Civis oeconomicus e civis communis, sono le due figure antropologiche, animate da un eterno polemos figurato, attraverso cui in questo lavoro di ricerca abbiamo provato a raccontare la frattura tra due modelli dicotomici di cittadinanza e a ricostruire le trasformazioni dell'economia, delle istituzioni e delle tecniche di governo in era neoliberale nonché la crisi della cittadinanza politica moderna e le possibilità di reazione, resistenza, conflitto che si affacciano sul pianeta. Quella che abbiamo sottolineato a più riprese è in effetti proprio la novità drammatica di queste due figure antropologiche. Da una parte quella che racchiude nella sua stessa definizione i risultati della progressiva subalternazione della politica all'economia e dall'altra quella che alla luce di una inedita ridefinizione dei criteri d'inclusione in chiave economico-finanziaria, decide di sottrarsi e di scrivere, simbolicamente e non solo, nuovi statuti di cittadinanza. Di fatti, ripercorrendo le fasi di lenta affermazione delle tecniche politiche neoliberali e della retorica da esse generatesi, abbiamo ricostruito le forme della distruzione del vincolo biunivoco in cui erano stretti governanti e governati. Quello per cui un contratto sociale prevedeva, in cambio del rispetto di una serie di doveri, l'ottenimento di una serie di diritti. Abbiamo certo sottolineato come la stessa modernità, alcova di questa idea di cittadinanza fondata sulla scambiabilità tra diritti e doveri, sia stata influenzata dalla definizione liberale dell'homo oeconomicus, autocentrato, autoreferenziale, concentrato sul proprio interesse e sull'accumulazione di profitto singolare, anche a scapito del benessere della collettività. Abbiamo in effetti individuato, con l'aiuto di alcuni autori e autrici del pensiero politico contemporaneo, la presenza della frontiera economica, vale a dire di un criterio d'accesso alla cittadinanza assolutamente monetizzato già dalle prime formulazioni della cittadinanza moderna, proprio perché essa era del tutto influenzata dal paradigma antropologico legato all'individuo proprietario. Il liberalismo e la sua retorica di promozione della libertà controllata del soggetto proprietario, è di fatti lo sfondo che ha circondato la scrittura di una parte consistente delle costituzioni occidentali moderne ed ovviamente contemporanee. La civitas oeconomica è dunque il terreno di sperimentazione delle tecniche governamentali più spregiudicate, la preda di tutte le forme di bio-potere, la destinataria della costruzione del bio-iritto, la vittima delle pratiche di sacrificio collettivo e al contempo la protagonista dell'utopia della salvezza. Contro di essa, senza più tenere in conto la negoziazione con le carte dei diritti degli stati, si costituisce una cittadinanza di segno assolutamente opposto, la civitas communis. Essa, partendo dalle condizioni drammatiche che abbiamo elencato, sceglie delle linee di fuga differenziali, certamente condizionate dallo spazio materiale su sperimenta la propria inedita forma di legame sociale. La cittadinanza comune, come si legge nell'ultimo capitolo, appare sempre più spesso nei contesti urbani e si organizza, sempre collettivamente, per ritessere le fila dell'accesso ai diritti. Non chiedendo allo Stato, ma costruendo da sé nuove condizioni di accesso, di uso e di valorizzazione non monetaria. È evidentemente una figura non egemonica ma costante sullo spazio planetario. È la figura che difende innanzitutto con il proprio corpo le risorse primarie dalla privatizzazione e dunque dalla monetizzaizone dell'accesso, ma è anche la figura che ri-abita interi pezzi di città votati all'abbandono e ne fa erogatori di diritti e servizi che non hanno bisogno della ratifica del pubblico. Essa è tuttavia anche la condizione di cittadinanza che è la risultante del conflitto tra verticalizzazione dei processi decisionali e pratiche di disobbedienza delle istituzioni di prossimità. È la figura che prova a raccontare le resistenze collettive alla solitudine e all'atomizzazione neoliberale, la rivendicazione di qualunque diritto sottratto dalla mercatizzazione, la cittadinanza che ricostruisce il rapporto con il territorio e gli restituisce voce e dimensione. Non si muove in uno spazio vacuo come il cittadino economico. La civitas communis è di fatti una pratica di cittadinanza iperattiva, legata radicalmente alla prassi e all'azione politica. Il suo campo d'azione è pieno di corpi e di vita. ; Civis oeconomicus and civis communis are the anthropological figures, moved by a continous and figurative polemos, through which in this research work we've tried to narrate the fracture between two dichotomous models of citizenship and to reconstruct modern and contemporary traformation of politica economy, of istitutions, of government techniques in neoliberal era, as well as the crisis of modern poltical citizenship and the social reaction to this crisis. What we have underlined the dramatic novelty represented by these two figures. On the first hand the one that encloses in its own definition the subission of politics to economy (civis oeconomicus) and on the second hand the one which, according to the redefinition of inclusion's criterias, decide to write new citizenships statutes. Following the steps of slow affirmation of neoliberal techniques of government, we have registered the total destruction and decostruction of the bijective act between rulers and ruled. The act which provided poltical and social rights in exanghe for political and social duties. We have also noticed how the modernity, alcove of this idea of citizenship focused on exchangeability of rights and duties, has been influenced by the liberal definition of homo oeconomicus, self-centered, selfreferential, concentrated on its own interest and on the accomulation on its personal profit even if at the expense of the community. The research work for these reasons signal the existence of a "economic border" as criteria of access to citisìzenship, since from the earliest formulations of acts social right and duties just because of the influence of liberal paradigma focused on the anthropological figure of indidividual-proprietor. The liberalism and its rethoric of promotion of controlled freedom is the background which had surrounded the writing of a big part of the modern and conteporary costitutions. So civis oeconomicus is the experimentation ground of unscrupulous governamntal techniques, prey of alle the forms of bio-power, victim of all the practices of collective sacrofices. Against this form of citizenship we have individuated an opposite one, civitas communis. Starting from the dramatic features of civitas oeconomica, decide for the escape. Commune citizenship, as is possibile to read in the last chapter of thins work, appears in urban context and subverts access criteria to social rights. It doesn't ask anything to the State, but creates alone new conditions of inclusion. Is obiviously a not economnic figure but permantent in the planetary space. Is the figure which defend with its body primary sources from the privatization, but also the figure which recover abbandoned spaces in the city and returns themselves to collective use, providers of social services and rights. Its is the result of the conflict between verticalization of decisional processes and disobedient practices.
E' stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E' stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l'evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più "efficiente". Sotto quest'ultimo aspetto l'attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un'attività produttiva o di un'impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull'evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l'obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l'esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l'ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l'azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l'ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull'Analisi Costi-Benefici e sull'Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all'attività di regolazione dell'economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un'autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l'orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l'unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un'applicazione in "salsa cinese" del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l'evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L'evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l'obiettivo dell'efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie "Post-Chicago". Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell'evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l'attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l'istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l'analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell'analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l'Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull'applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l'ampiezza dell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell'effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell'art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall'applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l'implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell'esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione "progresso tecnico ed economico", impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell'efficienza, giustificando così quell'eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell'Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell'applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l'art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all'elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l'organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l'assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell'utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all'art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l'occasione per recepire nella disciplina comunitaria l'attribuzione della facoltà di ricorrere all'efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell'art. 81(3). Il capitolo attesta anche l'attenzione verso l'istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l'innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un'attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L'analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall'ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un'autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell'adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall'ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all'interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere "ibrido" che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all'introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l'adozione e l'implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell'intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l'assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l'elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell'autorità indipendenti, e l'ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell'assistenza delle autorità nazionali. Dall'altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l'attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall'ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all'analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell'efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell'efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l'evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell'attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall'eterogeneità degli obiettivi che l'Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall'incapacità (o dall'impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell'efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell'applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l'OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l'evoluzione in questo senso dell'Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un'analisi teorica dell'esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell'impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l'organizzazione interna dell'impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l'approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l'impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un'analisi dettagliata dell'attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l'esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell'impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d'altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all'altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un'analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell'ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall'analisi svolta emerge innanzitutto come l'assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all'erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l'inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite "alleanze", collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell'Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l'impossibilità per l'autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all'attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L'opera si chiude con l'individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell'ambito dell'attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l'intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell'attuale configurazione dell'intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l'autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell'Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall'altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell'applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l'evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni'70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L'effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l'intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l'estensivo ricorso all'essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell'efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l'ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E'stata infine sottolineata l'inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E' di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull'economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l'applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall'elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l'efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l'ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.
La tutela della salute è tra i compiti fondamentali che la Costituzione assegna alla Repubblica, secondo quanto disposto dall'art. 32, co. 1, Cost., per cui "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti". L'art. 32 Cost. é denso di significati. In una prima prospettiva, la norma conferisce ai singoli il diritto soggettivo alla salute, quale diritto a non subire lesioni della propria integrità psico-fisica. In una seconda prospettiva interessa il tema dell'assistenza sanitaria, dunque, prefigura un'azione pubblica per la tutela della salute, che postula interventi regolativi diretti a garantire alla collettività condizioni di vita adeguate dal punto di vista igienico-sanitario e a prevenire e rimuovere situazioni di compromissione della salute pubblica, prevedendo dunque, sia l'organizzazione che l'erogazione del servizio pubblico di assistenza sanitaria, volto a fornire ai singoli, prestazioni sanitarie di prevenzione, cura e riabilitazione. L'azione pubblica in campo sanitario ha origine, già in epoca molto antica, per finalità di difesa della salute pubblica sotto il profilo igienico-sanitario. L'assistenza sanitaria della collettività è divenuta, invece, funzione di pertinenza pubblica solo in epoca contemporanea, cioè con la trasformazione dello Stato in senso sociale. Inizialmente, infatti, il ricovero e la cura dei malati avvenivano per iniziativa di istituzioni private, soprattutto religiose, solo a partire dalla fine del diciannovesimo secolo e solo nei confronti degli indigenti o degli affetti da particolari malattie, l'intervento pubblico in campo sanitario assunse forma diretta ed obbligatoria, si parlò infatti della c.d. assistenza legale. Tale sistema vigente fino alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, appariva piuttosto disorganico e frammentato, e incapace di assicurare la parità di trattamento nella tutela della salute tra i singoli cittadini, si evidenziava in particolare la necessità di attuare un compiuto sistema di sicurezza sociale e si prefigurava la realizzazione di un servizio sanitario nazionale, articolato nei comuni, nella province e nelle regioni, con prestazioni sanitarie estese a tutti i cittadini. All'attuazione di questi obiettivi si giunse tra il 1968 e il 1978, attraverso un processo riformatore intrecciato al contemporaneo processo di regionalizzazione. La prima tappa fu rappresentata dalla legge di riforma ospedaliera, la legge 12 febbraio 1968 n. 132, la c.d. Legge Mariotti fu creata la figura dell'ente ospedaliero, persona giuridica pubblica. Posto il superamento dei regimi di assistenza sanitaria di origine precostituzionale; venne poi avviato il trasferimento alle regioni a statuto ordinario, delle funzioni concernenti l'assistenza sanitaria e ospedaliera; venne disposta la soppressione degli enti mutualistici anche in conseguenza della grave crisi finanziaria, e infine, si giunse all'approvazione della legge 23 dicembre 1978 n.833 recante la riforma complessiva del sistema sanitario. Il servizio sanitario nazionale viene configurato come di pertinenza di tutti i livelli istituzionali, e cioè, non quale nuovo soggetto giuridico, ma quale modello organizzativo da ascrivere nel novero di una amministrazione nazionale. Nel corso del '900 e soprattutto negli ultimi decenni si è posta la necessità di una razionalizzazione e di una sistematica valutazione della qualità dei servizi sanitari allo scopo di migliorare costantemente pratiche professionali, organizzazione dei servizi e governo della sanità. In particolare, i decreti legislativi 502 del 1992 e 229 del 1999 hanno costituito riforme in senso stretto, volte al riordino della disciplina sanitaria e alla razionalizzazione del servizio sanitario nazionale. Questo lavoro si propone dunque di analizzare il Sistema Sanitario Nazionale, in considerazione degli interventi normativi che si sono susseguiti nel tempo, con particolare riferimento al sistema dell'accreditamento, che implica una forte partecipazione e si struttura come un'attività di autoregolazione del sistema sanitario finalizzata al miglioramento continuo, attraverso la logica dell'apprendimento organizzativo. L'accreditamento è il processo/procedura attraverso la quale un organismo autorizzato rilascia formale riconoscimento che una organizzazione o una persona ha la competenza per svolgere uno specifico compito. Tale processo tende a garantire assistenza sanitaria di buona qualità ed efficienza organizzativa e comporta la definizione di standard e processi di verifica esterna per valutare l'aderenza ad essi delle organizzazioni sanitarie. Alla luce della normativa vigente l'accreditamento è oggi il momento centrale di un procedimento tecnico-amministrativo complesso, che il D.lgs. n. 229/1999 ha ridefinito articolandone lo svolgimento in quattro distinte fasi: 1)l'autorizzazione alla realizzazione delle strutture sanitarie; 2)l'autorizzazione all'esercizio delle attività sanitarie; 3)l'accreditamento; 4)gli accordi contrattuali. Si è ritenuto opportuno affrontare poi, una ricognizione sullo stato dell'arte dei sistemi di accreditamento regionali. Il processo di introduzione dell'accreditamento nel Servizio Sanitario Nazionale, annunciato nel 1992 col D.lgs 502/92, successivamente articolato e specificato nel 1997 col D.P.R. 14/97 e nel 1999 col D.lgs. 229/99, e poi affidato alle Regioni, anche in forza delle modifiche costituzionali intercorse nel 2001 (Riforma Titolo V della Costituzione), si configura oggi come sommatoria di sistemi regionali. Dall'analisi condotta emerge con chiarezza che l'attività principale di definizione delle regole di accreditamento, la gestione delle procedure amministrative e di quelle di controllo risultano concentrate nelle amministrazioni regionali; non sono neppure rari i casi in cui un significativo ruolo è esercitato dalla Giunta regionale. Le Regioni Italiane hanno disciplinato gli istituti dell'autorizzazione e dell'accreditamento istituzionale seguendo percorsi differenti, infatti possiamo individuare: 1)Sistemi in fase di perfezionamento: è il caso delle Regioni che hanno già messo a regime gli istituti e si accingono a migliorare e affinare il sistema, come la Toscana, l'Emilia Romagna e la Lombardia. 2)Sistemi in fase di progressione o rilancio: le Regioni hanno posto nuovamente la loro attenzione sul tema dell'accreditamento, approvando una nuova normativa in materia, come Abruzzo, Basilicata, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Marche, Piemonte, Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta e la Provincia Autonoma di Bolzano. 3) Sistemi in fase di "attesa": in questa categoria rientrano quelle Regioni che, dall'analisi documentale, non risultano attive riguardo, ci si riferisce a Campania, Lazio, Liguria, Molise, Puglia, Umbria, Veneto e la Provincia Autonoma di Trento. Particolarmente interessante è poi il settore dell'assistenza socio-sanitaria, identificata dal D.lgs. n.502/1992 s.m.i., in un insieme di attività atte a soddisfare, con percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione. Il sistema dell'accreditamento nella complessa area sociosanitaria, deve sapersi rapportare ai percorsi assistenziali per orientare il sistema verso gli aspetti qualitativi dell'integrazione e della continuità delle cure, e per costruire un sistema elastico capace di rispondere alle mutate esigenze di salute mantenendo pur sempre standard di qualità elevati. L'impostazione di cui al D.lgs. n. 502/92 e modificazioni, ha portato allo sviluppo di modelli regionali notevolmente diversi tra loro. In particolare, nell'ambito socio-sanitario, alcune Regioni hanno disciplinato unitariamente le modalità per l'accreditamento sanitario e socio-sanitario, mentre altre hanno scelto di tenere distinti i due ambiti, prevedendo procedure diversificate per il sanitario e il sociosanitario. Alcune Regioni hanno poi deciso di attribuire esclusivamente al settore sociale e dei servizi alla persona, gli aspetti dell'autorizzazione e dell'accreditamento delle strutture socio-sanitarie. Dal quadro descritto emerge come il sistema di accreditamento istituzionale del nostro Paese abbia ormai visto la definizione, almeno per linee essenziali, di tutti i suoi elementi costitutivi. L'istituto dell'accreditamento deve essere adottato quale elemento dinamico all'interno di un 'sistema qualità' effettivamente strutturato, la bontà del quale non può che essere verificata attraverso la misurazione degli esiti finali dell'assistenza. L'accreditamento quindi non interessa il singolo professionista operante nella struttura, ma analizza il sistema "azienda" nel suo insieme. Una struttura che abbia buoni specialisti, ma attorno ai quali non vi siano un'adeguata organizzazione, le giuste attrezzature, il necessario confort, non potrà essere accreditata fra gli erogatori di servizi sanitari. Viene quindi posto in essere un processo di autovalutazione e di miglioramento continuo: scrivere ciò che si intende fare, fare quello che si è scritto, verificare se lo si è fatto e infine pensare a migliorarlo. In questi quattro punti c'è tutto il senso del processo di accreditamento. Il fine ultimo è la soddisfazione del cittadino ed il miglioramento complessivo della prestazione qualitativa.
