Riassunto della Tesi di Emebet Molla Demisea L'immigrazione dall'Africa sub sahariana verso l'Italia La tesi analizza alcuni aspetti dei flussi migratori dall' Africa Sub Sahariana che spostano verso l'Italia. I migranti sub sahariani utilizzano diversi percorsi: via terra, mare e aerea per raggiungere le loro destinazioni prima in Nord Africa e poi in Europa. Le politiche di immigrazione sempre più restrittive dell'UE hanno portato i migranti ad una crescente dipendenza dalle vie terrestri. Infatti, molti migranti sub sahariani per arrivare in Europa via mare devono attraversare prima il deserto del Sahara. Questo deserto unisce l'Africa sahariana ai Paesi del Maghreb, è in particolare, luogo di transito dei migranti economici (provenienti dall'Africa occidentale) e dei richiedenti asilo (in gran parte del Corno d'Africa). Però, la traversata del Sahara è colma di pericoli: per sperare di avere una possibilità di giungere alla meta, i migranti sono costretti ad affidarsi a organizzazioni criminali che gestiscono il passaggio da un confine all'altro. Le rotte verso l'Italia sono varie ma possiamo citare le tre più interessanti: la prima rotta è quella che parte da Dakar ( Senegal) attraversa il Niger seguendo l'antico tragitto carovaniero che passa per Agadez, Dirkou e Madama per arrivare in Libia e poi per proseguire a Lampedusa. Questa rotta è stata percorsa anche dal giornalista Fabrizio Gatti, egli nel suo libro Bilal narra così: ad ogni città di transito i passeggeri vengono derubati e spesso picchiati violentemente dalle forze armate per estorcergli denaro: oltre al costo del viaggio già enorme, si aggiungono, le c.d. pesanti tangenti. L'impossibilità per alcuni migranti di aver sufficienti risorse per superare le varie stazioni di sosta crea il fenomeno delle cosiddette "oasi degli schiavi": luoghi in cui i migranti rimangono bloccati e non possono neanche a ritornare nel loro paese d'origine. Per non morire di fame lavorano gratis. Solo dopo mesi di fatica il padrone gli lascia andare, pagando finalmente il biglietto per la Libia . La seconda via è quella che raduna gli immigranti provenienti dall'Africa occidentale attraversa lo stato del Mali per arrivare in Algeria e poi per giungere in Sardegna; in questa via da Agadez la rotta migratoria si biforca in due direzioni: verso nord-est all'oasi di Sebha (attraverso l'oasi di Dirkou) e verso nord-ovest a Tammanrasset nel sud dell'Algeria. Nella Libia meridionale dall'oasi di Sebha i migranti riprendono la loro strada verso Tripoli e altre città costiere, per poi imbarcarsi in piccole barche direte verso Lampedusa, e anche Sardegna. La terza rotta è percorsa dai migranti originari del Corno d'Africa (eritrei, etiopi somali e sudanesi) che attraversano il Sudan per raggiungere il deserto Libico, passando per le oasi di Kufrah. Il biglietto si acquista nei mercati di Khartoum. Da lì si parte sui fuoristrada pick-up che trasportano una media di trenta persone. Il viaggio per la Libia salvo imprevisti dura un paio di settimane. Arrivati in Libia, vengono venduti dai trafficanti sudanesi ai loro "colleghi" libici. La Libia ha tradizionalmente gestito la forza lavoro immigrata secondo il modello condiviso dagli altri stati arabi oil-rentier, aprendo all'immigrazione, ma chiudendo ogni forma d'integrazione e di stabilizzazione ai lavoratori stranieri. La politica panafricanista di Gheddafi negli anni '90 spingeva i lavoratori provenienti dal territorio sub sahariano a venire a lavorare in Libia. Una volta arrivati in Libia, però le speranze di una vita migliore per i rifugiati e i migranti vengono indebolite. Essi vivono in un clima di paura, perché temono di esser trattenuti indefinitamente in campi e in centri di detenzione sovraffollati, e rimpatriati, dove li aspettano persecuzioni e torture. I campi sono la forma per confinare chi non appartiene a quell'ordine statuale. Di campi sono disseminati tutti i paesi confinanti con l'area di Shengen: dalla Polonia alla Romania, dalla Bulgaria alla Libia i migranti non assimilabili o non desiderabili sono rinchiusi in spazi senza diritti. I primi campi furono costruiti nelle varie colonie d'oltremare: in Cuba, Sudafrica, Namibia e Libia. E' proprio nelle colonie che nasce l'idea di un'umanità in eccesso da riterritorializzare. I centri di detenzione per i migranti irregolari in Libia sono costruiti per trattenere gli stranieri che entrano illegalmente nel territorio libico, e per quelli che sono espulsi dall'Europa. Alcuni centri sono costruiti con finanziamento dell'Italia e altri con finanziamento dell'Unione Europea. I centri di detenzione più noti: El-Fellah, Misuratah, Zeliten, Kufrah, Sebha questi ultimi 3 centri invece sono stati finanziati dall'Italia. Vediamo come sono costruiti ed organizzati alcuni di questi centri di detenzione. Il centro detenzione di El-Fellah è collocato nel cuore di Tripoli. Un carcere blindato, sorvegliato da uomini armati, Intorno a un cortile sale una struttura quadrata su due piani e un seminterrato. Su ogni piano 6 camerati senza porte, suddivise ciascuna in 8 celle di 5 metri per 3. Porte di ferro, finestre alte e sbarrate. In questo centro finiscono gli immigrati clandestini sorpresi in territorio libico; anche quelli sbarcati a Lampedusa e rispediti "in Libia". In questo luogo soldi, preziosi e telefonini vengono confiscati prima dell'arresto dai poliziotti. Qui gli stranieri sono nudi, e sono spogliati tutto quello che avevano con sé. Il centro di detenzione di Kufrah, è si trova in pieno deserto al confine con il Sudan. Questo luogo è uno dei punti più sensibili per lo smistamento dei clandestini. In passato, ha rappresentato uno snodo importante per le carovane di mercanti che arrivavano dal Ciad per raggiungere la costa mediterranea. Attualmente a Kufrah giungono soprattutto i migranti irregolari che partono dai paesi del Corno d'Africa. In questo luogo vengono internati sia migranti alla loro entrata nel paese che quando stanno per essere deportati al di là dei confini di terra con il Sudan e l'Egitto. La struttura Misuratah invece è chiamata "campo", addirittura "campo profughi", perché qui finiscono in maggioranza i respinti dall'Italia. Questa struttura è divenuta anche un centro specializzato prevalentemente per rifugiati e richiedenti asilo eritrei ed altri individui di interesse per l'Unhcr. I clandestini vengono trattenuti per oltre 3 anni. A differenza di quanto avviene in altre località meno controllate, al "campo" di Misratha dal 2007 ha accesso la delegazione Unhcr e la sua organizzazione. Zleitan si trova vicino a Tripoli, in questo luogo i trafficanti di esseri umani hanno modificato le rotte della traversata per evitare il controllo congiunto italo-libico. Invece venire direttamente in Italia prima vanno verso le coste greche, e voltano in direzione della Sicilia allungano il tempo e i rischi della navigazione. Il centro di detenzione di Zleitan situato nell'omonimo porto a est di Tripoli, dove vengono portati alcuni dei migranti che non riescono a partire. Infine Zuwara città portuale e noto punto di partenza dei migranti, confine con la Tunisia, è un centro della tratta di essere umani. Il centro detenzione di Zwara è uno dei posti dove vengono portati i migranti dei barconi respinti dall' Italia a partire dal maggio 2009. Tutti questi non sono centri di detenzione sono veri carceri. Spesso sono vecchi magazzini adibiti alla funzione detentiva e sorvegliati dalla polizia. Per quanto riguarda le situazioni delle donne nei centri di detenzione è terrificante; ragazze stuprate e giovani donne picchiate, umiliate sotto gli occhi dei mariti. Per avere un'idea di quanti siano i bambini e i ragazzi a passare per la detenzione basti pensare che solo nel 2011 sono sbarcati a Lampedusa quasi 4.500 ragazzini non accompagnati. Per loro la fuga e il rischio della morte in mare è sempre meglio dell'incubo di una vita in Libia. Si può affermare che i flussi migratori tra l'Africa sub sahariana e la Libia hanno contribuito a modificare la geografia del Sahara. Le città nelle quali i migranti fanno tappa come Agadez, Kufrah e Sebha hanno conosciuto lo sviluppo di un'economia di transito che è diventata anche il motore dello sviluppo locale. Sono dunque tre gli aspetti sotto i quali le migrazioni contribuiscono alla trasformazione dello spazio sahariano modellato dallo Stato: quello dell'ambiente abitativo, quello delle attività economiche e quello della costruzione di un'identità urbana. Negli anni '90, i flussi migratori africani hanno messo in discussione il riferimento spaziale del Sahara, così come quello etnico e religioso, e la relazione diretta tra emigrazione dal Sahel e immigrazione in Libia. Questa dicotomia si riflette in modo evidente nei paesaggi urbani: sono moltiplicati i villaggi di rifugiati alla periferia delle città del Sahara libico, i villaggi sono travolti dal rapido sviluppo dell'edilizia abitativa informale . I modelli abitativi prevalenti sono tre: il 1° è " ksar": antichi villaggi fortificati e abbandonati. Grazie a questi immigrati sub sahariani in villaggi si assiste la ripopolazione dei paesi; il 2° modello è quello che consiste nel vivere sul luogo di lavoro; il 3° i "ghetti" sono oltre che degli alloggi, anche dei luoghi dove ritrovare dei connazionali che potranno facilitare l'inserimento dei nuovi arrivi in Libia. Per la sua posizione geografica, l'Italia rappresenta uno dei punti d'ingresso in Europa per la migrazione africana. Le partenze si concentrano lungo le coste tra Zuwarah e Tripoli. Si può affermare che l'Italia è un ponte "fisico" fra Europa e Africa piazzato nel mezzo del Mediterraneo. Questo mare viene attraversato su imbarcazioni di fortuna: vecchi pescherecci, gommoni stracariche. Il viaggio dalla Libia a Lampedusa che, potrebbe durare poco più di un giorno e può prolungarsi per diverse settimane. Le tre principali fasi del traffico di migranti per mare: la raccolta dei migranti; il carico e viaggio per mare; lo sbarco ed eventuale proseguimento del viaggio. Sebbene esistano viaggi auto organizzati dagli stessi migranti, la maggior parte delle partenze è controllata da alcune organizzazioni, ognuna dei quali si occupa del passaggio d'una frontiera. Ogni nazionalità ha i suoi connection man, che mettono in contatto il candidato all'emigrazione clandestina con il passeur e con la rete di persone che lo ospiterà e lo trasporterà al luogo d'imbarco. Sconti particolari vengono fatti a chi si offre volontario per guidare le imbarcazioni, e spesso affidate a capitani senza nessuna esperienza di mare. Anche per questo aumentano le vittime nel Mar Mediterraneo. Attraversare il mare rappresenta l'unica via per tentare la salvezza. Prendere il mare può vuol dire andare a ingrossare le fila delle quasi 20.000 vittime che giacciono sui fondali del Mediterraneo. Il 2014 si conferma l'anno più mortale di sempre con 4.077 vittime accertate nel mondo di cui 3.072 nel "Mediterraneo ". La maggior parte delle persone decedute (30%) è di origine sub sahariana. Ma il mar Mediterraneo detiene anche un altro primato, perché il 75% di tutti i decessi avvenuti nel globo durante il 2014, sono stati contati qui. L'Italia, uno tra gli Stati membri dell'Unione Europea che ha passato da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Dalla metà degli anni '80 alla metà degli '90 seguì la fase che potremmo dire dell'emergenza. Negli anni '90 si aprì una fase di approfondimento che, dopo un percorso tormentato, portò all'approvazione di una legge organica sull'immigrazione detta legge Turco-Napoletano (1998). Proprio con questa legge venne proposta anche la creazione dei Cpt (Centri di Permanenza Temporanea per gli stranieri). Che cosa sono questi centri? Per "centri di detenzione" sono quelle strutture che stabili o improvvisate nell'emergenza, sono spazi racchiusi all'interno di un confine materiale (mura, filo spinato, sbarre). Ciò che differenzia questi luoghi dalle istituzioni penali è soprattutto il loro aspetto amministrativo. Sono luoghi in cui le persone vengono internate sulla base di ciò che sono, della loro nazionalità del paese da cui provengono, del loro status di migranti, rifugiati, e in generale viaggiatori non autorizzati. I Centri di Permanenza Temporanea (CPT) furono creati per custodire gli stranieri clandestini in attesa di identificazione e di espulsione. Innanzitutto espellere uno straniero non è una faccenda semplice: ci sono questioni di carattere normativo: l'accompagnamento alla frontiera è una misura limitativa della libertà personale. Vi sono poi difficoltà economiche: rimpatriare i clandestini ha costi non uguale, e poi l'espulsione comporta notevoli difficoltà relative alla riammissione dei migranti nei loro paesi di origine., I Cpt prima di diventare luoghi di detenzione, erano appunto dei centri di accoglienza. Nel 1998 il governo italiano istituiva i CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza) nei quali lo straniero, per il quale non poteva essere eseguita immediatamente l'espulsione, doveva essere trattenuto il tempo strettamente necessario ai fini dell'espulsione (massimo 20 giorni) più eventuali altri 10 giorni, nella imminenza del rimpatrio. Il primo Centro ad essere istituito è il "Serraino Vulpitta" di Trapani, a cui ne seguono altri in Sicilia, in Puglia e nel resto d'Italia, a Milano, Torino, Trieste. Gli edifici sono dislocati per lo più in zone periferiche, circondati spesso da alti muri e dotati di sbarre, recinti e filo spinati, somigliano alla tradizionale "prigione. Attualmente il sistema dei centri di accoglienza e detenzione per stranieri è costituito da: CPSA (Centri di Primo Soccorso e Accoglienza); CDA (Centri D'Accoglienza); CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo) e CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). Se analizziamo 1 dei questi centri come sono organizzati e costruiti, il CDA di Lampedusa è un emblematico ha l'aspetto di un vero carcere: filo spinato corre lungo il perimetro del Centro, Polizia ed Esercito ne controllano i confini. I CARA sono strutture istituite nel 2008 con il decreto legge 25/2008 dove viene inviato lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento. I CARA derivano dai CDI (Centri di Identificazione) Gli stranieri accolti in questi Centri si trovano in una condizione "semi-detentiva" in quanto possono lasciare le strutture durante il giorno, ma devono farvi ritorno per la notte. I CARA e i CDA, con dimensioni enormi, si trovano in zone periferiche, isolati dal resto del territorio e circondati da poderose recinzioni, assumendo facilmente la connotazione di "luoghi speciali". Da un punto di vista strutturale, la funzione di contenimento e sorveglianza appare spesso predominante rispetto a quella dell'accoglienza. I centri che assolvono entrambe le funzioni di CDA e CARA sono: Bari Palese, Area aeroportuale, Brindisi, Loc. Restinco, Caltanissetta, Contrada Pian del Lago ecc.). A Caltanissetta c'e anche il CIE che si trova a Contrada Pian del Lago a circa 6–7 Km dal centro abitato. Il centro polifunzionale CDA/CARA/CIE può accogliere 552 persone in totale, mentre il CIE ha una capienza massima di 96 posti. Le nazionalità più rappresentate sono in genere Tunisia, Marocco, Nigeria ed Algeria. Per quanto riguarda i CIE prima denominati centri di permanenza temporanea (CPT), sono strutture previste dalla legge Bossi-Fini istituite per trattenere gli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento. Il funzionamento dei CIE è di competenza del Prefetto, che affida i servizi di gestione della struttura a soggetti privati, responsabili del rapporto con i detenuti e del funzionamento materiale del centro. Vediamo come sono costruiti e gestiti alcuni Cie in Italia: il centro di espulsione di Torino era in funzione dal 1999. Si trovava nell'area di una vecchia caserma del genio ferroviario, tra Corso Brunelleschi e via Santa Maria Mazzarello. Dal maggio del 2008, i container del vecchio centro erano stati rottamati e sostituiti da 3 sezioni in muratura appositamente progettati per la detenzione. 2 erano per gli uomini e 1 per le donne, ogni sezione consisteva in un area recintata da gabbie metalliche alte 6 metri. Mentre il Cie di Modena è aperto nel novembre del 2002, nasce dopo una vergognosa campagna di raccolta di firme che identifica i "clandestini" dai delinquenti. Inoltre, il Cie di Modena era 1dei centri a 5 stelle. La struttura fu costruita a fianco del carcere, dall'esterno aveva l'aspetto di un albergo su 2 piani. Niente filo spinato, niente mura di cinta. Pero, dal suo funzionamento si è verificato nel tempo numerosi problemi tra i quali l'utilizzo del CIE come contenitore di ex carcerati stranieri insieme a semplici persone irregolari, infiniti casi di autolesionismo fino ad arrivare ai gravissimi episodi dei suicidi. L'Italia ha un rapporto particolare con la Libia, derivante dal periodo coloniale (gli anni 20 del novecento) in cui migliaia di italiani si trasferirono lì per avviare delle attività soprattutto riguardanti l'agricoltura e le attività imprenditoriali. Dopo la rimozione nell'embargo, l'Italia e la Libia avevano terminato un primo accordo nell'estate del 2000 contro terrorismo, criminalità organizzata, traffico di droga e immigrazione illegale. Il trattato più articolato è quello del 30 agosto 2008 siglato a Bengasi, dall'ex premier Berlusconi e Gheddafi con il c.d. "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione" che mette la parola fine al contenzioso sul passato coloniale italiano in Tripolitania e Cirenaica e apre un'epoca di cooperazione in campo economico soprattutto energetico e di lotta all'immigrazione clandestina. Il trattato di amicizia del 2008 prevede 4 punti sulla mutua cooperazione nel contrasto all'immigrazione: il pattugliamento congiunto in acque libiche, l'intercettamento in alto mare, il finanziamento di un sistema di controllo libico, un sistema congiunto di individuazione dei migranti con rader e satellite. L'intesa bilaterale quella è firmata nel 2007 rappresenta un tentativo di esternalizzare le procedure di detenzione amministrativa e rimpatrio anche alla luce del sovraffollamento del centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa. L'esternalizzazione dell'asilo è un tipo di politiche migratorie attuate dai paesi dell'Unione europea consistente nella creazione dei centri per l'esame delle domande di asilo sia nei paesi di transito che nei paesi di origine. In tali strutture dovrebbero essere indotti a fermarsi i profughi prima ancora di raggiungere l'UE, ma rinviati anche quelli che erano già entrati in Europa a chiedere asilo. Inoltre l'esternalizzazione della politica europea d'asilo e d'immigrazione può essere suddivisa in due tendenze principali. L'UE avverte l'esigenza, da un lato, di "delocalizzare" al di fuori del suo territorio; e dall'altro, di far ricadere sui paesi terzi, mediante trasferimento delle responsabilità. Si può affermare che la Libia è parte integrante del sistema europeo di esternalizzazione dei controlli di frontiera per impedire gli arrivi dei migranti in UE. Alla luce di quando detto sin'ora, si può affermare che Lampedusa è diventata peggio di Ellis Island, i trafficanti di uomini del 21° secolo sono più spietati dei negrieri del 1700. La porta più meridionale d'Italia e d'Europa da anni accoglie barconi carichi di disperati. Tutti provengono dalla Libia dopo viaggi della speranza durante i quali vivono in condizioni peggiori dei migranti del 1800 e 1900 che sono partiti per America e persino degli schiavi neri portati via dall'Africa . Di loro si sapeva in quanti sono partiti, ma di immigrati di oggi che vengano via mare dall'Africa si sa poco. Il lavoro comprende anche delle interviste telefonica che ho fatto ad alcuni migranti sub sahariani, ho registrato le esperienze che avevano avuto durante la traversata del deserto del Sahara e del Mediterraneo: il loro viaggio per arrivare in Italia non è stata facile, infatti il racconto di John di origine nigeriano mi ha toccato:" il mare fa meno paura del deserto. Se hai superato il deserto del Sahara rimanendo vivo, è già grande cose. Prendere il largo a bordo di una qualsiasi imbarcazione è il segnale che stai per farcela perché il peggio è ormai alle spalle, che ti sei lasciato l'inferno libico. Il passaggio in mare non è certo una cosa facile. Un immigrato clandestino è costretto anche a bere acqua salata, l'esposizione continua al sole lo sfianca. Ma per me arrivare a Lampedusa era come arrivare alla terra promessa". Bisogna valutare quali prospettive dovrebbero mutare, in ambito europeo, italiano, libico ed africano, per evitare le continue stragi nel Mediterraneo durante le disperate traversate.
