giorgio Gemmellaro, di cui si documenta puntualmente una delle attività laboratoriali svolte per la Regia Scuola di Applicazione per gl'Ingegneri di Palermo. I primi viaggi sono viaggi di esplorazione e studio lungo il territorio italiano, con qualche puntata a Parigi, dove il giovane Ernesto conosce Garnier. Anche l'esperienza del militare viene usata dall'appena laureato Ernesto Basile come pretesto per un lungo e approfondito sopralluogo nell'Italia centrale, tra la Campania e l'Abruzzo, alla ricerca di segni di "antico", e ogni genere di traccia storica sul paesaggio costruito. Gli appunti sono numerosissimi e vengono accompagnati da disegni tanto piccoli quanto accurati, delle miniature, poste a margine delle lettere che egli spedisce alla famiglia. Appena qualche anno dopo, questo bagaglio di immagini, unito al desiderio di un approfondimento, lo spingerà a indirizzare le escursioni tecniche della Regia Scuola Romana, avendone la facoltà in qualità di docente incaricato, dando un grande contributo in Italia al filone degli studi sul vernacolare, l'architettura "spontanea" e sui centri minori. E' così che dalla pratica delle escursioni tecniche si passa ai veri e propri viaggi d'istruzione, documentati dagli annuari di quegli anni. La figura di Ernesto Basile come viaggiatore procede quindi di pari passo con quella del professionista, dell'architetto che va dove gli incarichi lo chiamano e dove egli ritiene davvero opportuno andare. I tempi e gli spostamenti sono generalmente lunghi e prendono una media di venti giorni per ogni viaggio estero. Sono anni che lo vedono andare in posti particolarmente caldi per l'architettura contemporanea, con un tempismo da vero professionista, quale è. Con dei colpi fortunati, anche, come capita per la sosta a Barcellona nel 1888 sulla via del Brasile. E con dei colpi mirati; è questo il caso emblematico dell'ancora misterioso viaggio a Vienna nel 1898, l'anno della Secessione Viennese. La conoscenza di quello che accadeva era veicolata dagli articoli sulle riviste, come si sa, ma certamente anche dai rapporti con altri artisti e professionisti che hanno tra i propri fulcri culturali Roma, città a cui Ernesto Basile resterà legato per tutta la vita, se consideriamo anche l'enorme e lunghissimo incarico di Montecitorio. E' lungo le vie della ricerca dell'antico e del contemporaneo che Ernesto Basile dipana tutta la sua vicenda progettuale e indirizza gli studi, le escursioni, le letture. Il contatto con l'antico, da buona tradizione post-illuminista e positivista, è sempre diretto, egli non si accontenta di superficiali acquisizioni frutto dello sguardo altrui. E' ovviamente un grande lettore, ma la scuola palermitana di cui è pienamente figlio lo aveva iniziato alla cultura del disegno come scienza, come mezzo di indagine, come strumento per la resa dell'idea, sulla via della realizzazione. E un altro incarico emblematico lo metterà sulla strada dell'antico, portandolo dapprima in Egitto, quindi in Grecia, nel 1895. I viaggi analizzati sono ampi, eterogenei e documentati, anche se non sempre in modo omogeneo : a volte lo sono con le parole sotto forma di diario, in altre attraverso liste di posti visitati, in altre ancora con le immagini dei suoi schizzi di viaggio. Il ragionamento e l'indagine sono articolati in quattro momenti, che seguono un ordine cronologico e tematico, andando dai viaggi del periodo della formazione (1876-1880) a quelli della piena maturità (1898-1900). Il percorso si muove lungo un binario principale, quello della ricerca sui viaggi esteri, con una strada parallela che si dipana nel territorio italiano nell'arco di tempo analizzato. La città di Parigi ha un ruolo cardine perché apre e chiude la lunga ma discontinua stagione dei viaggi esteri: dal primo viaggio a Parigi, effettuato nel 1876 con il padre, all'ultimo viaggio a Parigi, in occasione dell'Esposizione Universale del 1900, passano ventiquattro anni. Dopo quella data non si riscontrano altri viaggi fuori dall'Italia. Fulcro di tutti questi spostamenti è sempre e comunque Roma, anche dopo il 1892 e il ritorno a Palermo come residenza principale. La lettura delle agende ha evidenziato che dal 1893 al 1932 Basile passa almeno un mese a Roma ogni anno e generalmente almeno un altro mese in viaggio per altre località italiane, tra queste la seconda città più visitata è certamente Napoli. Del periodo della formazione vengono studiati due