Rino Pensato. La raccolta locale. Milano: Editrice Bibliografica, 2000. 230 p. ISBN 88-7075-556-8. Eur 15,49.Un manuale pratico, un prontuario, viene definito dallo stesso autore questo libro. In ogni caso non si tratta di una nuova edizione del volume del 1984, Le fonti locali in biblioteca, di cui Rino Pensato era stato coautore con Valerio Montanari. In quello la trattazione era distesa, riportando le varie posizioni del dibattito sul tema della storia locale, della documentazione locale nel loro svilupparsi nel tempo, fino a occuparsi degli aspetti riguardanti il personale. Adesso sembra che finalmente sia giunto il momento di sistematizzare, sedimentare in una guida pratica i criteri della buona gestione di questa componente essenziale della missione di ogni biblioteca pubblica, tanto centrale quanto dibattuta e a volte insufficientemente valorizzata. Una guida pratica quindi, sia per le nuove generazioni che si affacciano alla professione, sia per chi decida solo ora di portare a compimento un progetto, non sempre e non in ogni biblioteca abbastanza curato in tutte le sue implicazioni.Proprio per questo quindi, prima di passare alla seconda parte, la più corposa del volume, quella dedicata alla gestione della raccolta, era doveroso e inevitabile riassumere e piuttosto diremmo portare a epilogo e sintesi i principi che danno motivo a una raccolta locale, come raccolta speciale nella biblioteca pubblica. Dopo aver esaurito in poche pagine del primo capitolo la rievocazione del dibattito storico sui temi della biblioteca e la memoria storica locale, dove si accenna agli antichi problemi dell'erudizione, alla cerniera fra le funzioni generali della biblioteca e quelle specializzate in storia locale, alla tensione necessaria non tanto verso la conservazione quanto verso la trasmissione del sapere e lo sviluppo delle conoscenze, l'attenzione si rivolge interamente ai temi di maggiore attualità.Chi non abbia dato importanza in passato allo sviluppo di questa raccolta e ai servizi che in essa trovano origine, forse oggi, nell'epoca di Internet, potrebbe sentirvisi ancor meno incline. È proprio su questo punto invece che l'autore riesce a essere innovativo rispetto alla tradizione e ai temi del volume del 1984, e allo stesso tempo anche convincente.La questione non era di poco conto e la letteratura cui fare riferimento si trova a uno stadio di elaborazione ancora iniziale, come lo sono di fatto le esperienze, in questa nostra attuale fase detta della "biblioteca ibrida".I principi generali trovano il loro fondamento sia nel Manifesto Unesco sia nelle Linee guida per le biblioteche pubbliche dell'IFLA, che nella loro ultima edizione escono definitivamente solo un anno dopo questo libro, al quale sono note solo le versioni preliminari. Il punto di riferimento specializzato è sempre di ambito anglosassone, ed è il lavoro di John Hobbs, Local history and the library, risalente al 1962. Dopo l'avvento di Internet ci sono nuove esperienze, nuove idee, ma ovviamente è ancora presto perché si possa parlare di nuove soluzioni. La proposta del nostro autore, sullo stimolo di riflessioni, questa volta provenienti dalla biblioteconomia francese degli ultimi decenni, è molto semplice: l'unico modello possibile per affrontare il dilemma localismo-globalizzazione è la biblioteca pubblica localmente universale. Non ci soffermeremo qui su questo concetto per nulla togliere al piacere della lettura del testo integrale, al quale non potremmo rendere ragione in poche parole.La prima data in cui si iniziò a lavorare per una raccolta locale in biblioteca è forse il 1824, quando a Londra la Guildhall Library si dedicò ai documenti sulla City. A quasi due secoli di distanza, e dopo l'inizio dell'epoca di Internet, ha un senso riconfermare che la raccolta locale è un progetto che deve trovare volontà e riferimenti di continuità, e che deve prevedere l'affluenza costante in biblioteca di documentazione secondo un programma sistematico e coordinato, sulla cui base organizzare anche la fornitura di servizi specializzati e mirati. Principi e linee guida autorevoli, esempi di carte delle collezioni e statuti bibliografici costituiscono così, anche in un manuale pratico come questo, materiali utilissimi e riferimenti concreti, dei quali vengono proposte non solo le indicazioni bibliografiche, ma anche interi brani introdotti da commenti.La seconda parte del volume, più cospicua, passa quindi a trattare in modo esauriente e sistematico ogni aspetto della gestione della raccolta e i suoi servizi. Il modello organizzativo interno suggerito è, secondo la tradizione più affermata, quello di dare alla raccolta una configurazione a sé stante all'interno della biblioteca. Sono descritti cinque modelli autorevoli ed effettivamente praticati: il dipartimento di studi locali, nel caso di biblioteche medio grandi; la raccolta locale chiusa o riservata nel caso di fondi o documenti antichi; lo scaffale aperto nel caso di raccolte di piccole dimensioni; la raccolta distribuita, ma recuperabile attraverso il catalogo; la raccolta mista e articolata in più sezioni. Esiste inoltre un modello di gestione che riguarda la cooperazione, che può presentarsi in tre modi: raccolta centralizzata, raccolta centralizzata con nuclei diffusi, varie raccolte con una centralizzazione di tipo virtuale. Nell'abbondante argomentazione, occorre dire che proprio il modello di gestione in rete resta quello meno accuratamente esposto ed esemplificato, a riprova del fatto che l'intera trattazione cui è dedicato questo volume posa non su teorie, ma su esperienze e su risultati concreti conseguiti e verificabili, cosicché dove le testimonianze si fanno meno copiose anche l'esposizione diventa più sintetica.La raccolta locale viene quindi affrontata nei suoi vari aspetti, tra i quali quello della copertura geografica è tra i più scottanti e delicati, e alla cui definizione vengono offerti parametri utili per chi abbia bisogno di risolvere concretamente il problema di delimitare la propria area di riferimento. Centrale alla trattazione inoltre l'ampio capitolo sulla connessione locale, corredato, come numerose altre parti del libro, e così come si conviene a un manuale pratico, di sintetiche tavole riepilogative. È qui, in sostanza, che viene stabilito cosa sia da ritenersi documento locale, lasciando tuttavia spazio a un'interpretazione più ampia rispetto a quella più propriamente intesa, tramite la definizione di uno schema a due livelli. Suggerimenti pratici per lo sviluppo della raccolta, esempi di statuti bibliografici, fonti, politica dei doni, controllo della produzione e metodi di censimento degli enti produttori, rapporto con archivi e musei, fanno parte delle indicazioni che, utilizzate come linee guida, o come liste di controllo, non risulteranno prive di utilità anche per chi abbia già al suo attivo una lunga esperienza professionale. Più sintetico invece il capitolo dedicato alla catalogazione, classificazione e indicizzazione, anche se non privo di interesse in particolare per la parte dedicata alla collocazione.Concludono il libro alcuni capitoli sui servizi al pubblico e altre attività. Pur essendo una semplice sistematizzazione di pratiche più o meno diffuse, anche questa parte rappresenta tuttavia una forte utilità proprio per il valore di ricognizione dei vari tipi di servizi che trovano effettivamente fondamento nella raccolta locale: informazioni generali, speciali, personalizzate e inoltre pubblicazioni, promozioni, mostre, attività didattiche.Per chi operi nelle biblioteche pubbliche non può esservi quindi più scusante per rinviare la decisione. E per chi volesse pensare che la materia possa riguardare solo piccole biblioteche, o comunque solo comunità di limitate dimensioni, varie pagine del volume sono dedicate alle raccolte locali nelle biblioteche delle grandi città storiche, avvalorate dalla citazione delle raccolte delle città di Monaco, Lione, Londra (Guildhall Library), Liverpool, Birmingham, Leeds, Manchester, Cambridge, Derby, York.La raccolta locale ha ora una guida contenente la miglior pratica. Si potranno fare scelte diverse, altri percorsi, ma non si potrà comunque ignorarla. Per chi desideri innovare, Internet soprattutto è un capitolo quasi del tutto da scrivere. Il volume non trascura di suggerire qualche punto di partenza per la navigazione, soprattutto qualche sito da cui trarre ispirazione. Ma molto tempo e molti tentativi ancora pensiamo che ci separino dal momento in cui si potrà iniziare a sistematizzare la materia anche sui criteri di gestione delle raccolte digitali e dei servizi locali a distanza.
Pomoću arhivskih dokumenata pronađenih u arhivu Mletačke Republike u Veneciji u tekstu je rekonstruiran tijek izgradnje zvonika katedrale sv. Marka u Makarskoj i imena majstora koji su radili na njemu tijekom 1760. godine. Prvi put su u javnost iznesena tri crteža, projektna prijedloga za dovršenje izgradnje zvonika dosada nepoznatog autora, inženjera Angela Janšića, zajedno s troškovnicima izrađenim 1759. godine. Iznesena je administrativna procedura kojom je odobreno financiranje dovršenja izgradnje i razlozi za odabir najjednostavnijega i najjeftinijeg projektnog prijedloga. ; Attraverso i documenti trovati nell'Archivio di Stato di Venezia nel seguente testo è stato possibile ricostruire il processo di edificazione del campanile della catedrale di Macarsca e indentificare i nomi dei maestri che vi lavoravano nel 1760. Per la prima volta si presentano al pubblico tre disegni, che rappresentano altrettanti progetti per la conclusione del campanile a costruzione già avviata a opera di un autore finora sconosciuto – l'ingegner Angelo Gianssix - insieme con i fabbisogni scritti dal progettista nel 1759. La cattedrale di Macarsca è stata costruita dalle fondamenta a partire dall'anno 1700 fino al 1758. La costruzione della chiesa è stata finanziata dalla Republica di Venezia, ad eccezione di una capella laterale finanziata dalla famiglia nobile locale Kačić: in questo modo la Serenissima adempiva ai suoi oblighi contenuti nel trattato firmato con la Santa Sede nel 1690. Nel processo di edificazione della catedrale erano direttamente coinvolti i Provveditori generali della Serenissima Alvise Mocenigo (1696-1702), Pietro Vendramin (1726-29) e Francesco Grimani (1754-56) insieme con un seguito dei ingegneri che periodicamente visitavano il sito della costruzione e firmavano i progetti e i fabbisogni del cantiere, dove erano presenti quotidiamente i protomagistri e i tagliapietre, i fabbri e i falegnami. Il procuratore seguiva i lavori per conto del vescovo: l'unico procuratore noto è Antonio Ivanišević, nobile di Macarsca che svolgeva questa funzione da più di venti anni. La posizione del campanile si vede per la prima volta sul progetto firmato dall'ingener Giuseppe D'André nel 1708, nell'angolo che l'abside forma con la cappella laterale ovest. Sui disegni del 1727 dell'ingener Francesco Melchiori non è indicato il campanile, che appare tuttavia nel disegno del 1757 dell'ingegner Bartolo Riviera: si vede la sua posizione segnalata con la lettera H e lo stesso ingegnere scrive che a quell'anno raggiunge l'altezza dei muri laterali della cattedrale. Nel 1758 si conclude la costruzione della catedrale e su insistenza del vescovo di Macarsca il governo veneziano approva la stesura del progetto per la conclusione del campanile. Al Provveditore generale Contarini vengono date istruzioni perché il campanile sia modesto, adatto alla qualità del posto e la poverta dei suoi abitanti: la stesura del progetto venne affidata all'ingegnere militare Angelo Gianssix. Il capitano Angelo Gianssix aveva appreso i primi insegnamenti di matematica applicata a fini militari dal padre, il fu colonnello Gianssix che aveva servito nell'esercito veneziano. Nel 1758 Angelo Gianssix conduceva i lavori di dragaggio del porto di Spalato e nel 1759 completava la carta topografica della Dalmazia da Zara a Macarsca. Furono stesi tre progetti per il completamento del campanile: nel primo disegno si vede che fino a 1759 il campanile. superava di poco in altezza i muri laterali della chiesa, a conferma della nota dell'ingegner Riviera. All'ingegner Gianssix restava la stesura del progetto della parte finale del campanile, con la loggia per le campane e la copertura. Il primo progetto era il più semplice, in accordo con le richieste del governo di Venezia: si trattava di una semplice loggia aperta su tutti i quattro lati da bifore e sormontata da una cornice e una copertura a piramide. Il secondo disegno proponeva invece una forma più elaborata per il campanile: sulla base già esistente veniva poggiata una loggia per le campane identica a quella del primo progetto e l'attico al di sopra viene aperto nel mezzo con una finestra ellissoidale. Infine, nel terzo progetto la parte finale del campanile viene concepita in due liveli, con due logge aperte da bifore, duplicate una al di sopra dell'altra. Dalla lettera del Provveditore Generale Contarini si capisce che gli ultimi due progetti vennero redatti dall'ingegner Giassix seguendo i desideri del Vescovo di Macarsca, Stjepan Blašković, e del procuratore Ivanišević: essi volevano che il nuovo campanile della cattedrale fosse unico in città per la sua forma e contribuisse così alla bellezza della provincia. Il Provveditore generale mandò a Venezia tutti e tre i disegni con i relativi fabbisogni per la realizzazione dell'opera: il costo era minore per la realizzazione del primo, il progetto più semplice. Il provveditore generale raccomanda quindi al governo la scelta del primo progetto, sulla base del costo inferiore e dell'inutilità di insistere sull'apparenza esteriore della chiesa, spiegando che le condizioni locali sono tali da non necessitare di un'opera maestosa per la popolazione, che il luogo scelto per la costruzione della catedrale e del campanile viene spesso colpito da fulmini e che la base del campanile non è proporzionata con la cattedrale. Il governo della Serenissima, considerando valide le ragioni esposte dal provveditore generale, approva la realizazione del primo progetto dell'ingegner Gianssix, con il costo totale di settemila lire. Viene così ignorato il desiderio del Vescovo, che il nuovo campanile fosse il più bello della città e tra i più belli della provincia, e viene stanziata la somma di 145 zecchini. I lavori sul campanile cominciano nel luglio del 1760 e si protraggono fino al 28 novembre dello stesso anno. Il proto principale dei lavori era Piero Licini di Brazza e il mastro falegname Battista Rossi. Gli altri maestri erano: Alessandro Licini, Antonio Palaversić, Ivan Costa, Marko Fontana, Antonio Rossi, Andrea Bruttapelle, Piero Scansi, Vicenzo Murat, Ivan Cechini, Ivan Perušić, Tomaso Girice, Matija Geričiević, Mihael Kjuković, Ivan Battara, Andrea Demon i Tomaso Miraglia, Zorzi Orlandini, Antonio Sambuk e Nikola Sambuk. Il campanile di Makarska fa parte del più grande gruppo di campanili costruiti in Dalmazia nel 18° secolo: gli esempi appartenenti a questo gruppo si possono trovare da Zara a Macarsca. Le loro carateristiche sono l'alta base quadrata, quasi completamente chiusa, sulla quale poggia la loggia per le campane aperta su tutte i quattro lati da bifore, sormontata dalla cornice e conclusa da una piramide quadrata. La forma della base del campanile, inisieme alla loggia ne fanno la diretta continuazione delle forme romaniche del campanile di Aquilea. L'unica ma importante differenza consiste nella mancanza del tamburo poligonale sopra la loggia: come conseguenza è stata usata la piramide quadrata invece di quella poligonale. Il più antico e importante esempio di questa piramide si trova sul campanile della chiesa di San Marco a Venezia. Traendo le conclusioni dai documenti presentati, si può supporre che la Repubblica di Venezia abbia applicato una politica orientata al massimo risparmio dei fondi destinati alla costruzione degli edifici non solo al campanile della cattedrale di Macarsca, ma anche agli altri edifici pubblici in suo possesso nella Dalmazia del 18° secolo: questa politica di finanziamento può spiegare la mancanza di forme barocche sugli edifici finanziati con il denaro pubblico. Da questi documenti è possibile capire anche l'importante ruolo ricoperto dai Provveditori generali nella scelta del progetto che doveva essere realizato: infatti, in questo caso, il desiderio del vescovo di portare a compimento uno dei due progetti più grandiosi è stato ignorato, mentre viene preso in considerazione solo il consiglio del Provveditore generale, che ha valutato la situazione utilizzando i parametri di un nobile veneziano in servizio temporaneo nella provincia veneziana di Dalmazia e Albania.