L'applicazione del principio di avidità in un mondo caratterizzato da incertezza, quale di fatto è quello su cui vengono scambiati i prodotti finanziari, implica la necessità che alla considerazione del possibile rendimento futuro di qualsivoglia portafoglio finanziario debba essere associata la considerazione del rischio finanziario concernente la variabilità del futuro valore del medesimo. All'interno delle diverse tipologie di rischio che concorrono alla formazione del rischio finanziario di un portafoglio, quelle sulle quali si è maggiormente incentrato l'interesse degli studiosi e degli operatori, anche in adempimento a precise normative legislative relative alle attività di vigilanza degli intermediari finanziari, sono costituite dal rischio di mercato e dal rischio di credito. Mentre il rischio di mercato si associa al rischio di prezzo di un dato portafoglio, incentrando così l'analisi sulle possibili fluttuazioni delle variabili di mercato rilevanti, il rischio di credito (credit risk) considera l'eventualità che il valore di un portafoglio sia influenzato dalla situazione finanziaria dei soggetti in esso coinvolti. La quarta fonte di rischio è il rischio internazionale (international risk). Un'impresa si trova a dover fronteggiare questo tipo di rischio quando la valuta nella quale sono misurati gli utili ed è espresso il prezzo del titolo azionario è diversa dalla valuta dei flussi di cassa del progetto, come accade nel caso di progetti intrapresi al di fuori del mercato nazionale. La principale innovazione introdotta da Markowitz nella misurazione del rischio di un portafoglio consiste nella considerazione della distribuzione congiunta dei rendimenti di tutti i titoli in esso presenti. Il modello media varianza, sebbene sia tuttora largamente utilizzato nella pratica, presenta limiti intrinseci dovuti alla considerazione esclusiva dei primi due momenti della distribuzione dei rendimenti. In primo luogo, deve tenere in debito conto la dispersione dei rendimenti effettivi attorno al rendimento atteso, misurata dalla varianza (o dallo scarto quadratico medio) della distribuzione; maggiore è la differenza fra rendimenti effettivi e rendimento atteso, maggiore è la varianza. 2.2.2. Rendimento e rischio: la frontiera efficiente Supponiamo che un investitore abbia delle stime dei rendimenti attesi, degli scarti quadratici medi dei singoli titoli e delle correlazioni tra i titoli. Nella scelta della migliore combinazione di titoli da detenere, un investitore cercherà ovviamente un portafoglio con un rendimento atteso elevato e un basso scarto quadratico medio dei rendimenti. Pertanto è opportuno considerare: la relazione tra il rendimento atteso dei singoli titoli e il rendimento atteso di un portafoglio composto da questi titoli; la relazione tra gli scarti quadratici medi dei singoli titoli, le correlazioni tra questi titoli e lo scarto quadratico medio di un portafoglio composto dagli stessi. Consideriamo un portafoglio composto da due titoli. Il titolo A ha un rendimento atteso di µA e una varianza dei rendimenti di σ2A, mentre il titolo B ha un rendimento atteso di µB e una varianza dei rendimenti di σ2B . Il rendimento atteso e la varianza di un portafoglio di due titoli può essere scritta come funzione di questi input e del peso che questi hanno sul valore del portafoglio. Dove e rappresentano la quota del titolo A e del titolo B nell'intero portafoglio. L'eliminazione di parte del rischio è possibile perché di solito i rendimenti dei singoli titoli non sono perfettamente correlati tra loro; pertanto parte del rischio viene "eliminata grazie alla diversificazione". Concettualmente, il rischio di un singolo titolo dipende da come il rischio di un portafoglio cambia quando quel titolo viene aggiunto. Come avremo modo di evidenziare in seguito, il Capital Asset Pricing Model (CAPM) mostra che il rischio di un singolo titolo è rappresentato dal suo coefficiente beta che, in termini statistici, indica la tendenza di un titolo azionario a variare nella stessa direzione del mercato (per esempio, l'indice composito S&P): il beta misura la reattività del rendimento di un singolo titolo rispetto al rendimento del portafoglio di mercato. In generale, il numero dei termini di covarianza può essere scritto come una funzione del numero dei titoli. dove n è il numero dei titoli presenti nel portafoglio. Per motivi di semplicità, assumiamo che i titoli abbiano in media una deviazione standard dei rendimenti di , che la covarianza dei rendimenti tra coppie di titoli sia in media e che i tutti i titoli siano presenti nel portafoglio nella stessa proporzione: Il fatto che la varianza possa essere stimata per portafogli composti da un ampio numero di titoli suggerisce un approccio di ottimizzazione nella costruzione del portafoglio, nel quale gli investitori contrappongono rendimento atteso e varianza. Se un investitore può specificare l'ammontare massimo di rischio che è disposto a sopportare (in termini di varianza), il problema dell'ottimizzazione del portafoglio diventa la massimizzazione dei rendimenti attesi dato questo livello di rischio. Graficamente, questi portafogli possono essere rappresentati sulla base delle dimensioni del rendimento atteso e della deviazione standard come nella figura sottostante. Per passare dall'approccio tradizionale di Markowitz a quello del Capital Asset Pricing Model, dobbiamo considerare l'aggiunta di un titolo privo di rischio all'interno del mix dei titoli rischiosi. Il titolo privo di rischio, per definizione, ha un rendimento atteso che risulta sempre uguale al rendimento attuale. Mentre il rendimento dei titoli rischiosi varia, l'assenza di varianza nei rendimenti dei titoli privi di rischio li rende non correlati con i rendimenti dei titoli rischiosi. Per esaminare ciò che accade alla varianza di un portafoglio che combina un titolo privo di rischio con un portafoglio rischioso, assumiamo che la varianza del portafoglio rischioso sia e che sia la quota dell'intero portafoglio investita in questi titoli rischiosi. Il rendimento atteso cresce data la pendenza positiva della retta passante per il livello del tasso privo di rischio. Detta retta prende il nome di Linea del mercato dei capitali o Capital Market Line (CML). Piuttosto, combinerà i titoli di M con l'attività priva di rischio nel caso in cui abbia un'alta avversione al rischio. In un mondo in cui gli investitori tengono una combinazione di due soli titoli (titolo privo di rischio e portafoglio rischioso) il rischio di ogni titolo individuale verrà misurato in base al portafoglio di mercato. In particolare, il rischio di ogni asset diverrà il rischio aggiunto al portafoglio di mercato. Per giungere all'appropriata misurazione di questo rischio aggiunto assumiamo che sia la varianza del portafoglio di mercato prima dell'aggiunta del nuovo titolo, e la varianza del titolo individuale che verrà aggiunto a questo portafoglio sia . Il peso del titolo sul valore di mercato del portafoglio è e la covarianza dei rendimenti tra il titolo individuale e il portafoglio di mercato è . Conseguentemente, il primo termine dell'equazione dovrebbe essere prossimo a zero, e il secondo termine dovrebbe tendere a , lasciando così il terzo termine ( , la covarianza) come misura del rischio aggiunto dal titolo i. Dividendo questo termine per la varianza dei rendimenti del portafoglio di mercato si determina il beta del titolo: Beta del titolo = 2.2.3. Un esempio di diversificazione Supponiamo di fare le seguenti tre ipotesi : 1. tutti i titoli hanno la stessa varianza, che indichiamo con . Il rischio di portafoglio ( ), è il rischio corso anche dopo aver raggiunto la completa diversificazione. Il rischio di portafoglio è spesso chiamato anche rischio sistematico o rischio di mercato. Nel modello base si stabilisce una relazione tra il rendimento di un titolo e la sua rischiosità, misurata tramite un unico fattore di rischio, detto beta. Il beta misura quanto il valore del titolo si muova in sintonia col mercato. Matematicamente, il beta è proporzionale alla covarianza tra rendimento del titolo e andamento del mercato; tale relazione è comunemente sintetizzata tramite la Security Market Line (SML) , illustrata nel grafico sottostante. Figura 3.1. La Security Market Line: relazione tra rischio (beta) e rendimento atteso nel CAPM La SML, solitamente chiamata linea di "mercato degli investimenti", presenta come intercetta il tasso privo di rischio e come pendenza la differenza tra il rendimento del mercato e quello privo di rischio: la retta è positivamente inclinata se il rendimento atteso del mercato è maggiore del tasso privo di rischio ( È facile dimostrare che la linea della Figura 5 è retta. Questo aggiustamento dei prezzi farebbe aumentare i rendimenti attesi dei due titoli e continuerebbe finché i due titoli non si trovassero sulla linea di mercato degli investimenti. La linea del mercato rappresenta la frontiera dei portafogli efficienti formati sia da attività rischiose che dall'attività priva di rischio; ogni punto sulla retta rappresenta un intero portafoglio. Il portafoglio composto da ogni attività trattata sul mercato viene chiamato portafoglio di mercato (market portfolio). Seguendo tale impostazione ogni investitore sceglierà lo stesso identico portafoglio, cioè il portafoglio di mercato, quindi la diversa propensione al rischio di ciascun investitore nelle scelte di investimento emerge nella decisione di allocazione, vale a dire nella decisione di quanto investire nel titolo privo di rischio e quanto nel portafoglio di mercato. Investitori più avversi al rischio sceglieranno di investire gran parte o la totalità del proprio patrimonio nel titolo privo di rischio, mentre investitori meno avversi al rischio investiranno principalmente o esclusivamente nel portafoglio di mercato. Anzi, potranno investire nel portafoglio di mercato non solo tutto il loro patrimonio, ma anche fondi presi a prestito al tasso privo di rischio. La prima è che esista un titolo privo di rischio, ovvero un titolo il cui rendimento atteso sia certo. La seconda è che gli investitori, per ottenere la combinazione ottimale fra titolo privo di rischio e portafoglio di mercato (data la propria propensione al rischio), possano dare e prendere in prestito fondi al tasso privo di rischio. Come già ricordato in precedenza il rischio di ciascuna attività per un investitore corrisponde al rischio aggiunto da quell'attività al suo portafoglio. Nel contesto del CAPM, dove tutti gli investitori scelgono di detenere il portafoglio di mercato, il rischio di una singola attività per un investitore corrisponde al rischio che quest'attività aggiunge al portafoglio di mercato. Statisticamente, questo rischio addizionale è misurato dalla covarianza dell'attività con il portafoglio di mercato. Maggiore è la correlazione fra l'andamento di un'attività e l'andamento del portafoglio di mercato, maggiore è il rischio aggiunto da tale attività ( i movimenti non correlati all'andamento del portafoglio di mercato vengono invece eliminati quando si aggiunge un'attività al portafoglio). Possiamo tuttavia standardizzare la misura del rischio dividendo la covarianza di ciascuna attività con il portafoglio di mercato per la varianza del portafoglio di mercato. Otteniamo in questo modo il cosiddetto beta di un'attività: Dato che la covarianza del portafoglio di mercato con se stesso non è altro che la varianza del portafoglio di mercato, il beta del portafoglio di mercato (e quindi il beta di una ipotetica attività media) è 1. Quindi le attività più (meno) rischiose della media saranno quelle con un beta superiore (inferiore) ad 1. Il titolo privo di rischio avrà ovviamente un beta pari a zero. Il fatto che ciascun investitore possieda una combinazione del titolo privo di rischio e del portafoglio di mercato ha un'importante implicazione: il rendimento atteso di un'attività è strettamente correlato al suo beta. In particolare, il rendimento atteso di un'attività sarà una funzione dal tasso di rendimento del titolo privo di rischio e del beta dell'attività. Il nucleo del CAPM è una relazione attesa tra il rendimento di un qualsiasi titolo ( ) e il rendimento del portafoglio di mercato, che può essere espressa come: dove sono il rendimento lordo del titolo in questione e del portafoglio di mercato e è il rendimento lordo privo di rischio. Secondo questa formula il rendimento atteso di un'attività rischiosa è dato dal rendimento di un titolo privo di rischio maggiorato di un premio per il rischio, che sarà più o meno elevato a seconda del rischio aggiunto dall'attività al portafoglio di mercato. È chiaro quindi che per usare il CAPM sono necessari i seguenti tre input: Tasso di rendimento del titolo privo di rischio. Per titolo privo di rischio si intende il titolo il cui rendimento atteso nel periodo di riferimento sia noto all'investitore con certezza. Di conseguenza, il tasso di rendimento di un titolo privo di rischio da utilizzare nel CAPM varierà a seconda che il periodo di riferimento sia 1, 5 o 10 anni. • Premio per il rischio. Il premio per il rischio indica la remunerazione richiesta dai risparmiatori per investire nel portafoglio di mercato (che comprende tutte le attività rischiose) piuttosto che nel titolo privo di rischio. Il beta è l'unico input specifico del titolo analizzato (ad es. un'azione). Per esempio, abbiamo ipotizzato che investire nei Buoni del Tesoro sia completamente senza rischio. (Nel CAPM, tali portafogli sono i Buoni del Tesoro e il portafoglio di mercato.) Nei CAPM modificati i rendimenti attesi dipendono ancora dal rischio sistematico, ma la definizione di rischio sistematico dipende dalla natura del portafoglio di riferimento. Il CAPM ipotizza che un investitore richieda un rendimento atteso più elevato per un rischio maggiore, e non ammette che un investitore accetti un rendimento minore, o un rischio maggiore, ceteris paribus. L'ipotesi cruciale nella derivazione proposta sopra è che le preferenze degli investitori siano formulate esclusivamente in termini di media e varianza dei rendimenti dei titoli; l'ipotesi di normalità dei rendimenti (lognormalità dei prezzi) è una condizione sufficiente, ma non necessaria, affinché ciò sia verificato. Il CAPM ipotizza che il profilo rischio-rendimento atteso di un portafoglio possa essere ottimizzato, determinando un portafoglio ottimo, che presenti il minimo livello di rischio possibile per il proprio rendimento atteso. Nel secondo passo, si utilizzano le stime come osservazioni dei regressori nei modelli di regressione lineare, nella dimensione cross-section: Il CAPM risulterà non rifiutato se, sulla base della regressione sopra, il coefficiente a sarà pari al tasso d'interesse privo di rischio , e se il coefficiente b sarà pari al premio per il rischio del portafoglio di mercato. Usando dati dagli anni trenta agli anni sessanta, alcuni ricercatori dimostrarono che il rendimento medio di un portafoglio di azioni è una funzione crescente del beta del portafoglio , una scoperta coerente con il CAPM. In sostanza, qualunque test del CAPM sarebbe per Roll riconducibile all'ipotesi che il portafoglio di mercato, il cui rendimento è indicato da sopra, appartenga alla porzione efficiente della frontiera dei portafogli. Un test del CAPM si tradurrebbe di fatto in un test sull'appartenenza alla frontiera efficiente della particolare proxy del portafoglio di mercato utilizzata. La popolarità del CAPM è essenzialmente legata alla sua semplicità, nonché alla capacità di ricondurre il valore di un titolo a un singolo fattore di rischio, rappresentato dal rischio legato al portafoglio di mercato. Dunque, un investitore può creare un portafoglio abbastanza simile al portafoglio di mercato del CAPM combinando vari fondi indicizzati, ciascuno in proporzione al valore di mercato del mercato cui l'indice fa riferimento. Così, in questo periodo di 60 anni, i rendimenti sono davvero aumentati all'aumentare del beta. Come risulta dalla Figura 3.2, il portafoglio di mercato negli stessi 60 anni ha fornito un rendimento medio di 14 punti percentuali sopra il tasso risk-free e , è ovvio, ha avuto un beta pari a 1. Il CAPM sostiene che il premio per il rischio dovrebbe aumentare in proporzione al beta, in modo che i rendimenti di ciascun portafoglio si collochino sulla linea del mercato azionario inclinata positivamente delle Figure 3.4 e 3.5. Figura 3.4. Premio per il rischio e beta dei dieci investimenti nel periodo 1931-1965 Figura 3.5. Premio per il rischio e beta dei dieci investimenti nel periodo 1966-1991 Poiché il mercato ha fornito un premio per il rischio del 14%, il portafoglio dell'investitore 1, con un beta di 0,49, dovrebbe avere fornito un premio per il rischio leggermente inferiore al 7% e il portafoglio dell'investitore 10, con un beta di 1,52, dovrebbe avere fornito un premio leggermente superiore al 21%. Sia l'APT che il CAPM implicano una relazione crescente tra rendimento atteso e rischio. Inoltre l'APT considera il rischio in maniera più generale rispetto alla semplice covarianza standardizzata o al beta di un titolo con il portafoglio di mercato. Come il CAPM, anche l'Arbitrage Pricing Model scompone il rischio in rischio specifico d'impresa e rischio-mercato. In primo luogo, il rendimento normale o atteso del titolo, cioè la parte del rendimento che gli azionisti sul mercato prevedono o si aspettano. La seconda parte è il rendimento incerto o rischioso del titolo. Nella misura in cui gli azionisti avevano previsto l'annuncio del governo, tale previsione dovrebbe essere incorporata nella parte attesa del rendimento calcolato all'inizio del mese, cioè in . D'altro canto, se l'annuncio del governo è una sorpresa, nella misura in cui influenza il rendimento del titolo azionario farà parte di U, la parte non anticipata del rendimento. La parte non anticipata del rendimento, quella che deriva dalle sorprese, costituisce il vero rischio di ogni investimento. In termini statistici, 4.2. Le fonti del rischio-mercato Il fatto che le componenti non sistematiche dei rendimenti di due società non siano correlate tra loro non implica che anche le componenti sistematiche siano incorrelate. Nonostante il CAPM e l'APM facciano entrambi una distinzione fra rischio specifico d'impresa e rischio-mercato, essi si differenziano poi nell'approccio alla misurazione del rischio-mercato. Il coefficiente beta, β, indica la reazione del rendimento di un titolo azionario a un tipo di rischio sistematico. Nel CAPM il beta misurava la variazione del rendimento di un titolo a uno specifico fattore di rischio, il rendimento del portafoglio di mercato. Viene utilizzato questo termine perché l'indice impiegato come fattore è un indice dei rendimenti dell'intero mercato (azionario). Il modello di mercato può essere quindi espresso come M) + ε dove rappresenta il rendimento del portafoglio di mercato e β è detto coefficiente beta. Considerando Xi la proporzione del titolo i nel portafoglio, sappiamo che la loro somma deve essere pari a 1 e che il rendimento del portafoglio è la media ponderata dei rendimenti delle singole attività nel portafoglio Nel paragrafo precedente abbiamo visto che il rendimento di ciascuna attività è a sua volta determinato sia dal fattore F che dal rischio non sistematico rappresentato da . La prima riga è la media ponderata dei rendimenti attesi dei singoli titoli. Il rendimento di un portafoglio può essere rappresentato come la somma di due medie ponderate: la media ponderata dei rendimenti attesi delle attività nel portafoglio e al media ponderata dei beta associati a ciascun fattore. La componente dei rendimenti specifica della singola impresa (ε) scompare a livello di portafoglio per effetto della diversificazione. Se assumiamo infatti che il portafoglio sia composto da molti titoli tutti presenti nella medesima proporzione , possiamo notare che al crescere del numero dei titoli compresi nel portafoglio la componente del rischio idiosincratico si annulla: Per ogni singola azione ci sono due fonti di rischio. Il premio atteso per il rischio di un'azione dipende dai fattori macroeconomici di rischio e non è influenzato dal rischio specifico. Il portafoglio A ha un beta (rispetto a questo unico fattore) di 2,0 e un rendimento atteso del 20%; il portafoglio B ha un beta di 1,0 e un rendimento atteso del 12%; il portafoglio C ha un beta di 1,5 e un rendimento atteso del 14%. Si noti che investendo la metà del proprio patrimonio nel portafoglio A e la metà nel portafoglio B, si potrebbe ottenere un portafoglio con un beta (sempre rispetto all'unico fattore) pari a 1,5 e un rendimento atteso del 16%. Di conseguenza nessun investitore vorrà investire nel portafoglio C finché non scenderanno i prezzi delle attività in tale portafoglio, portandone così il rendimento atteso al 16%. In alternativa, un investitore può comprare la combinazione dei portafogli A e B, con un rendimento atteso del 16%, e vendere il portafoglio C, con un rendimento atteso del 15%, ottenendo così un profitto pulito dell'1% senza investire nulla e senza assumere alcun rischio. Per impedire tale "arbitraggio", il rendimento atteso di ciascun portafoglio deve essere una funzione lineare del beta. Ogni azione deve offrire un rendimento atteso coerente con il suo contributo al rischio del portafoglio. Secondo l'APM questo contributo dipende dalla sensibilità dei rendimenti dell'azione alle variazioni inattese dei fattori macroeconomici. 5.1. Il tasso di interesse privo di rischio La maggior parte dei modelli di rischio e rendimento in finanza partono da un investimento definito "privo di rischio" e considerano il rendimento atteso da quell'investimento come tasso privo di rischio . I rendimenti attesi da investimenti rischiosi vengono poi calcolati aggiungendo al tasso privo di rischio un premio per il rischio atteso. Abbiamo definito "investimento privo di rischio" un'attività della quale l'investitore conosce con certezza il rendimento atteso. Il rendimento atteso su di un portafoglio pienamente diversificato deve essere misurato in relazione al tasso di rendimento atteso su un titolo privo di rischio . Quando ci riferiamo ai rendimenti (yields) di un titolo di stato come titolo risk-free rate, ci riferiamo al fatto che esso sia privo del rischio di fallimento, riconosciamo però che esso incorpori il maturity risk: la sola parte del rendimento che risulta priva di rischio è dunque la componente degli interessi. Come risultato, l'evidenza empirica di lungo termine è che i rendimenti dei bond a lunga scadenza in media eccedono i rendimenti dei T.Bill. L'horizon premium compensa gli investitori per questo rischio di mercato. Nel primo caso, dovrebbe utilizzare come tasso privo di rischio il tasso di un Treasury Bond statunitense, nel secondo invece un tasso privo di rischio in pesos. Per calcolare un rendimento atteso in termini reali, è necessario partire da un tasso di rischio espresso in termini reali. La soluzione più comune in questi casi (sottrarre al tasso di interesse nominale un tasso di inflazione attesa) fornisce nel migliore dei casi soltanto una stima approssimativa del tasso privo di rischio in termini reali. Nell'approccio basato sul premio per il rischio realizzato, la stima dell'ERP è il premio per il rischio (rendimento azionario realizzato in eccesso rispetto al tasso privo di rischio) che gli investitori hanno, in media, realizzato su periodi di investimento passati. Se i rendimenti periodali dei titoli azionari (ad esempio rendimenti mensili) non sono correlati (i rendimenti di questo mese non sono stati adeguatamente predetti dai rendimenti dell'ultimo mese) e se i rendimenti attesi sono stabili nel tempo, allora la media aritmetica dei rendimenti storici fornisce un'adeguata stima dei rendimenti futuri attesi. Conseguentemente, la media aritmetica dei premi per il rischio realizzati fornisce una stima appropriata dei premi per il rischio futuri attesi (ERP). Differenze nell'approccio per la stima dell'ERP scaturiscono dalla misurazione dei rendimenti attesi sui titoli rischiosi (equity securities). Nell'applicare l'approccio basato sul premio per il rischio realizzato, l'analista seleziona il numero di anni dei rendimenti storici da includere nella media. L'SBBI Yearbook contiene il riassunto dei rendimenti delle azioni e dei titoli di Stato degli USA derivanti da questi dati . (Nel primo periodo, il mercato era composto quasi interamente da titoli bancari, mentre nella metà del diciannovesimo secolo, il mercato era dominato dai titoli delle ferrovie. ) Per questi periodi sono stati assemblati anche i rendimenti dei titoli governativi. La tabella 5.1 fornisce il premio per il rischio medio annuo realizzato da titoli azionari tratti da varie fonti con riferimento a differenti periodi fino al 2006. Si misura il premio per il rischio realizzato confrontando i rendimenti del mercato azionario realizzati durante il periodo con il rendimento dei titoli governativi di lungo termine (o lo yield to maturity per gli anni precedenti il 1926). Dall'osservazione del tabella quello che può risultare sorprendente è che il valore più grande della media aritmetica dei rendimenti annui è quello degli 81 anni dal 1926 al 2006. Per il calcolo dell'ERP viene impiegato il rendimento dei titoli governativi a lungo termine perché in ogni periodo rappresenta il rendimento atteso dei titoli al tempo dell'investimento. Tabella 5.1 Premi per il rischio storici: Rendimenti del mercato azionario – T.Bond 5.3. Il premio per il rischio (risk premium) Il premio per il rischio è un elemento essenziale nel contesto dei modelli di rischio e rendimento. Nel presente paragrafo esamineremo le determinanti fondamentali del premio per il rischio e diversi approcci pratici alla sua stima. Nel CAPM il premio per il rischio misura il rendimento addizionale richiesto in media dagli investitori per spostarsi da un investimento privo di rischio a investimenti rischiosi (il portafoglio di mercato). Ne consegue che il premio per il rischio dovrebbe essere una funzione di due variabili: L'avversione degli investitori al rischio: maggiore l'avversione al rischio, maggiore il premio richiesto dagli investitori. Tale avversione al rischio è in parte congenita, ma dipende anche dalla situazione economica (in un'economia in crescita, gli investitori saranno più propensi ad assumere rischi) e dalla recente performance del mercato (il premio per il rischio tende a salire in seguito a un significativo calo del mercato). Allo stesso modo, nell'APM e nei modelli multifattoriali, i premi per il rischio utilizzati per ciascuno dei fattori saranno pari alla media ponderata dei premi richiesti dai singoli investitori per ciascuno dei fattori. 5.3.1. Equity Premium Puzzle In finanza, l'Equity Premium Puzzle o enigma del premio azionario si riferisce all'osservazione empirica che i rendimenti osservati sui mercati azionari nell'ultimo secolo sono stati superiori a quelli dei titoli di stato; in particolare, il premio per il rischio medio per i titoli azionari nell'ultimo secolo sarebbe pari a circa il 6%, laddove il rendimento medio dei titoli di stato a scadenza breve (considerato una buona approssimazione del rendimento privo di rischio) sarebbe intorno all'1%. La teoria economica suggerisce che gli investitori dovrebbero sfruttare l'evidente opportunità d'arbitraggio rappresentata dalla differenza tra premio per il rischio azionario e rendimento medio dei titoli di stato. Una maggiore domanda provocherebbe a sua volta un aumento dei prezzi medi dei titoli azionari; essendo il rendimento nient'altro che una misura dello scarto tra il prezzo attuale e quello futuro, un aumento del prezzo attuale, ceteris paribus, riduce il rendimento atteso, e con esso il premio per il rischio (dato dalla differenza tra rendimento atteso e tasso di rendimento privo di rischio). In equilibrio, si ridurrebbe dunque lo scarto tra il premio per il rischio dei titoli azionari e il tasso di rendimento privo di rischio, fino al punto in cui tale scarto riflette il premio per il rischio che un investitore rappresentativo richiede per investire nei titoli azionari, caratterizzati da una maggiore rischiosità. Rovesciando questo ragionamento, lo scarto osservato tra i due rendimenti dovrebbe riflettere la valutazione del rischio da parte dell'investitore medio. Gli studiosi che negano l'esistenza del premio per il rischio fondano il proprio convincimento nelle seguenti considerazioni: L'evidenza empirica mostra che negli ultimi quaranta anni (1969-2009) non c'è stato un significativo premio per il rischio azionario sul mercato USA; - Errori di selezione (selection bias) del mercato statunitense: il mercato azionario di maggior successo nel corso del XX° secolo. 