viaggi e un'escursione scientifica. I due viaggi sono in qualche modo l'uno la continuazione dell'altro e sono affini per lo studio dell'architettura storica italiana. Se nel primo caso, quando l'allievo Ernesto Basile va a Parigi e in alcune città italiane, Giovan Battista Filippo Basile, suo padre e maestro, è fisicamente presente, facendogli da guida e introducendolo anche in ambienti accademici (a Roma) e professionali (a Parigi), nel secondo viaggio, quello del militare, egli è comunque presente in modo costante nei pensieri e nell'attività di ricerca del giovane Ernesto che gli indirizza un centinaio di lettere in cui descrive minuziosamente ogni architettura vista, individuata, "classificata" e ritratta. Questo viaggio del militare, che pure è un viaggio accidentale e in qualche modo obbligatorio, è tuttavia il primo lungo, consapevole tour italiano che Ernesto Basile compie volutamente, ampliando il bagaglio di conoscenze acquisito nel 1876 accanto a Giovan Battista Filippo Basile. Tra queste due significative esperienze viene documentata e descritta un'escursione scientifica di un solo giorno che apre un breve spaccato sulla rigorosa preparazione tecnica in seno alle attività formative previste nel corso di studi per gli allievi ingegneri e architetti della Regia Scuola di Applicazione di Palermo. La ricerca prosegue seguendo il binario dei viaggi internazionali con un saggio su quello che accade otto anni dopo. Anche in questo caso i viaggi predominanti sono due: il primo è quello in Svizzera, previsto nell'attività didattica della Regia Scuola d'Applicazione di Roma, dove Basile è docente a contratto, il secondo è quello in Brasile, dove si reca all'improvviso per progettare su incarico diretto uno dei nuovi principali assi stradali della città di Rio de Janeiro. Questi due viaggi sono accomunati dalla motivazione del viaggio (in entrambi i casi due incarichi professionali, come docente e come progettista) e dal tipo dai soggetti rappresentati negli schizzi di viaggio: architetture storiche dei secoli precedenti, eccezione fatta per la torre dell'ascensore a Bahia. Lungo il tragitto vi è la visita alla città di Barcellona durante l'Esposizione Universale del 1888, una fortunata sosta fra le altre previste lungo la rotta fra Genova e il Brasile. Nell'ultimo periodo analizzato (1895-1900) si svolgono quindi gli altri viaggi esteri di Basile, anche questi legati a due incarichi, questa volta di natura istituzionale. Nel 1895 Basile avrà l'occasione di visitare l'Egitto, chiamato a fare parte della giuria internazionale per il concorso al Museo di antichità egizie del Cairo e la Grecia, sulla strada del ritorno. Dal 1898 al 1900, veloci e purtroppo poco documentati, si svolgono i viaggi nell'Europa centrale, con Parigi come polo di attrazione per l'Esposizione Universale del 1900, dove è membro della Commissione reale. Questa esperienza chiude definitivamente il ciclo dei viaggi esteri ma non quello dei viaggi italiani che continuano, costantemente lungo tutto l'arco di attività, fino ad un ultimo viaggio a Roma a maggio del 1932, anno della morte.
L'APPLICAZIONE DELLA MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE IN ITALIA La giustizia civile va sempre più verso una lenta e progressiva paralisi, se venti anni fa un processo poteva durare 3-4 anni oggi si parla di processi ventennali o, nel penale, di procedimenti che si chiudono con nulla di fatto per sopraggiunta prescrizione del reato. E' sempre più radicata l'opinione che la società moderna necessiti di strade diverse, più veloci, economiche e semplici; ormai è un dato acquisito che gli ordinamenti occidentali (sia negli Stati Uniti sia in Europa) si indirizzino verso le c.d. Alternative Dispute Resolution. Con il decreto legislativo n.28/2010 e' stata introdotta nell' ordinamento italiano una disciplina organica della mediazione delle liti civili e commerciali che è divenuta, così, uno strumento finalizzato alla conciliazione in caso di controversie tra i cittadini e tra essi e le imprese o tra le imprese. La mediazione nella disciplina vigente è definita un istituto destinato ad operare in via stragiudiziale, ossia fuori dal processo civile, e in forma amministrata, essendo affidata alla gestione di organismi di natura pubblica o privata. Essa è considerata come "l'attività svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti, sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia (c.d. Mediazione compositiva), sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della controversia (c.d. Mediazione propositiva)". Il procedimento obbligatorio di mediazione viene previsto più precisamente per quei contratti in cui il rapporto fra le parti è destinato a protrarsi nel tempo anche in un momento successivo alla definizione della controversia, ne sono un esempio quelle relative al condominio, locazione, comodato, affitto d'azienda, nonché per quei contratti che presentano una maggiore diffusione di massa e, pertanto, sono maggiormente soggette a contenzioso, ne sono un esempio contratti assicurativi, bancari e finanziari. Vengono inserite, inoltre, altre materie come: diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia notoriamente a forte incidenza di litigiosità, nonché il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, che oggi danno vita ad un contenzioso in notevole aumento. La condizione di procedibilità, posta dal D.Lgs. 28/2010, è fondamentale perchè ponendo la mediazione come obbligatoria e come premessa per poter accedere al processo, viene ad essa conferita dignità di procedimento vero, incentivando gli interessati a percorrere quest'alternativa con la giusta credibilità e serietà. Le parti, infatti, attualmente preferiscono il giudice perchè lo ritengono "più importante" del mediatore, socialmente e professionalmente. Di conseguenza l'invito ad accedere alla mediazione potrebbe essere visto come una svalutazione dell'importanza del loro problema. Come nella tesi è stato sottolineato l'obbligatorietà potrebbe essere solamente una tappa, in quanto in futuro potrebbe essere eliminata, ma per poter entrare a pieno regime ha bisogno di penetrare nella società la cultura della mediazione; necessità ,dunque, di un forte appoggio da parte di tutti e l'obbligatorietà sarebbe un segnale molto forte verso un cambiamento in positivo. Il 23 ottobre 2012 la Corte Costituzionale sarà, dunque, chiamata a giudicare la legittimità o meno dell'impianto obbligatorio della mediazione civile e commerciale. Se venisse dichiarata legittima, la mediazione finalizzata alla conciliazione diverrebbe per molte materie oggetto di contenzioso lo strumento obbligatorio e "naturale" di possibile risoluzione delle controversie. Se al contrario, fosse dichiarata illegittima, l'utilizzo della mediazione dipenderebbe solo ed esclusivamente dalla volontà di tutte le parti in conflitto, sarebbe la sua fine e significherebbe, inoltre, buttare al vento tutti i nostri sforzi economici e professionali fino ad ora sostenuti. Secondo il parere di una parte degli avvocati l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione è "un passaggio forzato per la ricerca di un consenso fuori dalle aule dei tribunali che provocherà un ritardo nel ricorso alla giustizia ordinaria, incrementando i tempi e provocando così un'ulteriore difficoltà per l'accesso alla giustizia civile". A nostro avviso viene, però, spontaneo considerare che qualora le previsioni della mediazione entrassero a pieno regime e i dati continuassero a seguire il positivo trend su citato il contenzioso nelle aule giudiziarie si ridurrebbe del 70-80 per cento del totale. Allora sarebbe difficile argomentare la tesi secondo cui l'istituto della mediazione risulterebbe un aggravio dei costi e della durata dei processi. A tal riguardo si è da poco pronunciata anche la Corte di Giustizia Europea che giustifica l'obbligatorietà della mediazione asserendo che "…la mediazione obbligatoria, purponendosi come misura restrittiva rispetto all'accesso al giudice, è giustificata dal fatto che essa realizza legittimi obiettivi di interesse generale, tra cui quello della composizione più rapida delle controversie, che è fissato specificatamente nell'interesse delle parti". In particolare, il termine di quattro mesi non è considerato tale da comportare un ritardo nell'introduzione di un successivo eventuale giudizio. Attraverso la mediazione non si intende risolvere i problemi atavici che frenano la macchina giudiziaria ma questo istituto se correttamente diffuso, utilizzato e applicato può fornire il suo valido contributo, magari in collaborazione con altri sistemi(istituti). La convinzione che si è creata attorno all'istituto della mediazione è che esso sia nato per svolgere solo ed esclusivamente una funzione deflattiva per il contenzioso civile ma approfondendo le ricerche e gli studi si scopre che