"Mi sia concesso di cominciare con una confessione piuttosto imbarazzante: per tutta la mia vita nessuno mi ha dato piacere più grande di David Bowie. Certo, forse questo la dice lunga sulla qualità, della mia vita. Non fraintendetemi. Ci sono stati momenti belli, talvolta persino insieme ad altre persone. Ma per ciò che riguarda una gioia costante e prolungata attraverso i decenni, nulla si avvicina al piacere che mi ha dato Bowie." (Simon Critchley, Bowie) Quelli che non conoscono l'opera di Bowie, temo, avranno provato un po' d'irritazione per la quantità di cose dette e scritte dopo la sua morte nel gennaio scorso. O perlomeno stupore, viste le innumerevoli sfaccettature per cui è stato ricordato. Come ha scritto giustamente Francesco Adinolfi su Il manifesto del 12 gennaio, "non c'è un solo Bowie, e ognuno ha il suo Bowie da piangere". C'è ovviamente il Bowie che tra la fine dei '60 e i primi anni '70 porta in scena la libertà contro la soffocante pubblica morale, mescolando generi ed identità sessuali in canzoni e concerti, ostentando i suoi personaggi scandalosi per sbatterli in faccia a family day di ogni sorta. Lo scrittore Hanif Kureishi, per esempio, ricorda la canzone "Rebel rebel" (1974) come una spinta che lo porta a desiderare di andarsene dal monotono perbenismo del sud di Londra. Il filosofo Simon Critchley descrive l'impatto di "Rock'n'roll suicide" (1972), dove l'urlo "You're not alone!" ("Non sei solo"!) diventa detonatore emotivo per una generazione di giovani a disagio con se stessi e con il mondo, spingendoli a cercare di diventare qualcos'altro – "qualcosa di più libero, più queer (traducibile con 'eccentrico', e anche 'omosessuale'), più sincero, più aperto, e più eccitante." Ma questo Bowie, l'icona del gender bending, è stracitato. Molto meno noto è il Bowie dall'animo irriducibilmente politico. Intendiamoci, anche dal punto di vista politico Bowie è stato molte cose. Nel 1975 rilascia alcune dichiarazioni di simpatia verso il nazismo, che saranno poi rettificate e (molto parzialmente) giustificate con la sua pericolosa dipendenza dalle droghe di quel periodo. Il clamore è amplificato da una fotografia in cui sembra fare il saluto romano a una folla di fan che lo attende a Victoria Station (ma osservando il filmato dell'evento su Internet, pare che il fotografo abbia preso lo scatto proprio nel momento in cui il braccio si tende in un normalissimo saluto). Si tratta di un aspetto delicato ancora da chiarire completamente, in cui anche critici raffinati come Critchley non si avventurano troppo. E che comunque ha finito per offuscare, secondo me, la figura di Bowie cantore degli ultimi e dei margini. Il nodo cruciale di questo suo aspetto è l'album Scary Monsters (1980), alla fine di un decennio segnato da una serie di album memorabili, dal glam rock alle sperimentazioni berlinesi – storicamente, la fine delle utopie e l'inizio del cosiddetto riflusso. Nel brano "Ashes to ashes" Bowie riprende il personaggio che l'aveva portato al successo, il Maggiore Tom, astronauta che in "Space oddity" (1969) celebrava l'allunaggio ma al contempo si perdeva stranamente a galleggiare nello spazio. Seguendo una parabola analoga agli ideali bruciati di quel periodo, nel 1980 Major Tom ricompare travolto dalle droghe pesanti, schiavo dei mostri che lo perseguitano nello spazio: I want an axe to break the ice, I want to come down right now Ashes to ashes, funk to funky We know Major Tom's a junkie strung out in heaven's high hitting an all-time low Voglio un'ascia per rompere il ghiaccio, voglio venir giù subito Cenere alla cenere, funk al funky Lo sappiamo che Major Tom è un tossico sperso nell'alto dei cieli caduto in una depressione storica Ma anche la realtà in cui Major Tom desidera tornare non promette nulla di buono. In Scary Monsters si manifesta uno dei punti più alti della critica socio-politica nei testi di Bowie, che assume toni quasi profetici. Mi riferisco alla canzone che apre l'album, "It's no game (no. 1)": Silhouettes and shadows watch the revolution No more free steps to heaven and it's no game (…) Documentaries on refugees couples 'gainst the target (…) Draw the blinds on yesterday and it's all so much scarier Put a bullet in my brain and it makes all the papers Profili e ombre guardano la rivoluzione Niente più passi facili verso il paradiso e non è un gioco (…) Documentari su rifugiati coppie nel mirino (…) Chiudi la finestra sul passato ed è tutto più spaventoso Sparami un colpo in testa e ne parleranno tutti i giornali Qui Bowie sembra svelare quella che sarà la faccia oscura degli anni '80 e oltre: la questione dei rifugiati e delle vittime civili dei conflitti (come suonano profetici quei due versi…), l'oblio degli ideali del passato, lo sguardo onnipresente ma banalizzante dei mass media. E' importante ascoltare "It's no game (no. 1)" anche perché Bowie canta questa canzone a squarciagola, a voce quasi stridula, come se lo stessero torturando; l'insieme è reso più complesso dall'alternanza con una voce femminile che canta in giapponese una traduzione del testo, in tono aggressivo. Secondo Critchley, "il genio di Bowie risiede nell'armonizzare minuziosamente parole e musica attraverso il mezzo della voce". I versi finali della canzone introducono poi un riferimento più esplicitamente politico, forse riferendosi alla polemica menzionata sopra: So where's the moral? People have their fingers broken To be insulted by these fascists – it's so degrading And it's no game E allora dov'è la morale? La gente ha le dita spezzate Venir insultati da 'sti fascisti – è così degradante E non è un gioco La voce di Bowie si contorce soprattutto quando pronuncia il titolo della canzone, "non è un gioco": il dramma della 'fine delle ideologie' sta nel poter non prendere più nulla sul serio, neanche le grandi tragedie. C'è una coincidenza curiosa, a questo proposito. L'anno seguente Giorgio Gaber mette in scena il recital Anni affollati, e nel pezzo parlato "Il presente" offre (ovviamente con Sandro Luporini) una caustica riflessione sul nuovo clima dei primi anni '80, dove i più bravi e geniali riescono a togliersi di dosso la pesantezza di qualcosa che ingombra per dedicarsi allo 'smitizzante'. Perché di fronte all'idiozia dei vecchi moralisti, preferisco vedere l'uomo di cultura che si fa fotografare nudo su un divano a fiori. Eh sì, per questa sua capacità di saper vivere il gioco. Sto parlando insomma di quelli veramente colti, che con sottile ironia hanno riscoperto… l'effimero. Ecco che cos'è il presente: l'effimero. E devo dire che per della gente come noi, che non crede più a niente, questo è perfetto. (…) La cosa più intelligente da fare è quella di giocare d'astuzia con i segnali del tempo. Ma attenzione, perché tra l'avere la sensazione che il mondo sia una cosa poco seria, e il muovercisi dentro perfettamente a proprio agio, esiste la stessa differenza che c'è tra l'avere il senso del comico ed essere ridicoli… La canzone di Bowie non finisce qui, perché Scary Monsters ha una struttura circolare e si chiude con "It's no game (no. 2)" ("Non è un gioco, parte seconda"), dove viene riproposto lo stesso motivo – o quasi. Questa versione accentua la critica sociale (e la visionarietà profetica) aggiungendo una strofa finale sullo sfruttamento del lavoro minorile: Children 'round the world put camel shit on the walls Making carpets on treadmills, or garbage sorting And it's no game Bambini in tutto il mondo mettono cacca di cammello sui muri Fanno tappeti su macchinari, o frugano in discariche E non è un gioco Ma soprattutto, i versi di questa "parte seconda" sono cantati in modo radicalmente diverso, con voce lenta, calda, modulata, quasi da crooner in stile Frank Sinatra, quasi a voler dire: guardate che anche i miei pezzi apparentemente più commerciali possono essere qualcosa di più di semplici canzoni orecchiabili. E' una caratteristica dei suoi testi che viene colta anche dalla genialità sregolata di Lars Von Trier, il cui durissimo film Dogville (2003), sulla brutalità del sogno americano, si conclude con la scena del massacro di un intero villaggio e uno stacco improvviso sui titoli di coda: una sequenza di immagini di povertà e degrado statunitense con in sottofondo il pezzo "Young Americans" (1975), dal ritmo allegro ma con un sottotesto che accenna alla sterilizzante massificazione degli individui: We live for just these twenty years, do we have to die for the fifty more? Viviamo solo per questi vent'anni, dobbiamo morire per altri cinquanta? Questa ambivalenza è riscontrabile soprattutto nei dischi immediatamente successivi a Scary Monsters, quelli segnati da un disimpegno che per la prima volta fanno diventare Bowie un fenomeno commerciale mainstream, e che molti fan ancora rifiutano. Mi riferisco innanzi tutto a Let's Dance (1983), ovviamente, ricordando il videoclip della canzone omonima che mette in primo piano la condizione degli aborigeni australiani; come scrive Nicholas Pegg nel suo enciclopedico The Complete David Bowie, "prendendo spunto solo marginalmente dal testo della canzone per sposare la causa dei diritti degli aborigeni, il video costituisce il primo (sic) sostanziale esempio del ruolo da militante sociopolitico che Bowie cominciava a ritagliarsi negli anni '80." Sempre in Let's Dance, il brano "Ricochet" ("Pallottola di rimbalzo") è pervaso da un senso di totale sacrificabilità delle vite umane; come in "It's no game", i versi sembrano già descrivere il lato oscuro della globalizzazione neoliberista: Like weeds on a rock face waiting for the scythe (…) These are the prisons, these are the crimes teaching life in a violent new way (…) Early, before the sun, they struggle off to the gates in their secret fearful places, they see their lives unraveling before them (…) But when they get home, damp-eyed and weary, they smile and crush their children to their heaving chests, making unfullfillable promises. For who can bear to be forgotten? Come erbacce sulla roccia in attesa della falce (…) Queste sono le prigioni, questi i crimini che insegnano la vita con nuova violenza (…) Presto, prima del sole, sgomitano verso i cancelli nei loro spaventosi luoghi segreti, vedono la propria vita che gli si dipana di fronte (…) Ma quando arrivano a casa, stanchi e con occhi umidi, sorridono e si stringono i figli al petto ansante, facendo promesse inesaudibili. Perché chi può sopportare di venir dimenticato? Buona parte di questi versi sono parlati con voce metallica, come da un megafono, rimarcando così l'idea di omologazione oppressiva della società contemporanea. Su questi temi Bowie ritorna periodicamente anche nei dischi incisi dopo Let's Dance, dalla fine degli anni '80 fino a pochi anni fa – album quasi sempre di gran qualità, che le commemorazioni dello scorso gennaio hanno praticamente ignorato. Va menzionato, dall'album Tin Machine (1989) il brano "I can't read" ("Non so leggere"), che tratta di deprivazione culturale in un mondo dove "money goes to money heaven / bodies go to body hell" (" i soldi finiscono nel paradiso dei soldi / i corpi nell'inferno dei corpi"). Lo stesso LP contiene una cover di "Working class hero" ("Eroe della classe operaia") di John Lennon (1970), inno anti-sistema cantato da Bowie con voce carica di rabbia: When they've tortured and scared you for twenty-odd years then they expect you to pick a career when you can't really function you're so full of fear (…) Keep you doped with religion and sex and TV and you think you're so clever and classless and free but you're still fucking peasants as far as I can see (…) There's room at the top they're telling you still but first you must learn how to smile as you kill Dopo che ti hanno torturato e terrorizzato per una ventina d'anni poi si aspettano che tu ti scelga una carriera mentre non riesci neanche a pensare tanto sei pieno di paura (…) Ti drogano di religione, sesso e TV e ti credi d'essere così furbo e oltre le classi e libero ma sei ancora un cazzo di bifolco, mi sembra (…) C'è ancora posto là in cima, ti continuano a dire Ma prima, mentre uccidi, devi imparare a sorridere Una diffusa alienazione sociale emerge anche in "Dead man walking" ("Morto che cammina", 1997), un pezzo contaminato da sonorità drum'n'bass che martellano immagini come questa: an alien nation in therapy sliding naked, anew like a bad-tempered child on the rain-slicked streets una nazione aliena in terapia che scivola nuda, di nuovo come un bambino intrattabile per strade viscide di pioggia Due anni dopo, in "Seven", riprende la figura del fratello maggiore Terry, sofferente di schizofrenia e suicida nel 1985, tornando così ad un altro tema per lui ricorrente, quello dei meccanismi sociali che riproducono la malattia mentale: I forgot what my brother said I forgot what he said I don't regret anything at all I remember how he wept On a bridge of violent people I was small enough to cry I've got seven days to live my life or seven ways to die Ho scordato cosa diceva mio fratello ho scordato che diceva Non rimpiango davvero nulla mi ricordo come piangeva Sopra un ponte di gente violenta ero abbastanza piccolo da strillare Ho sette giorni per vivere la mia vita o sette giorni per morire L'attenzione di Bowie verso le vittime della Storia si può ritrovare, comunque, già prima del 1980. Quando ancora cantava ballate alla Bob Dylan, il pezzo "Little bombardier" ("Il piccolo artigliere", 1967) narra di un reduce solo, spaesato e affamato di affetti: War made him a soldier, little Frankie Mear. Peace made him a loser, a little bombardier La Guerra lo fece un soldato piccolo Frankie Mear La pace lo fece un perdente, un piccolo artigliere Per sua grande gioia, diventa amico di due bambine, ma si farà cacciare perché sospettato di pedofilia: Leave them alone or we'll get sore. We've had blokes like you in the station before Lasciale stare o cominceremo a seccarci. Ne abbiamo già avuti come te alla stazione di polizia. Pur puntando esplicitamente il dito contro l'autorità costituita, questa storia malinconica è musicata, scrive Pegg, con un "nostalgico valzer da fiera di paese (…) uno dei pochissimi brani di Bowie scritti in 3/4". Il testo è ispirato al racconto "Uncle Ernest" (1959) di Alan Sillitoe, uno dei più felici narratori del nuovo realismo proletario nel secondo dopoguerra. In quanto a temi socio-politici, Bowie tocca spesso anche l'imperialismo statunitense e la natura repressiva delle religioni istituzionali (si veda ad esempio lo 'scandaloso' videoclip di "The next day", 2013). Ma il Bowie che ho voluto ricordare qui è l'artista che non ha mai chiuso gli occhi di fronte alle ingiustizie, alla sofferenza degli ultimi. Potrà suonare paradossale, ma mi viene da pensare ad un altro grande cantore dei margini come Enzo Jannacci. Bowie torna spesso su ciò che in "Under pressure" ("Sotto pressione", 1981) definisce "the terror of knowing what this world is about" ("il terrore di sapere di cosa è fatto questo mondo"), mentre Love dares you to care for the people in the streets the people on the edge of the night L'amore ti sfida a prenderti cura della gente per le strade la gente al margine della notte Certo, è difficile accostare i maglioni sudati di Jannacci al Bowie che ha creato e curato la propria immagine, cui il prestigioso Victoria and Albert Museum di Londra ha dedicato una mostra di grande successo nel 2013. E la voce di Jannacci, sempre apparentemente sul punto di esaurire il fiato, condivide poco con le virtuosità bowiane. Dietro ad entrambi vedo però una sensibilità comune, e un simile atteggiamento di insofferenza verso ogni inquadramento, ogni norma imposta dall'alto. Per me, i testi di Bowie hanno rappresentato l'inizio di una passione per la letteratura in lingua inglese, e per la natura indecifrabile, sfuggente e mai omologabile che è propria della poesia. Critchley nota che, a partire dal periodo berlinese, i suoi versi diventano meno intellegibili e narrativi, e che "colpiscono maggiormente quando sono più indiretti. Siamo noi a doverli completare con la nostra immaginazione, col nostro desiderio." Continuo a citare Critchley anche perché mi ritrovo profondamente nel percorso del suo libro, purtroppo non ancora tradotto in italiano. Il volumetto si conclude con una frase che sottoscrivo, e che rappresenta il motivo per cui non ho ancora trovato il coraggio di ascoltare Blackstar, l'ultimo album uscito solo due giorni prima della morte: "Non voglio che Bowie finisca. Ma lo farà. E anche io."
Già Cesare Beccaria, nel lontano 1764, aveva evidenziato come la legislazione rispondesse più alle ragioni delle contingenze storico-sociali che alla meditata riflessione di tecnici in ordine alle esigenze effettive della comunità, in un'ottica di sistema e lungimiranza. Nel suo capolavoro indiscusso, infatti, esordiva con la seguente considerazione: "Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pure sono o dovrebbero essere patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo strumento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero". Tale riflessione, che vale ancora oggi in linea generale, è ancor di più attuale in un settore delicato come quello dell'ordinamento penitenziario, nel quale il Legislatore ci ha abituato all'adozione di periodici provvedimenti, ora volti ad impedire l'accesso alle misure alternative, attraverso l'inasprimento delle sanzioni edittali di alcuni illeciti o l'adozione di meccanismi preclusivi all'accesso dei benefici, ora a svuotare gli istituti carcerari, anche mediante il ricorso a procedure di indulgenza, al solo fine di migliorare le condizioni di vita dei detenuti. E ciò non senza una ragione. Ed invero, il problema principale che si è prospettato e che si prospetta tutt'oggi nella costruzione del sistema penitenziario consiste nel conciliare due esigenze contrapposte: mantenere l'ordine e garantire la sicurezza negli istituti di pena, da un lato, ed attuare la finalità rieducativa del trattamento penitenziario, dall'altro. Il sistema delle misure alternative alla detenzione sembra essere stato adottato – e modificato nel tempo – proprio per rispondere compiutamente alla necessità del contemperamento tra queste due esigenze. Da una parte, infatti, sono state elaborate una serie di misure volte a favorire, in presenza di particolari requisiti, la risocializzazione del detenuto attraverso un percorso rieducativo che possa svolgersi anche mediante attività aventi luogo all'esterno degli istituti di pena; dall'altro, sono stati adottati meccanismi preclusivi con riferimento all'accesso a tali misure nei confronti di alcune categorie di rei, considerati – evidentemente – non rieducabili o, comunque, non meritevoli della chance di reinserimento nella società. Il bisogno di sicurezza sociale ha finito, quindi, per giustificare in alcuni casi la selezione dei comportamenti criminosi e la conseguente classificazione dei nemici. Si parla di diritto penale del nemico o di diritto penale d'autore, quando si intende evocare che ciò che è punibile non è più il reato ma il reo e, nello specifico, per quello che è, e non per quello che fa. Su questa scia è stata promossa l'anticipazione della criminalizzazione a condotte lontane dalla lesione o messa in pericolo di un bene, nonché l'imposizione di pene ben lontane dall'idea della proporzionalità. Il fenomeno in questione, ricondotto alla cosiddetta giustizia emotiva, presenta non pochi problemi di compatibilità con i principi costituzionali di riferimento del sistema penale e, più in particolare, dell'ordinamento penitenziario. Ad essere criminalizzato, infatti, è un particolare status (come, ad esempio, quello di immigrato irregolarmente introdottosi nel territorio dello Stato), anche in assenza di condotte atte ad offendere qualsivoglia bene giuridico. Ancora, in ossequio alla stessa ratio, viene fortemente limitato, se non del tutto precluso, l'accesso alle misure alternative ad alcune categorie di rei, ora perché questi si sono macchiati di colpe particolarmente odiose (come in materia di reati sessuali), tali comunque da non considerarli "meritevoli" di accedere ai benefici penitenziari, ora perché i meccanismi prescelti per valutare l'idoneità degli stessi ai fini della concessione delle misure alternative sono talmente fumosi – nella loro formulazione legislativa – da non essere suscettibili di applicazione concreta. Col terribile paradosso secondo cui proprio coloro che sarebbero maggiormente bisognosi di un trattamento rieducativo ai fini del loro reinserimento sociale si vedono, di fatto, negare questa chance dall'ordinamento. Nel corso degli anni, il fenomeno in questione si è sviluppato non solo a causa dei provvedimenti legislativi emergenziali adottati per rispondere alle esigenze di sicurezza sociale, ma anche a cagione di alcuni orientamenti giurisprudenziali, di merito e di legittimità, che, hanno di fatto reso impossibile, ad alcune categorie di soggetti, l'accesso alle misure alternative alla detenzione, pur in assenza di espresse preclusioni stabilite dalla legge. Ciò è accaduto, ad esempio, in relazione alle ipotesi di ingresso irregolare dello straniero nel nostro Stato, categoria cui è stato per lunghissimo tempo negato l'accesso a tutte le misure alternative, sulla base del presupposto per cui la condizione di irregolare non avrebbe consentito la legittima permanenza del soggetto sul territorio nazionale nemmeno al fine di portare a termine il progetto rieducativo. É il caso, altresì, degli autori dei delitti in materia di violenza sessuale, per i quali la legge prevede un iter non solo particolarmente complesso, ma anche fumoso, tale da non essere concretamente praticato. É il caso, ancora, del soggetto condannato per il delitto di evasione, in relazione al quale viene di fatto negato anche il beneficio della liberazione anticipata, che è del tutto scollegato dall'ottica "meritocratica", sul piano della condotta, cui soggiacciono tutte le misure alternative contemplate nella l. 354 del 1975. Alla luce di tali elementi, la scrivente si è proposta di analizzare lo stato dell'arte dell'attuale sistema dell'ordinamento penitenziario per svolgere una riflessione critica su come ed in che misura il principio rieducativo, così come pensato dai Padri Costituenti, venga adottato dal Legislatore e dalla giurisprudenza come cartina di tornasole nella difficile gestione del detenuto e dell'internato. Si è potuto osservare come, spesso, rispetto a rigidi automatismi normativi pensati per rispondere alle esigenze di particolari momenti storici, caratterizzati da un peculiare allarme sociale in relazione a specifiche figure di reato o categorie di rei, sia stato necessario l'intervento della Corte Costituzionale al fine di riaffermare la prevalenza che deve essere tributata, nel contemperamento con le esigenze general e special preventive, alla finalità rieducativa ed alla risocializzazione del reo. Molti interventi della Corte, invero, ad esempio in tema di recidiva o di diritto penale dell'immigrazione, sono stati finalizzati a far cadere il sospetto che, pur nella sua discrezionalità, il legislatore avesse creato delle preclusioni normative basate sul tipo d'autore, poiché costruite in modo del tutto scollegato dallo specifico fatto di reato commesso ed in assenza di qualsivoglia prognosi sul comportamento futuro del detenuto. Si è, altresì, evidenziato come nel corpo dell'ordinamento penitenziario vi siano ancora numerose cause ostative all'accesso ai benefici che appaiono ingiustificate ovvero, rectius, giustificate solo allorquando si ammetta che le esigenze di sicurezza sociale sono state ritenute, in quello specifico frangente, maggiormente meritevoli di tutela rispetto alla risocializzazione del detenuto. Si è rilevato, purtroppo, che in tali ipotesi o vi è stato un sostanziale disinteresse della Corte Costituzionale, individuato in quei casi in cui le corti territoriali hanno sollevato questioni di legittimità basate sulla pretesa violazione dell'art. 27 co. 3 Cost. (come nell'ambito dei cosiddetti reati di terza fascia, ex art. 4-bis ord. pen.), senza che si addivenisse ad una decisione sul merito della vicenda; ovvero un ingiustificato silenzio sia da parte del giudice delle leggi che della giurisprudenza di merito dei tribunali di sorveglianza (come nel caso del detenuto condannato per evasione). Con la conclusione, fondata sul personale convincimento di chi scrive, che evidentemente per tali categorie di detenuti l'espressione di un giudizio di meritevolezza ai fini della concessione dei benefici penitenziari risulta innegabilmente più agevole se fondato su presunzioni assolute di pericolosità in ragione del titolo di reato commesso. Inoltre, l'analisi delle modifiche normative susseguitesi in ambito penitenziario, anche aventi contenuto favorevole per i condannati - quando operanti un ampliamento delle ipotesi di accesso alle misure alternative o ad altre misure premiali ad esse equiparabili - ha consentito di constatare come le esigenze connesse alla gestione della problematica del sovraffollamento carcerario abbiano svilito a tal punto il principio rieducativo da consentire l'espiazione della pena al di fuori degli istituti anche a categorie originariamente pretermesse dall'accesso alle misure alternative. In tal modo sono state create delle situazioni di sostanziale discriminazione, poiché detenuti macchiatisi dello stesso illecito hanno potuto godere di agevolazioni differenti a seconda del tempus commissi delicti, atteso che i decreti cosiddetti "svuotacarceri" hanno sempre efficacia ed operatività limitate nel tempo. L'analisi condotta ha, quindi, consentito di appurare che nell'attuale sistema penitenziario vi sono ancora numerose zone d'ombra, nelle quali il rispetto della finalità rieducativa della pena nonché del principio di eguaglianza, nonostante i progressi fatti nel corso degli anni, cede ancora il passo alla cosiddetta giustizia emotiva ed a scontati automatismi volti ad impedire l'accesso ai benefici nei confronti di alcuni tipi di autore di fatti illeciti.