5.4.2. Premi storici Il metodo più comune per stimare il premio (o i premi) per il rischio nei modelli di rischio e rendimento è l'estrapolazione da dati storici. Nel CAPM il premio viene calcolato come differenza fra rendimenti medi azionari e rendimenti medi su titoli privi di rischio lungo un esteso periodo di tempo. Nella maggior parte dei casi, questo tipo di approccio consta di tre tappe successive: 1) definire un arco temporale per la stima; 2) calcolare il rendimento medio di un indice azionario e il rendimento medio di un titolo privo di rischio nel periodo in questione; 3) calcolare la differenza fra tali rendimenti e utilizzarla come stima del premio per il rischio atteso per il futuro. La rischiosità media del portafoglio "rischioso" (l'indice azionario nel nostro caso) non sia cambiata in modo sistematico nel tempo. 5.4.3. Premi azionari impliciti Esiste un altro approccio alla stima dei premi per il rischio che non richiede dati storici né correzioni per tenere conto del rischio-Paese. Sottraendo da tale rendimento il tasso privo di rischio, si ottiene un premio implicito per il rischio azionario. Inoltre affinché il premio per il rischio risultasse positivo , dovrebbe verificarsi che: Al fine di illustrare questo metodo, supponiamo che il livello attuale dell'indice S&P 500 sia 900, che il tasso di dividendo atteso sull'indice sia del 2%, e che il tasso di crescita atteso degli utili e dei dividendi nel lungo termine sia del 7%; risolvendo per il rendimento atteso sul capitale netto otteniamo: ; Dato un tasso privo di rischio del 6%, il premio implicito per il rischio azionario sarà pari al 3%. • Risolvendo l'equazione per r, si ottiene una stima del rendimento atteso sul capitale netto pari a 8,39%. Sottraendo da tale stima il tasso dei Treasury Bond (4,02%) si ottiene un premio azionario implicito del 4,37%. Da tali input emerge un rendimento azionario atteso del 10,70% che, se confrontato con il tasso dei Treasury Bond a quella data (4%), implica un premio azionario implicito del 6,70%. Questo fatto ha interessanti implicazioni per la stima del premio per il rischio. Allo stesso modo, il premio del 2% che abbiamo osservato alla fine della bolla speculativa delle società Internet (dot-com boom) degli anni '90 è tornato rapidamente ai livelli medi, durante la correzione del mercato del 2000-2003. Data questa tendenza, possiamo concludere con una migliore stima del premio per il rischio implicito, guardando non solo al premio corrente, ma anche alle linee di tendenza storiche. Tre motivi, tuttavia, spiegano l'esistenza di stime del premio per il rischio così diverse. Ad esempio, data una deviazione standard annuale dei prezzi azionari fra il 1928 e il 2003 pari al 20%, la Tabella 6.1 riporta l'entità dell'errore standard associato alla stima del premio per il rischio in funzione della lunghezza del periodo di stima. Tabella 6.1 Errori standard nelle stime dei premi di rischio La scelta del titolo privo di rischio La banca dati Ibbotson riporta i rendimenti si a dei Treasury Bill sia dei Treasury Bond, sicchè il premio per il rischio degli investimenti azionari può essere stimato rispetto a entrambi. Il tasso privo di rischio alla base della stima del premio deve essere coerente con il tasso privo di rischio utilizzato nel calcolo dei rendimenti attesi. Nella maggior parte dei casi, in finanza aziendale, il tasso privo di rischio rilevante è quello di lungo periodo. Le medie aritmetiche e geometriche Un ultimo elemento di controversia nella stima dei premi storici consiste nel modo in cui calcolare le medie dei rendimenti. La media aritmetica consiste nella semplice media dei rendimenti annuali, mentre la media geometrica si riferisce al rendimento composto. In effetti, se i rendimenti annui non sono correlati nel tempo, la media aritmetica rappresenta la stima più corretta del premio per il rischio atteso per l'anno prossimo. In primo luogo, studi empirici sembrano indicare che i rendimenti degli investimenti azionari sono negativamente correlati nel corso del tempo. Tabella 6.2 Premi di rischio storici (%) del mercato statunitense, 1928-2008 Tirando le somme, le stime del premio per il rischio possono variare a seconda delle differenze in termini di periodo di stima, scelta del titolo di Stato come tasso privo di rischio (a breve o lungo termine), e utilizzo di medie aritmetiche oppure geometriche. Se ci atteniamo al proposito di selezionare un premio basato sulla media geometrica a lungo termine rispetto al tasso dei Treasury Bond a lungo termine, la stima migliore del premio per il rischio sulla base di dati storici è 4,82%. 6.1. Periodicità dei dati storici Anche se accettiamo l'ipotesi che i rendimenti siano effettivamente indipendenti, la media aritmetica dei premi per il rischio realizzati basati su rendimenti di 1 anno potrebbe non essere la migliore stima dei rendimenti futuri. I tradizionali modelli dei rendimenti dei titoli (es. CAPM) sono generalmente modelli uniperiodali che stimano i rendimenti su orizzonti di tempo non specificati. Allora nell'utilizzare i rendimenti realizzati per stimare i rendimenti attesi, dobbiamo calcolare i rendimenti realizzati su periodi di due anni (media geometrica dei rendimenti annui di due anni consecutivi) e poi calcolare la media aritmetica delle medie geometriche dei due anni per ottenere una stima incondizionata dei rendimenti futuri. Gli autori mostrano che l'utilizzo della media geometrica dei rendimenti storici a un anno produce una stima dei rendimenti cumulati che approssima maggiormente la mediana dei rendimenti cumulati (il 50% degli investitori realizzerà un rendimento maggiore di quello mediano e il 50% un rendimento inferiore a quello mediano). Essi dimostrano che la differenza tra la mediana dei rendimenti cumulati ottenuta dall'impiego della media aritmetica rispetto alla media geometrica dei rendimenti storici a un anno aumenta poiché aumenta l'orizzonte d'investimento atteso. 6.2. Selezione del periodo di riferimento Il premio per il rischio realizzato medio risulta essere sensibile al periodo che viene scelto per calcolare tale media. I modelli di rendimento possono cambiare nel tempo. Concentrandosi sul recente passato si ignorano i drammatici eventi storici e il loro impatto sui rendimenti del mercato. Gli anni dal 1942 fino al 1951 furono un periodo di stabilità artificiale dei tassi dei bond statunitensi. Includendo questo periodo nel calcolo dei rendimenti realizzati equivale a valutare i titoli delle linee aere di oggi facendo riferimento ai titoli delle linee aeree prima della deregulation. Tabella 6.4 Premi per il Rischio realizzati sui rendimenti dei T.Bond Se il premio per il rischio medio è cambiato nel corso del tempo, allora la media del rischio realizzato utilizzare la più lunga serie dei dati disponibili diviene discutibile. A partire dalla metà degli anni '50 fino al 1981, i rendimenti dei bond hanno registrato un trend crescente, dettando una generalizzata diminuzione del prezzo dei medesimi. I rendimenti realizzati dai bond erano generalmente più bassi dei rendimenti attesi al momento della loro emissione (l'investitore che avesse venduto prima della scadenza avrebbe registrato una perdita). Dal 1981 i rendimenti dei titoli di Stato hanno iniziato a diminuire, provocando una generalizzata crescita del loro prezzo. Nella tabella 6.5 presentiamo statistiche riassuntive per i rendimenti dei titoli azionari, dei Treasury Bill a 6 mesi e dei Treasury Bond a 10 anni dal 1928 al 2008: Tabella 6.5 Statistiche riassuntive Utilizzando questa tabella possiamo iniziare a stimare un premio per il rischio facendo la differenza tra il rendimento medio delle azioni e il rendimento medio dei titoli di Stato: il premio per il rischio è del 7,30% per le azioni rispetto ai T.Bills (11,09% - 3,79%) e 5,64% per le azioni rispetto ai T.Bonds (11,09% - 5,45%). I premi per il rischio storici per i mercati emergenti possono fornire interessanti spunti di riflessione, ma non possono essere impiegati nei modelli di rischio e rendimento. Consideriamo per prima cosa l'assunzione fondamentale che il premio per il rischio per gli investitori non sia cambiato nel corso del tempo e che l'investimento rischioso medio (nel portafoglio di mercato) sia rimasto stabile nel periodo di tempo esaminato. Nel periodo compreso tra il 1926 e il 2000, gli investimenti in molti degli altri mercati dei capitali avrebbero prodotto premi molto più contenuti rispetto al mercato USA, e alcuni di essi si sarebbero tradotti, per gli investitori, in rendimenti più contenuti o negativi nel corso del periodo. Tabella 6.7 Premi per Rischio storici di differenti mercati: 1900-2005 Dall'analisi della tabella risulta che i premi per il rischio, risultanti dalla media dei 17 mercati, sono più bassi dei premi per il rischio degli Stati Uniti. Per esempio, la media geometrica del premio per il rischio tra i vari mercati è solo del 4,04%, più bassa del 4,52% del mercato USA. La figura 5.1 riporta i premi per il rischio – ossia i rendimenti addizionali – ottenuti investendo in azioni piuttosto che titoli di Stato a breve e lungo termine nel periodo in questione per ciascuno dei diciassette mercati. In Francia, invece, le cifre corrispondenti sarebbero state del 9,27% e del 6,03%. Nella prima parte di questa sezione, rimarremo all'interno del mercato statunitense tentando di apportare delle modifiche al premio per il rischio facendo riferimento a specifiche caratteristiche dell'impresa (la capitalizzazione del mercato rappresenta l'esempio più comune). Nella seconda parte, estendiamo l'analisi osservando mercati emergenti come Asia, America Latina e Europa orientale, provando l'approccio basato sulla stima del premio per il rischio Paese che aumenta poi il premio per il rischio statunitense. Il primo si riferisce a se ci dovrebbe essere un premio per il rischio addizionale quando si valutano i titoli in questi mercati, dovuto al rischio Paese. Il secondo quesito si ricollega invece alla stima del premio per il rischio dei mercati emergenti. L'altro è considerare i rendimenti eccedenti come l'evidenza che i beta sono misure inadeguate del rischio e come compensazione del rischio tralasciato. Per giungere a questo premio gli analisti fanno riferimento ai dati storici sui rendimenti degli small cap stocks e del mercato, aggiustato per il beta risk, e attribuiscono il rendimento eccedente allo small cap effect. Tabella 6.8 Excess Returns per classi del valore di mercato: titoli USA 1927-2007 Se si aggiunge al costo del capitale delle piccole imprese uno small cap premium del 4-5%, senza attribuire tale premio ad un rischio specifico, siamo esposti al pericolo di conteggiare doppiamente tale rischio. 6.5.2. Il Premio per il Rischio Paese Per molti mercati emergenti, sono disponibili pochissimi dati storici, e quelli che esistono sono troppo volatili per giungere a una stima sensata del premio per il rischio. In questi casi, il premio per il rischio può essere così calcolato: Il premio per il rischio-Paese riflette il rischio addizionale associato a un mercato specifico. Per determinare il premio base per un mercato azionario maturo è opportuno fare riferimento al mercato azionario statunitense che, oltre ad essere il mercato finanziario più efficiente, offre dati storici sufficienti a ottenere una stima ragionevole del premio per il rischio. 1. Gli analisti che utilizzano i differenziali per il rischio di insolvenza come misure del rischio-Paese di solito li sommano sia al costo del capitale netto sia a quello del debito di ciascuna impresa quotata nel Paese in questione. Per esempio, il costo del capitale netto di una impresa brasiliana, stimato in dollari statunitensi, sarà del 2,15% maggiore del costo del capitale netto di un'impresa statunitense simile. Dato un premio per il rischio per i mercati azionari maturi (Stati Uniti) del 4,00% e un tasso privo di rischio del 3,80% (Treasury Bond statunitensi), il costo del capitale netto di una società brasiliana con un beta di 1,2 può essere stimato nel modo seguente: Alcuni analisti sommano il differenziale per il rischio di insolvenza al premio per il rischio statunitense, moltiplicando la somma così ottenuta per il beta. Questo procedimento risulta in un maggiore (minore) costo del capitale netto per le imprese con beta maggiore (minore) di 1. Volatilità del mercato azionario rispetto a mercati azionari maturi Alcuni analisti ritengono che i premi per il rischio azionario dei mercati debbano riflettere le differenze in termini di volatilità fra i diversi mercati. Una misura convenzionale del rischio azionario è la deviazione standard dei prezzi azionari: deviazioni standard più elevate indicano di solito un rischio maggiore. Questa deviazione standard relativa, moltiplicata per il premio utilizzato per le azioni statunitensi, fornisce una possibile stima del premio per il rischio totale di un mercato. Se assumiamo una relazione lineare tra il premio per il rischio e la deviazione standard del mercato azionario, oltre alla possibilità di calcolare il premio per il rischio del mercato statunitense (utilizzando ad esempio dati storici), allora il premio per il rischio del Paese X è: Assumiamo, per il momento, di utilizzare per gli Stati Uniti un premio per il rischio del 4%. La tabella 6.9 elenca i dati della volatilità del Paese per alcuni mercati emergenti ed i risultanti premi per il rischio totale e Paese per questi mercati, basato sull'assunzione che il premio per il rischio degli Stati Uniti sia del 4%. Tabella 6.9 Volatilità del mercato azionario e Premi per il rischio Per esempio, il premio per il rischio della Cina è 5,52%, utilizzando questo approccio, ben al di sopra del premio per il rischio di Nigeria, Namibia e Egitto, ognuno dei quali dovrebbe essere un mercato rischioso quanto la Cina. Differenziali per il rischio di insolvenza + volatilità del mercato rispetto ai titoli di Stato I differenziali per il rischio di insolvenza del Paese associati ai rispettivi rating, pur rappresentando una prima tappa importante, misurano soltanto il premio per il rischio di insolvenza. Per capire di quanto, si può calcolare la volatilità del mercato azionario di un Paese rispetto alla volatilità dei titoli di Stato utilizzati per la stima del premio per il rischio azionario del Paese. A titolo illustrativo, prendiamo il caso del Brasile. Il premio addizionale per il rischio azionario del Paese che ne risulta per il Brasile è il seguente: Va notato che il premio per il rischio del Paese aumenterà al crescere del differenziale per il rischio di insolvenza del Paese e della volatilità del mercato azionario. Inoltre, va ricordato che esso va sommato al premio per il rischio azionario di un mercato maturo. I primi due approcci per la stima dei premi per il rischio del Paese tendono a risultare in una stima più bassa rispetto al terzo. Nel caso del Brasile, per esempio, i premi per il rischio del Paese vanno dal 2,76% (secondo approccio), al 6,01% (primo approccio), fino a un picco del 4,43% (terzo approccio). Va ricordato che l'unico rischio rilevante ai fini della stima del costo del capitale netto è il rischio di mercato, ossia il rischio non diversificabile. Se, al contrario, i mercati azionari dei Paesi si muovono nella stessa direzione, il rischio-Paese avrà una componente di rischio di mercato no diversificabile e per la quale è necessario un premio. 7. PARAMETRI DI RISCHIO Gli ultimi dati di cui abbiamo bisogno per mettere in pratica i nostri modelli di rischio e rendimento sono i parametri di rischio per una specifica attività. Nel CAPM il beta di un'attività deve essere stimato rispetto al portafoglio di mercato. Nel contesto del CAPM, il beta viene poi ottenuto esaminando la relazione fra questi rendimenti e i corrispondenti rendimenti di un indice del mercato azionario. Infine, nell'APM è l'analisi fattoriale dei rendimenti azionari a fornire i vari beta. 7.1.1. Procedura per la stima dei parametri del CAPM Il beta di un'attività può essere stimato come coefficiente di una regressione dei rendimenti di una singola azione (Rj) sui rendimenti del mercato azionario (Rm). L'intercetta della regressione fornisce una semplice misura della performance effettivamente ottenuta nell'arco temporale analizzato, rispetto alla performance attesa alla luce del CAPM. Dal punto di vista finanziario va interpretato come proporzione del rischio complessivo di un'azione (varianza) attribuibile al rischio di mercato; ne segue che la differenza (1-R2) indica invece la proporzione del rischio complessivo di un'azione attribuibile al rischio specifico d'impresa. Un ultimo dato statistico di interesse è l'errore standard della stima del beta. La prima riguarda la durata del periodo di stima. 7.1.2. Procedura di stima dei parametri di rischio nell'APM e nel modello multifattoriale Come il CAPM, anche l'APM considera solo il rischio non diversificabile; tuttavia, nella misurazione del rischio, a differenza del CAPM, l'APM tiene conto di una molteplicità di fattori economici. Sebbene il processo di stima dei parametri di rischio sia diverso, molti problemi legati alle determinanti del rischio nel CAPM si presentano anche per l'APM. La derivazione del beta dai fondamentali rappresenta un approccio alternativo alla stima del beta, in cui si dà minore rilievo alla stima basata su dati storici e maggiore rilievo all'intuizione economica. Intensità della leva finanziaria (financial leverage) Il beta delle attività dell'impresa è la media ponderata del beta del capitale netto (rischio a carico degli azionisti) e del beta del debito (rischio a carico degli obbligazionisti). A parità di condizioni, a un aumento della leva finanziaria (cioè del rapporto d'indebitamento ) seguirà un aumento del rischio a carico degli azionisti (e quindi del beta del capitale netto). Il beta dell'insieme di due attività è la media ponderata del beta di ciascuna attività, con i pesi proporzionali al loro valore di mercato. 1. Calcolare il beta unlevered dell'impresa come media ponderata dei beta unlevered delle varie attività, usando come pesi la percentuale del valore di mercato dell'impresa rappresentata da ciascuna attività.
Il progresso scientifico degli ultimi decenni ha ampliato in modo significativo le possibilità di sopravvivere anche ad eventi particolarmente infausti. Le moderne tecniche medico-scientifiche se da un lato permettono di curare patologie anche molto complesse, dall'altro possono prolungare, a volte, lo stato di sofferenza dovuto sia dalla gravosità dei trattamenti sia dall'aggressività della patologia conducendo il paziente ad un pesante deterioramento della qualità della vita e al manifestarsi di situazioni di forti sofferenze, con le quali i malati potrebbero convivere anche a lungo, senza possibilità di guarigione. Nei casi limite, vengono a determinarsi infatti situazioni di vera e propria sospensione tra la vita e la morte diventando sempre più concreto il rischio per il paziente di trascorrere un'esistenza meramente biologica. Alla luce di tale scenario, appare dunque di evidente importanza dar voce alla facoltà di autodeterminazione del paziente per permettergli di decidere dignitosamente del proprio fine vita. Ci si chiede dunque se le scelte di fina vita troverebbero una legittimazione nel nostro ordinamento. La tematica delle scelte di fine vita richiama un approfondimento sull'eutanasia, dato che le due questioni inevitabilmente si intrecciano, la cui legittimità alla Costituzione è particolarmente dibattuta. Oggi, generalmente, il termine eutanasia viene ricollegato a "situazioni di grave e inguaribile malattia, in cui, visto il decorso obbligato verso la morte e le forti sofferenze del paziente, il medico, con il consenso dell'interessato, somministra farmaci molto forti in grado di diminuire il dolore e di provocare la morte". Ciò che contraddistingue tale pratica sono dunque l'elemento pietistico, la volontà del soggetto e l'intervento di un terzo. L'agire del terzo contraddistingue la dicotomia tra eutanasia attiva/passiva e si fonda sull'elemento causale dell'evento morte. Il caso dell'eutanasia attiva/suicidio assistito è conseguenza della volontà del paziente all'induzione alla morte, il caso dell'eutanasia passiva è conseguenza della volontà di rifiutare trattamenti medici in qualunque modo esso avvenga e quindi anche intervenendo nel distacco dei trattamenti da parte del medico. Una prima soluzione in merito all'ammissibilità di determinate scelte di fine vita sembra derivare dalla lettura dell'articolo 32 della Costituzione che, oltre a promuovere il diritto alla salute nell'ordinamento, proclama la libertà negativa di non avvalersi delle cure mediche attraverso la formula del consenso informato che può essere tratto dalla interpretazione degli articoli 2 e 13 della Costituzione, dai quali si ricava l'inviolabilità del diritto all'autodeterminazione, in combinato disposto con il 32. Il principio del consenso informato si ricava anche nel codice di deontologia medica del 2006, nella legge 33 del 1978 sul servizio sanitario e trova conferma anche a livello internazionale nella Convenzione di Oviedo e nella carta Cedu. Secondo la dottrina maggioritaria il rifiuto è un diritto privo di limiti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge e riguardanti la salute pubblica e lo stato di necessità, consentendo all'individuo anche di lasciarsi morire sfociando nella più complessa e articolata nozione di eutanasia passiva, nella quale l'evento morte è appunto conseguenza della richiesta del paziente al medico del rifiuto terapeutico. Di conseguenza la sicura base costituzionale al diritto di rifiutare un determinato intervento medico terapeutico sembrerebbe sufficiente a legittimare dunque l'eutanasia passiva. Per sostenere il contrario, bisognerebbe riuscire a costruire un'argomentazione costituzionale incentrata sul dovere di vivere e di mantenersi in salute, come un dovere verso la collettività. Ma questo non appare una strada costituzionalmente possibile alla luce degli articoli 2, 13 e 32 Cost., al di là di quelle situazioni in cui non sia la legge a prevedere trattamenti sanitari obbligatori. Il rispetto della persona umana e della sua libertà di autodeterminarsi sono inoltre espressione del principio personalista, che contraddistingue l'intera Costituzione, e non sembra ulteriormente possibile ricavare viceversa una chiave concettuale capace di vincolare l'individuo alla sua integrità. Se dunque è possibile ammettere nel nostro ordinamento la liceità dell'eutanasia passiva, in quanto estremo risvolto del diritto a rifiutare le cure, tuttavia è di fondamentale importanza tenere presente la sussistenza della rilevante differenza tra il "lasciarsi morire" e il "chiedere a qualcuno di essere aiutato a morire". La legislazione penale italiana infatti offre delle indicazioni che, sebbene non del tutto puntuali, rappresentano le fonti di riferimento per inquadrare la portata del diritto di autodeterminazione nelle scelte di fine vita e del fenomeno dell'eutanasia. Sebbene non siano presenti nel codice penale norme direttamente riguardanti la materia dell'eutanasia, la situazione descritta pare potersi sussumere nelle fattispecie dell'omicidio del consenziente di cui all'art. 579 c.p. e dell'aiuto al suicidio di cui all'art. 580 c.p. A parte quanto previsto nella legislazione penale, l'illegittimità dell'eutanasia attiva non trova una così netta esplicitazione nella Costituzione e sembra piuttosto che l'inammissibilità della pratica eutanasica attiva in Italia sia più che altro legata ad una questione di scelte legislative dell'ordinamento. Ritornando al diritto di rifiutare le cure, nonostante dal punto di vista costituzionale risulta evidente la liceità tale diritto, persiste ancora il dibattito sugli eventuali limiti e sull'eutanasia passiva. In questo quadro così complesso si sente l'esigenza di maggiore chiarezza da parte del diritto di una facoltà che ha comunque solide radici nella Costituzione. Il prolungato silenzio del legislatore e la difficoltà di raggiungere risultati condivisi su tali questioni, fanno si che la situazione italiana si presenti emblematica sotto questo profilo, in controtendenza rispetto alla maggioranza degli ordinamenti internazionali che in varia misura hanno già affrontato il problema. Ciò ha inciso in maniera negativa su tutti quei malati che si ritrovano a versare tra insostenibili sofferenze fisiche e morali e chiedono, quanto meno, che il loro diritto al rifiuto delle cure venga rispettato. Una risposta efficace ci è data dalla giurisprudenza italiana che, come si è visto con il caso Welby ed Englaro, ha saputo dare attuazione al principio di autodeterminazione del malato e all'ammissione dell'eutanasia passiva. Il caso Welby ed Englaro, grazie al loro forte impatto mediatico, hanno avuto il merito di richiamare l'attenzione pubblica sulla tematica delle decisioni di fine vita, contribuendo, attraverso gli esiti giuridici, a ribadire i diritti del malato, soprattutto per ciò che riguarda il rifiuto delle terapie salvavita e, limitatamente al caso Englaro, per ciò che riguarda la validità delle dichiarazioni anticipate e le volontà pregresse. La sentenza del 23 luglio 2007 n. 2049 del GUP di Roma relativamente al caso Welby, oltre che ad affermare la rilevanza costituzionale del diritto di rifiutare le cure sia di sostegno che di mantenimento vitale, sebbene la mancanza di norme ordinarie che ne attuassero il contenuto, ha contribuito ad escludere la punibilità del medico che agisce agevolando il diritto di rifiutare le cure richiamando la scriminante prevista all'art. 51 c.p. che esclude la punibilità di chi espleta un dovere imposto da norme giuridiche La sentenza della Cassazione n. 21748 del 16 ottobre 2007 relativa al caso Englaro giunge dopo un lungo iter giudiziario che aveva negato il diritto di rifiutare le cure salva vita ed in particolare che un terzo potesse sostituirsi nelle decisioni mediche al paziente incosciente. La sentenza della Corte di Cassazione si concentra su un punto decisivo: quando sono in discussione trattamenti sanitari risalire alla volontà della persona è il criterio fondamentale, qualunque sia la condizione attuale del paziente, sia capace che incapace. La Corte individua il fondamento di tale principio nelle norme di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost., nella Convenzione di Oviedo del Consiglio d'Europa sui diritti dell'uomo e della biomedicina, nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e infine nel codice di deontologia medica del 2006. Il provvedimento della Cassazione ha avuto infatti il merito di affrontare la questione del consenso informato definendone, in via giurisprudenziale, gli elementi salienti, arrivando ad affermare che un malato che necessita di una determinata cura deve poter valutare le terapie possibili e scegliere se accettare l'operazione o rifiutarla. Ribadita la centralità della volontà del paziente, la Corte individua orientativamente le forme in cui possa essere espresso il consenso, anche nei casi di individui non più coscienti e quindi determinare, in questo caso, un'uguaglianza di trattamento. Fondamentale a tale scopo è stato inoltre il contributo offerto dalla giurisprudenza di common law, in tema di volontà pregresse e dichiarazioni anticipate, dalla quale la Corte di legittimità ha attinto per la sua