questo istituto ha radici storiche più nobili e più profonde. Essa, infatti, si inserisce nell'ottica di una giustizia "coesistenziale" all'interno della quale le parti in lite, sovente, riescono a mantenere tra loro una relazione sociale ed economica durevole, preservando quindi le loro relazioni future. Diversamente da quanto accade nel corso di un processo civile, che con la sua perpetua ricerca di un torto e una ragione, spesso determina una rottura insanabile. L'idea di fondo è che alla giustizia statale debba essere riservato il ruolo di rimedio estremo per la soluzione del conflitto, e questo non solo per una questione economica. Attraverso la mediazione, concepita sulla base delle esigenze delle parti il vero accordo si raggiunge in modo volontario e la relazione amichevole sarà preservata più facilmente. L'incapacità di accettare nelle relazioni la frustrazione del limite e dell'impotenza produce violenza e scorciatoie mentali, primitive e semplificatorie, le quali impediscono di intrecciare legami costruttivi. La possibilità di promuovere nuovi patti sociali si trova, al contrario, nella capacità di stare nei conflitti, di viverli come forme altamente evolute in grado di generare felicità e accrescere competenze personali. Cambia l'ottica: non si tratta di convivere senza conflitti, ma piuttosto di convivere proprio grazie ai conflitti. Per poter mediare, dunque, occorre un cambio di mentalità, un forte ridimensionamento soprattutto del pensiero "professionale" educato alla lotta piuttosto che alla cooperazione,alla vittoria di una parte e alla sconfitta di un'altra. Sarà fondamentale passare da una mentalità avversariale ad una mentalità cooperativa con una nuova cultura di conflitto che superi la tradizionale evocazione dell'idea di contrapposizione come scontro, lotta, combattimento, guerra che conduce a ritenerlo elemento patologico da curare solo con decisioni autoritative. Per rafforzare il cammino in questa direzione è necessario che la formazione alla pace non trasmetta solo informazioni, ma deve mirare anche allo sviluppo di competenze pratiche per affrontare in modo costruttivo i conflitti ed alla crescita personale di chi vi partecipa, cioè saper gestire i conflitti pacificamente e valorizzando le differenze nel rispetto della dignità di ciascuna persona, con il conseguente miglioramento della qualità della vita culturale e sociale. Da queste riflessioni e motivazioni personali, prende spunto la ricerca condotta in questa tesi di analizzare la fase applicativa della mediazione civile e commerciale in Italia ad un anno e mezzo dalla sua introduzione nel nostro ordinamento. Lo studio parte dai precedenti logici e storici di questa innovazione, passando in rassegna i principi comunitari che nel tempo sono stati elaborati in tema di metodi ADR, con decisioni aventi forza persuasiva o vincolante per gli Stati membri, fino alla Direttiva n. 2008/52/CE, fondamentale in materia. Sono state poi esaminate le forme di conciliazione, giudiziali ed extragiudiziali, esistenti nell'ordinamento italiano prima del D.Lgs. 28/2010, che hanno avuto alterna fortuna, ma senza dubbio hanno consentito di far riflettere gli operatori del settore, ed un ampio numero di cittadini, su questo metodo amichevole di risoluzione dei conflitti, creando un movimento sempre più favorevole alla sua diffusione. L'esame del D.Lgs. 28/2010 si è concentrato soprattutto sui principi ispiratori e sulle indubbie novità che ha portato in termini di contenuti e di procedura. Lo sforzo principale della ricerca ha riguardato poi la ricostruzione delle problematiche derivanti dall'applicazione della mediazione civile e commerciale, attraverso una dettagliata analisi dei regolamenti e delle circolari elaborati dal Ministero della giustizia, chiamato dal decreto a disciplinare molti aspetti di questo nuovo istituto, con forte rilevanza sul procedimento giudiziario. Lo stesso Ministero ha anche dovuto rispondere ai numerosi dubbi interpretativi insorti nell'ambito dei criteri di iscrizione nell'apposito registro degli organismi di mediazione, stante la scelta preferenziale data alla sola mediazione amministrata. Si è occupato anche della preparazione tecnica e professionale dei mediatori, in un panorama occupato da tante improvvisate agenzie formative e da tante persone rapidamente "convertite" a questa nuova attività. Ha esercitato infine il controllo sui regolamenti di procedura, lasciati