Le Forze Armate dei Paesi membri dell'Alleanza atlantica annoverano tra i loro ranghi, sebbene sovente con limitazioni di specialità o di categoria, personale femminile la cui integrazione, in un ambito lavorativo storicamente dominato da cultura e dinamiche mono-genere, è oggetto di questo studio. Dopo oltre un decennio dall'apertura all'arruolamento femminile da parte delle ultime Forze Armate che erano ancora caratterizzate dalla presenza esclusivamente maschile, si ritiene che le fasi della resistenza al cambiamento e della conseguente conflittualità tra generi siano oramai superate e si debba rivolgere l'attenzione verso i fattori che possono ostacolare od agevolare un'equilibrata integrazione di genere. Si è inteso dunque analizzare le politiche di genere che, poste in essere dalla NATO come Organizzazione sovranazionale, si riverberano su quelle attuate dalla NATO come alleanza di nazioni sovrane che, seppur indipendenti nella scelta della tipologia di Forze Armate da perseguire, devono adeguarsi ai requirement internazionali. Questa scelta è però condizionata dalle esigenze operative conseguenti dagli impegni assunti dall'Alleanza che, nel corso della propria storia ultra sessantennale, si è trasformata da mero strumento di difesa militare comune ad attore che affronta la globalità delle tematiche inerenti la sicurezza sul proscenio internazionale. Difatti, la fondazione della NATO prese le mosse dalla necessità dei Paesi europei di bilanciare lo strapotere numerico delle Forze Armate sovietiche che incutevano la paura di un'incombente invasione dei territori occidentali. Tale minaccia poteva essere scongiurata solo facendo ricorso ad un patto di mutuo soccorso con l'altra superpotenza all'epoca presente sullo scacchiere geostrategico mondiale – gli Stati Uniti d'America – e creando un'Organizzazione per la difesa comune. Le modalità con cui questo scopo è stato perseguito hanno conosciuto varie fasi di trasformazione, testimoniate dai diversi Concetti Strategici che sono oggetto – nel primo capitolo della ricerca – di un'analisi storico-politica.Il ricorso ad un approccio semantico e filologico nello studio dei prefati documenti, è significativo della multidisciplinarità cui si ispira questa ricerca che spazia dalla geopolitica alla geostrategia, dalla storia alla sociologia, attraverso l'analisi di documenti e la raccolta – di stampo giornalistico – di opinioni e testimonianze. Nel corso dei decenni, le Forze Armate che individuavano nelle armi nucleari e nella costante deterrenza il fattore di equilibrio per evitare che la Terza Guerra Mondiale abbandonasse il suo aggettivo di Fredda e fosse combattuta sui campi di battaglia, si trasformarono in strumenti più flessibili capaci di fornire peso alle risposte politico-diplomatiche per la risoluzione delle crisi. Questa nuova e necessaria flessibilità operativa ha richiesto anche all'interno degli strumenti militari una dimensione che non fosse esclusivamente votata al combattimento ma anche rivolta ad altre aree di conoscenza professionale che prefiguravano l'impiego di nuove professionalità. In tal senso le donne in uniforme hanno cominciato a ritagliarsi uno spazio sempre crescente nell'ambito delle Organizzazioni militari, affrancandosi dai ruoli esclusivamente di supporto in cui erano state relegate per anni anche perché quegli stessi ruoli cominciavano ad assumere un'importanza fino all'epoca sconosciuta. Questo processo è stato naturalmente reso possibile da differenti concause anche non direttamente afferenti al settore di studio come, ad esempio, l'emancipazione sociale raggiunta dalle donne in alcune nazioni che ha tracciato la strada per consentire l'impiego femminile in svariati contesti lavorativi. Con la fine della contrapposizione dei blocchi Est-Ovest a causa dell'implosione del sistema politico economico sovietico, sembrava essere giunto il momento di scrivere l'epitaffio dell'Alleanza che, come una società disciolta per conseguimento dell'oggetto sociale, non doveva più garantire la sicurezza comune che rappresentava l'essenza della propria esistenza. Il corso della Storia ha però voluto che proprio il termine della Guerra Fredda, ed il conseguente passaggio ad un mondo unipolare dominato dall'egemonia statunitense, delineasse nuovi scenari in cui la NATO si sarebbe rivelata non solo utile ma addirittura indispensabile. Infatti, lo smembramento e la trasformazione degli apparati militari –in quella parte di globo fino allora controllata dall'Unione Sovietica – provocò un aumento dell'instabilità e la moltiplicazione delle possibili minacce. Lo scongelamento delle relazioni internazionali con molti dei Paesi prima gravitanti nell'orbita sovietica, e la contemporanea diminuzione del potere politico della Russia rispetto a quello della disciolta Unione, consentì un interventismo fino allora impedito dal precario equilibrio bipolare. La risposta fornita da altre Organizzazioni Internazionali – quale l'intervento delle Nazioni Unite in Somalia – si rivelò inadeguata e la NATO, unica ad avere uno strumento militare integrato, assunse il ruolo di appaltatore monopolista della sicurezza globale attraverso le Crisis Response Operations che cominciarono con l'intervento in Bosnia Herzegovina. Nell'ambito del secondo capitolo si analizzano quei fattori che hanno concorso a delineare uno scenario favorevole all'integrazione femminile nelle Forze Armate. Nel corso degli anni la complessità delle Operazioni condotte dalla NATO – avvalendosi di solito di un mandato delle Nazioni Unite o appellandosi al principio d'ingerenza umanitaria – è andata crescendo in maniera esponenziale fino a raggiungere il suo picco con l'intervento militare in Afghanistan; grazie alle mutate esigenze operative le donne divenivano un fattore indispensabile per la riuscita delle Operazioni ed il loro ruolo era internazionalmente accreditato dall'adozione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite 1325. Per la prima volta, infatti, le donne non erano solo oggetto passivo di protezione ma erano chiamate ad assumere un ruolo attivo nei processi di ricostruzione sociale nelle zone di intervento delle Organizzazioni Internazionali.La Risoluzione auspicava un numero crescente di donne coinvolte nelle fasi di ricostruzione – tra queste erano comprese le donne in uniforme che agivano sotto l'egida della NATO – in grado di imprimere un concreto gender mainstreaming alle stesse. Le relazioni per niente idilliache tra ONU e NATO che erano andate avanti per decenni tra la diffidenza reciproca, si rasserenarono per necessità o per virtù fino a far divenire l'Alleanza uno degli Organismi più attivi nell'implementazione del disposto della Risoluzione 1325. Le donne militari traggono dunque vantaggio da un momento storico particolarmente favorevole alla loro integrazione e che discende da fattori contingenti di natura sociale, politica, militare ed economica stratificatisi nel corso degli anni. Lo status quo dell'integrazione, descritto nel terzo capitolo, evidenzia le variegate realtà delle Forze Armate dell'Alleanza che si diversificano a seconda dell'incidenza dei suddetti fattori, fino a delineare quattro tipologie di leadership con riferimento alle politiche di genere. Nel corso della ricerca, specificatamente nel corso del quarto capitolo, si sono altresì individuati quegli aspetti che rappresentano, di contro, un freno al processo integrativo e che sono stati individuati nelle manchevoli politiche necessarie a garantire, in primo luogo, una sufficiente presenza e, in seguito, un ruolo adeguato delle donne nelle Forze Armate. Le politiche di recruitment e retention applicate dalla maggior parte dei Paesi membri sono sovente tese alla pedissequa applicazione della normativa generica e non all'adattamento della stessa alla particolarità della professione militare. Inoltre, proprio ciò che abbiamo indicato con il termine "militarità" si configura come fattore che limita l'attrattiva della professione a causa della prerogativa di totale abnegazione – in termini di mobilità, sacrifici personali e famigliari – richiesta a chi indossa l'uniforme. Tale specificità è stata suffragata dai dati concernenti la presenza di personale civile femminile nei dicasteri della Difesa nazionali e nella stessa NATO.Nonostante i notevoli progressi compiuti dalle Forze Armate nell'inclusione femminile, l'ancora insufficiente percentuale di donne ed il loro impiego secondo politiche che non ne favoriscono la progressione di carriera, impedisce il formarsi di una leadership femminile che possa apportare nuove e differenti dinamiche all'interno degli apparati militari. Le donne militari si ritrovano invece a subire un inevitabile processo di omologazione, con un conseguente principio di mascolinizzazione di genere che non permette il raggiungimento di un'integrazione che, per essere soddisfacente, presuppone cifre professionali e comportamentali proprie e specifiche. La mera presenza femminile ed il replicare senza innovare una professione che è da sempre ad appannaggio maschile, con la conseguenza di ottenere risultati spesso considerati inferiori, non sottendono ad un'integrazione di successo. Tali considerazioni sono state corroborate anche dai risultati dell'indagine sociologica – condotta su un campione di cinquecento militari uomini e donne e di omologhi colleghi civili – dai quali emerge che l'assenza di riferimenti omogenere e la limitata applicazione dei fattori agevolanti non favoriscono il processo di integrazione delle donne in uniforme. La situazione presenta dunque una duplice connotazione: da un lato il processo di integrazione è oramai al suo stadio finale giacché l'accesso alla professione e l'accettazione verso la componente femminile hanno raggiunto valori soddisfacenti, dall'altro vi è la necessità di completare il processo attraverso azioni che si sviluppino lungo quattro direttrici. Impedire la mascolinizzazione di genere, garantire pari dignità d'impiego, costruire una cultura della professione, adottare politiche agevolanti, sono i pilastri per raggiungere un'integrazione piena e completa. Il lungo processo storico che ha portato all'attuale situazione – che rappresenta un'eccezionale congiuntura di fattori favorevoli – potrebbe nei prossimi anni essere sprecato qualora le autorità politiche e militari non dovessero compiere l'ultimo e decisivo passo verso la definizione di un ruolo delle donne in uniforme che sia consono alle professionalità espresse ed ai sacrifici compiuti.
Oghje hè diventatu cumunu di dì chì u seculu XVI hè un'epica impurtantissima per a cultura francese : u francese, lingua « bassa » in cunfrontu incù u latinu, averebbe tandu avutu accessu à e più alte funzione di a cummunicazione. Ma, l'affirmazione segondu a quale a lingua vernaculare averebbe cambiatu di statutu hè fundata à nantu à dui testi precisi. U primu, hè l'Ordonnance di Villers-Cotterêts, prumulgatu da François 1u in u 1539 è chì face di u francese a lingua di a ghjustizia. Dece anni dopu, a Défense et Illustration de la langue française, manifestu di u gruppu di a Pléiade, scrittu da Joachim du Bellay, accerta chì a lingua francese hà e qualità necessarie per cunquistà tutti i duminii di a cultura, per via di [a creazione da imitazione /a ripruduzzione] di l'Antichi è l'arrichiscimentu di u lessicu. L'insignamentu di a literatura francese, è più particularamente à u livellu di u liceu, porta sti dui presupposti dapoi una stonda, senza piglià in cunsiderazione fatti acquisti da a ricerca.Chì, in i fatti, u cumbattu à prò di a lingua francese hà principiatu dapoi u seculu XVI, ciò chì li hà permessu di cunquistà parechji campi di a cultura. D'altronde, François 1u ùn hè statu u primu monarcu à interessà si à u vernaculare ; si scrive ind'e una cuntinuità chì hà digià legittimatu u francese cum'e lingua ghjudirica è amministrativa. [A cuncepitura /a recezzione] oghjinca di stu prinicipiu di XVI esimu seculu è di a Pléiade, po esse dunque qualificata di « mitu ».E nostre ricerche anu palesatu ch'ellu era à u seculu XVI, chì sta creazione hè nata. Più precisamente, ci hà da vulè trè riletture, da ch'ellu sia stabilitu u mitu di a Pléiade simile à quellu ch'omu insegna in Francia oghje. Ste sfarente riletture sò u fruttu d'una recezzione sfarente di l'opere di i sculari di Coqueret. In un Europa in rinnovu, duve l'affirmazione di l'identità tedesca si vole di più in più agressiva, l'egemunia di a cultura francese hè rimessa in causa. Si pone tandu a dumanda di u valore è di l'essenza stessa di a literatura francese. Ste trè riletture sò altrettante risposte à sta dumanda. Un omu hè l'autore di duie trà di elle, Charles Augustin Sainte-Beuve, chì à traversu e duie edizione di u so Tableau historique et critique de la poésie française et du théâtre français au XVIe siècle custruisce tutte e cumpunente di u mitu. Per via di l'imitazione di e forme è di e figure stilistiche, i Parnassiens permettenu di fissà l'idee di Sainte-Beuve, è di fà accede i pueti di a Pleiade à u rangu d'autori classichi.Vene tandu l'ultima tappa ind'e l'elaburazione di u mitu: a so perennisazione per via di a scola di a Terza Republica Opportunista. Dopu à a perdita di l'Alsazia-Lurrena è dopu guasi più d'un seculu di rivolte pupulare, l'ora hè à a custruzzione d'un mudelu di guvernanza stabule. L'opportunisti, da stabilì a Terza Republica in u tempu, s'appoghjanu à nantu à a creazione d'un sintimentu naziunale forte, cimentu di a nazione, è guarante di a stabilità pulitica. A cultura, è dunque a literatura diventanu un inghjocu naziunale. In u novu rumanzu naziunale literariu cusì creatu, a rilettura di Sainte-Beuve hè ripigliata à u nome d'un certu numeru di valore difese da l'Upportunisti fendu accede à u Panthéon di i grandi Autori Ronsard è du Bellay. ; Nowadays it has become commonplace to say that the 16th century is a very important period for the French culture : French ,until now considered as « low »language , compared with Latin,would have risen the highest post in communication.Nevertheless the assertion that the vernacular language would have changed status is mainly based on two texts.The first one ,the Ordinance of Villers-Cotterets,is signed into law by Francis I in 1539 , and calls for the use of French in all legal acts.Ten years later , ''A Defense and an Illustrationof the French language,manifesto of La Pleiade by Joachim du Bellay,ensures that the French language owns the necessary qualities to fill all areas of culture ,via the creation by copying ancient authors and by the vocabulary's enrichment.The teaching of the French language ,especially at high school level,has been conveying for a long time these two presuppositions,without taking into account the knowledge of facts acquired from research.Because actually,the fight for the French language has been going on since the fourteenth century, which has already enabled it to take over many fields of culture.In addition , Francis I isn't the first monarch to be interested in the vernacular ; he represents a continuity that has already legitimized French as alegal and administrative language.The current reception of that beginning of the sixteenth century and of la Pleiade ,can therefore be described as a « myth ».Our research showed that this creation had emerged on the nineteenth century .More precisely, three re-reading were necessary in order to set up the myth of la Pleiade just like taught nowadays in France .Those different re-reading are the result of a different reception of the works by Coqueret's students.In a changing Europe ,while the assertion of the German identity is becoming more and more aggressive ,the hegemony of the French culture is being called into question.The question then arises of the value and of the essence of French literature.Those three re-reading are so many answers to this question.There's a man who is the author of two of them.It's Charles Augustin Sainte- Beuve, who ,through both editions of his « Tableau historique et critique de la poésie française et du théâtre français au XVIe siècle » builds all the elements of the myth.Thanks to the imitation of forms and stylistic devices,the Parnassians were enable to consolidate Saint-Beuve's ideas classing the poets of la Pleiade with classical authors.Here comes the final stage in the elaboration of the myth : its sustainability through the school of the Third Opportunist Republic .After the loss of Alsace -Lorraine and after nearly a century of popular uprisings, it's time to build a stable governance model. To establish the Third Republic over the long therm , the Opportunists rely on the creation of a strong national feeling that binds our nation and that is the guardian of political stability.Culture and therefore literature become a national issue.With the creation of this new national literary novel,the re-reading of Sainte -Beuve on behalf of a number of values upheld by the Opportunists gives access to the Pantheon of the great Authors to Ronsard and Du Bellay. ; Il est aujourd'hui devenu banal de dire que le XVIe siècle est une période très importante pour la culture française : le français, jusqu'alors langue « basse » par rapport au latin, aurait accédé aux plus hautes fonctions de la communication. Or, l'affirmation selon laquelle la langue vernaculaire aurait changé de statut est fondée sur deux textes en particulier. Le premier, l'Ordonnance de Villers-Cotterêts, est promulgué par François 1eren 1539 et fait du français la langue de la justice. Dix ans plus tard, la Défense et Illustration de la langue française, manifeste du groupe de la Pléiade, écrit par Joachim du Bellay, assure que la langue française a les qualités nécessaires pour occuper tous les domaines de la culture, via la création par imitation des Anciens et l'enrichissement du lexique. L'enseignement de la littérature française, au niveau du lycée particulièrement, véhicule ces deux présupposés depuis longtemps, sans tenir totalement compte de la connaissance des faits acquise par la recherche.Car, en vérité, le combat pour la langue française a commencé depuis le XIVesiècle, ce qui lui a déjà permis de conquérir bien des champs de la culture. En outre, François 1er n'est pas le premier monarque à s'intéresser au vernaculaire ; il s'inscrit dans une continuité qui a déjà légitimé le français comme langue juridique et administrative. La réception actuelle de ce début du XVIesiècle et de la Pléiade, peut donc être qualifiée de « mythe ».Nos recherches ont montré que c'est au XIXesiècle que cette création a vu le jour. Plus précisément, il aura fallu trois relectures pour que soit établi le mythe de la Pléiade tel qu'on l'enseigne aujourd'hui en France. Ces différentes relectures sont le fruit d'une réception différente des oeuvres des élèves de Coqueret. Dans une Europe en renouvellement, alors que l'affirmation de l'identité allemande se veut de plus en plus agressive, l'hégémonie de la culture française est remise en cause. Se pose alors la question de la valeur et de l'essence de la littérature française. Ces trois relectures sont autant de réponses à cette interrogation. Un homme est l'auteur de deux d'entre elles, Charles Augustin Sainte-Beuve, qui, à travers les deux éditions de sonTableau historique et critique de la poésie française et du théâtre français au XVIe siècle construit toutes les composantes du mythe. Grâce à l'imitation des formes et des procédés stylistiques, les Parnassiens permettent de fixer les idées de Sainte-Beuve, et de faire accéder les poètes de la Pléiade au rang des auteurs classiques.Vient alors la dernière étape dans l'élaboration du mythe : sa pérennisation via l'école de la Troisième République Opportuniste. Après la perte de l'Alsace-Lorraine et après près d'un siècle de soulèvements populaires, l'heure est à la construction d'un modèle de gouvernance stable. Les Opportunistes, pour établir la Troisième République dans la durée, s'appuie sur la création d'un sentiment national fort, ciment de la nation, et garant de la stabilité politique. La culture, et donc la littérature deviennent un enjeu national. Dans le nouveau roman national littéraire ainsi créé, la relecture de Sainte-Beuve est reprise au nom d'un certain nombre de valeurs défendues par les Opportunistes faisant accéder au Panthéon des grands Auteurs Ronsard et du Bellay.