decisione. Centrale, secondo la Cassazione, è la disposizione dell'art. 357 cod. civ., la quale, letta con l'art. 424 cod. civ., prevede che «Il tutore ha la cura della persona» dell'interdetto, investendolo cosi della posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell'incapace. L'intervento del tutore legale però non trasferisce un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza agendo nell'esclusivo interesse dell'incapace, non al posto dell'incapace né per l'incapace ma con l'incapace. Nel ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente il tutore deve tenere conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero deve desumere quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche, da precedenti dichiarazioni anticipate di trattamento. Riguardo infine ai trattamenti di mantenimento vitale, data la complessità e innaturalezza delle terapie sembra difficile pensare che questi non possano essere considerati trattamenti medici a tutti gli effetti e quindi sospendibili. Un primo approccio legislativo nel nostro ordinamento alle questioni di fine vita ha avuto ad oggetto le dichiarazioni anticipate di trattamento, in particolar modo a seguito della vicenda Englaro. Il 26 marzo 2009 viene approvata infatti dal Senato una proposta di legge riguardante "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento". Il disegno è passato successivamente alla camera dei deputati che l'ha approvato con modificazioni il 12 Luglio 2011 e nuovamente trasmesso al Senato, ed è ancora in corso di esame. Tale proposta di legge nasce dalla necessità di definire i limiti dell'autodeterminazione in tema di decisioni mediche e sui meccanismi di manifestazione della volontà del paziente. In realtà non c'erano limiti da definire, come lasciava intendere il disegno di legge del governo, bensì soltanto fattispecie da regolamentare. Il quadro che emerge dall'analisi del disegno di legge è molto scoraggiante perché gli spazi per l'autodeterminazione individuale sono sensibilmente ridimensionati rispetto a quanto si ricava dai principi della Costituzione e sembra quasi che la dichiarazione, dopo aver richiamato gli art. 2, 13 e 32 della Costituzione, stravolga completamente il principio in parola. I divieti e le restrizioni al diritto di autodeterminazione sono inoltre tali da rendere sostanzialmente impraticabile una scelta per chi voglia fare uso delle DAT. Per integrare il quadro di riferimento della materia dell'autodeterminazione medica e delle decisioni di fine vita si è fatto infine riferimento alle scelte e alle soluzioni adottate al di fuori dei confini italiani ed in particolare all'esperienza maturata negli Stati Uniti e negli altri Paesi europei. In generale si possono dunque individuare due modelli principali: uno di carattere tendenzialmente impositivo della vita ed un altro di carattere tendenzialmente permissivo della morte a sfondo individualista. Essenzialmente si contraddistinguono per una minore o maggiore ampiezza della possibilità per il soggetto di decidere sulle fasi finali della sua esistenza. Il modello a tendenza impositiva è compatibile con un generale riconoscimento del diritto di rifiutare i trattamenti sanitari. Tale diritto si arresta di fronte a determinati trattamenti o accertamenti obbligatori, i quali devono di regola essere imposti per legge e nel rispetto della persona umana. In questo senso, il modello in questione esclude un generale "dovere di essere curati", consentendo al singolo, in condizioni ordinarie, di esercitare un ampio diritto di scelta sulla propria salute. Il modello a tendenza impositiva legittima inoltre l'eutanasia passiva, in quanto conseguenza del diritto al rifiuto, rispetto a quella dell'omicidio del consenziente e aiuto al suicidio dove la morte è cagionata da un intervento medico diretto. Tale differenza viene fatta discendere dal fatto che nel primo caso la morte è la conseguenza del decorso naturale della malattia, nel secondo Si possono annoverare tra i modelli tendenzialmente impositivi la Svezia, la Francia, Norvegia, Spagna, Austria e Italia dove ciascun malato può rifiutare le cure o comunque l'accanimento terapeutico, senza riconoscere la legittimità dell'eutanasia attiva. Fra gli ordinamenti maggiormente rappresentativi del modello in parola, si possono annoverare inoltre gli Stati Uniti d'America e l'Inghilterra. Nell'ordinamento inglese le fonti del tendenziale carattere impositivo della vita trova fondamento nella corposa elaborazione giurisprudenziale rinvenibile nei precedenti in materia di diritto all'autodeterminazione in tema di cure mediche. Emblematica a tal proposito è la celebre decisione dei primi anni Novanta del caso Bland, fondamentale anche in quanto definisce nell'ordinamento inglese il concetto di best interest e la legittimità delle dichiarazioni anticipate, oltre che consentire un generale diritto di rifiutare le cure. Per quanto riguarda viceversa la fattispecie dell'eutanasia attiva, nel sistema giuridico inglese l'autore dell'atto eutanasico è sottoposto a responsabilità penale e pertanto punito a titolo di omicidio. A testimonianza invece del diniego del diritto al suicidio assistito nell'ordinamento Inglese può essere presa in considerazione la vicenda del caso Pretty nella quale si evidenzia la portata del Suicide Act. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha da tempo individuato un right to refuse medical treatment che trova un aggancio tanto a livello costituzionale, sia federale che statale, quanto a livello di common law che di legislazione ordinaria. Tale diritto comprende, già nella sua dimensione costituzionale, la facoltà di rifiutare trattamenti sia life-saving che life-sustaining. Il tendenziale riconoscimento negli Stati Uniti del diritto di rifiutare le cure salva-vita, e la dichiarazione perciò del principio di autodeterminazione in ambito medico a livello federale venne proclamato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nei primi anni Novanta nel caso Cruzan v. Director Missouri Department of Health. Tale sentenza ha assunto particolare rilevanza inoltre per l'imposizione di un onere della prova del rifiuto delle cure mediche particolarmente rigoroso nei casi di soggetti non più capaci d'intendere e volere. Viceversa uno dei primi significativi esempi di legislazione statunitense in tema di diritto al rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale e living wills è stato elaborato dalla California. Con il Natural Death Act del 1976, tuttora in vigore, lo Stato della California riconosce il diritto dei malati terminali di compiere le decisioni sulle proprie cure, comprese quelle di rifiuto e interruzione delle terapie di sostenimento vitale, anche attraverso delle direttive scritte. Il paziente inoltre, qualora non sia più in grado di manifestare la sua volontà, attraverso la dichiarazione anticipata può richiedere che le terapie di sostenimento vitale vengano interrotte o non intraprese qualora venga diagnosticata la fase terminale della malattia, e queste indicazioni divengono vincolanti per i familiari e il medico, in quanto espressione definitiva del diritto di rifiutare trattamenti medici o chirurgici. Il diritto al rifiuto, in ogni caso, ha assunto un contenuto esclusivamente negativo e la Corte Suprema federale non ha mai accettato di intenderlo in termini di right to die. Emblematica a tal proposito è la sentenza Vacco v. Quill. Ciò che preme precisare è che la sentenza in commento non mira comunque a vietare che la legislazione di uno Stato possa prevedere o meno ciascuna delle due pratiche attive, tuttavia si intende affermare, sempre a livello federale, che il right to die non possa essere identificato alla stregua di un diritto fondamentale. Trattando della liceità dell'eutanasia, risulta necessario volgere l'attenzione più in generale alla presa di posizione da parte della corte CEDU in tema di scelte di fine vita. A tal proposito di fondamentale importanza appare la sentenza della Corte di Strasburgo del 2002 sul caso Diane Pretty. Analizzando il contenuto della decisione e i principi che vi si trovano espressi è possibile ricavare l'orientamento seguito dalla Corte in tema di eutanasia. La sentenza riconosce l'inviolabilità del diritto di rifiutare le cure, e quindi come diretta conseguenza l'eutanasia passiva, ma esclude che ciò possa implicare anche il diritto di morire, sebbene senza precludere del tutto la questione dell'eutanasia attiva e del suicidio assistito lasciando così spazio di autonomia decisionale a ciascuno stato europeo riguardo tali pratiche. Ciò che caratterizza il modello a tendenza permissiva consiste in una protezione qualitativamente maggiore della libera determinazione della persona in relazione alla sua esistenza. Secondo tale modello, in assenza di rischi concreti per la collettività, ogni soggetto capace di intendere e volere viene riconosciuto quale libero ed autonomo centro di volontà, anche in riferimento alle fasi finali della vita, lasciando quindi al singolo la libertà di decidere di compiere scelte anche di carattere eutanasico. Il modello in parola tuttavia non prevede propriamente un diritto alla morte o all'eutanasia, ma spesso solo la non punibilità in determinate circostanze dell'aiuto al suicidio e dell'omicidio del consenziente. Per evitare il verificarsi di abusi sono inoltre previsti una serie di requisiti sostanziali e procedurali. L'interesse a terminare la propria esistenza secondo forme ritenute personalmente dignitose ed umane non viene pregiudizialmente superato dall'interesse statale alla preservazione della vita, dando così maggiore rilevanza così al principio di autodeterminazione, ancorché non assoluto in quanto limitato solo a situazioni mediche di estrema sofferenza. Eutanasia attiva e passiva, quindi, sono regolate e legittimate nell'ordinamento. Fra gli ordinamenti tendenzialmente permissivi si individuano, generalmente, gli esempi dell'Olanda, del Belgio, dell'Oregon, Washington e della Svizzera. L'Olanda è stato uno dei primi paesi in Europa ad affrontare e risolvere questioni spinose di etica giuridica, riconoscendo il diritto del paziente di rifiutare il trattamento medico, ovvero la cosiddetta eutanasia passiva, e ad aprirsi all'eutanasia attiva. Per quanto riguarda la questione dell'eutanasia attiva negli Stati della federazione si rileva un atteggiamento ancora prevalentemente orientato al divieto delle pratiche di eutanasia attiva e suicidio assistito, pur in un contesto culturale e giuridico in cui il right to die viene generalmente ricompreso nella sfera di autodeterminazione individuale. Tuttavia si riscontra "una sorta di propensione sociale nei confronti del fenomeno eutanasico" a testimonianza di un atteggiamento teso a valorizzare particolarmente le scelte dell'individuo. Il materiale legislativo e giurisprudenziale di alcuni Stati della federazione evidenzia l'interesse a voler dare una risposta adeguata e coerente a queste esigenze. Significativo, a tal proposito, l'esempio della disciplina normativa dello Stato dell'Oregon che per primo ha regolamentato il suicidio medicalmente assistito attraverso il Death with Dignity Act, approvato a seguito di un referendum nel 1994. A riaccendere i riflettori sulle istanze di legalizzazione dell'eutanasia attiva e del suicidio assistito da parte di migliaia di malati terminali in Italia è stato l'intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una lettera del 18 marzo 2014 all'Associazione Luca Coscioni, promotore di Eutanasia Legale, che dichiara: «Richiamerò l'attenzione del Parlamento sull'esigenza di non ignorare il problema delle scelte di fine vita». L'intervento del Presidente della Repubblica giunge, dopo sei mesi di silenzio sull'iniziativa depositata in Parlamento dal Comitato promotore il 13 settembre 2013. Come esposto dal capo dello Stato, il Parlamento non dovrebbe ignorare il problema delle scelte di fine vita e si auspica anzi l'intervento delle Camere affinché si sviluppi un sereno e approfondito confronto di idee sulle condizioni estreme di migliaia di malati terminali in Italia. Eloquenti, prosegue il capo dello Stato, sono d'altronde i dati resi noti da diversi istituti che seguono il fenomeno della condizione estrema di migliaia di malati in Italia. Il testo di iniziativa popolare, a cui si ricollega l'esortazione del presidente della repubblica, è quello proposto dall'associazione Luca Coscioni intitolato: "Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell'eutanasia". La relazione che apre il documento prende in considerazione la necessità di un intervento in tema di autodeterminazione nelle scelte di fine vita puntando l'attenzione da un lato sull'interesse mediatico che coinvolge l'opinione pubblica sul tema, dall'altro facendo leva sulla drammatica situazione di cui sono protagonisti i migliaia di pazienti costretti a vivere in situazioni estreme. In particolare si ritiene che il diritto costituzionale a non essere sottoposti a trattamenti sanitari contro la propria volontà venga costantemente violato, dal momento che manca una concreta regolamentazione e in considerazione dei diversi ostacoli, da superare da parte del malato terminale, che comporta tale mancanza prima di ottenere che venga rispettato il diritto inviolabile di rifiutare le cure, anche di sostegno vitale. Ancor più grave inoltre, secondo sempre la relazione introduttiva, è l'impossibilità per il malato terminale di chiedere di porre fine alle sue sofferenze chiedendo di morire. Il testo propone dunque a tal proposito poche regole e chiare, che stabiliscano con precisione come ciascuno possa esigere legalmente il rispetto delle proprie decisioni in materia di trattamenti sanitari, ivi incluso il ricorso all'eutanasia, alle dichiarazioni anticipate di trattamento e alle volontà pregresse. A prescindere dall'orientamento sulla tematica che verrà seguito da parte dell'ordinamento italiano, siffatta istanza, dal punto di vista Costituzionale, non incontrerebbe alcuna opposizione in quanto l'illegittimità delle pratiche eutanasiche attive non trova una così netta esplicitazione, anzi sembrerebbe che la Costituzione, fondata sul principio personalista, consenta, in linea di massima, il rispetto di una siffatta scelta in quanto tendente alla valorizzazione della volontà dell'individuo. Le riserve infatti che si pongono all'eutanasia attiva non sono altro che frutto di un'interpretazione limitante nei confronti delle istanze di fine vita che non trova un'univoco riferimento nella Costituzione. Sta di fatto che, qualunque sia la scelta dell'ordinamento italiano in merito alla possibilità di legalizzare o meno le pratiche eutanasiche, la regolamentazione del diritto di rifiutare le cure risulta necessaria e doverosa sia dal punto di vista Costituzionale sia, in particolar modo, dal punto di vista umano.
2008/2009 ; Le questioni e i problemi riguardanti il rapporto tra libertà e giustizia, nonché il tentativo operato dal liberalsocialismo di fornire loro risposte e soluzioni, rimandano a numerose e ponderose riflessioni che hanno interessato nel tempo la filosofia politica e l'etica. In termini sbrigativi e sintetici si può sostenere che la questione fondamentale si generi dal rapporto tra libertà e bene, nel senso che si è ben presto messi nella necessità di decidere se la libertà sia un valore assoluto o se valga semplicemente come mezzo per attuare consapevolmente il bene: nel primo caso la libertà si identifica con il bene (a prescindere dalla direzione che intenda prendere), nel secondo la libertà è subordinata alla direzione che intende prendere, tanto da negare se stessa nel caso di una scelta sbagliata. Se questa distinzione sul concetto di libertà è fondata, risulta piuttosto agevole riconoscere due distinte correnti di pensiero volte a privilegiare rispettivamente la libertà (come bene) nei confronti della giustizia (intesa come derivante dalla libertà), oppure la giustizia (come bene) nei confronti della libertà (reclamata temporaneamente per l'abbattimento dell'ingiustizia). Per introdurre il pensiero di Guido Calogero riguardo alla questione è consigliabile riferirsi almeno a due posizioni ottocentesche antitetiche sul problema, come sono quelle di John S. Mill e di Hegel, e, successivamente, sulle convinzioni di Croce e Gentile, che appaiono praticamente inevitabili per la stessa biografia dell'autore. I dissidi fra queste due coppie di pensatori riguardano, com'è noto, fra le altre cose, rispettivamente il concetto di libertà individuale e/o collettiva (universale) e la necessità (o meno) del superamento e della piena realizzazione del liberalismo ottocentesco nel fascismo novecentesco. Guido Calogero (1904/1986), allievo eterodosso di Gentile e aderente all'attualismo, con una formazione logico-gnoseologica costruita sullo studio di Aristotele e dei classici moderni (Kant, Hegel), affronta il problema etico e politico del rapporto fra libertà e giustizia perché deluso dal fascismo, avviato alla dittatura personale di Mussolini. Il fallimento del regime porta il filosofo messinese a riflettere sulla libertà e a riconsiderare la posizione di Croce (soprattutto dopo la lettura della Storia d'Europa del XIX secolo), con cui inaugura un confronto serrato. Contemporaneamente Calogero intraprende una profonda revisione filosofica che, partendo dal presupposto dell'attualismo come forma ultima e compiuta di pensiero filosofico, rifiuta la funzione logica e gnoseologica della filosofia (La conclusione della filosofia del conoscere, 1938), salvandone l'esclusiva funzione etica (La scuola dell'uomo, 1939). Pur dovendo necessariamente muovere una profonda critica al pensiero di Croce e Gentile, Calogero rimane organico alle forme dell'immanentismo attualista e presenta quindi l'etica come l'unica e onnicomprensiva disciplina filosoficamente sostenibile (cioè come filosofia tout court) e, quindi, come sviluppo e superamento dello stesso attualismo gentiliano; portando alle estreme conseguenze la filosofia dell'atto, Calogero ritiene quindi di risolvere nell'etica il senso dell'esistenza umana, nella direzione di un'azione altruistica (come naturale espansione del soggetto) illuminata da una conoscenza che insieme alimenta e trae nutrimento dall'azione e da cui non può essere intesa separatamente. Se l'antifascismo di Calogero risente dello scoramento e del rifiuto di una generazione cresciuta, se non nata, all'interno delle strutture del regime, la svolta etica impressa al suo pensiero è l'esito della maturazione di un pensatore precoce, che giunge rapidamente alla sistemazione definitiva della sua riflessione, che troverà collocazione nei tre volumi delle Lezioni di filosofia (1948). Il carattere etico dell'adesione al fascismo e all'attualismo si riversa interamente nella presa di distanza dal regime e nella revisione filosofica, impegnando Calogero in una severa disamina del rapporto fra libertà e giustizia, nell'ambizione di fornire una solida base etico-politica per l'Italia che verrà, dopo l'inevitabile caduta del fascismo. In questa logica il confronto con Croce – inteso come il campione dell'antifascismo – diventa strategico per Calogero, che cova anche la segreta speranza di riavvicinare il filosofo abruzzese a Gentile. A differenza di Capitini – con cui intraprende l'avventura liberalsocialista –, Calogero sente la necessità di sciogliere i nodi filosofici che lo intrigano e cerca invano di ottenere da Croce il consenso per il suo progetto. Il motivo dello scontro, della reciproca incomprensione, solo parzialmente e tardivamente sanata, verte necessariamente attorno al rapporto di libertà e giustizia, una diade (il famoso ircocervo) che Croce non accetterà mai; d'altra parte l'insistenza di Calogero nel porre come inseparabili la giustizia e la libertà (il motivo per cui deciderà di usare una sola parola per indicare la fusione di liberalismo e socialismo), meglio ancora come un tutt'uno, che solo un ragionamento (o una volontà) corrivo può tenere distinte, riguarda il deciso tratto etico della sua visione politica, oltre che il monismo connaturato nella sua visione filosofica. Anche per Croce, a rigore, non può esservi libertà senza giustizia e giustizia senza libertà ma proprio per questo occorre sussumere la giustizia alla libertà, come una sua naturale conseguenza. Al di là delle motivazioni di ordine filosofico (nella posizione di Calogero Croce riconosce senza sorprendersene la mala pianta dell'attualismo), in Croce sembra resistere inestirpabile la traccia del conservatorismo liberale di origine ottocentesca, che individua immediatamente in ogni perorazione in favore della giustizia una limitazione della libertà. Tale retropensiero non è necessariamente costitutivo del liberalismo (come invece Croce mostra di intendere), tant'è che non appartiene affatto ad un sicuro liberale come Mill: non a caso le critiche che Croce muove a Mill, pur denunciando una supposta debolezza strutturale di ordine filosofico, finiscono con lo stigmatizzare il progressismo del pensatore britannico, che viene presentato come frutto di inconsistenza filosofica ma che urta Croce sul piano banalmente politico. Se è comprensibile che la lettura del Manifesto del liberalsocialismo confermi Croce nel ritenere illiberale la formula politica di Calogero e Capitini, va anche detto che la collocazione politica che assumerà nell'immediato dopoguerra e la tendenza restauratrice del liberalismo prefascista spiega ampiamente l'impossibilità di un'intesa con Calogero. I mutamenti politici e filosofici di Calogero non mancarono naturalmente di interrompere anche i rapporti con Gentile per ragioni simmetriche e complementari a quelle che avevano portato alla ricerca di un confronto con Croce. Era pertento la rinuncia alla libertà individuale (in nome di una libertà dello Stato, etica e universale) e la conseguente fedeltà al fascismo che rendeva ormai difficile il dialogo fra Calogero e il suo maestro, tanto che invano Gentile invitava l'antico allievo a limitarsi (nel suo insegnamento pisano) al pensiero antico; sordo a questo invito Calogero invece cercava proseliti fra i suoi giovani studenti, nel tentativo di contribuire alla formazione della futura classe dirigente, per l'Italia che sarebbe venuta dopo il fascismo. Il Manifesto del liberalsocialismo (a cui doveva seguire un secondo l'anno dopo) esce clandestinamente a Pratica di mare il 21 aprile 1940, nell'immediata vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia. Calogero e Capitini guardano alle nuove generazioni e negano qualsiasi rapporto con l'antifascismo prefascista; liberalismo e socialismo coincidono a meno che non li si identifichi con le loro degenerazioni che sono il liberalismo agnostico (liberismo) e lo stato etico (totalitarismo). La costituzione della nuova Italia dovrà prevedere accanto ai tre tradizionali poteri dello stato un quarto potere affidato ad una Corte costituzionale, destinato a vegliare sugli altri tre (su questo punto Croce fulminerà la sua accusa di illiberalismo), oltre che sui partiti, la stampa, la radio, la scuola… Il forte tratto etico del Manifesto denuncia aspetti difficilmente compatibili con uno stato liberale sia per la preoccupazione preponderante di una rivincita autoritaria (un malinteso senso della libertà ha fatto sì che l'Italia venisse consegnata alla dittatura fascista), che per una tendenza congenita a diffidare dell'uso possibile della libertà (per cui si prevede una fase di passaggio in cui la società sia sotto tutela in attesa dell'espletamento della piena libertà). L'impianto etico non nasconde inoltre il deciso carattere monistico del Manifesto che si esplicita nella tendenza a ricondurre il particolare al generale (con conseguenti riserve nei confronti del pluripartitismo), tramite uno sforzo unificante per il governo della nazione come del mondo intero; si tratta insomma di un progetto politico/istituzionale in cui la libertà va decisamente indirizzata al bene (giustizia), un progetto che, se doveva confermare a Croce tutte le riserve del caso, probabilmente non sarebbe dispiaciuto troppo a Gentile. Questa tendenza che appare già esplicita nel primo Manifesto, viene confermata nel secondo, dove si chiarisce che marxisti, liberali e cattolici (vale a dire l'intero arco partitico per i liberalsocialisti) possono trovare collocazione all'interno del liberalsocialismo, ribadendo in questo modo una preferenza neanche tanto criptica per il monopartitismo. Sulla scorta di quanto già stabilito in sede etica, la giustizia (diversa dall'eguaglianza, che è solo un'apparente giustizia estrinseca) vive come espressione del soggetto nei confronti dell'altro soggetto e, attraverso lui, a tutti gli altri soggetti (senza rischiare di chiudersi in un rapporto duale, sterile e concluso nel rispetto reciproco). L'insistenza con cui Calogero sostiene l'altruismo come necessaria espansione del soggetto verso l'altro, ha sollevato numerose riserve nei suoi critici che vi hanno ravvisato la permanenza di un pesante approccio attualistico. I passi in cui il soggetto sembra fagocitare l'altro (ed esserne fagocitato) non sono precisamente incoraggianti per chi intenda presentare il pensiero di Calogero come pensiero liberale, tuttavia – come si tenta di dimostrare in seguito – queste legittime preoccupazioni non devono dar corpo ad un atteggiamento pregiudiziale che comporterebbe una sostanziale incomprensione dell'autore. In ogni caso l'altruismo sociale, su cui si regge uno stato libero e giusto, procede dall'abnegazione, alla persuasione, alla coercizione: il soggetto – a meno di non trattenersi egoisticamente in una dimensione naturalistica – muove verso l'altro poiché il suo bene coincide con quello altrui, inserendosi in una catena che regola i rapporti sociali; nel caso di interruzione si passa alla persuasione del soggetto (egoista) che va educato (pedagogia e storia) fornendogli una corretta prospettiva sociale; il perdurare (criminale) dell'asocialità incorre infine nella coercizione con cui il soggetto resistente viene piegato al bene comune (diritto giudiziario). La confluenza dei liberalsocialisti nel Partito d'Azione avviene naturalmente, dopo che Calogero ha patito carcere e confino, e il loro contributo appare esplicitamente nelle Precisazioni programmatiche (aprile '43), che Calogero stende assieme a La Malfa e Ragghianti e che confermano una certa tendenza egemonica e una sorda ostilità al pluralismo. Mentre il confronto teorico con Croce si trasforma in scontro politico, è interessante notare come Calogero approfitti della venuta in Italia del capo del laburismo britannico (Attlee) nell'estate del '44 per sostenere la sostanziale identità di liberalsocialismo e laburismo. A questo proposito vale la pena di sottolineare come, se da un lato sia facile ravvisare l'innata tendenza metabolizzante del liberalsocialismo calogeriano, dall'altro occorra anche riflettere sul fatto che il contatto con questa delegazione non sia del tutto estraneo all'avvicinamento di Calogero all'opera di Mill. Contemporaneamente va tuttavia valutato l'approccio politico (completamente teorico se non intellettualistico) di Calogero che, prendendo nota delle prime difficoltà incontrate dal Partito d'Azione, non si spiega il permanere di un partito liberale e di un partito socialista in presenza del liberalsocialismo rappresentato dal Partito d'Azione; non mancano inoltre difficoltà interne dove la posizione liberalsocialista risulta a sua volta minoritaria. Il rapido volgere a conclusione della parabola azionista verrà analizzata e compresa da Calogero solo molto più tardi mentre rimane subita passivamente e sostanzialmente imprevista nel suo svolgersi; l'attività di Calogero non conosce tuttavia sosta e ne è testimone il tentativo presto abortito di pubblicare una rivista (Liberalsocialismo, due soli numeri nel '46) che dimostra l'impegno teorico, politico ed esistenziale del filosofo messinese. Poco più che quarantenne, Calogero si sente chiamato a dare un contributo importante alla nuova Italia che sta nascendo, da lui fortemente voluta