alla libera determinazione degli organismi almeno nelle parti facoltative, per valutare la loro coerenza con la normativa vigente. Sono state affrontate le problematiche connesse all'istituzione del Registro degli organismi di mediazione, con un'attenzione particolare alla natura degli organismi ed al principale atto di funzionamento degli stessi rappresentato dal regolamento che deve essere obbligatoriamente adottato in questa forma di mediazione amministrata. Ma l'aspetto più interessante, e per certi versi più originale, della tesi è stata la ricerca statistica condotta sui dati del registro e sulle informazioni fornite dal Ministero, nonché su un campione di organismi di mediazione iscritti, incentrata sulle scelte adottate riguardo ai punti facoltativi del regolamento. Questo tipo di elaborazione ha l'obiettivo di dare un contributo all'analisi oggettiva della situazione esistente e mette in evidenza luci ed ombre della pratica della mediazione civile e commerciale. L'integrazione dei dati statistici finora noti, cerca così di superare la visione unicamente deflattiva di questo nuovo istituto rispetto ai processi civili, allargandosi alla comprensione di un fenomeno che richiede una valutazione culturale diversa. L'analisi è stata effettuata utilizzando una rilevazione a campione su una percentuale elevata di organismi (10%) suddivisi per gruppi omogenei: Pubblici (Camere di commercio), Privati e Ordini professionali. Questo metodo garantisce l'attendibilità dei risultati sul piano statistico. Prendendo in considerazione i dati rilasciati dal Ministero della Giustizia relativi alle mediazioni svolte nel periodo 21 Marzo 2011 – 31 Marzo 2012 è stato, inoltre, possibile analizzare e commentare i risultati ottenuti dalla mediazione civile e commerciale ad un anno dall'entrata in vigore dell'obbligatorietà. Il trend segnala una crescita costante delle mediazioni svolte nell'arco dell'anno, l'unico calo c'è stato nel mese di agosto, ma la causa è da imputare al periodo feriale. Comunque sia, soprattutto negli ultimi mesi si registrano dei numeri sempre più incoraggianti, il boom vero e proprio dei procedimenti di mediazione c'è stato con l'entrata in vigore del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di condominio e risarcimento danni da circolazione veicoli e natanti avvenuta con un anno di ritardo (20 marzo 2012) visto l'eccessivo numero di liti e controversie riguardanti le suddette materie. Nel mese di marzo l'incremento dei procedimenti è stato del 26 per cento circa, per un totale di 12.175, rispetto ai 9.757 di febbraio. Gli esiti delle mediazioni, definite nel periodo dal 21 marzo 2011 al 31 marzo 2012, presentati dalla statistica del ministero della giustizia lasciano ben sperare per il futuro della mediazione in Italia. Facendo il punto della situazione ad un anno dall'entrata in vigore dell'obbligatorietà, possiamo affermare che comincia a decollare questo meccanismo che naturalmente ha bisogno di essere rodato. I problemi riguardano soprattutto la mancata partecipazione delle parti al tentativo obbligatorio di conciliazione. Come viene rappresentano nei grafici presenti nella tesi il numero delle volte in cui l'aderente compare sono circa il 35 per cento; numeri confortati dal fatto che quando le parti si presentano l'accordo viene raggiunto nel 48 per cento dei casi. Ciò significa che se le parti vanno davanti al mediatore una volta su due viene raggiunto l'accordo. Per quanto riguarda le categorie della mediazione, o meglio il motivo per cui si accede alla mediazione, sempre secondo i dati forniti dall'Ufficio Statistica del Ministero per l'anno 2011 la motivazione non sempre è data dall'obbligatorietà dell'istituto prima di ricorrere al giudice, ma con una percentuale che arriva quasi al 20 per cento si fa volontariamente. Quindi se, come è abbastanza ovvio, il 77,2 per cento delle persone si presentano presso un organismo di mediazione per la sua obbligatorietà, una buona percentuale lo fa di spontanea iniziativa. Mentre lo 0,5 per cento inizia ad inserirlo tra le clausole contrattuali di lavoro, nel 2,7 per cento dei casi è il giudice a demandare il tentativo di conciliazione prima di agire in giudizio. Da qui nasce la necessità di arrivare a delle convenzioni tra magistratura e organismi di mediazione per definire quali tipi di controversie potrebbero essere affidate con maggiore efficacia alla mediazione. Simone Sanna