Il presente lavoro si propone di analizzare l'adozione delle cd. forme associative comuni nell'attuale quadro del diritto dell'Unione Europea, volgendo particolare attenzione agli aspetti legati al diritto di stabilimento delle società all'interno dell'Unione, alla loro capacità di mobilità, e alle conseguenti implicazioni sul fenomeno della cd. concorrenza "verticale" ed "orizzontale" fra ordinamenti. Il presente studio si concentra in via preliminare sulla mobilità delle società "nazionali" e sui problemi connessi al loro riconoscimento nello spazio europeo, per poi soffermarsi sui modelli societari comuni introdotti all'interno dell'ordinamento comunitario, ovverosia il Gruppo Europeo di Interesse Economico (GEIE), la Società Europea (SE), la Società Cooperativa Europea (SCE), la proposta di regolamento (poi ritirata) circa la Società Privata Europea (SPE) e la più recente proposta di direttiva relativa alle società a responsabilità limitata con un unico socio (SUP). La ricerca analizza i tratti costitutivi di ciascuno dei predetti modelli associativi, introdotti nel tentativo di ovviare alle difficoltà incontrate dai privati in seno alle proprie società nazionali in situazioni legate allo spostamento e in generale alla mobilità delle società stesse, in primis in fase di trasferimento della sede. Infatti, se in astratto il diritto di stabilimento garantito dal Trattato è pieno, nella pratica esso incontra numerosi ostacoli che ne rendono complessa l'attuazione. Sul punto, si è cercato di evidenziare come gli ostacoli alla capacità di mobilità societaria derivino principalmente dalle diversità esistenti tra le legislazioni sostanziali emanate a livello nazionale in materia societaria, nonché tra le varie norme di conflitto adottate dagli Stati membri in riferimento alle società. Si vedrà quindi come, in casi di trasferimento transfrontaliero della sede sociale, ciascuno Stato membro utilizzi i propri criteri di collegamento e, di conseguenza, una legge applicabile alla fattispecie di volta in volta differente. Non a caso, dati gli interessi dei vari Stati, quando una società intende "uscire" dal proprio ordinamento, non le è in genere consentito di operare un semplice trasferimento, ma le viene richiesto di cessare la propria attività e, successivamente, ricostituirsi nello Stato di destinazione. Al riguardo, non si potrà comunque tralasciare di evidenziare come gli organi comunitari abbiano in verità "lasciato cadere" la possibilità di fornire una più dettagliata disciplina in materia, abbandonando in un certo qual modo la proposta di direttiva sul trasferimento transfrontaliero della sede sociale. Con riferimento a ciascun modello associativo comune, vengono analizzati, in particolare, la procedura di costituzione, gli assetti di governance, comprensivi dell'organizzazione e del funzionamento degli organi di amministrazione e degli organi di controllo societario, e le cd. situazioni patologiche della vita delle società, anche nell'ottica di tutela dei creditori, con specifico riferimento alla disciplina di scioglimento e liquidazione. Di pari passo, il presente lavoro si propone di approfondire la pratica di trasferimento di sede realizzata tramite fusione, situazione che – diversamente dal trasferimento di sede tout court – pare essere circondata da un minor numero di problemi, anche in virtù della direttiva 2005/56/CE relativa alle fusioni transfrontaliere e della giurisprudenza della Corte (ad es., caso Sevic), che hanno fornito un efficace ed esaustivo quadro regolatore. La ricerca contiene, poi, una digressione circa la giurisprudenza emanata dalla Corte in materia, a partire dai casi Daily Mail, Centros, Überseering, Inspire Art, fino a giungere alla decisione nel caso Cartesio, che ha aperto nuovi problemi interpretativi rispetto alla problematica del trasferimento, limitando in qualche modo la scelta del diritto applicabile, mettendo in luce gli ulteriori sviluppi dei principi giurisprudenziali in punto di diritto di stabilimento espressi nei casi National Grid e Vale Építési. Quest'ultimo profilo comporta, inoltre, un esame circa la natura del fenomeno di cd. concorrenza fra ordinamenti giuridici: infatti, il cittadino europeo, che si trova a cospetto di differenti ordinamenti giuridici all'interno dei quali inserire la propria società, potrebbe optare per una scelta (i) in fase di costituzione della società o (ii) anche successivamente, durante la "vita" della società stessa. Tuttavia, come si è evidenziato, la seconda situazione si attuerebbe tramite la procedura di trasferimento di sede, che però risulta problematica. Le varie imprese sono pertanto chiamate a scegliere l'ordinamento a cui sottoporsi già in fase di costituzione, andando così a collocare gli ordinamenti stessi su un piano reciprocamente competitivo. La ricerca, peraltro, non verte solamente sul fenomeno di concorrenza orizzontale (tra i vari Stati membri), ma anche su quello di concorrenza verticale (fra gli Stati membri e l'Unione), in quanto intende verificare in che modalità e in che misura, fino al momento in cui si scrive, siano stati utilizzati i predetti modelli associativi comuni da parte degli operatori. La citata analisi sulla concorrenza fra ordinamenti a livello europeo include, infine, un approfondimento circa il medesimo fenomeno in atto negli Stati Uniti, dove il sistema concorrenziale fra i 50 Stati vige ormai da più di un secolo, e mira ad evidenziarne ambiti di uniformità e differenze rispetto al modello europeo. Tra queste ultime, viene attribuito particolare peso all'assenza di modelli societari di tipo federale negli Stati Uniti, cui va di pari passo la costante scelta di specifici Stati storicamente "favorevoli" alla costituzione di entità societarie – su tutti il Delaware – che risultano particolarmente appetibili per i privati, anche grazie all'istituzione di sofisticate infrastrutture giudiziarie che vedono la presenza di tribunali altamente specializzati, competenti a dirimere controversie nella sola materia societaria. ; The work aims at examining the adoption of the so called "harmonized corporate vehicles" in the European Union, with particular attention to the legal issues connected with the right and freedom of establishment of companies within the EU, their capacity of cross-border mobility and consequent implications on the phenomenon of "vertical" and "horizontal" state competition. The work preliminarily focuses on the mobility of national companies, as well as on problems connected with their recognition in the European area, and then examines each of the harmonized corporate vehicles introduced in the EU, i.e., the European Economic Interest Grouping (EEIG), the European Company (SE), the European Cooperative Company (SCE), the Proposal of a European Regulation on the European Private Company (SPE) withdrawn by the Commission in 2013 and the Proposal for a Directive on the Single-member Private Limited Liability Company (SUP) issued in 2014. The research examines the corporate features of each harmonized vehicle, which were introduced with a view to remedy the difficulties usually encountered by business operators and national companies in circumstances of cross-border mobility, in particular while transferring the corporate seat. In fact – on one hand – the right of establishment granted by the European Treaty is full, but – on the other hand – the exercise of such right in concrete is quite difficult. In this respect, the work tries to outline that the obstacles to corporate mobility are mainly due to the diversities existing among material legislations adopted by the Member States in the corporate field, as well as to the different rules of private international law adopted by the Member States over companies. Attention is also paid to the different criteria used by the Member States to regulate cross-border transfers of the seat, which fact usually triggers the application of different applicable laws. The work examines, for each of the abovementioned vehicles, the issues connected with their incorporation, governance (including the structure and organization of managing and audit bodies), dissolution and liquidation, also paying attention to the profiles of protection of creditors. The work also explores the situation of transfer of the seat abroad through merger: this option, in fact, differently from the "typical" transfer of the seat, appears to be less difficult, mainly due to the application of Directive No. 2005/56 on cross-border mergers and also in light of the case-law of the EU Court of Justice (e.g., Sevic case), which have provided for an efficient and exhaustive regulative framework. The research includes a specific chapter on the case-law developed by the EU Court of Justice with regard to corporate transnational mobility, focusing on the Daily Mail, Centros, Überseering and Inspire Art case-law, until the Cartesio decision – which has brought some new interpretative problems on practices of transfer of the seat by limiting the choice of applicable law – and including the most recent decisions issued by the Court in National Grid and Vale Építési cases. The latter profile then triggers an analysis of the state competition phenomenon: the European citizen, in fact, can choose among different jurisdictions to incorporate his company either during the incorporation procedure or after incorporation, by transferring the corporate seat. The second option, however, appears to be quite problematic. Operators are thus required to choose the jurisdiction to incorporate their companies at the very beginning, by posing Member States in mutual competition. In this respect, anyway, the work not only outlines the presence of a "horizontal" competition (involving the different Member States), but also stresses on the presence of a "vertical" competition (involving the Member States and the EU), to verify if and how the harmonized European vehicles have been used by business operators and entrepreneurs so far. The analysis of state competition at a European level includes a digression on the long-standing competition existing in the U.S. among the 50 States, to highlight similarities and discrepancies between the European and the American model. In the last chapter, particular attention is paid to the absence of "federal corporate models" in the U.S. and to the choice of specific States which were generally deemed favorable to incorporations (e.g., Delaware) thanks to a sophisticated legislative and judiciary infrastructure implemented over years.
[ita] La presente tesi si concentra sui processi di decentramento in Italia e Spagna, analizzando l'impatto dei mutamenti del quadro giuridico europeo sull'autonomia finanziaria regionale. L'ordinamento finanziario sovranazionale è stato infatti ampiamente modificato negli ultimi anni (specialmente con riferimento alla c.d. "Eurozona") per affrontare le pressanti sfide di natura macroeconomica derivanti dalla crisi del debito sovrano, che ha coinvolto svariati Stati Membri. L'analisi del tema proposto viene effettuata con il metodo della comparazione, prendendo in considerazione gli ordinamenti italiano e spagnolo. Tale scelta metodologica riposa essenzialmente su due elementi, che integrano il requisito della comparabilità tra i due ordinamenti: a) la vicinanza strutturale e l'influenza reciproca che storicamente si è verificata tra i due modelli di decentramento (che vengono usualmente riportati alla forma – o tipo – di Stato regionale); b) la comune soggezione ai vincoli finanziari derivanti dall'ordinamento europeo, unita a una condizione di grave difficoltà finanziaria che coinvolge il sistema regionale in generale, e – in maniera più acuta – le Regioni e Comunidades Autónomas (d'ora in poi, CC.AA.) che sono state (o sono) colpite da fenomeni di mala gestio. Si presenterà ora brevemente la struttura del lavoro. I primi due capitoli parlano dello Stato regionale in Italia e in Spagna, ossia il contesto, lo "sfondo", nel quale si inserisce il tema dell'autonomia finanziaria, seguendo la contrapposizione astratto/concreto, statico/dinamico: da un lato i modelli elaborati dalla dottrina, dall'altro l'evoluzione storica delle esperienze regionali, in entrambi i casi con particolare riferimento ai profili finanziari. Il primo capitolo descrive dunque la modellistica che viene generalmente utilizzata rispetto alle forme di distribuzione territoriale del potere politico (unione di stati, confederazione, stato federale, stato regionale, stato unitario), con un particolare approfondimento per la problematica categoria dello Stato regionale e, rispetto ad esso, registrando sia le posizioni critiche sull'utilità della categoria sia la particolare rilevanza che il livello di autonomia finanziaria regionale può avere a fini classificatori. Il secondo capitolo tratta invece partitamente le due linee storiche che si incrociano nella tematica in esame. Da un lato, lo sviluppo del regionalismo in Spagna e in Italia e le varie fasi dell'autonomia finanziaria nei due ordinamenti: non sfugge infatti a chi scrive che l'attuale stato delle finanze pubbliche territoriali sia in entrambi i casi il frutto di un complesso processo di evoluzione; tuttavia – ai fini della comparazione – pare opportuno privilegiare l'aspetto sincronico a quello diacronico, concentrandosi sull'ultimo stadio di questo percorso, nel suo intreccio con un sistema normativo e decisionale sempre più complesso, nazionale e sovranazionale. Dall'altro lato, si fa appunto un quadro dell'evoluzione della governance finanziaria europea sotto l'impatto della crisi economico-finanziaria che si è originata a livello globale a partire dal 2008. Tale evoluzione costituisce infatti il presupposto dei mutamenti costituzionali e normativi che si vogliono analizzare nel presente lavoro. Il terzo capitolo, che è il più ampio del lavoro, descrive l'ordinamento finanziario di Regioni e CCAA nel quadro di un sistema normativo che ormai affonda le sue radici nel livello sovranazionale. Obiettivo di questa parte del lavoro è tanto dare conto del sistema delle fonti dell'autonomia finanziaria da un punto di vista formale, quanto esporre ed analizzare le scelte normative compiute in concreto. Al suo interno, il capitolo è tripartito: ordinamento UE, ordinamento italiano e ordinamento spagnolo. La ragione di una trattazione separata dei due Paesi sul piano delle fonti è evidente: si tratta di sistemi peculiari e non sovrapponibili. In Spagna il metodo di finanziamento delle CCAA è determinato da due importanti leggi organiche, la LOFCA (Ley Orgánica de Financiación de las Comunidades Autónomas) e la LOEPSF (Ley Orgánica de Estabilidad Presupuestaria y Sostenibilidad Financiera): diventa dunque essenziale approfondire natura e ambito di competenza di ciascuna di esse, assieme al discusso problema del rapporto tra leggi organiche e Statuti delle CCAA nel sistema delle fonti del diritto. In Italia il quadro delle fonti si è fatto nel tempo sempre più articolato: basti ricordare la previsione di una specifica legge rinforzata da parte della nuova formulazione dell'art. 81, c.6, Cost. e il ruolo della legge delega sul federalismo fiscale (l. n. 42 del 2009) nel condizionare il contenuto dei relativi decreti legislativi di attuazione. All'interno dei paragrafi relativi all'uno e all'altro Paese si cerca di porre in luce i due versanti dell'autonomia finanziaria già esplicitati in precedenza, entrata e spesa. Rispetto al''autonomia di entrata, si dà conto tanto dello spazio concesso alla potestà impositiva di Regioni e CCAA – e quindi il potere di istituire tributi propri regionali e i ccdd. tributos cedidos anche dal punto di vista normativo nel caso spagnolo – quanto del problema centrale del finanziamento delle autonomie territoriali mediante risorse derivanti dai tributi statali, nelle forme della compartecipazione al gettito degli stessi e dei trasferimenti statali. Il profilo dell'autonomia di spesa riceve poi una considerazione altrettanto approfondita. In sistemi regionali in cui la decisione sulle entrate è ancora sostanzialmente in mano al livello di governo centrale, è chiaramente l'autonomia di spesa a concretare più direttamente l'autonomia finanziaria regionale, fino a spingere taluno a coniare la categoria del federalismo fiscale "di spesa". Proprio sull'autonomia di spesa hanno però impattato in maniera più diretta la crisi economico- finanziaria, i vincoli finanziari europei e la loro attuazione a livello interno: quest'ultima è avvenuta non soltanto tramite provvedimenti del legislatore statale volti a porre un limite globale alla spesa delle autonomie, al fine di garantire il rispetto dei vincoli sovranazionali da parte del complesso dei soggetti che compongono la c.d. finanza pubblica allargata (limiti diretti all'autonomia di spesa), ma anche tramite norme di legge che incidevano su ambiti rientranti nella competenza delle Regioni, fra i quali gli aspetti ordinamentali, giustificati dallo scopo di contenimento della spesa pubblica (limiti indiretti). Il quarto capitolo approfondisce il tema delle relazioni finanziarie fra Stato e Regioni/CCAA sul piano dei principi costituzionali: a differenza del capitolo precedente, la trattazione viene svolta trasversalmente fra i due ordinamenti, nella convinzione che vi siano alcune linee fondamentali in comune fra di essi. Si delinea quindi un vero e proprio statuto costituzionale dell'autonomia finanziaria nello Stato regionale che si sostanzia nei seguenti principi: autonomia finanziaria e corresponsabilità fiscale; solidarietà; sufficienza finanziaria (connessione risorse-funzioni); coordinamento finanziario; equilibrio di bilancio e sostenibilità finanziaria; leale collaborazione. Per ciascun principio non si dà conto soltanto dei riferimenti normativi ma soprattutto dell'interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza costituzionale, istanza deputata a far "vivere" i principi nei mutamenti istituzionali e sociali tramite l'interpretazione costituzionale. Il quinto capitolo approfondisce infine un profilo spesso trascurato a livello dottrinale, ossia quello dei sistemi finanziari delle autonomie differenziate, nell'uno e nell'altro ordinamento. Nel caso italiano, il tema è quello della c.d. specialità finanziaria, che configura un percorso originale e peculiare nel quadro del regionalismo italiano. Il tema parrebbe porsi in maniera più complessa nel caso spagnolo, in virtù della potenziale asimmetria che caratterizza il sistema: tuttavia, in virtù della portata omogeneizzatrice della LOFCA, la maggior parte delle comunità autonome presenta un sistema di finanziamento sostanzialmente unitario. La reale differenziazione si coglie piuttosto rispetto al sistema del convenio e concierto autonómico seguito da País Vasco e Navarra, sistema che costituisce il portato di un lungo percorso storico e concreta una delle peculiarità del regimen foral di questi territori. Specialità finanziaria e regime forale presentano tratti di somiglianza e costituiscono esperienze meritevoli di approfondimento: essi sono da un lato oggetto di critica in entrambi i Paesi in quanto considerati "privilegi fiscali", allo stesso tempo non di rado la estensibilità dei sistemi ad alcune (o a tutte le) Regioni viene fatto oggetto di studio. ; [spa] The first two chapters deal about the "regional State" in Italy and Spain. The first chapter describes the categories that are generally used to classify the forms of territorial distribution of political power (union of States, confederation, federal State, regional State, unitary State), with particular attention to the problematic category of the regional State. The second chapter concerns the two historical aspects of the matter. On the one hand, the development of regionalism in Spain and Italy and the various phases of financial autonomy in the two systems; on the other hand, the evolution of European financial governance under the impact of the economic crisis since 2008. This evolution is, in fact, the precondition of the constitutional and legislative changes that the thesis aims to analyse. The third and fourth chapters are devoted to regional financial autonomy according to a general constitutional perspective: the third from the formal point of view, with reference to the system of sources of law, and the fourth from the substantive standpoint (constitutional principles). In particular, the third chapter deals with financial autonomy and, respectively, with tax power and power of expenditure in the Italian and Spanish cases, considering both the European Union and the internal sources of law. In relation to the tax autonomy, the thesis focuses mainly on the problem of the power of Regions and Autonomous Communities to establish their own regional taxes (and their limits), as well as on the taxes assigned by the State to the Autonomous Communities in Spain. Then, the thesis deepens the central problem of financing territorial autonomies through resources derived from State taxes, in the form of revenue sharing and State transfers. The topic of spending power also plays a central role in the research: the European financial rules and their application have a direct impact on regional spending autonomy. The problem of public debt, which is significantly regulated by the new supranational legal context, will also be considered. The fourth chapter is devoted in particular to the constitutional case law on the following principles: the principle of financial autonomy, the principle of financial sufficiency, the principle of coordination, the balance budget principle, the principle of solidarity and its limits, the principle of institutional loyalty and cooperation. Finally, the fifth chapter deals with a matter often neglected at the doctrinal level, which is the financial systems of differentiated autonomies, in both countries. In the Italian case, the Financial Specialty represents an original and peculiar way within the framework of Italian regionalism. In the Spanish case, the most important differentiation is the system of the convenio/concierto autonómico (agreement) of the Basque Country and Navarre.