e preconizzata ormai da una decina d'anni, e fatica a comprendere come mai la sua posizione teorico-politica risulti così disperantemente minoritaria. Sono tuttavia questi mesi e questi anni che lo portano a riflettere sul liberalismo e sul socialismo britannici, oltre che ad avvicinarlo a Piero Calamandrei, anni che segnano la rapida eclissi del partito d'Azione e il configurarsi di un panorama politico assolutamente estraneo al progetto liberalsocialista e completamente imprevisto, se non inspiegabile, per Calogero. Le analisi e le riflessioni che verranno nei decenni successivi se serviranno a comprendere e motivare almeno parzialmente gli avvenimenti non basteranno a lenire delusioni e amarezze destinate a condizionare Calogero a lungo nel tempo, anche se non sufficienti a provocarne l'astioso riserbo o il disimpegno politico militante. La ricostruzione proposta da Calogero per interpretare gli avvenimenti di quegli anni e la sua personale militanza politica coglie ampiamente nel segno e può essere quindi tranquillamente condivisa. La differenza fra Calogero e quei fascisti che transitarono nelle file del PCI è pienamente riconducibile nella sua opzione liberale; si è detto sopra come, talvolta, espressioni di autentico liberalismo fatichino ad emergere nel suo pensiero, sia per la costante preoccupazione di equiparare la giustizia alla libertà, sia per il timore della possibilità di un uso distorto della libertà stessa. Detto ciò, tuttavia, in Calogero non viene mai meno la convinzione che la libertà sia soggettiva e che il soggetto sia individuale, per cui la sua libertà non va sacrificata alle ragioni di una libertà collettiva ed etica garantita dallo stato. E' qui che, probabilmente, va individuato il passaggio stretto che lo fa transitare dall'attualismo alla prospettiva offerta dal liberalismo britannico, vale a dire dal soggettivismo particolare/universale dell'immanentismo gentiliano allo schietto individualismo empirista/nominalista anglosassone. D'altra parte, se è vero come è vero, che Calogero inizia la sua militanza antifascista a causa dello scivolamento del regime fascista in un regime mussoliniano (dittatoriale/personale) è lecito evincere che la visione misticheggiante dello stato etico di matrice attualistica viene negata dalla deriva personalistica, tramite la quale il soggetto universale e totalitario dello stato etico finisce col coincidere con la volontà di una sola persona. Lo sviluppo del liberalismo nel fascismo (caro a Gentile) non è a questo punto più sostenibile, mentre il regime, negando la libertà individuale in nome di un più alto livello di libertà, non è che un'impostura che consegna una nazione nelle mani di un individuo. Da qui muove lo sdegno morale di Calogero e di altri fascisti critici, ma da qui muove la riflessione calogeriana del necessario recupero della libertà individuale e quindi del confronto con Croce, un confronto però che, come si è ricordato sopra, non porta ad un semplice riflusso verso le posizioni liberali dell'antifascismo prefascista ma si fa carico della tutela della giustizia, indifendibile senza libertà ma non negoziabile in cambio della libertà stessa. E', d'altra parte, attraverso la mediazione anglosassone che Calogero matura progressivamente la convinzione dell'autonomia della politica dall'etica e il conseguente abbandono del suo antimachiavellismo; è infatti dal recupero della dimensione effettuale, cara al segretario fiorentino, che Calogero attribuisce alla politica la dimensione della possibilità e della contingenza ed è solo partendo dall'autonomia della politica che ci si può impegnare alla costruzione di un'etica universale Il soggiorno londinese all'inizio degli anni '50 conferma Calogero nelle sue convinzioni liberalsocialiste, poiché, a suo modo di vedere, i partiti britannici non sono che fazioni di un unico partito liberalsocialista. Commentando per la rivista "Il ponte" la sconfitta laburista alle elezioni del '51, Calogero non si rammarica particolarmente poiché ritiene che per gli inglesi le cose non cambieranno molto, dato che conservatori, liberali e laburisti non sono che correnti interne di un'unica formazione. I contatti con il mondo anglo-sassone allargano indubbiamente l'orizzonte critico della riflessione calogeriana ma non mancano di venir inquadrati all'interno di una cornice interpretativa che risente necessariamente di una prospettiva pregressa e resistente. Sostenere, come fa Calogero, che l'affermazione dei conservatori non modifichi significativamente la politica britannica è possibile solo tramite un equivoco di fondo che fa scambiare per un partito la dimensione condivisa politico-istituzionale della liberal-democrazia, confondendo lo spazio democratico pluripartitico con la dialettica interna ad un partito unico. Il fatto che la vittoria della destra o della sinistra non intacchi il sistema liberal-democratico fa pensare a Calogero che, in fondo, lo scontro politico sia relativo, dato che mostra di non poter concepire la possibilità di uno scontro, anche molto aspro, all'interno di un quadro di regole condivise, che non metta minimamente in discussione l'assetto del sistema. Questo abbaglio lo conferma inoltre nell'idea della bontà del monopartitismo (una volta che sia liberalsocialista), che eviterebbe ciò che succede in Italia nel confronto fra due fronti alternativi che si riferiscono a sistemi diversi. Se da un lato quindi la situazione italiana lo porta a drammatizzare il rapporto maggioranza/opposizione, dall'altro Calogero continua a ragionare in termini di alternativa (di sistema) invece che di alternanza (all'interno di un sistema condiviso), tant'è che, nel suo schema, una volta tramontati liberalismo e fascismo, avrebbe dovuto farsi largo il liberalsocialismo, invece del centrismo democristiano e del frontismo. L'approccio con la politica britannica lo porta quindi, probabilmente, a vedervi trasportato il suo liberalsocialismo, all'interno del quale sarebbe stato pronto ad ammettere l'esistenza di posizioni diverse, ora moderate ora più spiccatamente progressiste. In questo modo però, pur guardando al sistema anglosassone come ad un sistema da imitare, Calogero pare non coglierne l'intimo carattere, basato sulla lotta politico-parlamentare schietta e decisa e sul rapporto maggioranza/opposizione costantemente intercambiabile attraverso la consultazione elettorale. Messo allora in conto questo deficit di liberalismo anglosassone, come qualificare la posizione politica di Calogero, anche considerando la sua personale militanza politica (fondatore del Partito radicale nel '55, candidato alle politiche per il PRI nel '58, candidato per il PSU nel '68)? Politico laico, aderente al socialismo riformista, Calogero, pur senza mai rinnegare il liberalsocialismo, vive una seconda stagione politica (1955/70) nella quale la carica etica, mai abbandonata, fa i conti con una sincera visione riformistica e laica, che interpreta la pratica politica come tensione infinita e mai risolta del perfettibile verso il perfetto, mentre sconta il corto circuito attualismo/empirismo dovuto alla travagliata riflessione attorno al soggetto/individuo. In questo senso Calogero può apparire allora come il latore di un autentico riformismo, che, pur provenendo dalle retrovie dell'immanentismo attualista, essendo comunque immune da qualsivoglia tentazione spiritualistica, perviene alle conclusioni laiche e liberali di una politica gradualista e progressista. In Calogero, insomma, il riformismo non è mai una subordinata opportunistica alla rivoluzione, né frutto di moderatismo politico ma il costante tentativo di adattamento alle ragioni della realtà, sorretto da un'insopprimibile tensione etica. La forte caratterizzazione politica di Calogero non limita e non ridimensiona l'originaria base filosofica (e quindi etica) dell'intellettuale siciliano e il fatto di poter intravedere uno sviluppo (o uno scivolamento) dal soggettivismo gentiliano all'individualismo anglo-sassone, come un analogo passaggio dalla concezione della causalità al più flessibile adattamento alla probabilità e alla prevedibilità, non comportano alcun "tradimento" quanto piuttosto la testarda volontà di procedere in un percorso avviato da tempo e mai abbandonato. In tempi non sospetti (praticamente da sempre), Calogero aveva colto nel solipsismo l'aspetto debole dell'attualismo gentiliano e questo fatto – frutto della coerenza interna del ragionamento del suo maestro – era probabilmente alla base della sua revisione filosofica e dell'affermazione della "conclusione della filosofia della conoscenza". Se, tuttavia, l'immanentismo attualista rimane lo sfondo filosofico del liberalsocialismo, gli sviluppi verificatisi nella riflessione politica richiedevano un ripensamento dell'etica, una sua rettifica più che un suo stravolgimento, data la sostanziale continuità rivendicata tra il liberalsocialismo e i suoi stessi sviluppi. D'altra parte Calogero resta fedele all'impostazione dei suoi maestri che postula la necessità di un fondamento filosofico per qualsiasi specializzazione teorico-scientifica e quindi continua a ritenere indispensabile non solo il profilo etico della politica ma anche la sua derivazione teorica dall'etica. Facendo della storia (come contemporaneità del non-contemporaneo), una componente irrinunciabile dell'etica, Calogero riprende il discorso etico dall'abnegazione come necessario riconoscimento dell'altro (pena il solipsismo, in caso contario), che non si risolve in mutua (e sterile) reciprocità (egoistico rispetto dell'altro) ma si preoccupa immediatamente del terzo rispetto all'altro, procedendo alla persuasione (storia, pedagogia) e, se necessario, alla coercizione (diritto). Recuperando così il filo rosso della sua etica, passa alla definizione della filosofia del dialogo (che soppianta un non più sostenibile logo) come forma più appropriata per un neo-soggettivismo che superi la vecchia linea Cartesio-Gentile, sostituendo al "Cogito ergo sum", un "Tecum loquor ergo es". In questo modo a Calogero riesce l'impresa piuttosto problematica di fondare la sua nuova concezione dialogica della filosofia e di riproporre, nei termini a lui graditi, l'intuizione più autentica (a suo modo di vedere) dell'intero attualismo, vale a dire l'irriducibilità del soggetto, che vive e prospera attraverso la scoperta dell'altro. Sorretto da queste convinzioni, Calogero prova sconforto e amarezza quando vede interpretare la sua proposta come una formula propedeutica e costruttiva, assolutamente generica e sorretta da semplici buone intenzioni, come una qualsiasi filosofia non aggressiva (e criticamente tendente al relativismo), come una proposta debole tesa piuttosto ad evitare il male che ad edificare il bene. Lungi dall'essere un semplice rimedio post-ideologico (in un secolo peraltro segnato dalla durezza delle ideologie e dalle loro tragiche conseguenze), la filosofia del dialogo fa del soggetto, che si incarica di garantire la libertà all'altro di pensarla diversamente da lui, la pietra angolare di una proposta che, evitando le secche del dogmatismo come del relativismo, intende porsi nucleo fondamentale e condiviso per la crescita e il progresso dell'umanità. ; XXII Ciclo
E' stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E' stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l'evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più "efficiente". Sotto quest'ultimo aspetto l'attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un'attività produttiva o di un'impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull'evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l'obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l'esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l'ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l'azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l'ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull'Analisi Costi-Benefici e sull'Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all'attività di regolazione dell'economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un'autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l'orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l'unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un'applicazione in "salsa cinese" del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l'evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L'evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l'obiettivo dell'efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie "Post-Chicago". Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell'evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l'attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l'istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l'analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell'analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l'Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull'applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l'ampiezza dell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell'effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell'art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall'applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l'implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell'esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione "progresso tecnico ed economico", impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell'efficienza, giustificando così quell'eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell'Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell'applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l'art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all'elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l'organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l'assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell'utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all'art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l'occasione per recepire nella disciplina comunitaria l'attribuzione della facoltà di ricorrere all'efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell'art. 81(3). Il capitolo attesta anche l'attenzione verso l'istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l'innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un'attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L'analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall'ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un'autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell'adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall'ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all'interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere "ibrido" che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all'introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l'adozione e l'implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell'intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l'assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l'elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell'autorità indipendenti, e l'ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell'assistenza delle autorità nazionali. Dall'altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l'attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall'ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all'analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell'efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell'efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l'evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell'attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall'eterogeneità degli obiettivi che l'Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall'incapacità (o dall'impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell'efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell'applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l'OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l'evoluzione in questo senso dell'Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un'analisi teorica dell'esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell'impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l'organizzazione interna dell'impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l'approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l'impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un'analisi dettagliata dell'attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l'esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell'impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d'altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all'altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un'analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell'ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall'analisi svolta emerge innanzitutto come l'assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all'erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l'inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite "alleanze", collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell'Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l'impossibilità per l'autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all'attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L'opera si chiude con l'individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell'ambito dell'attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l'intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell'attuale configurazione dell'intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l'autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell'Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall'altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell'applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l'evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni'70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L'effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l'intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l'estensivo ricorso all'essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell'efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l'ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E'stata infine sottolineata l'inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E' di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull'economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l'applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall'elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l'efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l'ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.
La ricerca si è proposta di analizzare dal punto di vista del diritto costituzionale le limitazioni al giudicato nazionale provenienti dall'ordinamento dell'Unione europea e dal sistema di protezione dei diritti fondamentali che fa capo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La scelta di trattare il tema assumendo la duplice prospettiva del diritto dell'Unione europea e della CEDU è apparsa necessaria per via dell'elevato grado di integrazione con l'ordinamento interno che i due fenomeni hanno raggiunto e che non è paragonabile, quanto meno relativamente allo specifico tema in esame, ad altre esperienze di diritto internazionale. Questa scelta ha imposto il metodo di studio, o meglio i metodi, necessari per non tradire la differente natura dei due fenomeni. Si è ritenuto doveroso, infatti, quanto all'Unione europea, assumere il punto di vista del diritto dell'Unione stessa e analizzare sostanzialmente la giurisprudenza della Corte di giustizia che ha delineato casi e modalità in cui il diritto dell'Unione impone, con effetti diretti, il superamento del giudicato. L'analisi del diritto interno si è invece limitata ad alcune considerazioni circa i problemi applicativi che tali effetti diretti producono. Quanto alla CEDU, viceversa, è apparso necessario assumere principalmente il punto di vista del diritto interno. In particolare, si è in un primo momento cercato di ricostruire il contenuto dell'obbligo internazionale di introdurre limitazioni al giudicato per come tale obbligo è emerso nella giurisprudenza e nella prassi degli organi del Consiglio d'Europa. Successivamente, tale obbligo è stato esaminato dal punto di vista del diritto interno ai fini del suo recepimento. In particolare, il problema delle limitazioni al giudicato è stato ricondotto alla collocazione del diritto convenzionale nel sistema delle fonti, alle questioni concernenti l'esegesi del diritto convenzionale e delle sentenze della Corte di Strasburgo, ai rapporti istituzionali tra le Corti. Questa differenziazione è sembrata imprescindibile per via della diversa natura dell'ordinamento dell'Unione europea rispetto a quello che ordinamento – almeno allo stato – non è, ovvero il sistema CEDU, per come questa diversa natura è venuta emergendo sia nella giurisprudenza delle Corti di giustizia e di Strasburgo, sia nella consolidata giurisprudenza costituzionale. Obiettivo della ricerca è stato lo studio delle limitazioni al giudicato volto a comprenderne la ratio e le implicazioni, da un lato, ordinamentali e, dall'altro, relative alla tutela dei diritti. Inoltre, si è inteso verificare se esista uno statuto costituzionale del giudicato e se tali limitazioni siano con esso compatibili. All'esito della ricerca è emerso che le limitazioni al giudicato provenienti dall'ordinamento dell'Unione europea e dal sistema della Convenzione europea dei diritti dell'uomo si muovono su strade fondamentalmente già percorse dagli ordinamenti statali all'indomani dell'introduzione delle Costituzioni del secondo dopoguerra. Anzitutto, né l'ordinamento dell'Unione europea né la CEDU impongono il superamento incondizionato del carattere di stabilità del giudicato. Le limitazioni all'irretrattabilità delle sentenze emesse dai giudici nazionali sono infatti puntuali e subordinate o al ricorrere di una serie di condizioni tutto sommato eccezionali o al riconoscimento, da parte dei competenti organi sovranazionali e convenzionali, dell'ineluttabilità di tale risultato in relazione alle specificità del caso concreto. Per quanto riguarda l'ordinamento dell'Unione europea, le limitazioni al giudicato nazionale godono dell'effetto diretto, perché mutuano tale carattere dalle norme dei Trattati da cui la Corte di giustizia le ricava in via ermeneutica in sede di rinvio pregiudiziale interpretativo. La loro efficacia erga omnes e la loro formulazione in termini generali e astratti permette di accostarle, a questi soli fini, a delle "norme" che intendano i) disciplinare in maniera più restrittiva di quanto previsto dal diritto interno le regole sulla formazione del giudicato e sulla sua estensione ovvero, direttamente, ii) travolgere i rapporti coperti da giudicato, imponendone un nuovo trattamento giuridico. Quanto alle limitazioni sub i), riconducibili alla disciplina del giudicato in sé considerata, l'opera della Corte di giustizia appare una sorta di limatura delle discipline processuali degli Stati membri. Essa è volta a eliminare le asperità dei singoli ordinamenti che non appaiono giustificabili alla luce di una rule of reason che intende soppesare le limitazioni alle possibilità di ripristino della legalità sovranazionale con l'effettivo perseguimento di ineludibili esigenze di certezza dell'ordinamento giuridico. In questo senso, la giurisprudenza della Corte di giustizia è certamente lontana dal possibile travalicamento dei cc.dd. controlimiti, se è vero, com'è, che un'ampia discrezionalità circa l'esatta conformazione dell'istituto del giudicato è pacificamente riconosciuta financo al legislatore ordinario. Quanto alle limitazioni sub ii), relative al giudicato non come istituto, ma come atto i cui specifici effetti devono essere espunti dall'ordinamento giuridico, la questione appare più delicata. Lo statuto costituzionale del giudicato impone al legislatore ordinario che il travolgimento intrinsecamente provvedimentale dei rapporti giuridici coperti dal giudicato debba trovare giustificazione nel perseguimento di ineludibili princìpi o valori di pregio costituzionale, nel rispetto del principio di proporzionalità tra il fine perseguito e i mezzi predisposti per la sua realizzazione. L'esigenza che il superamento dell'irretrattabilità delle sentenze definitive non costituisca esercizio arbitrario del potere pubblico è ascrivibile all'essenza stessa di uno Stato costituzionale di diritto ed è dunque opponibile anche al diritto dell'Unione europea. Infatti, la possibilità di individuare caso per caso quali specifici rapporti devono ricevere un nuovo trattamento giuridico sfocerebbe nell'arbitrio se non fosse saldamente ancorata al perseguimento di princìpi o valori di pregio costituzionale, nel rispetto del principio di proporzionalità. Il fatto di non riferirsi alla generalità dei consociati e dei rapporti giuridici, ma a fattispecie ben identificate nella loro individualità, è infatti massimamente lesivo della certezza del diritto, perché astrattamente qualsiasi rapporto giuridico, in qualsiasi momento, potrebbe essere rimesso in discussione per il solo fatto che il giudice di Lussemburgo non ne condivida il trattamento giuridico offerto nel merito dal giudice nazionale. Ciò calpesterebbe le legittime aspettative di stabilità che le parti hanno riposto nella perdurante efficacia delle norme sulla formazione del giudicato. In definitiva, l'essenza stessa del loro diritto di difesa sarebbe violato, perché l'agire o il resistere in giudizio sarebbe reso sostanzialmente vano dalla possibilità che il risultato raggiunto nel processo sia nuovamente messo in discussione. Occorre allora valutare se la Corte di giustizia si sia mantenuta entro gli stretti limiti entro cui la Costituzione tollera l'incidenza diretta su specifici rapporti coperti dal giudicato. La risposta, allo stato attuale, pare dover essere positiva, perché l'unica eccezione alla stabilità di un giudicato legittimamente formatosi è stata individuata nella grave violazione della ripartizione delle competenze tra Stati membri e Unione posta nei Trattati. Non vi è dubbio che, in un ordinamento che trova origine nell'accordo di un gruppo di Stati di creare un'entità giuridica sovranazionale cui demandare l'esercizio di alcune funzioni in cui tradizionalmente si esprime la loro sovranità, il rispetto del confine tracciato tra le competenze dei diversi livelli di governo è principio fondante. L'esigenza che il riparto di competenze sia osservato è insita nell'idea stessa di un sistema giuridico complesso in cui il potere pubblico è ripartito tra istanze locali e un'istanza centrale. Essa, inoltre, trova saldi appigli nell'esperienza storica, oltre che nel nostro diritto costituzionale positivo. La funzione svolta dalla Corte di giustizia è in questi casi assimilabile a quella di un giudice dei conflitti intersoggettivi. Poiché anche una sentenza definitiva può costituire oggetto di un ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato o di competenza tra lo Stato e le Regioni innanzi la Corte costituzionale, la limitazione al giudicato nazionale derivante dalla necessità di porre rimedio a gravi violazioni della ripartizione delle competenze tra Stati membri e Unione pare perseguire un principio di pregio costituzionale. Essa, inoltre, rispetta il principio di proporzionalità perché non è imposta dalla Corte di giustizia se non nel caso in cui sia lo stesso giudice nazionale a indicare, in sede di rinvio pregiudiziale, di non avere altri strumenti a sua disposizione per ripristinare la corretta ripartizione delle competenze. Un discorso a parte meritano le limitazioni al giudicato che la Corte di giustizia trae dalla necessità che sia pienamente assicurata l'operatività del meccanismo pregiudiziale di cui all'art. 267 TFUE. Tali