In questo lavoro abbiamo analizzato l'annata 1948 del quotidiano del Partito Comunista Italiano, «l'Unità», cercando di cogliere gli elementi che potevano contribuire a definire i confini dell'idea di patria che aveva il PCI. Abbiamo preso in considerazione articoli di fondo scritti dai massimi dirigenti del partito, articoli di personalità indipendenti candidatesi con il Fronte o di semplici simpatizzanti; abbiamo analizzato articoli non firmati, cioè considerati espressione del quotidiano nella sua interezza e alcuni disegni satirici. Abbiamo indagato le retoriche presenti in questi articoli, confrontandole con quelle dei testi canonici che hanno delineato l'idea della nazione italiana. Abbiamo collocato quest'analisi nel contesto dell'Italia del 1948, un anno decisivo per le sorti dell'Italia e per la storia del Partito Comunista Italiano. Abbiamo visto che il personaggio del traditore, fondamentale nelle narrazioni nazional-patriottiche del «canone risorgimentale» è diffusamente presente nelle pagine del quotidiano del PCI in funzione antigovernativa. Ciò non solo nel corso della combattutissima campagna elettorale, ma anche dopo, quando il PCI cercava di riorganizzarsi dopo il disastroso esito delle elezioni e accusava la DC di non avere la volontà di applicare i principi sociali della Costituzione. L'accusa di tradimento sembra peraltro essere un elemento ricorrente nella visione del mondo del comunismo staliniano: il tradimento era ad esempio uno dei capi d'accusa che il partito comunista sovietico muoveva contro i dissidenti nel corso delle sue epurazioni. Il tradimento è anche la chiave di lettura con cui nel libro fatto redarre da Stalin per canonizzare la storia del comunismo sovietico, cioè Storia del partito comunista (bolscevico) dell'URSS, del 1938, venivano interpretate tutte le deviazioni di destra e di sinistra: da Bucharin, a Zinov'iev, da Trockij a Tito.1 Lo stesso procedimento era all'opera nella ricostruzione della storia del PCI fatta redarre da Togliatti in occasione del trentennale del partito: Tasca e Bordiga erano definiti traditori della classe operaia, l'uno per «opportunismo», l'altro per «settarismo». La formula del tradimento era quindi tradizionalmente presente nella cultura marxista-lenista e i massimi dirigenti del PCI erano impregnati di questa mentalità. Molti studiosi che si sono cimentati nello studio del profilo culturale dei comunisti italiani hanno sottolineato questo aspetto: David Kertzer ad esempio ha sostenuto che «at the heart of the PCI's symbolic world was the Manichean tradition of the international Communist movement».2 Per Kertzer questa visione del mondo risaliva alle origini ottocentesche del movimento operaio ed aveva ancor più antiche radici cristiane. On one side lay good, on the other evil. On one side the Communists; on the other, the capitalists and imperialists, Fascists and traitors. On the side of all that is virtuous, the Soviet Union; on the side of all evil, the United States.3 Questa ideologia che portava a identificare i propri avversari come una rete di cospiratori era tipica, aggiunge Kertzer, della retorica del dopoguerra ed aveva un corrispettivo speculare nell'anticomunismo degli USA e dei suoi paesi satelliti, come l'Italia democristiana. Kertzer evidenzia inoltre che il simbolismo manicheo del linguaggio comunista raggiunse il suo acme nel dopoguerra, quando si ebbe la necessità di isolare un nemico interno, come nel caso di Tito in sede internazionale e nel caso Magnani-Cucchi in ambito nazionale. Da questa visione del mondo manichea per Kertzer derivava una «metafora militare», in virtù della quale lo scontro elettorale era letto dai comunisti attraverso un simbolismo militare e gli avversari politici erano identificati come forze reazionarie al servizio degli stranieri.4 Angelo Ventrone ha provato a leggere la storia italiana utilizzando la chiave di lettura del «nemico interno» come strumento di lotta politica. Per Ventrone questo modo di concepire la lotta politica risalirebbe alla prima guerra mondiale quando i neutralisti vennero definiti disfattisti, e prima ancora alla guerra di Libia, e arriverebbe fino ai nostri giorni, passando ovviamente per le elezioni del primo dopoguerra.5 Giuseppe Carlo Marino ha inquadrato il tema nel clima paranoico del PCI postbellico: spie, provocatori e traditori potevano nascondersi ovunque, tanto più in un partito che era diventato di massa, per questo bisognava predisporre criteri rigidi di selezione del personale militante e dirigente. Di qui l'istituzione delle scuole di partito e l'imposizione della pratica autobiografica, perché bisognava conoscere il passato dei militanti per capire se nella loro condotta di vita, nella loro estrazione sociale e familiare, potevano esservi i germi del tradimento. Tutto ciò rendeva necessario spingere alla delazione sistematica: i compagni che notavano elementi potenzialmente anti-comunisti dovevano senza indugio denunciarli alle autorità di partito: il colpevole sarebbe stato poi giudicato e, in caso di colpa grave, sottoposto ad un processo pubblico (cioè alla presenza dei compagni).6 Sempre Kertzer situa questa ricerca del nemico interno nello spazio del mito che caratterizza la sfera politica. Citando l'antropologo francese Raoul Girardet, tra i temi che strutturano i miti politici Kertzer individua quello dell'esistenza di un diavolo cospiratore; l'esistenza di un salvatore; l'arrivo di un'età dell'Oro.7 Per lo studioso americano questi miti sono inoltre al centro della tradizione cristiana, oltre che nell'ideologia del PCI. Per Kertzer i comunisti elaborarono questa mitologia in virtù della loro visione manichea della realtà e della storia, che li portava ad identificare nell'URSS il baluardo del bene, che avrebbe strenuamente combattuto contro il male, cioè il capitalismo e l'imperialismo che in questa fase erano identificati con gli USA.8 Non bisogna però dimenticare che questa visione manichea è presente soprattutto nella prima fase della guerra fredda. Altri studiosi hanno dimostrato che i comunisti non erano una monade nella società italiana ma erano ben inseriti in essa e anche loro furono influenzati dalla cultura di massa americana. Inoltre mito americano, mito sovietico e antiamericanismo erano immagini che erano state variamente presenti nei vari strati della società italiana nel corso del Novecento.9 Due riviste come Il Politecnico e Vie Nuove sono un'ottima testimonianza di questo fatto. Patrick Mc Carthy ha ad esempio mostrato che presso gli intellettuali e i lettori di due delle principali riviste culturali del PCI, Rinascita e Il Politecnico era stato elaborato nel corso degli anni Quaranta un «mito dell'America democratica». Un mito che aveva radici nell'ammirazione della sinistra pre-marxista per l'America e che sembrava essersi rilanciato dopo la «svolta di Salerno» e l'alleanza tra URSS e angloamericani. Esso venne però schiacciato dall'inizio della guerra fredda, che aveva comportato il ritorno ad una visione acritica di un'America imperialistica e consumistica, salvo poi tornare in auge dagli anni '70.10 Stephen Gundle ha poi mostrato in un'analisi comparativa, che il settimanale popolare del PCI Vie Nuove spesso si occupava della cosiddetta «America democratica» e in generale le sue pagine erano familiari con i fenomeni «americanizzanti» che avevano influenzato le abitudini del dopoguerra, dato che si prefiggeva il compito di rispecchiare la mentalità dei suoi lettori.11 Il fatto che questa rivista fosse molto letta è assai significativo.12 Molti studiosi sono quindi concordi nel ritenere quello del tradimento un elemento centrale nella cultura del PCI del primo dopoguerra. In questo lavoro abbiamo cercato di dimostrare che il codice retorico utilizzato per sviluppare il tema in questione è tratto dal discorso nazional-patriottico ottocentesco, anche se quest'ultimo non è ripreso in blocco ma adattato alle diverse esigenze, ai differenti fini, al mutato contesto. Facciamo un altro raffronto, andando a sovrapporre quelle che Banti ha definito «quattro configurazioni sincrone»,13 con il discorso del tradimento lanciato invariabilmente da tutti i dirigenti comunisti su «l'Unità», nei confronti del governo democristiano: per Banti le narrazioni risorgimentali si svolgono sempre passando per le seguenti configurazioni: 1. « l'oppressione della nazione italiana da parte di popoli o di tiranni stranieri; 2. la divisione interna degli italiani, che favorisce tale oppressione; 3. la minaccia al nucleo più profondo dell'onore nazionale, che tale oppressione direttamente o indirettamente comporta; 4. gli eroici, quanto sfortunati, tentativi di riscatto».14 Dal raffronto con le quattro configurazioni delle narrazioni risorgimentali emergono le analogie e le peculiarità che il PCI innesta in questo discorso. Per i comunisti italiani, come abbiamo visto, l'integrità della nazione italiana è minacciata da un lato dallo straniero capitalista e imperialista americano, il quale vuole asservire militarmente il paese; dall'altro lato dall'atteggiamento servile mostrato dalla DC. I comunisti, viceversa, si considerano gli autentici difensori dell'unità e della salute della patria, insieme ai socialisti. A differenza dei patrioti del Risorgimento, però, i comunisti non esprimono avversione nei confronti degli stranieri in quanto tali, cioè gli americani, ma nei confronti del governo italiano, che si è reso servo dello straniero, e del governo degli Stati Uniti, che come abbiamo visto, in questa fase, è identificato con l'imperialismo e il capitalismo. Questo è quanto traspare dalle pagine de «l'Unità». In realtà, come abbiamo visto poco fa, l'atteggiamento del mondo comunista nei confronti dell'America è complesso e variegato nel corso degli anni e l'antiamericanismo può essere considerato un atteggiamento di avversione aprioristica nei confronti degli Usa in quanto considerato il paese in cui il capitalismo si esprime al massimo grado. Il governo d'altra parte è colpevole di accettare servilmente questa politica contraria agli interessi nazionali. Così facendo esso si macchia di tradimento, perché divide irresponsabilmente il corpo nazionale: cioè scinde la classe operaia che nella lettura propagandistica del PCI è rappresentata nella sua interezza dalle forze di sinistra, dal resto della popolazione. Invece nella visione togliattiana la classe operaia per mezzo della guerra di liberazione nazionale era diventata il nucleo della nazione e attorno ad essa si sarebbero dovute coagulare le altre forze sociali interessate ad una riforma in senso «progressivo» delle strutture economiche e sociali dell'Italia. Il PCI, viceversa, ritenendosi il principale e legittimo sostenitore della politica di unità nazionale era per Togliatti il vero sostenitore di una politica indipendente e autonoma dell'Italia in politica estera e interna. Abbiamo visto poi che i massimi dirigenti del PCI nel commemorare i caduti della Resistenza partigiana, hanno fatto ampio uso di immagini impregnate di retorica sacrificale. Le vite lasciate dai partigiani sulle montagne vengono lette cioè come un martirio che ha consentito la redenzione di un paese che si era macchiato della colpa di aver sostenuto il regime fascista e che grazie al sacrificio dei combattenti partigiani ora poteva risorgere. Questo discorso non era esclusivo del PCI: Guri Schwarz ha mostrato che negli anni del primo dopoguerra le neonate istituzioni repubblicane cercarono di ricostruire il paese dal punto di vista simbolico coniando un «patriottismo espiativo» basato sul culto dei caduti, commemorati come vittime, non come eroi. E almeno nei pochi casi che abbiamo visto, sembra proprio che quelle immagini, nelle loro fondamenta, fossero quelle coniate dal discorso nazionalista ottocentesco.15 Abbiamo poi visto che spesso viene evocato «l'onore dell'Italia». In questo caso abbiamo trovato anche alcuni tentennamenti rispetto all'utilizzo del termine «onore». Ad esempio quando l'onore viene evocato dai criminali di guerra nazisti o fascisti, su «l'Unità» si tiene a precisare che essi lo usano in un'accezione diversa o che lo fanno in modo non autentico. L'onore della patria per i comunisti è quello che i fascisti avevano vilipeso, i partigiani riscattato e che i democristiani, adesso, mettevano nuovamente a repentaglio. Ma cos'è l'onore per i comunisti, se è diverso da quello evocato dai fascisti? Evocare l'onore della nazione, da parte dei dirigenti comunisti, non sembra porre in questione la capacità degli italiani di dimostrare il proprio valore militare nel difendere la purezza delle loro donne, e quindi di mantenere puro il sangue dei membri della comunità nazionale, come avveniva nelle narrazioni risorgimentali. Forse perché questa parte del discorso nazionale era quella più compromessa con il fascismo, che aveva fatto della purezza del sangue un dato "scientifico", legato alla cosiddetta scienza della razza. Il concetto di «onore» nel lessico comunista sembra avere un'accezione lata: la parola sembra aver perso il contenuto che aveva nell'Ottocento e ancora nella prima metà del Novecento. Questo cambiamento potrebbe anche essere legato alla crisi di quello che George Mosse ha definito «Mito dell'Esperienza della guerra».16 Dopo la seconda guerra mondiale non era più possibile replicare quel meccanismo per cui dopo la Prima guerra mondiale le stragi belliche erano state trasfigurate e rese nobili per essere sopportabili, pertanto il sistema di valori che lo spazio della figure simboliche metteva in circolo non era più attivabile nella sua interezza. I comunisti sembrano utilizzare il termine «onore» piuttosto nell'accezione in cui esso è usato nell'articolo 54 della Costituzione,17 che rimanda più alla «rispettabilità», così come è stata definita dallo stesso Mosse: cioè un sistema di valori e di comportamenti che a partire dall'Ottocento aveva portato a conferire precisi ruoli agli uomini e alle donne, aveva definito i confini della normalità e dell'anormalità dei comportamenti delle persone, e che grazie all'incontro con il nazionalismo era diventato il sistema di valori dominante.18 Rimane comunque la componente bellica: i partigiani, infatti, per i comunisti hanno restituito l'onore all'Italia con la guerra di resistenza. Guerra di resistenza che, però, come abbiamo visto con Schwarz, era letta, a posteriori, come «guerra alla guerra». Così quando si accusa il governo democristiano di disonorare l'Italia per la politica di asservimento agli interessi di una potenza straniera, non c'è, se non in modo molto implicito, alcun riferimento alla violazione dell'integrità sessuale delle donne. Potremmo pensare, però, che se l'Italia fosse vista simbolicamente come una donna, come nell'iconografia nazional-patriottica, chi la vende allo straniero, di fatto la disonora. Pensiamo a questo proposito ai disegni satirici di Guttuso che abbiamo incontrato, al manifesto elettorale e alla fotografia della ceramica di Leoncillo, riprodotta su «l'Unità» per rammentare la barbarie fascista.19 Però credo che questo elemento agisca semmai a livello inconscio, cioè che sia una conseguenza diretta dell'uso di determinate componenti del discorso nazional-patriottico che, quando attivate, mettono in circuito un certo tipo di elementi simbolici che sono profondamente radicati nel profondo di ciascuno, perché legati a sentimenti percepiti e conoscibili da tutti: l'onore, l'amore, l'odio, il legame genitoriale e quello fraterno, il martirio, la redenzione e la resurrezione. Infine abbiamo visto che viene utilizzato talvolta un lessico legato alla dimensione parentale, sia in riferimento alla comunità nazionale, sia alla comunità di partito. A questo scopo viene utilizzato in blocco il lessico che il discorso nazional-patriottico aveva trasposto dalla famiglia alla patria: si parla infatti su «l'Unità» di figli, di fratelli, di padri e di madri della patria. Soprattutto le madri e i figli sono continuamente evocati. Questo dipende forse dalla vicinanza della Resistenza, che era letta dai comunisti come guerra di liberazione nazionale e come «secondo Risorgimento». Nella guerra partigiana molti giovani erano morti, molte madri avevano perso i loro figli, tanto che avevano costituito associazioni di madri e mogli di partigiani caduti.20 Quindi il tema era molto sentito. Un altro elemento da sottolineare è che il lessico parentale è utilizzato anche per la comunità di partito: i compagni sono anche fratelli, i predecessori padri e i successori figli, secondo quel processo di cui parla Emilio Gentile, per cui gli italiani dopo la seconda guerra mondiale spostarono «la fedeltà patriottica verso altre entità ideali, storiche, politiche – dalla religione, all'ideologia, dall'umanità al partito – considerate eticamente superiori alla nazione e allo Stato nazionale».21 Ed è proprio questo il punto che rende il discorso patriottico del PCI non completamente sovrapponibile al discorso nazional-patriottico ottocentesco: l'internazionalismo che caratterizza da sempre il movimento operaio e che sia pure con le differenze apportate dal comunismo cominternista, non può non caratterizzare anche il PCI, è un elemento nettamente contrapposto rispetto a qualsiasi contenuto del nazional-patriottismo ottocentesco. Quest'ultimo infatti non può concepire una solidarietà di classe che vada potenzialmente in contraddizione con la solidarietà nazionale. Infine abbiamo ricostruito il contesto in cui si verifica questo utilizzo dei tropi nazional-patriottici da parte del PCI: sin dal 1943 esso era impegnato nella costruzione di una propria tradizione, con la qual legittimarsi come partito italiano e nella diffusione presso i propri militanti di tale tradizione, nell'ambito della costruzione del «partito nuovo». Al contempo questa volontà doveva coesistere con il profilo internazionalista e di classe a cui il partito non rinunciava, di qui le oscillazioni che abbiamo visto negli interventi sopra riprodotti, che chiamano in causa quella che è stata da molti definita la «doppiezza» del PCI. Cioè la fedeltà da un lato alla patria statale, dall'altro a quella ideale.22 Poniamo l'attenzione anche su un altro elemento: le tre figure profonde, sacrificio, onore, parentela chiamano in causa, in modo più o meno intenso, caratteri già fortemente presenti nella moralità23 comunista: lo spirito di sacrificio è secondo Sandro Bellassai un tratto fondamentale del buon militante comunista, «unità di misura della fedeltà e dell'affidabilità politica di un comunista».24 La capacità di sacrificare se stessi, i propri affetti, le proprie risorse, è considerato un elemento formativo del militante: Bellassai ad esempio racconta che in un corso della scuola centrale di partito, le Frattocchie, gli allievi dovevano trasportare a spalla un mucchio di massi, a scopo di didattico.25 Si pensi poi a Marina Sereni, che scrive alla madre della sua decisione di rompere i rapporti con lei per le sue opinioni politiche.26 Sacrificio dunque anche dei propri affetti: questo perché il Partito era la vera famiglia e ad esso tutto doveva essere subordinato. Ciò nondimeno il PCI incentrava il proprio progetto politico sulle famiglie e si presentava come il vero difensore di esse.27 Abbiamo iniziato questo lavoro chiedendoci se i concetti di patria e di nazione fossero presenti nel discorso pubblico del Partito Comunista Italiano. Per far questo abbiamo analizzato un anno, prendendolo come campione. Per avere un quadro completo dell'idea di patria del PCI in questa fase della vita del paese sarebbe stato necessario visionare almeno tutto il periodo compreso tra il 1948 e il 1956.28 Concentrarsi su un solo anno ha d'altra parte consentito un'analisi più sistematica e attenta dei singoli articoli. Quindi, pur tenendo presenti i limiti, la risposta alla domanda iniziale è affermativa. I concetti di patria e di nazione sono presenti, nel contesto che abbiamo ricostruito, per le ragioni che abbiamo ipotizzato, seppure opportunamente modificati e ricontestualizzati. Inoltre non ho preso in considerazione due aspetti importanti: la visione dell'altro, dello straniero, che mi avrebbe portato a cercare esempi di come venivano rappresentati «gli altri» dei comunisti, cioè gli americani e magari i democristiani. In secondo luogo un altro elemento mancante o non approfondito è il rapporto tra i generi. Per ragioni di tempo e per mancanza di conoscenze adeguate non ho preso in considerazione questi due aspetti. Ciò nonostante credo di poter concludere che il fatto che anche i dirigenti del PCI abbiano utilizzato alcuni degli stilemi fondamentali del discorso nazional-patriottico testimonia una volta di più la profondità del radicamento di essi nella cultura dell'Italia contemporanea: il discorso nazional-patriottico è così profondamente radicato che ha la capacità di adattarsi ai contesti più diversi, di rimanere "in sonno" per molto tempo e di ritornare a galla, come accade in questi ultimi tempi. Emilio Gentile scrive che il tentativo del PCI di presentarsi nei primi anni del dopoguerra come partito nazionale, legittimo erede del primo Risorgimento e protagonista del secondo, è da considerarsi come «l'ultima metamorfosi laica del mito della Grande Italia e, per certi aspetti, potrebbe essere considerata come l'ultima versione del nazionalismo modernista».29 Se Gentile si riferisce al nazional-patriottismo ottocentesco, mi permetto di notare che manca uno de nuclei fondamentali del nazional-patriottismo, quello legato alla difesa dell'onore sessuale delle donne della nazione. In conclusione: il PCI, nel primo dopoguerra, in parte in virtù di un progetto strutturato e meditato di presentarsi come erede delle tradizioni nazionali «progressive»; in parte in virtù di un milieu che rendeva determinati i contenuti simbolici del nazionalismo familiari anche ai comunisti, portò i massimi dirigenti del comunismo italiano ad utilizzare ampiamente i concetti di patria e di nazione nel discorso pubblico. La persistenza, però, del contenuto internazionalista nell'ideologia marxista-leninista rendeva però quell'utilizzo non completamente coincidente con il nazional-patriottismo classico. Infine alcuni temi troppo compromessi dal nazionalismo fascista e nazista e dalla guerra non erano più riproducibili. Se nei successivi decenni della storia italiana il discorso nazional-patriottico è rimasto assente dallo spazio pubblico, per ricomparire magari in occasione delle partite della nazionale di calcio, non significa che sia scomparso. Le sue radici sono ancora presenti nel profondo e, come dimostra il neo-patriottismo rilanciato dalla presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi, sono facilmente riattivabili. Purtroppo i circuiti comunicativi del discorso nazional-patriottico sono innestabili anche in contesti e con intenti meno nobili. Si veda la vicenda dei due marò italiani arrestati in India per la morte di due pescatori indiani: aldilà delle effettive responsabilità, delle attenuanti, del contesto, che saranno ricostruite dai tribunali indiani, quello che in questa sede va sottolineato è che la vicenda ha fatto esplodere un'ondata di pulsioni nazionaliste e colonialiste da parte di giornalisti, politici e «popolo». Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono stati giudicati dall'opinione pubblica e dalla classe dirigente innocenti a-priori, e gli indiani degli incantatori di serpenti che hanno ingannato due soldati che facevano solo il loro dovere. La vicenda si è poi colorata in modo sinistro, con la presenza di sedicenti ingegneri provenienti da associazioni neofasciste come Casa Pound chiamati dal governo a ricostruire in parlamento il complotto indiano.30 E basta fare un giro sul web italiano per trovare messaggi come «Salviamo i nostri soldati» in stampatello maiuscolo sparato su fotografie dei due soldati ritratti in pose da «duri» con tricolore sullo sfondo e commenti razzisti non ripetibili in questa sede. E forse è un caso, forse no, che la stampa italiana, solitamente poco interessata alle questioni internazionali, abbia di recente prestato molta attenzione al problema degli stupri in India.
In Giangastone Bolla's Program for the Review of Agricultural Law (1922) land ownership was a testing ground for the «modern transformations of property law» – on which Enrico Finzi – primarily with the «social function». Bolla observed the shift from ownership to the company; asserted that the link between agriculture and the state required the scholar of agricultural law to undertake the «social and economic reconstruction of the country». In view of the «social function» Arrigo Serpieri – since 1923 Undersecretary of State for Agriculture – promoted various legislative measures for the «integral reclamation»; the policy for agriculture was linked to the organization of the corporate state in fieri (Brugi, Arcangeli). The 1933 Consolidated Law (TU) aimed at the rehabilitation of the land to increase its productivity and improve the conditions of the peasants with land transformations of public interest, with possible expropriation of large estates and forced execution of reclamation works on private lands; from 1946 the Consolidated Law of 1933 will be considered an indication for the agrarian reform (Rossi Doria, Segni). In the first Congress of Agricultural Law, (Florence 1935), Maroi, Pugliatti, Serpieri, D'Amelio, Bolla, Ascarelli, Calamandrei discussed some issues, in the first place agricultural law as a factual experience, linked to rural life, irreducible to a uniform juridical order; hence the 'long duration' of the Jacini Report on the various agricultural Italy. In view of the civil codification, the jurists noted the insufficiency of the individualistic system; placed the request for rules focused on the good and not on the subjects, up to the overcoming of the distinction between public and private law. The most illustrious Italian jurists intervened in the volume promoted by the Confederation of agricultural workers; The Fascist conception of property expressed the detachment from the liberal conception – with an emphasis on land ownership based on work (Ferrara, Panunzio) – and held firm to private initiative (Filippo Vassalli). Bolla reiterated the particularity of land ownership between the corporate system and the civil code project, «a private institution, aided and regulated by the State», with the owner «moderator et arbiter» of his own initiative. In the civil code of 1942, land ownership made sense of the dynamic aspect of productive activity, without contemplating the «social function» as a «new property right» (Pugliatti, Vassalli, D'Amelio).After the fall of the fascist regime, the struggles in the countryside forced Minister Gullo to plan agrarian contracts and regulate the occupation of uncultivated lands, with multiyear concessions to the occupying peasants; the De Gasperi award compensated the sharecroppers. The different economies of the 'different agrarian Italy' did not recommend a uniform agrarian reform; the reorganized political parties aimed at the distribution of expropriated lands, compensation to the private owner, without damaging the right of ownership. The initial action of the State to erode the large estates, with special reform bodies, had as its purpose the enhancement of small peasant property (Segni, Bandini). To combine private property and social interest in Constitution, Mortati motivated his proposal for a «constitutional statute»; Fanfani asked for «an article that speaks expressly of the land». The large estate was the most urgent but divisive issue, between Di Vittorio, who asked for its «abolition», and Einaudi for its «transformation», a choice that was imposed in the name of the various 'rural Italy'; the proposal for a rule intended to hinder large landholdings was not accepted. Article 44 of the Constitution provided for a law to impose «obligations and constraints on private land ownership», in order to «achieve rational land use and fair social relations». Bolla appreciated the choice of «transforming individual property into social property»; Vassalli wrote about a non-original «handbook for resolving the agrarian problem». In the project of the Minister for Agriculture Segni – who managed to launch a contested agrarian reform – art. 44 dictated tasks to the «future legislator»; the Sila law of 21 May 1950, the excerpt law of 21 October 1950 for particularly depressed areas, the bills on agricultural contracts were discussed in the Third Congress of Agricultural Law and in the first International Conference, promoted by Bolla, with interventions by Bassanelli, Segni, Capograssi, Pugliatti, Santoro Passarelli, Mortati, Esposito. Work was considered the architrave of land ownership, «a continually changing right, which must be modeled on social needs» (Bolla). In this context, the theoretical-practical, juridical-political reflection of Mario Bracci, professor of administrative law in Siena, rector, also in charge of teaching agricultural law, is interesting. Representative of the PdA at the National Council in the Agriculture Commission, Bracci proposed to write a «book on the socialization of the land», never published; the personal archive offers a wealth of notes previously unpublished on the subject. Bracci defined land ownership as the lintel of agricultural law and a crossroads of private and public law, between land reclamation laws, civil codification, art. 44 of the Constitution, the agrarian reform, understood as a «problem of justice». From Fascism tothe Republic, Bracci grasped technical continuities and ideological discontinuities in the structure of landed property, considered to be of constitutional significance, in referring to the person, «the conditions of the person are inextricably linked to those of landed property». As a scholar and professor of administrative law and agricultural law, since July 1944 Bracci intended to respond to the conflict in the countryside, mediating between «public purposes of agricultural production and the needs of social justice»; proposed «adequate legal forms which are forms of public law». ; Nel Programma di Giangastone Bolla per la Rivista di diritto agrario (1922) la proprietà fondiaria era banco di prova delle «moderne trasformazioni del diritto di proprietà» – su cui Enrico Finzi – in primo luogo con la «funzione sociale». Nell'azienda agraria Bolla osservava inoltre lo spostamento dalla proprietà all'impresa; asseriva che il legame tra l'agricoltura e lo Stato imponeva allo studioso del diritto agrario l'impegno per la «ricostruzione sociale ed economica del paese». In vista della «funzione sociale» Arrigo Serpieri – dal 1923 sottosegretario di Stato all'Agricoltura – promuoveva diversi provvedimenti legislativi per la «bonifica integrale»; la politica per l'agricoltura si legava all'organizzazione dello Stato corporativo in fieri (Brugi, Arcangeli). Il Testo unico del 1933 mirava al risanamento della terra per aumentarne la produttività e migliorare le condizioni dei contadini con trasformazioni fondiarie di pubblico interesse, con possibili espropri di latifondi ed esecuzione coatta di lavori di bonifica su terre private; dal 1946 il Testo unico del 1933 sarà considerato una indicazione per la riforma agraria (Rossi Doria, Segni). Nel primo Congresso di diritto agrario, (Firenze 1935), Maroi, Pugliatti, Serpieri, D'Amelio, Bolla, Ascarelli, Calamandrei discutevano alcune questioni, in primo luogo il diritto agrario come esperienza fattuale, legato alla vita rurale, irriducibile ad un ordine giuridico uniforme; da qui la lunga durata della 'fortuna' dell Relazione Jacini sulle diverse Italie agrarie. In vista della codificazione civile, i giuristi rilevavano l'insufficienza dell'impianto individualistico; ponevano l'istanza di norme incentrate sul bene e non sui soggetti, fino al superamento della distinzione tra diritto pubblico e privato. I più illustri giuristi italiani scrivevano nel volume promosso dalla Confederazione dei lavoratori dell'agricoltura; La Concezione fascista della proprietà esprimeva il distacco dalla concezione liberale – con l'accento sulla proprietà della terra fondata sul lavoro (Ferrara, Panunzio) – e teneva ferma l'iniziativa privata (Filippo Vassalli). Bolla ribadiva la particolarità della proprietà fondiaria tra ordinamento corporativo e progetto del codice civile, «istituto a base privata, aiutato e disciplinato dallo Stato», con il titolare «moderator et arbiter» della propria iniziativa. Nel codice civile del 1942 la proprietà fondiaria aveva senso dell'aspetto dinamico dell'attività produttiva, senza contemplare la «funzione sociale» come «nuovo diritto di proprietà» (Pugliatti, Vassalli, D'Amelio).Dopo la caduta del regime fascista le lotte nelle campagne imponevano al ministro Gullo di progare i contratti agrari e regolare l'occupazione delle terre incolte, con concessioni pluriennali ai contadini occupanti; il lodo De Gasperi indennizzava i mezzadri. Le differenti economie delle 'diverse Italie agrarie' sconsigliavano una riforma uniforme (Rossi Doria, Serpieri); i riorganizzati partiti politici miravano alla ripartizione delle terre espropriate e ad indennizzi al proprietario privato, senza lesioni del diritto di proprietà. L'iniziale azione dello Stato ad erosione del latifondo, con appositi Enti di riforma, aveva per scopo la valorizzazione della piccola proprietà contadina (Segni, Bandini). Per coniugare proprietà privata ed interesse sociale nella Costituzione Mortati motivava la sua proposta di «statuizione costituzionale»; Fanfani chiedeva «un articolo che parli espressamente della terra». Il latifondo era la questione più urgente ma divisiva; Di Vittorio ne chiedeva l'«abolizione » ed Einaudi la «trasformazione», scelta che si imponeva in nome delle diverse 'Italie rurali'; non si recepiva la proposta di una norma intesa ad ostacolare le grandi proprietà terriere. L'articolo 44 della Costituzione prevedeva una legge a imporre «obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata», al fine di «conseguire il razionale sfruttamento del suolo ed equi rapporti sociali». Bolla apprezzava la scelta di «trasformare la proprietà individuale in proprietà sociale»; Vassalli scriveva di un non originale «prontuario di risoluzione del problema agrario». Nel progetto del Ministro per l'agricoltura Segni – che riusciva a far varare una contrastata riforma agraria – l'art. 44 dettava compiti al «legislatore futuro»; la legge Sila 21 Maggio 1950, la legge stralcio del 21 Ottobre 1950 per le zone particolarmente depresse, i progetti di legge sui contratti agrari erano discussi nel Terzo congresso di diritto agrario e nel primo Convegno internazionale, promosso da Bolla, con interventi di Bassanelli, Segni, Capograssi, Pugliatti, Santoro Passarelli, Mortati, Esposito. Il lavoro era considerato l'architrave della proprietà della terra, «diritto continuamente cangiante, che deve modellarsi sui bisogni sociali» (Bolla). In questo quadro è interessante la riflessione teorico-pratica, giuridico-politica di Mario Bracci, docente di diritto amministrativo a Siena, rettore, incaricato anche dell'insegnamento di diritto agrario. Rappresentante del PdA alla Consulta nazionale nella Commissione agricoltura, Bracci si proponeva di scrivere un «libro sulla socializzazione della terra», mai pubblicato; l'Archivio personale offre una mole di appunti finora inediti sul tema. Bracci collocava nella storia la proprietà della terra, che aveva senso nel «lavoro»; la definiva architrave del diritto agrario e crocevia di diritto privato e pubblico, tra le leggi di bonifica, la codificazione civile, l'art. 44 della Costituzione, la riforma agraria, intesa come «problema di giustizia». Dal fascismo alla Repubblica Bracci coglieva continuità tecniche e discontinuità ideologiche nell'assetto dell'istituto di rilevanza costituzionale, «le condizioni della persona sono indissolubilmente legate a quelle della proprietà fondiaria». Da studioso e docente di diritto amministrativo e diritto agrario dal luglio 1944 Bracci intendeva rispondere al conflitto nelle campagne, mediando tra «fini pubblici della produzione agraria e le esigenze della giustizia sociale»; proponeva «forme giuridiche adeguate e che sono forme di diritto pubblico».