limitazioni vanno a incidere, come quelle analizzate sub i), sulla disciplina nazionale del giudicato complessivamente intesa e non sul giudicato come atto, perché si rivolgono a una serie indefinita di procedimenti giudiziari, accomunati soltanto dalla circostanza, peraltro meramente accidentale, che il dubbio sulla corretta interpretazione da dare a una (qualsiasi) norma UE sorga in un momento in cui tale interpretazione non potrebbe essere rimessa in discussione dal giudice nazionale per il vincolo che il diritto processuale interno gli impone al rispetto di quanto statuito da un giudice di grado superiore. Diversamente dalle ipotesi esaminate sub i), queste limitazioni non sembrano poter essere accostate, dal punto di vista costituzionale interno, alla scelta in favore di una disciplina della formazione del giudicato più attenta alle esigenze della legalità rispetto a quelle della certezza, ma che si muove pur sempre all'interno di un ventaglio di soluzioni tutte astrattamente aperte alla legge ordinaria. La Corte di giustizia, infatti, non si limita a smussare quelle che potrebbero apparire delle eccentricità locali agli occhi di un giudice il cui sguardo si estende al funzionamento di una trentina di diritti processuali nazionali diversi. Il contrasto tra disciplina nazionale del giudicato e diritto UE è qui invece immediato e diretto e opera tra due norme funzionalmente equivalenti, l'art. 267 TFUE, da una parte, e la norma processuale nazionale che vincola il giudice alla statuizione del tribunale di grado superiore, dall'altra. In definitiva, si intende far prevalere il rapporto tra giudice nazionale e giudice sovranazionale a quello tra giudici nazionali di diverso grado. Se allora, nei casi indicati sub i) e ii), il superamento dell'irretrattabilità del giudicato nazionale era funzionale a un più ampio dispiegarsi della legalità sovranazionale, l'ipotesi qui specificamente in esame pare porsi più sul piano istituzionale che su quello meramente normativo. Il giudicato entra in tensione non tanto con la legalità sovranazionale, che in ipotesi potrebbe addirittura non essere stata violata nel merito dal giudice di grado superiore, quanto con la piena operatività di uno strumento di raccordo istituzionale tra ordinamento interno e ordinamento sovranazionale. Di qui, la giustificabilità sul piano costituzionale della limitazione, in quanto già l'introduzione della giustizia costituzionale impose nel suo momento una ridefinizione dei rapporti tra giudici comuni e la Corte di recente istituzione. Nel nostro ordinamento, in particolare, ciò è avvenuto anche in relazione al problema del riconoscimento in capo a qualsiasi giudice della facoltà di sollevare una questione di legittimità costituzionale, ancorché la norma indubbiata fosse stata già interpretata (e ritenuta esente da vizi di costituzionalità) da parte di un tribunale di grado superiore. Occorre adesso valutare le limitazioni emerse nell'ambito del sistema di protezione dei diritti fondamentali facente capo alla CEDU. In assenza di effetto diretto, tali limitazioni costituiscono oggetto di un obbligo internazionale che penetra nel nostro ordinamento pel tramite della legge di ratifica ed esecuzione. La disciplina del loro regime giuridico all'interno dell'ordinamento statale, pertanto, è posta dal diritto nazionale. Ne deriva che il parametro rispetto al quale valutare la legittimità di tali limitazioni è più ampio di quello che opera nei confronti del diritto UE, perché, a differenza di quest'ultimo, si estende alla Costituzione nel suo complesso, e non soltanto ai cc.dd. controlimiti. Ciò chiarito, si passa ad analizzare le due macro ipotesi in cui si possono dare limitazioni al giudicato nazionale da parte del diritto convenzionale. La prima attiene al possibile contrasto tra la configurazione che l'istituto assume nel diritto nazionale e il diritto di accesso al giudice ai sensi dell'art. 6, par. 1, CEDU. La sua conformità al dettato costituzionale non desta particolari perplessità. Infatti, anche la disciplina sulla formazione e sugli effetti giudicato deve, al pari di qualsiasi altra norma dell'ordinamento, garantire un minimum di protezione al diritto di accesso al giudice e rispettare i princìpi di ragionevolezza e proporzionalità. I risultati cui la Corte di Strasburgo è giunta in materia di processo in contumacia possono accostarsi a quelle pronunce con cui la Corte costituzionale ha allargato le maglie della disciplina processuale delle impugnazioni, ritenendo che in eccezionali casi la formazione del giudicato si ponesse in contrasto con i princìpi di ragionevolezza e uguaglianza e con il nucleo duro del diritto di difesa. La seconda ipotesi di limitazione al giudicato proveniente dal sistema convenzionale attiene al procedimento di esecuzione delle sentenze di accertamento di violazione emesse dalla Corte di Strasburgo nei confronti dell'Italia. In questi casi non è la configurazione astratta dell'istituto, ma la singola sentenza passata in giudicato a risultare incompatibile con la Convenzione, perché la sua perdurante efficacia impedisce la restitutio in integrum del diritto violato. Il superamento dell'irretrattabilità del giudicato è dunque necessario per porre rimedio i) a una violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione europea, ii) ove tale violazione sia stata accertata dall'organo preposto a giudicare i ricorsi individuali promossi ai sensi dell'art. 34 CEDU. L'ipotesi qui in esame si caratterizza dunque per l'intreccio inscindibile tra profilo normativo e profilo istituzionale. Non tutte le volte che sia argomentabile, sulla base della giurisprudenza della Corte EDU, la violazione del catalogo dei diritti convenzionali potrà essere invocata la "riapertura" o il "riesame" del giudicato, ma solo in quei casi in cui alla necessità di ripristinare la legalità convenzionale violata si accompagni l'esigenza di dare concreta esecuzione a una sentenza del giudice convenzionale resa nei confronti dell'Italia. La prima domanda da porsi è dunque se la previsione a livello legislativo di ipotesi di superamento dell'irretrattabilità delle sentenze definitive sia compatibile con lo statuto costituzionale del giudicato quando sia stato accertato, da parte di un tribunale internazionale la cui giurisdizione è riconosciuta dallo Stato italiano, che tali sentenze sono state emesse in violazione di un diritto fondamentale di una delle parti. La risposta è in principio positiva, ma con alcune precisazioni. Il limite che l'efficacia delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale trova nei rapporti esauriti deriva dalla peculiare natura dell'invalidità della norma dichiarata incostituzionale e non da un bilanciamento costituzionalmente necessario tra certezza e legalità costituzionale. Il legislatore gode infatti di un certo margine di discrezionalità in merito ai casi di cedevolezza del giudicato applicativo di norma incostituzionale. Similmente, deve ritenersi che rientri nel ventaglio di possibilità offerte al legislatore la scelta di prevedere ipotesi di superamento dell'irretrattabilità del giudicato per porre rimedio a gravi violazioni dei diritti fondamentali, i cui effetti lesivi non potrebbero altrimenti cessare. La tutela della persona e dei suoi diritti fondamentali nei confronti di un esercizio (convenzionalmente) illegittimo del potere pubblico costituisce infatti un valore di sicuro pregio costituzionale, che legittimamente il legislatore può perseguire introducendo nuove ipotesi di superamento del giudicato. Non solo. Nei confronti del giudicato penale è la Costituzione stessa a imporre che il bilanciamento tra legalità costituzionale e certezza del diritto sia risolto in favore della prima. Ciò in quanto la tutela della libertà personale e lo statuto costituzionale della pena non tollerano che le conseguenze assai pregiudizievoli sulla vita del condannato possano continuare a prodursi una volta che sia stato accertato che la condanna fu pronunciata sulla base di norma poi dichiarata incostituzionale. Ebbene: le medesime esigenze di tutela paiono sussistere con riferimento alla condanna pronunciata in violazione della legalità convenzionale. Tanto, con la duplice conseguenza che deve ritenersi costituzionalmente necessario i) prevedere ipotesi di cessazione degli effetti del giudicato penale di cui la Corte EDU abbia accertato il contrasto con la Convenzione e ii) estendere tale cessazione a tutti i soggetti che si trovino nella medesima situazione sostanziale del ricorrente vittorioso a Strasburgo. Sebbene non si siano concretamente verificate fino ad oggi violazioni dello statuto costituzionale del giudicato, è necessario riflettere su alcuni punti di tensione che potrebbero facilmente accendersi con l'ulteriore evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte EDU. Questi profili problematici riguardano essenzialmente la tutela dei terzi nei giudizi civili e amministrativi e la protezione dell'imputato nei giudizi penali. I "terzi" sono coloro che, pur avendo preso parte al giudizio civile o amministrativo all'esito del quale è stata pronunciata la sentenza definitiva, non hanno partecipato al contraddittorio innanzi alla Corte di giustizia o alla Corte di Strasburgo. Essi sono terzi, pertanto, soltanto rispetto al procedimento in cui emerge l'obbligo sovranazionale o convenzionale di superare l'irretrattabilità della sentenza nazionale. Il problema, per la verità, difficilmente potrebbe porsi nei confronti della Corte di giustizia. Di norma, il procedimento pregiudiziale è incardinato nel corso di un giudizio in cui la perdurante efficacia di un precedente giudicato è oggetto di controversia tra le parti. In principio, pertanto, ai sensi del diritto interno i partecipanti al primo processo sono contraddittori necessari del secondo. Di conseguenza, ricevono la comunicazione di cancelleria circa il deposito dell'ordinanza di rinvio e posso costituirsi nel giudizio innanzi la Corte di giustizia. Quando invece l'identità di parti non si verifica, perché, ad esempio, il rinvio pregiudiziale trova origine in un procedimento per il risarcimento del danno che vede contrapposti il privato leso da una violazione del diritto UE e lo Stato inadempiente, la Corte di giustizia non richiede la cessazione degli effetti del giudicato, che continuerà ad avere forza di legge tra le parti, ma soltanto il pagamento da parte dello Stato – appunto – del risarcimento del danno. Ben più problematiche sotto questo profilo sono le pronunce della Corte EDU, sia per il meccanismo processuale di accesso alla Corte, sia per la struttura del giudizio convenzionale. Il ricorso individuale, infatti, è proposto nei confronti dello Stato e ha ad oggetto l'accertamento della violazione da parte di quest'ultimo dei diritti fondamentali del ricorrente. Nessun obbligo di notificazione è posto in favore delle altre parti del processo nazionale che pure potrebbero subire le conseguenze di una restitutio in integrum che ne imponesse la "riapertura" o il "riesame". Il loro intervento è infatti rimesso, ai sensi dell'art. 36, par. 2, CEDU, alla valutazione discrezionale del Presidente della Corte, il quale "può invitare […] ogni persona interessata diversa dal ricorrente, a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze". Così stando le cose, deve ritenersi che la tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. impedisca che il superamento dell'irretrattabilità del giudicato sia opponibile a coloro che non hanno potuto contraddire nel giudizio innanzi la Corte di Strasburgo. Né varrebbe sostenere che tale contraddittorio potrebbe essere "recuperato" nella nuova fase nazionale del procedimento giurisdizionale, in sede di revocazione o revisione della sentenza (ormai non più) definitiva. Il problema, infatti, è dato dalla possibilità stessa della "riapertura" o del "riesame", possibilità che prende forma all'interno del giudizio convenzionale. A ciò si aggiunga che, anche dal punto di vista del merito della controversia, i margini di scostamento dalla soluzione elaborata a Strasburgo sarebbero per il giudice della revocazione o revisione estremamente ristretti, se non del tutto inesistenti. La partecipazione della controparte soltanto in una fase processuale che si limita a recepire puntuali indicazioni aliunde formatisi sarebbe pertanto poco più che decorativa e certamente insufficiente a ritenere tutelato il diritto di difesa. Anche la Corte costituzionale ha recentemente osservato che l'introduzione di una nuova ipotesi di revocazione delle sentenze civili e amministrative quale strumento di esecuzione delle sentenze della Corte EDU potrebbe realizzarsi soltanto attraverso "una delicata ponderazione, alla luce dell'art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi". In un ideale dialogo con i giudici di Strasburgo, la Consulta ha suggerito che "l'invito della Corte EDU potrebbe essere più facilmente recepito in presenza di un adeguato coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale" e che "una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi – per mutamento delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice da parte della Corte EDU renderebbe più agevole l'opera del legislatore nazionale". Il secondo nodo problematico è quello relativo alla tutela dell'imputato. Il problema del superamento del giudicato penale non si è ancora mai posto in relazione al diritto dell'Unione europea. Tuttavia non sembra potersi escludere che la Corte di giustizia venga chiamata a occuparsi anche di norme processuali nazionali sulla formazione del giudicato penale. La materia penale, infatti, è stata recentemente al centro del citato caso Taricco, relativo alla compatibilità con il diritto dell'Unione del regime italiano della prescrizione. Ivi la Corte ha applicato i princìpi di equivalenza ed effettività in chiave repressiva, nel senso cioè di chiedere al giudice nazionale di verificare se la disciplina italiana i) provocasse "in un numero considerevole di casi, l'impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva" o ii) attribuisse alla frode in materia di IVA un trattamento penale non equivalente, perché meno repressivo, di quello previsto per i "casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana". La medesima ratio decidendi potrebbe dunque essere utilizzata, mutatis mutandis, nei confronti della disciplina italiana sulla formazione del giudicato. Dal punto di vista del diritto convenzionale, invece, la necessità di "riaprire" o "riesaminare" le sentenze definitive si è posta anzitutto proprio nei confronti dei procedimenti penali. Ciò è avvenuto per consentire all'imputato, ricorrente vittorioso a Strasburgo, di veder cessare le conseguenze pregiudizievoli di condanne pronunciate in violazione dei suoi diritti fondamentali. Tuttavia, a fronte dell'emergere nella giurisprudenza della Corte EDU di obblighi positivi di tutela penale dei diritti sanciti dalla Convenzione e della progressiva diffusione del riconoscimento alle vittime (persone offese dal reato o costituitesi parti civili nei procedimenti penali) del diritto di ottenere nell'ordinamento interno una punizione dei colpevoli "proporzionata" all'offesa subita, non può escludersi che la Corte di Strasburgo arrivi a individuare la riapertura delle indagini e dei processi passati in giudicato quale modalità di esecuzione delle sentenze di condanna per difetto di tutela penale delle vittime. Deve ritenersi che il superamento della stabilità del giudicato penale a detrimento della posizione dell'imputato costituisca un risultato costituzionalmente precluso dal divieto di bis in idem. Nel caso del diritto convenzionale, inoltre, violato sarebbe altresì il diritto di difesa e il principio del giusto processo, giacché le sorti del processo penale subito dall'imputato sarebbero decise nell'ambito di un giudizio, quello innanzi alla Corte EDU, al quale egli non ha potuto neanche prendere parte. In definitiva, la tutela dei terzi nei procedimenti civili e amministrativi e la protezione dell'imputato nei procedimenti penali segnano i confini che la Costituzione impone alle nuove limitazioni al giudicato nazionale emerse nell'ambito dell'ordinamento dell'Unione europea e del sistema convenzionale. Sotto diverso profilo, deve ritenersi che le tensioni sul giudicato interno esaminate nel secondo e terzo capitolo vadano ricostruite come fenomeno tipico dell'introduzione di nuovi sistemi normativo-istituzionali, in assenza di adeguati meccanismi di pacificazione e razionalizzazione dei loro rapporti con il sistema giuridico sul quale vanno a innestarsi. In questo senso, si è cercato di dimostrare come le dinamiche osservate all'indomani dell'entrata in vigore della Costituzione siano in larga parte assimilabili a quelle cui si assiste oggi per effetto dell'evoluzione del diritto dell'Unione europea e della CEDU. Non può però sottacersi che, accanto al problema tecnico-giuridico di far convivere la stabilità degli accertamenti giurisdizionali con le esigenze della legalità di recente introduzione e con l'esercizio delle funzioni degli organi istituiti per l'interpretazione e applicazione del nuovo diritto oggettivo, emerge altresì, nella spinta verso il superamento dell'irretrattabilità del giudicato, il perseguimento dei fini latamente politici che ciascuno di questi sistemi normativo-istituzionali si propone. La definitività del giudicato costituisce infatti un limite all'esercizio del potere pubblico e può come tale essere percepito, dal detentore di quest'ultimo, come un ostacolo da abbattere. Il superamento del giudicato nazionale consente alla Corte di giustizia di perseguire l'uniformità e l'effettività dell'applicazione del diritto dell'Unione. Nel sistema convenzionale, tale superamento è strumentale a una più ampia protezione dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU e a una maggiore incisività negli ordinamenti interni del meccanismo di ricorso individuale.
Il presente lavoro, tenterà di fornire una visione d'insieme quanto più completa possibile sulle cd. dichiarazioni anticipate di trattamento. La trattazione muoverà – ovviamente - dai dati normativi nazionali, primari e secondari, proseguendo poi verso l'analisi strutturale dell'istituto scansionando gli elementi costitutivi, quali il consenso, la forma, il diritto all'informazione ed i conseguenti risvolti applicativi, in particolar modo la figura dell'amministratore di sostegno, arrivando poi ai profili di responsabilità sia civile che penale; ma non tralasciando i profili comparatistici. Si presterà particolare attenzione, verso l'iter giurisprudenziale che ha contraddistinto la nascita nonché la giovane evoluzione dell'istituto, che ha prodotto la stesura dei due disegni di legge, che saranno oggetto di una valutazione giuridica, ma anche critica. Ed allora, la tematica del "fine vita" impone – necessariamente - una trattazione multilivello. L'analisi deve muovere dall'ordinamento positivo nazionale, dove l'evoluzione della materia è avvenuta attraverso l'introduzione, rectius creazione, dell'istituto del testamento biologico, ovvero più precisamente, delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Questi ultimi interventi, rispondono anche e soprattutto all'esigenza di allineamento proveniente dall'Europa, impulsati dalla emanazioni delle fondamentali Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo, Convenzione di Oviedo, Carta Europea dei diritti dell'uomo; tali fonti, seppur in modo differente sottolineano la centralità del Soggetto-Uomo e la conseguenziale importanza del processo autodeterminativo dello stesso. La normativa positiva nazionale, si sedimenta nella Costituzione agli artt. 2,3,31 e 32; e degradando nel quadro delle fonti, si pone a livello della legge ordinaria con il codice civile che all'art. 5 disciplina gli atti dispositivi del corpo. Dal punto di vista penalistico si incentrerà l'attenzione sulle fattispecie del suicidio assistito e l'omicidio del consenziente. Non possono trascurarsi per la trattazione i pareri del comitato di bioetico,i quali sono stati fondanti nella discussione dottrinaria e giurisprudenziale, né tanto meno il codice di deontologia medica; da ultimo in ambito di responsabilità medica la legge 189/2012. L'incipit dell'approfondimento è la normativa nazionale in riferimento ai diritti della personalità, i quali sono fortemente caratterizzati dalla non patrimonialità, dalla immanenza, nonché immaterialità al punto che non è più concepibile una visione dell'essere umano a prescindere da questi diritti. Non tutti i diritti della personalità, trovano una loro disciplina codicistica, ma una maggioranza di questi sono emersi e si sono imposti grazie all'opera di dottrina e giurisprudenza. La dottrina, però, è attualmente divisa tra chi considera il diritto della personalità come un monolitico diritto considerando l'uomo in ogni sua espressione; e tra chi sostiene che sussistano tanti diritti della personalità quanti la legge ne prevede. Diatriba dottrinaria che ha trovato il suo naturale epilogo con l'entrata in vigore della Carta Costituzionale, la quale espressamente all'art. 2 prevede che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo in funzione dello sviluppo della sua personalità chiarendo, che non debba intendersi ogni singolo diritto, bensi'qualsivoglia interesse proteso alla realizzazione della personalità del soggetto. La protezione di questi diritti, come supra individuato, si lega alla Carta Costituzionale negli artt. 2,3 31 e 32. I requisiti fondamentali di tali diritti sono l'assolutezza tutelata erga omnes, l'indisponibilità derivante dall'impossibilità del trasferimento dell'oggetto-persona, nonché l'imprescrittibilità. Tra questi diritti, assume una particolare rilevanza, il diritto all'integrità fisica, che tradizionalmente è associato al diritto alla salute di cui l'art.5 costituisce punto di riferimento nella normativa codicistica; ma successivamente alla Costituzione è stato necessario un nuovo inquadramento dell'articolo, in orbita alla nuova concezione di personalità e di salute cosi come costituzionalmente interpretati. Attualmente in Italia la tematica del "fine vita" ha trovato in due disegni di legge; il primo di questi "S10" approvato al Senato nel marzo 2009 ed inviato alla camera per ulteriore approvazione, nonostante innumerevoli modifiche, nel luglio 2011. Nonostante la presenza di questi due disegni di legge la via per giungere ad un testo normativo risulta essere ancora lunga ed impervia. Approntato l'inquadramento normativo generale, l'elaborato approfondirà questo nuovo istituto del testamento biologico; e già dalla nomenclatura però risulta giuridicamente inesatta, poichè il testamento così come disciplinato dall'art. 587 c.c. è un atto mortis causa destinato a produrre effetti per il tempo successivo alla morte, invece le disposizioni di fine vita producono il loro effetto prima della morte del soggetto. Pertanto, il termine risulta essere fortemente evocativo perché sottolinea un dato di fondamentale importanza cioè, l'ultrattività del volere che è un dato che unisce il testamento biologico al testamento come atto mortis causa. Ultra-attività del volere che deve avere effetto quando il soggetto non è più capace e non è più in grado di correggere, interpretare, rinnovare questa volontà; implicando in tal modo la sacralità di questo volere, l'esigenza di aumentare la soglia delle cautele procedimentali, perchè solo un volere consapevole e ponderato da parte del soggetto in ordine alle sue scelte esistenziale, è un volere autenticamente libero. Una delle prime definizioni di dichiarazioni anticipate di volontà si rinviene in un atto del comitato di bioetica del 2003, nel quale vengono definite come un documento con il quale il soggetto, dotato di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto, nel caso in cui nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Per attuare una attenta disamina dell'istituto è necessario dividere le direttive a seconda che siano impartite nel corso del rapporto terapeutico oppure vengano date indipendentemente come espressione di una libera scelta. Nella prima eventualità rientrerebbe nel rapporto tra medico e paziente. Dottrina prevalente ritiene di dover inquadrare questo tipo di direttiva all'interno della più ampia categoria dell'atto giuridico, concetto nel quale può ricomprendersi qualsiasi comportamento umano che assuma rilevanza per il diritto in quanto ad esso l'ordine giuridico ricollega una modificazione ad uno stato di cose preesistente. Ulteriore ripartizione fatta all'interno di questa categoria è stara tra negozio giuridico inteso come atto di natura negoziale e atto giuridico in senso stretto, scevro della natura negoziale. L'istituto del negozio giuridico, non ha mai trovato una collocazione sistematica nel codice civile; il legislatore ha sempre inteso il termine atto come categoria per ricomprendervi anche il negozio. Alla luce di ciò secondo alcuni la nozione di atto giuridico è da ricostruirsi in negativo cioè si è in presenza di un atto giuridico quando non ravvisabile nell'atto i caratteri degli atti negoziali. Altra tesi invece basa la catalogazione in base alla finalità perseguita dall'atto asserendo che, quando l'atto è espressione del potere di autoregolamentazione dei privati per creare un assetto vincolante dei loro interessi esso avrà natura negoziale; diversamente invece l'atto è semplicemente il presupposto per degli effetti giuridici già predisposti . L'atto giuridico in senso stretto trova la sua naturale espressione in fattispecie ad effetti tipici. Alla luce di quanto detto può quindi affermarsi che l'elemento distintivo tra atto e negozio è da valutarsi a seguito di una valutazione stutturale-funzionale. Il negozio ha la struttura di volontà precettiva ed è preordinato funzionalente a disporre di una determinata situazione giuridica, nell'atto invece la volontà e la consapevolezza rilevano come requisiti del comportamento poichè gli effetti prescindono dal contenuto volitivo dell'atto e sono determinati dalla legge, è il carattere dispositivo, quindi, l'elemento di discrimen tra le due figure. Alla luce di quanto sopra, si ritiene che in caso di direttive intervenute nel corso del rapporto medico-paziente, si sia in presenza di un atto giuridico in senso stretto, come tali si ritengono gli atti umani volontari i cui effetti sono stabiliti dalla legge. Di converso, sono da ritenersi di natura negoziale le direttive anticipate assunte dal soggetto come libera scelta avulsa da qualsiasi iter medico già in corso, l'ipotesi quindi di un soggetto perfettamente sano, fisicamente e psichicamente, perfettamente capace di intendere e di volere che decide, quale debbano essere o meno i trattamenti a cui sottoporsi nel caso e nel momento in cui non fosse più capace di esprimere la propria volontà. In questa visione viene proiettata la concezione del diritto all'identità da intendersi quale integrazione della personalità, come riscoperta del legame del corpo nella sua eccezione fisica e psichica. Il diritto all'identità porta con sé il principio di integrità, come potestà decisionale unica ed esclusiva del soggetto sulla propria sfera esistenziale. La dichiarazione è un atto che necessità dell'alterità, difatti viene definito come quell'atto che ha come scopo il far conoscere qualcosa a terzi, presupposto per la sua sussistenza è uno o più destinatari, che possono essere anche determinati. La dottrina nell'analizzare l'istituto della dichiarazione, in sé, ha più volte ribadito le tesi per la quale in realtà essa sia composta da due elementi, quello espressivo in cui si formula, e quello emissivo in cui si forma giungendo a maturazione. L'emissione quindi costituisce l'indice di maturità della dichiarazione e segna il momento dal quale questa esiste. Possono quindi distinguersi in dichiarazioni indirizzate per le quali la conoscenza da parte del terzo è condizione necessaria perché l'atto possa sussistere, oppure in dichiarazioni recettizie per le quali la direzione