Con questo lavoro, ho cercato di raccontare in che modo il movimento gay, lesbico, bisessuale e transessuale italiano ha contribuito a rendere la nostra società più laica, libertaria e nonviolenta. Per farlo, ho analizzato i tre aspetti principali che ne hanno caratterizzato l'agire: - la difesa della laicità dello Stato - La tutela e l'ampliamento delle libertà individuali - E, soprattutto, il carattere nonviolento delle lotte. La tesi si compone di sette capitoli. In quello iniziale, mi sono occupato delle origini del movimento glbt. Le prime notizie riguardanti l'attivismo politico della comunità glbt, arrivano da Firenze. Nel 1512, un gruppo di trenta giovani aristocratici, riuniti sotto il nome di Compagnacci, fece irruzione nel palazzo del governo, costringendo un alto funzionario alle dimissioni e chiedendo che il consiglio comunale abrogasse le condanne di quei sodomiti che erano stati costretti all'esilio o a cui era stato fatto perdere il posto di lavoro a causa della loro omosessualità. Nel 1432, infatti, era stato creato un corpo di guardie speciali (gli ufficiali di notte), incaricate di occuparsi delle accuse, delle prove e dei processi riguardanti i casi di sodomia. Le denunce contro gli omosessuali venivano presentate anonimamente, infilate in apposite cassette sparse per la città. Una delle vittime più illustri di questo sistema fu Leonardo Da vinci, il quale intratteneva una relazione con il giovane Jacopo Santarelli. Anche a Lucca, nel 1448, fu istituita una magistratura simile. Facendo un salto avanti nel tempo, arriviamo all'avvento del fascismo e notiamo che, rispetto al nazismo, viene adottata una strategia diversa contro i gay. Mentre in Germania, sulla base del paragrafo 175 del codice penale (che prevedeva il carcere per gli atti sessuali tra maschi), il nazismo fece arrestare e deportare nei campi di concentramento circa trentamila omosessuali, in Italia fu deciso in un primo tempo (nel 1936, sulla base delle leggi razziali) di prevedere la misura del confino per i gay, in quanto "nemici della razza". Tre anni dopo, però, ci fu un ripensamento, dovuto alla considerazione che perseguitare un gruppo sociale in quanto gruppo, richiedeva che lo si riconoscesse come tale. Quindi l'omosessualità venne depenalizzata non per indulgenza, ma per dimostrare che gli omosessuali non esistevano: gli italiani erano troppo virili per esserlo. Il controllo e la repressione di questo "problema" fu lasciato alla Chiesa cattolica: un sistema più efficace e meno costoso. Nel secondo capitolo ho illustrato come e quando il movimento glbt si è manifestato come gruppo politico. A livello internazionale, la realtà glbt appare per la prima volta in America, in un locale gay di New York (il bar Stonewall, nel Greenwich village), nella notte del 28 giugno 1969. E' lì che prende avvio "la rivolta di Stonewall", ricordata ogni anno in tutto il mondo con i cortei del Pride. Cosa accade? Per la prima volta, gay, lesbiche e trans decidono di ribellarsi ai soprusi della polizia, che frequentemente faceva irruzione nel locale picchiando e schedando i presenti. La rivolta fu generata dal gesto di una diciassettenne transessuale, Silvia Rivera: il lancio di una scarpa col tacco contro uno dei poliziotti. L'uso di quell'"arma" impropria, è l'emblema del carattere atipico e nonviolento che, fin dalle origini, ha caratterizzato l'agire del movimento glbt. In Italia, sulla scia della rivolta di Stonewall, si verificò la prima uscita pubblica del movimento glbt. Era l'aprile del 1972, e a San Remo il Centro Italiano di sessuologia, un organismo di ispirazione cattolica, aveva organizzato un congresso internazionale sulle devianze sessuali, inserendo nel programma una tavola rotonda e molti interventi specificamente dedicati a cause e terapie dell'omosessualità. Il timore di gay e lesbiche era che l'iniziativa servisse a promuovere un disegno di legge contro l'omosessualità, così com'era già accaduto in Spagna, dove la dittatura franchista, nel 1970, aveva prescritto l'obbligo di cura per questo tipo di "malati" attraverso l'internamento in apposite strutture. Così, la mattina del 5 aprile 1972, organizzarono una clamorosa e inedita contestazione, chiedendo aiuto anche a gruppi glbt di altri paesi. Una protesta decisa, ma allo stesso tempo ironica e gioiosa, per dimostrare che anche nel nostro paese si doveva e poteva lottare a viso aperto contro l'omofobia. Il capitolo 3, è dedicato al rapporto tra movimento glbt e nonviolenza. Secondo lo storico e attivista gay Giovanni dall'Orto, il movimento glbt ha scelto di adottare il metodo di lotta nonviolento "per convinzione, non per debolezza". Ho cercato di dimostrare la veridicità di questa affermazione, raccontando alcuni episodi concreti, ed analizzando il rapporto tra il movimento glbt e il movimento delle donne. Con le femministe, il mondo omosessuale ha condiviso la sperimentazione di pratiche e linguaggi nuovi, alternativi rispetto ai metodi di lotta politica tipici degli anni '70 (ma purtroppo in voga ancora oggi) caratterizzati dal ricorso all'uso della forza, allo scontro fisico e ad un lessico preso in prestito dal mondo militare. L'intento comune era di cambiare una società sessuofobica, fondata sul dominio del maschio, sul familismo e sulla morale cattolica. Nel corso degli anni, il movimento glbt ha avuto più di un'occasione per dimostrare che il proprio agire politico è basato interamente sul pensiero e sul metodo nonviolento. Ad esempio, A Padova, nel 2002, alla vigilia del Pride, gli organizzatori si trovarono stretti da specie di tenaglia: da un lato l'organizzazione di estrema destra "Forza Nuova", annunciava una contromanifestazione; dall'altro, i Disobbedienti del nord est, ribattevano che avrebbero impedito quel corteo. Gli esponenti del Pride, si liberarono da quella morsa esprimendo pubblicamente il rifiuto della comunità glbt di indossare l'elmetto e guerreggiare:"Ogni tentativo di arruolarci nella logica maschilista della violenza è sempre fallita. La violenza è l'arma dei nostri avversari, del maschio fallocratico, dell'esercito. Noi siamo l'alternativa a questo modo di essere e di pensare. Noi siamo l'altro mondo che è possibile. Un altro mondo in cui non sarà più la violenza a dettare legge, ma la nonviolenza, la ragione e le ragioni degli esseri umani". Viene espressa in questo modo la convinzione che per perseguire fini giusti, sia necessario adottare mezzi giusti, ossia nonviolenti. Nella storia dell'umanità, invece, si è costantemente trascurato questo rapporto tra mezzi e fini, con la conseguenza che anche certe rivoluzioni, nate per affermare ideali di libertà e giustizia, si sono trasformate in nuovi dispotismi. Nel capitolo 4 ho descritto come sono nate, in quale contesto storico, e come operano le principali associazioni glbt italiane: Arcigay, Arcilesbica e Movimento di Identità transessuale (Mit). L'ultima parte del capitolo, è dedicata invece ai gruppi glbt di Movimento, aventi posizioni più radicali rispetto alla politica dei "piccoli passi" portata avanti da Arcigay. Queste associazioni, presero parte nel 2001 al contro vertice del G8 a Genova e, l'anno seguente, alle manifestazioni contro la guerra in Iraq e al Social Forum Europeo di Firenze, dando vita (insieme a numerose sigle glbt europee) al workshop"Gay, lesbiche, trans e neoliberismo". Da quest'ultimo scaturirono critiche dure e articolate al modello liberista di sviluppo e di società, e la netta opposizione ad ogni guerra, dato che "non c'è differenza tra intervento in Iraq, in Jugoslavia, in Cecenia, quando si sia in grado di vederne le cause reali e gli effetti, che sono sempre morte e distruzione". Nel documento conclusivo, è resa palese la convinzione che la costruzione di "un altro mondo possibile" passa per l'unione di quanti contestano il modello attuale di società: un'aggregazione tra diversi che oltre ad aumentare la forza della lotta favorisce, allo stesso tempo, un interscambio continuo. Il capitolo 5 è dedicato alla soggettività transessuale. Ho cercato di spiegare i concetti di transessualità e di identità di genere, e di illustrare il percorso (molto lungo e impervio, stabilito dalla legge 164/1982), che una persona transessuale deve affrontare per ottenere l'autorizzazione a modificare i propri dati anagrafici in relazione al sesso prescelto. In Italia, a differenza di altri paesi europei, la giurisprudenza maggioritaria non ammette la rettifica dei dati anagrafici (nome e sesso), in assenza dell'intervento di riattribuzione sessuale. Ciò significa che per anni, una persona che ha assunto di fatto i caratteri tipici di una donna, è costretta ad esibire documenti che la presentano come uomo. Sono molti i casi di transfobia (in questo capitolo ho raccontato quelli originati e alimentati dai mass media), che spesso hanno un epilogo tragico: nel periodo 2008-2013, nel nostro paese le trans uccise sono state ventisei, un numero decisamente superiore a quello delle altre nazioni europee, e che fa dell'Italia il secondo paese per numero di vittime in Europa dopo la Turchia. Nel capitolo 6 mi sono concentrato sul World Pride di Roma del 2000, un caso che dimostra la capacità del movimento glbt di sperimentare e di trascendere i conflitti con grande creatività Nonostante fosse stata programmata e annunciata quattro anni prima, la manifestazione rischiò di essere vietata (o fortemente ridimensionata), a causa della concomitanza con il Giubileo della Chiesa cattolica. Il Presidente del Consiglio dell'epoca, Giuliano Amato, intervenendo sul tema nel corso di una seduta della Camera dei Deputati, disse: "purtroppo c'è la Costituzione, che impone vincoli e costituisce diritti", ma vi è il proposito del Governo di "limitare la manifestazione ad un luogo definito, di isolarla dal resto della città". Una precisazione che non soddisfò il cardinale Camillo Ruini, Presidente della conferenza episcopale italiana, che sottolineò: "La nostra richiesta continua ad essere che questa manifestazione non si faccia. Se non verrà accolta saremo dispiaciuti e adombrati". Il contesto era tutt'altro che favorevole, ma il movimento glbt riuscì a entrare in empatia con l'opinione pubblica e a suscitare sostegni significativi. Amos Luzzato, ad esempio, all'epoca presidente dell'Unione delle comunità ebraiche, affermò:"a una frazione minoritaria del paese, da sempre oggetto di discriminazione oggi si contesterebbe il diritto di organizzare, come qualsiasi altro gruppo, una manifestazione nei tempi e nei luoghi prescelti, nel rispetto della Costituzione e delle leggi dello Stato. Esprimiamo la nostra comprensione e solidarietà per questo gruppo umano(.). Nei campi di sterminio (noi con il triangolo giallo, loro con il triangolo rosa), hanno sofferto insieme a noi e con noi quell'indicibile orrore. Sottolineiamo come il rispetto delle minoranze sia sempre stato e e sia oggi più che mai un segnale e una misura dello stato di salute e della democrazia di una società civile". L'8 luglio del 2000, il corteo che si snodò per le vie di Roma, divenne (e lo è ancora oggi, a distanza di 14 anni) il Pride più partecipato che si sia mai svolto in Italia. Come ebbe modo di scrivere Natalia Aspesi su "La Repubblica" "Duecentomila, un milione, non ha importanza. Perché la folla era comunque immensa, e l'aria era quella di una grande festa di fratellanza, di un oceanico e colorato gioco di solidarietà, di un gigantesco raduno familiare"
2007/2008 ; Lo sport generalmente è il luogo in cui si viene a contatto per la prima volta con la competizione; per questo sembra necessario scoprire se la competizione è qualcosa di buono o no. A una prima semplice analisi, la competizione crea una differenza tra vincitori e sconfitti. Lo sport non è "democratico", non ha tendenze egalitarie e anzi la sua natura è proprio segnare la differenza: la competizione sportiva prevede vincitori e sconfitti. Questo banale dato di fatto genera una quantità di problemi apparentemente insormontabili, tutti riconducibili a una sola domanda: è giusto che ci siano sconfitti? Il motto «L'importante è partecipare» che si fa popolarmente risalire al barone de Coubertin, ri-fondatore dei Giochi Olimpici, è piuttosto chiaro. Di più, è inequivocabile: non conta vincere o perdere. Lo sport, quello imbevuto di ideali "olimpici", è un cimento in cui provare se stessi, e se si vince bene, altrimenti non se ne fa un dramma. Comunque, non vincere non è causa di squalifica sociale: il "perdente" non esiste, nell'utopico ideale "olimpico". Purtroppo però vediamo che nel mondo sportivo si impara anche a discriminare. Se la discriminazione vincitore/sconfitto è connaturata allo sport stesso, direi essenziale con terminologia aristotelica – vale a dire che se non c'è quella non c'è lo sport, la discriminazione verso persone o gruppi ritenuti inferiori a priori non ha alcuna attinenza con i valori sportivi. Proverò a dimostrare che anzi proprio la competizione sportiva è il metodo migliore per sviluppare antidoti alla discriminazione. La discriminazione nello sport si realizza, come sostiene Michael Messner, per cerchi concentrici: al centro ci sono gli atleti, degli sport più popolari; man mano che ci si allontana dal centro incontriamo atleti "minori", tifosi, donne, non tifosi, omosessuali e così via. Più si è lontani dal centro, più la discriminazione incide. Le donne in particolare hanno subito nei secoli una costante esclusione dallo sport. La filosofia femminista ha cercato anche in questo campo soluzioni alla diseguaglianza tra uomini e donne, e una soluzione particolarmente proficua mi è sembrata quella di Jane English: la distinzione tra basic e scarce benefits. I beni sono pochi, questo è un fatto: anche nello sport. Gli uomini hanno occupato il centro (Messner, di nuovo), dove godono della maggior quantità di benefits escludendo tutti gli altri. A questo livello la competizione è spietata, un "vinci o muori" con poche regole. Jane English suggerisce che i beni ai quali la maggior parte della gente punta sono in realtà quelli meno necessari: la fama e la ricchezza. La English sostiene che questi scarce benefits non abbiano niente a che vedere con la pratica sportiva, non sono essenziali allo sport, si possono ottenere in qualsiasi altro modo. Chi vuole accedere allo sport non lo fa per questi beni scarsi, ma per i basic benefits come la salute psicofisica, la socializzazione, l'autostima. Quello che davvero rende lo sport così importante è che questi ultimi benefits non vengono consumati se aumenta il numero dei praticanti, ma in genere incrementano: non ha alcun senso privare ampie fette di popolazione di benefici che non sono consumabili, ma anzi rigenerabili. Quello che English sottintende è una "visione della vita buona" che considera non buona una vita priva di quei basic benefits. Il passaggio necessario quindi è cercare qualche giustificazione a una concezione di vita buona che comprenda i basic benefits. Ci sono diverse teorie di "vita buona": le etiche della virtù (da Platone e Aristotele fino al revival novecentesco, passando per Tommaso d'Aquino - senza dimenticare Confucio in Oriente) sono l'esempio più immediato, ma anche le dottrine deontologiste e consequenzialiste hanno un ideale. Negli ultimi 30 anni circa un "nuovo" modello è stato proposto da Amartya Sen e Martha Nussbaum, in tempi diversi e indipendentemente l'uno dall'altra. La teoria che mi sembra più applicabile è quella di Martha Nussbaum: la sua declinazione della teoria delle capacità funziona meglio nel campo dello sport, rispetto a quella di Sen, perché provvede a fornire concreti esempi di capacità e funzionamenti di valore, mentre l'idea di Sen è non specificare praticamente nulla per ottenere uno strumento "universale". Si può dire che Sen è più kantiano e Nussbaum più aristotelica, anche se la stessa autrice ultimamente ha accolto istanze (neo)kantiane. Martha Nussbaum è (neo)aristotelica: la sua distinzione tra capacità e funzionamenti è ricalcata sulla distinzione che lo Stagirita proponeva tra potenza e atto. Le capacità sono potenze (o potenzialità) che il soggetto ha di funzionare, e i funzionamenti sono le capacità esplicitate in azioni; quando un soggetto esercita un funzionamento ha la capacità di farlo, e sceglie di farlo. Per Nussbaum è molto importante anche l'impegno personale dell'agente - la deliberazione indica infatti il set di valori dell'agente: anche questo è aristotelismo, le azioni rivelano il carattere dell'agente. Il fatto che i funzionamenti di valore vengano scelti è per Nussbaum indizio di una differenza tra animale uomo e altri animali: la razionalità è il nostro tratto distintivo, intesa come deliberazione. In Diventare donne Nussbaum propone una lista di dieci capacità: vita; salute fisica; integrità fisica; sensi, immaginazione e pensiero; emozioni; ragione pratica; appartenenza; rapporti con le altre specie; gioco; controllo del proprio ambiente politico e materiale. Queste capacità sono essenziali per una vita autenticamente umana, vale a dire che la privazione di anche una sola di queste comporta un vita non buona. Sono capacità individuali, ovvero ogni individuo le ha, e per vivere una vita buona deve avere la possibilità di esplicitarle in funzionamenti. Sono "quasi-diritti", non diritti in senso tradizionale perché nel piano neoaristotelico di Nussbaum il linguaggio delle capacità dovrebbe sostituire quello dei diritti, perché i diritti sono forme, e le forme rischiano di essere vuote, mentre il richiamo alle capacità dovrebbe garantire un impegno politico maggiore. Ultimamente Nussbaum ha però affiancato diritti e capacità, rendendoli complementari. Quello che però è interessante è che il progetto di Nussbaum non indica un percorso verso uno stato paternalista, dove ci si impegna a far sviluppare le capacità fino in fondo. Sarebbe la negazione del liberalismo occidentale, cosa che Nussbaum, aristotelica e rawlsiana (fino a un certo punto) non può accettare. Quindi la soluzione è una forma politica che garantisca lo sviluppo di capacità fino a un livello di soglia, oltre il quale ogni individuo può poi decidere autonomamente se proseguire o fermarsi, "accontentarsi". Uno stato che impone certi funzionamenti è dittatoriale, uno che non ne impone nessuno è deficitario: bisogna, aristotelicamente, trovare una via di mezzo. Per esempio quello che normalmente noi occidentali chiamiamo diritto all'istruzione dovrebbe diventare un funzionamento, tra l'altro essenziale per lo sviluppo di altre capacità in altri funzionamenti - se non so leggere e scrivere non posso informarmi, non posso partecipare alla vita della comunità democratica tramite il mio voto. E in parte, con l'istituzione della scuola dell'obbligo, già lo interpretiamo così, come funzionamento necessario. Di fatto, la soluzione della soglia permette a Nussbaum di evitare l'accusa più fondata alla sua versione del capabilities approach, ovvero l'accusa di paternalismo. Inoltre, ben più importante nell'ambito della mia ricerca (ma solo qui), evidenziano uno "spirito sportivo" piuttosto marcato: nello sport ci si deve guadagnare la vittoria, non deve essere concessa (quasi come costrizione) dall'alto, dagli organismo che governano lo sport; ma prima di entrare nella competizione qualcuno fa in modo che l'individuo competitore abbia un minimo di capacità, e sviluppi una serie di funzionamenti. Non posso giocare a basket se non so tirare o palleggiare, se non conosco i regolamenti, se non conosco lo scopo del gioco e se non ho il buon senso di non trasformare il gioco in una rissa. Anche nello sport quindi la meta degli organismi governativi sono le capacità, non i funzionamenti, e certi funzionamenti vengono usati come mezzi per il fine "essere capaci di competere". Se oltre il livello di soglia non vi sono interferenze (nemmeno in positivo) di enti governativi, allora quello spazio rimane aperto all'iniziativa degli individui; credo sia proprio in questo spazio che la politica debba cedere il passo all'etica. Si può dire che fino a un certo punto arrivano le regole costitutive, ovvero quelle che costruiscono lo spazio in cui si svolge il "gioco"; oltre ci si affida alle regole di strategia, le quali indicano come giocare "bene", comprendendo anche i rapporti con gli altri "giocatori". La teoria di Robert Simon risulta particolarmente efficace proprio in uno spazio in cui i normali regolamenti non arrivano, perché proprio lì la competizione rischia di diventare bellum omnium contra omnes: Simon sostiene che la competizione è una mutual quest for excellence. Con questo vuole dire che essenza della competizione non è annientare l'avversario, ma collaborare con lui per aumentare i propri funzionamenti. Per i critici la competizione ha come obiettivo il miglioramento della posizione di un competitore a spese degli altri, ma non è per nulla inusuale constatare che gli atleti tra loro collaborano, persino da avversari: questo atteggiamento cooperativo può essere parte di un'etica della competizione difendibile, basata sul valore dell'essere all'altezza delle sfide proposte dal gioco. Ciò che conta non è vincere, ma affrontare "bene" la sfida che il gioco e l'avversario propongono: in questo senso il giocatore ha un obbligo nei confronti dell'avversario di fare il proprio meglio, per generare la miglior sfida possibile. Le ineguaglianze quindi emergono nello sport, ma non sono male e non sono nemmeno l'essenza dello sport: l'essenza è la competizione, che presuppone collaborazione. Tutto dipende dal confronto con un gruppo di riferimento: chiunque intenda testare le proprie capacità in un determinato sport deve misurare i propri risultati non solo con lo scopo di fare un confronto con i propri risultati passati, ma anche con i risultati altrui nello stesso sport, in particolar modo con i risultati di chi è comunemente ritenuto capace in quello sport. Questa necessità produce appunto l'atteggiamento etico del confronto regolamentato, che è quello più facile da misurare: è come quando si fa un esperimento, e si fissano dei valori con lo scopo di semplificare la valutazione dei valori non fissati, le variabili da studiare. Il vero sportivo sa che gli avversari sono indispensabili per valutare le proprie capacità, visto che il regolamento è fisso e le capacità sono le variabili; ma non solo, un confronto così regolamentato lascia spazio per andare oltre la soglia, in quello spazio libero dove il confronto è meno imbrigliato - qui il competitore può migliorare le proprie capacità. Lo sport invita a non essere egoisti, perché un egoista non può misurarsi né migliorarsi. Così la competizione non è necessariamente discriminazione, ma anzi è il metodo in cui l'etica può superare la discriminazione e permettere a tutti (quelli che lo vogliono) di dedicarsi a un percorso di eccellenza. ; XXI Ciclo