verso un terzo è strumentale alla produzione degli effetti in capo ad esso. L'elemento centrale è ovviamente il consenso, che presuppone un processo informativo, quale modalità di comunicazione bidirezionale che accompagna e sostiene il percorso di cura. È il processo comunicativo attraverso il quale il medico (e l'operatore sanitario, limitatamente agli atti di sua specifica competenza) fornisce al paziente notizie sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e/o della mancata terapia/atto sanitario, al fine di promuoverne una scelta pienamente autonoma e consapevole. Tale processo riguarda anche il minorenne, in forma adeguata all'età, l'interdetto giudiziale e l'incapace naturale, in forma proporzionata al loro livello di capacità, in modo che essi possano formarsi un'opinione sull'atto sanitario. Il consenso informato può definirsi come "esercizio del diritto del paziente all'autodeterminazione rispetto alle scelte diagnostico/terapeutiche proposte." La scelta viene attuata, al termine del processo informativo; tale procedimento che porta la persona assistita ad accettare l'atto sanitario, si articola essenzialmente in tre momenti, tra loro concatenati mediante ricorso ad una successione logica e cronologica. • Il primo momento consiste nella comunicazione al paziente di informazioni di rilevanza diagnostica e terapeutica. • Successivamente, deve sussistere la certezza che il paziente abbia capito il significato della suddetta comunicazione. • Infine, la decisione definitiva dell'interessato. Non si è in grado di acconsentire specificatamente, se non si dispone della informazione adeguata, senza la quale qualsiasi modulo di consenso sottoscritto risulta essere viziato e, conseguentemente, non valido sotto il profilo giuridico. Il consenso valido deve essere: informato, consapevole, personale, manifesto, specifico, preventivo, attuale e revocabile. Per soddisfare il requisito dell'informazione è necessario rispettare le caratteristiche della corretta informazione, la quale deve essere personalizzata, comprensibile, veritiera, obiettiva, esaustiva e non imposta. La personalizzazione, presuppone l'adeguatezza della stessa alla condizione fisica e psicologica, all'età ed alla capacità oltre che al substrato culturale e linguistico del paziente, nonché deve essere proporzionata alla tipologia della prestazione proposta. Per quanto possibile, va evitato il rischio di un involontario e non esplicito condizionamento, legato all'asimmetria informativa tra le figure del medico e del paziente, eventualmente accentuato dalla gravità della malattia e dalla complessità della terapia conseguente. L'informazione deve essere comprensibile, e cioè espressa con linguaggio semplice e chiaro, usando notizie e dati specialistici, evitando sigle o termini scientifici, attraverso anche l'utilizzo di schede illustrate o materiale video che consentano al paziente di comprendere compiutamente ciò che verrà effettuato, soprattutto in previsione di interventi particolarmente invasivi o demolitivi. Nel caso di paziente straniero, è necessario l'interprete nonché il materiale informativo tradotto, affinché venga correttamente e completamente compreso ciò che viene detto. L'informativa deve essere altresì veritiera, ovvero non deve creare false illusioni, ma prudente e accompagnata da ragionevole speranza nelle informazioni che hanno rilevanza tale da comportare gravi preoccupazioni o previsioni infauste. Il requisito dell'obiettività deve riscontrarsi su fonti validate o che godano di una legittimazione clinico - scientifica; oltre che indicativa delle effettive potenzialità di cura fornite dalla struttura che ospita il paziente e delle prestazioni tecnico-strutturali che l'ente è in grado di offrire permanentemente o in quel dato momento; fornendo notizie inerenti l'atto sanitario proposto nell'ambito del percorso di cura intrapreso e al soddisfacimento di ogni quesito specifico posto dal paziente. In particolar modo sulla natura e lo scopo principale; sulle probabilità di successo; sulle modalità di effettuazione; e sul sanitario che eseguirà la prestazione. Esaustivamente precise devono essere le conseguenze previste e la loro modalità di risoluzione; i rischi ragionevolmente prevedibili, le complicanze e la loro probabilità di verificarsi e di essere risolti da ulteriori trattamenti; eventuali possibilità di trattamenti alternativi, loro vantaggi e rischi; conseguenze del rifiuto alle prestazioni sanitarie. Ció detto, al paziente é riconosciuta la facoltà di non essere informato, delegando a terzi la ricezione delle informazioni, dal momento che il diritto all'informazione non necessariamente deve accompagnarsi all'obbligo di riceverla. Traccia però deve essere lasciata in forma scritta. In tal caso egli esprimerà comunque il consenso, subordinatamente all'informazione data a persona da lui delegata. Il consenso deve essere espresso da un soggetto che, ricevute correttamente e completamente le informazioni con le modalità descritte in precedenza, sia capace di intendere e di volere; e tale capacità di intendere non è valutabile separatamente dalla capacità di volere. Del diritto ad esprimere il consenso ne é titolare solo il paziente; l'informazione a terzi (compresi anche i familiari), è ammessa solitamente previo consenso esplicitamente espresso dal paziente. Il consenso espresso dai familiari è giuridicamente irrilevante. Per i minorenni, gli interdetti e per le persone sottoposte ad una amministrazione di sostegno riferita ad atti sanitari si rimanda successivamente proposte manifestatamente e, in particolar modo per le attività che esulano dalla routine. La manifestazione di volontà deve essere esplicita ed espressa inequivocabilmente, e preferibilmente in forma scritta. L'assenso deve essere riferito allo specifico atto sanitario proposto e prestato per un determinato trattamento, e non può peraltro legittimare il medico all'esecuzione di una scelta terapeutica diversa dal percorso di cura intrapreso, per natura od effetti, fatto salvo il sopraggiungere di una situazione di necessità ed urgenza che determini un pericolo grave per la salute o la vita del paziente. Il consenso deve essere prestato prima dell'atto proposto. L'intervallo di tempo tra la manifestazione del consenso e l'attuazione dell'atto sanitario non deve essere tale da far sorgere dubbi sulla persistenza della volontà del paziente; nel caso lo sia, è opportuno ottenere conferma del consenso già prestato, in prossimità della realizzazione dell'atto. Il requisito della attualità del consenso, racchiude i maggiori dubbi sull'ammissibilità delle d.a.t. ( dichiarazioni anticipate di trattamento). Il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, eventualmente anche nell'immediatezza della procedura sanitaria che si sta ponendo in essere; la natura contrattuale del consenso determina che per essere giuridicamente valido esso debba inoltre rispondere ai requisiti "libero" e "relativo al bene disponibile" . Evidenziati i requisiiti del consenso, è necessario soffermarsi su quali soggetti possano essere esecutori di tale dichiarazioni;è emersa quindi, la figura del fiduciario; in un primo momento in sede dottrinale si era fatto riferimento all'istituto del mandato per trovare un istituto cui ricondurre il rapporto tra paziente e fiduciario: il mandante attraverso le istruzioni poteva rendere al fiduciario le proprio volontà in ordine ai trattamento di fine vita ed il mandatario può rendere queste dichiarazioni di volontà secondo uno schema tipico con effetti nella sfera giuridica del mandante, ma in realtà questa ricostruzione trova il suo limite nella sopravvenuta estinzione del mandato per incapacitò del osggetto che da l'incarico fiduciario,da qui allora l'attenzione di dottrina e giurisprudenza si è focalizzata sulla figura dell'amministratore di sostegnodisciplinato nel codice civile dagli artt. 404 e ss. Lo strumento dell'art. 408 c.c.(scelta dell'amministratore di sostegno), avrebbe, al di là della sedes materiae, secondo alcuni, introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del testamento biologico; ed, allora, non resterebbe che concludere in conformità al dettato legislativo, che lo stesso debba rivestire la forma solenne dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Da qui il ruolo del notaio quale soggetto deputato ad apporre sulla scheda biologica il sigillo di "fedeltà". importante è Delibera del 23 giugno 2006 con la quale Il Consiglio Nazionale del Notariato, ritiene utile "in attesa di un'auspicabile iniziativa legislativa in materia ed al fine di garantire il medico nell'esercizio delle proprie responsabilità" – assicurare "la certezza della provenienza della dichiarazione dal suo autore, mediante intervento notarile e la reperibilità della medesima in un registro telematico nazionale". Considerato, quindi, che l'intervento notarile – proprio perché volto ad assicurare il valore aggiunto della certezza fornito dalla pubblica funzione di certificazione - comporta il rispetto delle modalità operative fissate dalla legge (repertorio, trattamento fiscale, ecc.), ma "che nel contempo è necessario individuare forme che non comportino costi significativi ed aggravi di formalità burocratiche per il cittadino e la collettività". Nel provvedimento di cui si tratta, emerge la volontà del notariato di contribuire a risolvere un'esigenza di grande rilevanza umana e sociale e la disponibilità a provvedere alla istituzione e conservazione del Registro Generale dei testamenti di vita, con costi a proprio carico, mediante le proprie strutture informatiche e telematiche. Un dato di rilievo è che, secondo il Consiglio, "alla luce della attuale normativa, il notaio, richiesto di autenticare la sottoscrizione di una dichiarazione relativa ad un testamento di vita", può "farlo, non ravvisandosi alcuna contrarietà a norme di legge". Propone, quindi, in assenza di un divieto imperativo in materia, di utilizzare un testo di dichiarazione sottoscritta dal solo disponente, contenente la delega ad un fiduciario, incaricato di manifestare ai medici curanti l'esistenza del testamento di vita. Questi argomenti appena trattati, il consenso, la sua forma e il legittimato a porre in essere le volontà espresse sono tutti argomenti che sono stati oggetti di analisi giurisprudenziale in particolar modo nei casi Welby ed Englaro, che congiuntamente al caso Schiavo saranno approfonditi nell'elaborato finale. Bisogna comunque dire che il caso Welby è fondamentale per analizzare la responsabilità che coinvolge la tematica delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Difatti, per la prima volta si è incentrato il problema sulla eutanasia, ed il dottore che aveva "accompagnato alla morte" il soggetto, malato ormai da tempo e senza possibilità di guarigione o miglioramento alcuno, ma solo di peggioramento, accettandone la volontà di sospensione dei trattamenti salva vita, rispettando quindi il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, facente parte dei diritti inviolabili della persona di cui all'art. 2 Cost, fu rinviato a giudizio con l'accusa ex 579 c.p. E' da sottolineare che il "dissenso "di Welby possedeva tutti i requisiti necessari desumibili dalla Costituzione e dai principi generali dell'ordinamento, affinché la manifestazione di volontà del avesse rilievo giuridico onde escludersi l'applicazione dell'art. 579 in forza della scriminante dell'art. 51 c.p. Il possibile rifiuto del malato deve essere esercitato con riferimento ad un «trattamento sanitario», potendo riguardare solo una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e sempre all'interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario. Solo sul professionista e non su altri incombe, quindi, il dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, in ragione della relazione instauratasi tra i due per l'espletamento di una condotta di natura sanitaria a contenuto concordato. Con la conseguenza che, se il professionista dovesse porre in essere una condotta direttamente causativa della morte del paziente per espressa volontà di quest'ultimo, risponderà ad un preciso dovere che discende dalla previsione dell'art. 32, comma 2 Cost., mentre la stessa condotta posta in essere da ogni altro soggetto non risponderà ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto dall'ordinamento, non essendo stata esercitata all'interno di un rapporto terapeutico, nel quale solo nascono e si esercitano diritti e doveri specifici. Alla luce di queste premesse, può essere condivisa la soluzione proscioglitiva in ordine al reato di omicidio del consenziente. Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato nell'ambito sopra descritto ed alle condizioni precedentemente illustrate, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio. Con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l'interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall'art. 51 c.p. . La fonte del dovere per il medico, quindi, risiederebbe in prima istanza nella stessa norma costituzionale, che è di rango superiore rispetto alla legge penale, e l'operatività della scriminante nell'ipotesi sopra delineata è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione dell'ordinamento giuridico il quale, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo esercizio. Da ultimo, sull'argomento si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la sentenza 20984/2012 la quale sembrerebbe affermare che l'intervento del medico è scriminato non solo nei casi di TSO (casi pacificamente scriminati) ma in tutti i casi in cui si incorra in uno stato di necessità ex art. 54 c.p. Il consenso informato ha come correlato la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, nell'eventualità, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla (n.b.: questa definizione di consenso informato è espressione di libertà positiva); e ciò in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Secondo la definizione della Corte Costituzionale (Corte Cost. 438/2008) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell'obbligo del consenso informato discende: a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto; b) dal verificarsi - in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente. Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Ciò perché, sotto questo profilo, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica. Importante svolta in campo di responsabilità medica è stata data la legge 8 novembre 2012, n. 189 che ha convertito il Decreto Legge Balduzzi, n. 158/2012. La cosiddetta "colpa lieve" dell'esercente una professione sanitaria ne risulta, in certo qual senso, depenalizzata. Infatti, il dato testuale dell'art. 3, 1° co., il sanitario che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. Sulla responsabilità del medico e della struttura sanitaria, e della sua natura si tratterà esaustivamente nel corso dell'elaborato. In Italia, nonostante il problema sia sorto da tempo, e sia stato, come visto, oggetto di copiosa attività giurisprudenziale di merito e di legittimità, nonché dottrinaria, non si ha al momento, ancora un testo normativo che disciplini la materia in oggetto. L'iter normativo sul testamento biologico, in Italia ha inizio con il d.d.l. presentato al Senato (s.10) il 29 aprile del 2008 e dallo stesso approvato il 26 marzo 2009. Il disegno così come approvato è stato inviato alla Camera, che lo ha modificato il 12 luglio 2011, e da allora siamo stagnati sull'argomento, anche per la presenza di un governo cd. tecnico. Una timida ripresa, è stata impulsata dalla commissione permanente di igiene e sanità nell'ottobre del 2012. Pertanto, il giurista si deve attenere alle fonti a disposizione, e perciò, operando un raffronto di questi due testi, emerge l'allontanarsi del sistema positivo italiano - nonostante stia allineandosi all'Europa sotto molteplici aspetti - sul tema di «fine vita» non dimostrandosi ancora competitivo per la normativa europea. Si rimanda, indi alla trattazione finale per il lavoro comparatistico delle leggi in itinere. Il presente lavoro, tenterà di fornire una visione d'insieme quanto più completa possibile sulle cd. dichiarazioni anticipate di trattamento. La trattazione muoverà – ovviamente - dai dati normativi nazionali, primari e secondari, proseguendo poi verso l'analisi strutturale dell'istituto scansionando gli elementi costitutivi, quali il consenso, la forma, il diritto all'informazione ed i conseguenti risvolti applicativi, in particolar modo la figura dell'amministratore di sostegno, arrivando poi ai profili di responsabilità sia civile che penale; ma non tralasciando i profili comparatistici. Si presterà particolare attenzione, verso l'iter giurisprudenziale che ha contraddistinto la nascita nonché la giovane evoluzione dell'istituto, che ha prodotto la stesura dei due disegni di legge, che saranno oggetto di una valutazione giuridica, ma anche critica. Ed allora, la tematica del "fine vita" impone – necessariamente - una trattazione multilivello. L'analisi deve muovere dall'ordinamento positivo nazionale, dove l'evoluzione della materia è avvenuta attraverso l'introduzione, rectius creazione, dell'istituto del testamento biologico, ovvero più precisamente, delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Questi ultimi interventi, rispondono anche e soprattutto all'esigenza di allineamento proveniente dall'Europa, impulsati dalla emanazioni delle fondamentali Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo, Convenzione di Oviedo, Carta Europea dei diritti dell'uomo; tali fonti, seppur in modo differente sottolineano la centralità del Soggetto-Uomo e la conseguenziale importanza del processo autodeterminativo dello stesso. La normativa positiva nazionale, si sedimenta nella Costituzione agli artt. 2,3,31 e 32; e degradando nel quadro delle fonti, si pone a livello della legge ordinaria con il codice civile che all'art. 5 disciplina gli atti dispositivi del corpo. Dal punto di vista penalistico si incentrerà l'attenzione sulle fattispecie del suicidio assistito e l'omicidio del consenziente. Non possono trascurarsi per la trattazione i pareri del comitato di bioetico,i quali sono stati fondanti nella discussione dottrinaria e giurisprudenziale, né tanto meno il codice di deontologia medica; da ultimo in ambito di responsabilità medica la legge 189/2012. L'incipit dell'approfondimento è la normativa nazionale in riferimento ai diritti della personalità, i quali sono fortemente caratterizzati dalla non patrimonialità, dalla immanenza, nonché immaterialità al punto che non è più concepibile una visione dell'essere umano a prescindere da questi diritti. Non tutti i diritti della personalità, trovano una loro disciplina codicistica, ma una maggioranza di questi sono emersi e si sono imposti grazie all'opera di dottrina e giurisprudenza. La dottrina, però, è attualmente divisa tra chi considera il diritto della personalità come un monolitico diritto considerando l'uomo in ogni sua espressione; e tra chi sostiene che sussistano tanti diritti della personalità quanti la legge ne prevede. Diatriba dottrinaria che ha trovato il suo naturale epilogo con l'entrata in vigore della Carta Costituzionale, la quale espressamente all'art. 2 prevede che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo in funzione dello sviluppo della sua personalità chiarendo, che non debba intendersi ogni singolo diritto, bensi'qualsivoglia interesse proteso alla realizzazione della personalità del soggetto. La protezione di questi diritti, come supra individuato, si lega alla Carta Costituzionale negli artt. 2,3 31 e 32. I requisiti fondamentali di tali diritti sono l'assolutezza tutelata erga omnes, l'indisponibilità derivante dall'impossibilità del trasferimento dell'oggetto-persona, nonché l'imprescrittibilità. Tra questi diritti, assume una particolare rilevanza, il diritto all'integrità fisica, che tradizionalmente è associato al diritto alla salute di cui l'art.5 costituisce punto di riferimento nella normativa codicistica; ma successivamente alla Costituzione è stato necessario un nuovo inquadramento dell'articolo, in orbita alla nuova concezione di personalità e di salute cosi come costituzionalmente interpretati. Attualmente in Italia la tematica del "fine vita" ha trovato in due disegni di legge; il primo di questi "S10" approvato al Senato nel marzo 2009 ed inviato alla camera per ulteriore approvazione, nonostante innumerevoli modifiche, nel luglio 2011. Nonostante la presenza di questi due disegni di legge la via per giungere ad un testo normativo risulta essere ancora lunga ed impervia. Approntato l'inquadramento normativo generale, l'elaborato approfondirà questo nuovo istituto del testamento biologico; e già dalla nomenclatura però risulta giuridicamente inesatta, poichè il testamento così come disciplinato dall'art. 587 c.c. è un atto mortis causa destinato a produrre effetti per il tempo successivo alla morte, invece le disposizioni di fine vita producono il loro effetto prima della morte del soggetto. Pertanto, il termine risulta essere fortemente evocativo perché sottolinea un dato di fondamentale importanza cioè, l'ultrattività del volere che è un dato che unisce il testamento biologico al testamento come atto mortis causa. Ultra-attività del volere che deve avere effetto quando il soggetto non è più capace e non è più in grado di correggere, interpretare, rinnovare questa volontà; implicando in tal modo la sacralità di questo volere, l'esigenza di aumentare la soglia delle cautele procedimentali, perchè solo un volere consapevole e ponderato da parte del soggetto in ordine alle sue scelte esistenziale, è un volere autenticamente libero. Una delle prime definizioni di dichiarazioni anticipate di volontà si rinviene in un atto del comitato di bioetica del 2003, nel quale vengono definite come un documento con il quale il soggetto, dotato di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto, nel caso in cui nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Per attuare una attenta disamina dell'istituto è necessario dividere le direttive a seconda che siano impartite nel corso del rapporto terapeutico oppure vengano date indipendentemente come espressione di una libera scelta. Nella prima eventualità rientrerebbe nel rapporto tra medico e paziente. Dottrina prevalente ritiene di dover inquadrare questo tipo di direttiva all'interno della più ampia categoria dell'atto giuridico, concetto nel quale può ricomprendersi qualsiasi comportamento umano che assuma rilevanza per il diritto in quanto ad esso l'ordine giuridico ricollega una modificazione ad uno stato di cose preesistente. Ulteriore ripartizione fatta all'interno di questa categoria è stara tra negozio giuridico inteso come atto di natura negoziale e atto giuridico in senso stretto, scevro della natura negoziale. L'istituto del negozio giuridico, non ha mai trovato una collocazione sistematica nel codice civile; il legislatore ha sempre inteso il termine atto come categoria per ricomprendervi anche il negozio. Alla luce di ciò secondo alcuni la nozione di atto giuridico è da ricostruirsi in negativo cioè si è in presenza di un atto giuridico quando non ravvisabile nell'atto i caratteri degli atti negoziali. Altra tesi invece basa la catalogazione in base alla finalità perseguita dall'atto asserendo che, quando l'atto è espressione del potere di autoregolamentazione dei privati per creare un assetto vincolante dei loro interessi esso avrà natura negoziale; diversamente invece l'atto è semplicemente il presupposto per degli effetti giuridici già predisposti . L'atto giuridico in senso stretto trova la sua naturale espressione in fattispecie ad effetti tipici. Alla luce di quanto detto può quindi affermarsi che l'elemento distintivo tra atto e negozio è da valutarsi a seguito di una valutazione stutturale-funzionale. Il negozio ha la struttura di volontà precettiva ed è preordinato funzionalente a disporre di una determinata situazione giuridica, nell'atto invece la volontà e la consapevolezza rilevano come requisiti del comportamento poichè gli effetti prescindono dal contenuto volitivo dell'atto e sono determinati dalla legge, è il carattere dispositivo, quindi, l'elemento di discrimen tra le due figure. Alla luce di quanto sopra, si ritiene che in caso di direttive intervenute nel corso del rapporto medico-paziente, si sia in presenza di un atto giuridico in senso stretto, come tali si ritengono gli atti umani volontari i cui effetti sono stabiliti dalla legge. Di converso, sono da ritenersi di natura negoziale le direttive anticipate assunte dal soggetto come libera scelta avulsa da qualsiasi iter medico già in corso, l'ipotesi quindi di un soggetto perfettamente sano, fisicamente e psichicamente, perfettamente capace di intendere e di volere che decide, quale debbano essere o meno i trattamenti a cui sottoporsi nel caso e nel momento in cui non fosse più capace di esprimere la propria volontà. In questa visione viene proiettata la concezione del diritto all'identità da intendersi quale integrazione della personalità, come riscoperta del legame del corpo nella sua eccezione fisica e psichica. Il diritto all'identità porta con sé il principio di integrità, come potestà decisionale unica ed esclusiva del soggetto sulla propria sfera esistenziale. La dichiarazione è un atto che necessità dell'alterità, difatti viene definito come quell'atto che ha come scopo il far conoscere qualcosa a terzi, presupposto per la sua sussistenza è uno o più destinatari, che possono essere anche determinati. La dottrina nell'analizzare l'istituto della dichiarazione, in sé, ha più volte ribadito le tesi per la quale in realtà essa sia composta da due elementi, quello espressivo in cui si formula, e quello emissivo in cui si forma giungendo a maturazione. L'emissione quindi costituisce l'indice di maturità della dichiarazione e segna il momento dal quale questa esiste. Possono quindi distinguersi in dichiarazioni indirizzate per le quali la conoscenza da parte del terzo è condizione necessaria perché l'atto possa sussistere, oppure in dichiarazioni recettizie per le quali la direzione verso un terzo è strumentale alla produzione degli effetti in capo ad esso. L'elemento centrale è ovviamente il consenso, che presuppone un processo informativo, quale modalità di comunicazione bidirezionale che accompagna e sostiene il percorso di cura. È il processo comunicativo attraverso il quale il medico (e l'operatore sanitario, limitatamente agli atti di sua specifica competenza) fornisce al paziente notizie sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e/o della mancata terapia/atto sanitario, al fine di promuoverne una scelta pienamente autonoma e consapevole. Tale processo riguarda anche il minorenne, in forma adeguata all'età, l'interdetto giudiziale e l'incapace naturale, in forma proporzionata al loro livello di capacità, in modo che essi possano formarsi un'opinione sull'atto sanitario. Il consenso informato può definirsi come "esercizio del diritto del paziente all'autodeterminazione rispetto alle scelte diagnostico/terapeutiche proposte." La scelta viene attuata, al termine del processo informativo; tale procedimento che porta la persona assistita ad accettare l'atto sanitario, si articola essenzialmente in tre momenti, tra loro concatenati mediante ricorso ad una successione logica e cronologica. • Il primo momento consiste nella comunicazione al paziente di informazioni di rilevanza diagnostica e terapeutica. • Successivamente, deve sussistere la certezza che il paziente abbia capito il significato della suddetta comunicazione. • Infine, la decisione definitiva dell'interessato. Non si è in grado di acconsentire specificatamente, se non si dispone della informazione adeguata, senza la quale qualsiasi modulo di consenso sottoscritto risulta essere viziato e, conseguentemente, non valido sotto il profilo giuridico. Il consenso valido deve essere: informato, consapevole, personale, manifesto, specifico, preventivo, attuale e revocabile. Per soddisfare il requisito dell'informazione è necessario rispettare le caratteristiche della corretta informazione, la quale deve essere personalizzata, comprensibile, veritiera, obiettiva, esaustiva e non imposta. La personalizzazione, presuppone l'adeguatezza della stessa alla condizione fisica e psicologica, all'età ed alla capacità oltre che al substrato culturale e linguistico del paziente, nonché deve essere proporzionata alla tipologia della prestazione proposta. Per quanto possibile, va evitato il rischio di un involontario e non esplicito condizionamento, legato all'asimmetria informativa tra le figure del medico e del paziente, eventualmente accentuato dalla gravità della malattia e dalla complessità della terapia conseguente. L'informazione deve essere comprensibile, e cioè espressa con linguaggio semplice e chiaro, usando notizie e dati specialistici, evitando sigle o termini scientifici, attraverso anche l'utilizzo di schede illustrate o materiale video che consentano al paziente di comprendere compiutamente ciò che verrà effettuato, soprattutto in previsione di interventi particolarmente invasivi o demolitivi. Nel caso di paziente straniero, è necessario l'interprete nonché il materiale informativo tradotto, affinché venga correttamente e completamente compreso ciò che viene detto. L'informativa deve essere altresì veritiera, ovvero non deve creare false illusioni, ma prudente e accompagnata da ragionevole speranza nelle informazioni che hanno rilevanza tale da comportare gravi preoccupazioni o previsioni infauste. Il requisito dell'obiettività deve riscontrarsi su fonti validate o che godano di una legittimazione clinico - scientifica; oltre che indicativa delle effettive potenzialità di cura fornite dalla struttura che ospita il paziente e delle prestazioni tecnico-strutturali che l'ente è in grado di offrire permanentemente o in quel dato momento; fornendo notizie inerenti l'atto sanitario proposto nell'ambito del percorso di cura intrapreso e al soddisfacimento di ogni quesito specifico posto dal paziente. In particolar modo sulla natura e lo scopo principale; sulle probabilità di successo; sulle modalità di effettuazione; e sul sanitario che eseguirà la prestazione. Esaustivamente precise devono essere le conseguenze previste e la loro modalità di risoluzione; i rischi ragionevolmente prevedibili, le complicanze e la loro probabilità di verificarsi e di essere risolti da ulteriori trattamenti; eventuali possibilità di trattamenti alternativi, loro vantaggi e rischi; conseguenze del rifiuto alle prestazioni sanitarie. Ció detto, al paziente é riconosciuta la facoltà di non essere informato, delegando a terzi la ricezione delle informazioni, dal momento che il diritto all'informazione non necessariamente deve accompagnarsi all'obbligo di riceverla. Traccia però deve essere lasciata in forma scritta. In tal caso egli esprimerà comunque il consenso, subordinatamente all'informazione data a persona da lui delegata. Il consenso deve essere espresso da un soggetto che, ricevute correttamente e completamente le informazioni con le modalità descritte in precedenza, sia capace di intendere e di volere; e tale capacità di intendere non è valutabile separatamente dalla capacità di volere. Del diritto ad esprimere il consenso ne é titolare solo il paziente; l'informazione a terzi (compresi anche i familiari), è ammessa solitamente previo consenso esplicitamente espresso dal paziente. Il consenso espresso dai familiari è giuridicamente irrilevante. Per i minorenni, gli interdetti e per le persone sottoposte ad una amministrazione di sostegno riferita ad atti sanitari si rimanda successivamente proposte manifestatamente e, in particolar modo per le attività che esulano dalla routine. La manifestazione di volontà deve essere esplicita ed espressa inequivocabilmente, e preferibilmente in forma scritta. L'assenso deve essere riferito allo specifico atto sanitario proposto e prestato per un determinato trattamento, e non può peraltro legittimare il medico all'esecuzione di una scelta terapeutica diversa dal percorso di cura intrapreso, per natura od effetti, fatto salvo il sopraggiungere di una situazione di necessità ed urgenza che determini un pericolo grave per la salute o la vita del paziente. Il consenso deve essere prestato prima dell'atto proposto. L'intervallo di tempo tra la manifestazione del consenso e l'attuazione dell'atto sanitario non deve essere tale da far sorgere dubbi sulla persistenza della volontà del paziente; nel caso lo sia, è opportuno ottenere conferma del consenso già prestato, in prossimità della realizzazione dell'atto. Il requisito della attualità del consenso, racchiude i maggiori dubbi sull'ammissibilità delle d.a.t. ( dichiarazioni anticipate di trattamento). Il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, eventualmente anche nell'immediatezza della procedura sanitaria che si sta ponendo in essere; la natura contrattuale del consenso determina che per essere giuridicamente valido esso debba inoltre rispondere ai requisiti "libero" e "relativo al bene disponibile" . Evidenziati i requisiiti del consenso, è necessario soffermarsi su quali soggetti possano essere esecutori di tale dichiarazioni;è emersa quindi, la figura del fiduciario; in un primo momento in sede dottrinale si era fatto riferimento all'istituto del mandato per trovare un istituto cui ricondurre il rapporto tra paziente e fiduciario: il mandante attraverso le istruzioni poteva rendere al fiduciario le proprio volontà in ordine ai trattamento di fine vita ed il mandatario può rendere queste dichiarazioni di volontà secondo uno schema tipico con effetti nella sfera giuridica del mandante, ma in realtà questa ricostruzione trova il suo limite nella sopravvenuta estinzione del mandato per incapacitò del osggetto che da l'incarico fiduciario,da qui allora l'attenzione di dottrina e giurisprudenza si è focalizzata sulla figura dell'amministratore di sostegnodisciplinato nel codice civile dagli artt. 404 e ss. Lo strumento dell'art. 408 c.c.(scelta dell'amministratore di sostegno), avrebbe, al di là della sedes materiae, secondo alcuni, introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del testamento biologico; ed, allora, non resterebbe che concludere in conformità al dettato legislativo, che lo stesso debba rivestire la forma solenne dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Da qui il ruolo del notaio quale soggetto deputato ad apporre sulla scheda biologica il sigillo di "fedeltà". importante è Delibera del 23 giugno 2006 con la quale Il Consiglio Nazionale del Notariato, ritiene utile "in attesa di un'auspicabile iniziativa legislativa in materia ed al fine di garantire il medico nell'esercizio delle proprie responsabilità" – assicurare "la certezza della provenienza della dichiarazione dal suo autore, mediante intervento notarile e la reperibilità della medesima in un registro telematico nazionale". Considerato, quindi, che l'intervento notarile – proprio perché volto ad assicurare il valore aggiunto della certezza fornito dalla pubblica funzione di certificazione - comporta il rispetto delle modalità operative fissate dalla legge (repertorio, trattamento fiscale, ecc.), ma "che nel contempo è necessario individuare forme che non comportino costi significativi ed aggravi di formalità burocratiche per il cittadino e la collettività". Nel provvedimento di cui si tratta, emerge la volontà del notariato di contribuire a risolvere un'esigenza di grande rilevanza umana e sociale e la disponibilità a provvedere alla istituzione e conservazione del Registro Generale dei testamenti di vita, con costi a proprio carico, mediante le proprie strutture informatiche e telematiche. Un dato di rilievo è che, secondo il Consiglio, "alla luce della attuale normativa, il notaio, richiesto di autenticare la sottoscrizione di una dichiarazione relativa ad un testamento di vita", può "farlo, non ravvisandosi alcuna contrarietà a norme di legge". Propone, quindi, in assenza di un divieto imperativo in materia, di utilizzare un testo di dichiarazione sottoscritta dal solo disponente, contenente la delega ad un fiduciario, incaricato di manifestare ai medici curanti l'esistenza del testamento di vita. Questi argomenti appena trattati, il consenso, la sua forma e il legittimato a porre in essere le volontà espresse sono tutti argomenti che sono stati oggetti di analisi giurisprudenziale in particolar modo nei casi Welby ed Englaro, che congiuntamente al caso Schiavo saranno approfonditi nell'elaborato finale. Bisogna comunque dire che il caso Welby è fondamentale per analizzare la responsabilità che coinvolge la tematica delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Difatti, per la prima volta si è incentrato il problema sulla eutanasia, ed il dottore che aveva "accompagnato alla morte" il soggetto, malato ormai da tempo e senza possibilità di guarigione o miglioramento alcuno, ma solo di peggioramento, accettandone la volontà di sospensione dei trattamenti salva vita, rispettando quindi il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, facente parte dei diritti inviolabili della persona di cui all'art. 2 Cost, fu rinviato a giudizio con l'accusa ex 579 c.p. E' da sottolineare che il "dissenso "di Welby possedeva tutti i requisiti necessari desumibili dalla Costituzione e dai principi generali dell'ordinamento, affinché la manifestazione di volontà del avesse rilievo giuridico onde escludersi l'applicazione dell'art. 579 in forza della scriminante dell'art. 51 c.p. Il possibile rifiuto del malato deve essere esercitato con riferimento ad un «trattamento sanitario», potendo riguardare solo una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e sempre all'interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario. Solo sul professionista e non su altri incombe, quindi, il dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, in ragione della relazione instauratasi tra i due per l'espletamento di una condotta di natura sanitaria a contenuto concordato. Con la conseguenza che, se il professionista dovesse porre in essere una condotta direttamente causativa della morte del paziente per espressa volontà di quest'ultimo, risponderà ad un preciso dovere che discende dalla previsione dell'art. 32, comma 2 Cost., mentre la stessa condotta posta in essere da ogni altro soggetto non risponderà ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto dall'ordinamento, non essendo stata esercitata all'interno di un rapporto terapeutico, nel quale solo nascono e si esercitano diritti e doveri specifici. Alla luce di queste premesse, può essere condivisa la soluzione proscioglitiva in ordine al reato di omicidio del consenziente. Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato nell'ambito sopra descritto ed alle condizioni precedentemente illustrate, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio. Con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l'interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall'art. 51 c.p. . La fonte del dovere per il medico, quindi, risiederebbe in prima istanza nella stessa norma costituzionale, che è di rango superiore rispetto alla legge penale, e l'operatività della scriminante nell'ipotesi sopra delineata è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione dell'ordinamento giuridico il quale, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo esercizio. Da ultimo, sull'argomento si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la sentenza 20984/2012 la quale sembrerebbe affermare che l'intervento del medico è scriminato non solo nei casi di TSO (casi pacificamente scriminati) ma in tutti i casi in cui si incorra in uno stato di necessità ex art. 54 c.p. Il consenso informato ha come correlato la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, nell'eventualità, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla (n.b.: questa definizione di consenso informato è espressione di libertà positiva); e ciò in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Secondo la definizione della Corte Costituzionale (Corte Cost. 438/2008) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell'obbligo del consenso informato discende: a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto; b) dal verificarsi - in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente. Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Ciò perché, sotto questo profilo, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica. Importante svolta in campo di responsabilità medica è stata data la legge 8 novembre 2012, n. 189 che ha convertito il Decreto Legge Balduzzi, n. 158/2012. La cosiddetta "colpa lieve" dell'esercente una professione sanitaria ne risulta, in certo qual senso, depenalizzata. Infatti, il dato testuale dell'art. 3, 1° co., il sanitario che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. Sulla responsabilità del medico e della struttura sanitaria, e della sua natura si tratterà esaustivamente nel corso dell'elaborato. In Italia, nonostante il problema sia sorto da tempo, e sia stato, come visto, oggetto di copiosa attività giurisprudenziale di merito e di legittimità, nonché dottrinaria, non si ha al momento, ancora un testo normativo che disciplini la materia in oggetto. L'iter normativo sul testamento biologico, in Italia ha inizio con il d.d.l. presentato al Senato (s.10) il 29 aprile del 2008 e dallo stesso approvato il 26 marzo 2009. Il disegno così come approvato è stato inviato alla Camera, che lo ha modificato il 12 luglio 2011, e da allora siamo stagnati sull'argomento, anche per la presenza di un governo cd. tecnico. Una timida ripresa, è stata impulsata dalla commissione permanente di igiene e sanità nell'ottobre del 2012. Pertanto, il giurista si deve attenere alle fonti a disposizione, e perciò, operando un raffronto di questi due testi, emerge l'allontanarsi del sistema positivo italiano - nonostante stia allineandosi all'Europa sotto molteplici aspetti - sul tema di «fine vita» non dimostrandosi ancora competitivo per la normativa europea. Si rimanda, indi alla trattazione finale per il lavoro comparatistico delle leggi in itinere.
The number 1 edition of volume XXII of the year 2021, eight research articles, five review articles and one corresponding to the special section, university life. The first research article RELATION BETWEEN THE ENVIRONMENTAL ATTITUDE AND THE PURCHASE OF SOCIALLY RESPONSIBLE PRODUCTS IN THE CONSUMERS OF MEDELLÍN, COLOMBIA, written by Diana María López Celis of the Konrad Lorenz University and Mónica Eugenia Peñalosa Otero of the Jorge Tadeo Lozano University, address the responsible consumption issue and its relationship with the environment. The research was carried out in the city of Medellín - Colombia and 390 people over 18 years of age were surveyed. Data analysis was carried out, the results of which yielded interesting aspects such as a change in people's buying behavior, with a view to preserving the environment. In second place is the article EFFECTS OF THE FEATURES OF VIDEOS ON YOUTUBE THAT INCREASE THEIR POPULARITY: AN EMPIRICAL ANALYSIS by Carlos Fernando Osorio Andrade, Augusto Rodríguez Orejuela, Fernando Moreno Betancourt, professors at the Universidad del Valle, make an immersion in the world of multimedia platforms and use YouTube as a source of information to analyse the effect of some aspects such as: the strategy of the message, the consistency of the brand and the technical characteristics of the video on the popularity or download of videos corresponding to 4 cell phone companies , specifically Tigo, Movistar, Claro , Avantel. Third, in the article TYPOLOGIES OF POVERTY IN CALI: AN ANALYSIS BASED ON SISBEN, written by María Isabel Caicedo Hurtado and María Castillo Valencia of the Universidad del Valle in Colombia, a comparative study of the poverty conditions of the people surveyed by the Identification System of Potential Beneficiaries of Social Programs (SISBEN) for 2009 and 2019. This information is used to estimate the different types of poverty, based on the monetary poverty line and basic needs dissatisfied households in the city of Cali. The conclusions are very interesting in that there is evidence of an impoverishment of the people who enter the SISBEN and the inclusion of the poor in communes or neighborhoods of the city that had not previously been registered. In the fourth article ANALYSIS OF VENEZUELAN MIGRATION IN THE CITY OF PASTO: CHARACTERISTICS AND PERCEPTIONS OF MIGRANTS written by Bayron Paz Noguera; Oscar Alpala Ramos; Evelyn Villota Vivas, presents a socioeconomic characterization of the Venezuelan migrants who are in the city of Pasto and includes the reasons that led them to leave their country. For the research, which is also exploratory, a survey was applied to 180 people in which questions were included that allowed conclusions to be drawn regarding the situation of migrants in the city. It is interesting in that it shows empirically that some reasons for the exodus are insecurity, poverty and discontent with the government of Nicolás Maduro. In the fifth place is presented the article ENTREPRENEURSHIP AND DESIGN: CHARACTERIZATION OF ENTREPRENEURIAL INITIATIVES OF INDUSTRIAL DESIGNERS by María Cristina Ascuntar Rivera and Francisco Rafael Ayala Gallardo who make an analysis of the entrepreneurial initiatives of the students of the industrial design program of the University de Nariño in Colombia, which is presented as one of the degree options at this institution. The documentary review is established for a period of 18 years (2000-2018), 201 research projects were reviewed in different modalities of which only 5% corresponded to the modality of business creation. It is concluded that it is necessary to strengthen entrepreneurship and the modality of business creation, among other recommendations. In the sixth research article, BUSINESS INTENTION AND CULTURAL DIMENSIONS IN MASTER'S STUDENTS IN ADMINISTRATION IN COLOMBIA written by Edwin Ignacio Tarapuez Chamorro, Juan Manuel Aristizábal Tamayo and Adriana Patricia Uribe Urán, the dependence between business intention and the cultural dimensions of MBA students in Colombia, based on Hofstede's studies on culture, and as reference two variables: ease of doing business, included in the Doing Business study of the World Bank (2013) and the assessment of the entrepreneurial environment in Colombia contained in the General Entrepreneurship Monitor (GEM). For the research, a non-probabilistic survey was applied to 485 people from 36 face-to-face programs in 14 cities in Colombia divided between high income and low income, obtaining interesting results regarding the six dimensions studied. In the seventh research article CONSUMER DECISION MAKING AND CONSERVATION IN COSTA RICA presented by Pablo Andrés Sánchez Campos, an analysis of the consumer decision-making of respondents in Costa Rica and the influence of conservatism in this type of decision is carried out. The data are analyzed using statistical techniques and instruments that provide interesting conclusions to the investigation. In the eighth research article SOCIAL MEDIA MARKETING EN EMPRESAS AGRÍCOLAS CUBANAS written by Rudibel Perdigón Llanes and Hubert Viltres Sala, the importance of the use of social networks and the Internet for increasing profits and the visibility of companies is taken up. In the investigation, information was collected from 61 companies of the Agricultural Business Group of the Ministry of Agriculture of Cuba, concluding that it is necessary to reinforce their positioning due to their low index of digital positioning, which hinders their economic growth. Within the group of review articles is the one presented by Luis Améstica Rivas, Andrea King Domínguez, Carlos Cruzat Valenzuela, and Constanza Stuardo Solar from the Universidad de Chile called ADMINISTRATION AND FINANCIAL PERFORMANCE COUNCIL. A BIBLIOMETRIC STUDY. The authors carried out an interesting review of 4,468 articles related to the business area, using bibliometric techniques supported by the VOSviewer software, in order to establish the importance and relationship between decision-making by Boards of Directors and financial performance of the companies. The second review article is the one presented by Claudia Magali Solarte Solarte, Martha Lida Solarte Solarte, Gloria Alicia Rivera Vallejo of the Universidad Cesmag located in Colombia called THE ROLE OF ENTREPRENEURSHIP IN CONFLICT AND POSTCONFLICT: A SYSTEMATIC REVIEW OF LITERATURE. With the help of specialized databases such as Scopus, Scielo, Redalyc, Science Direct and Google Scholar, the authors explored some general terms related to entrepreneurship, in view of their interest in determining how entrepreneurship becomes a possible alternative of productive reintegration for ex-combatants and victims of the armed conflict in different countries of the world. In the third review article, TOURIST COMPETITIVENESS. AN APPROACH FROM THE DEPARTMENT OF BOYACÁ, COLOMBIA written by Ana Milena Serrano Amado, Luz A. Montoya Restrepo, Nidia Paola Amado Cely, the determining factors of the competitiveness of tourist destinations in the Province of Sugamuxi were identified, using the Crouch and Ritchie model. Some existing competitiveness models were reviewed and interesting conclusions were established with a view to generating a growing tourism dynamic in said province. In the fourth review article, TERRITORIAL DEVELOPMENT AND SOLIDARITY ECONOMY: ANALYSIS FROM THE CONCEPT OF DEVELOPMENT, THE ENVIRONMENT AND THE INCORPORATION OF COMMUNITIES IN A TERRITORIAL DEVELOPMENT STRATEGY, the authors Helmer Fernando Llanez Anaya and Claudia Patricia Sacristán Rodríguez, propose a analysis framework to articulate territorial development and the solidarity economy from three dimensions: the idea of development, the environmental dimension and the incorporation of communities in a territorial development strategy. For them, they conducted a document review using databases such as Redalyc, Scielo, Research Gate, scopus and Web of Science through the metasearch engine of the Javeriana University library. In the last review article OFERTA EXPORTABLE DEL CACAO FROM THE DEPARTMENT OF NARIÑO, (2010-2018), the authors Yhancy Eliana Coral Rojas, Gladys Omaira Melo Mosquera, Darlan Arley Agredo Madroñero and Jenny Katherine Moncayo Rosero, from the Universidad de Nariño in Colombia , carry out a secondary review on the cocoa sector in Colombia, using the general database of exports of Nariño of the official platform of the DIAN entity that presents the export declarations of each region in Colombia, the information platform of Legiscomex and the ranking tool by tariff subheading and by department of and the ordering variable in FOB value (US $). With the data obtained, some recommendations are established for the cocoa sector of the department of Nariño. ; La edición No 1 del volumen XXII del año 2021, contiene ocho artículos de investigación, cinco de revisión y uno correspondiente a la sección especial, vida universitaria. El primer artículo de investigación RELACIÓN ENTRE LA ACTITUD AMBIENTAL Y LA COMPRA DE PRODUCTOS SOCIALMENTE RESPONSABLES EN LOS CONSUMIDORES DE MEDELLÍN, COLOMBIA, escrito por Diana María López Celis de la Universidad Konrad Lorenz y Mónica Eugenia Peñalosa Otero de la Universidad Jorge Tadeo Lozano, abordan el tema de consumo responsable y su relación con el medio ambiente. La investigación de desarrolló en la ciudad de Medellín – Colombia y se encuestaron 390 personas mayores de 18 años. Se realizó el análisis de los datos, cuyos resultados arrojaron aspectos interesantes como un cambio en el comportamiento de compra de las personas, con miras a la preservación del medio ambiente. En segundo lugar se encuentra el artículo EFECTOS DE LAS CARACTERÍSTICAS DE VIDEOS EN YOUTUBE QUE AUMENTAN SU POPULARIDAD: UN ANÁLISIS EMPÍRICO de Carlos Fernando Osorio Andrade, Augusto Rodríguez Orejuela, Fernando Moreno Betancourt, profesores de la Universidad del Valle, hacen una inmersión en el mundo de las plataformas multimedia y utilizan YouTube como fuente de información para analizar el efecto de algunos aspectos tales como: la estrategia del mensaje, la consistencia de marca y las características técnicas del video sobre la popularidad o descarga de videos correspondientes a 4 empresas de telefonía celular, específicamente Tigo, Movistar, Claro, Avantel. En tercer lugar, en el artículo TIPOLOGÍAS DE POBREZA EN CALI: UN ANÁLISIS CON BASE EN EL SISBEN escrito por María Isabel Caicedo Hurtado y María Castillo Valencia de la Universidad del Valle en Colombia, se elaboran un estudio comparativo de las condiciones de pobreza de las personas encuestadas por el Sistema de Identificación de Potenciales Beneficiarios de Programas Sociales (SISBEN) para en el año 2009 y para el año 2019. Se utiliza esta información para estimar las diferentes tipologías de pobreza, en función de la línea de pobreza monetaria y necesidades básicas insatisfechas de los hogares de la ciudad de Cali. Las conclusiones son muy interesantes en tanto se evidencia un empobrecimiento de las personas que ingresan al SISBEN y la inclusión de pobres en comunas o barrios de la ciudad que antes no se habían registrado. En el cuarto artículo ANÁLISIS DE LA MIGRACIÓN VENEZOLANA EN LA CIUDAD DE PASTO: CARACTERÍSTICAS Y PERCEPCIONES DE LOS MIGRANTES escrito por Bayron Paz Noguera; Oscar Alpala Ramos; Evelyn Villota Vivas, se presenta una caracterización socioeconómica de los migrantes venezolanos que se encuentran en la ciudad de Pasto y se incluyen las razones que los llevaron a salir de su país. Para la investigación, que además es de tipo exploratorio, se aplicó una encuesta a 180 personas en la que se incluyeron preguntas que permitieron extraer conclusiones respecto a la situación de los migrantes en la ciudad. Es interesante en tanto demuestra empíricamente que algunas razones para el éxodo son la inseguridad, la pobreza y el descontento con el gobierno de Nicolás Maduro. En el quinto lugar se presenta el artículo EMPRENDIMIENTO Y DISEÑO: CARACTERIZACIÓN DE LAS INICIATIVAS EMPRENDEDORAS DE LOS DISEÑADORES INDUSTRIALES de María Cristina Ascuntar Rivera y Francisco Rafael Ayala Gallardo quienes hacen un análisis de las iniciativas emprendedoras de los estudiantes del programa de diseño industrial de la Universidad de Nariño en Colombia, que se presenta como una de las opciones de grado en esta institución. La revisión documental se establece para un período de 18 años (2000- 2018), se revisaron 201 proyectos de investigación en diferentes modalidades de los cuales únicamente el 5% correspondió a la modalidad de creación de empresa. Se concluye que es preciso fortalecer el emprendimiento y la modalidad de creación de empresas, entre otras recomendaciones. En el sexto artículo de investigación, INTENCIÓN EMPRESARIAL Y DIMENSIONES CULTURALES EN ESTUDIANTES DE MAESTRÍA EN ADMINISTRACIÓN EN COLOMBIA escrito por Edwin Ignacio Tarapuez Chamorro, Juan Manuel Aristizábal Tamayo y Adriana Patricia Uribe Urán, se analiza la dependencia entre la intención empresarial y las dimensiones culturales de los estudiantes de Maestría en Administración (MBA) en Colombia, tomando como base los estudios de Hofstede sobre la cultura, y como referentes dos variables: la facilidad para hacer negocios, incluida en el estudio Doing Business del Banco Mundial (2013) y la valoración del entorno emprendedor en Colombia contenida en el General Entrepreneurship Monitor (GEM). Para la investigación se aplicó una encuesta no probabilística a 485 personas de 36 programas presenciales en 14 ciudades de Colombia divididas entre altos ingresos y bajos ingresos, obteniendo resultados interesantes en cuanto a las seis dimensiones estudiadas. En el séptimo artículo de investigación TOMA DE DECISIONES DE CONSUMIDORES Y CONSERVADURISMO EN COSTA RICA presentado por Pablo Andrés Sánchez Campos, se realiza un análisis la toma de decisiones de consumo de encuestados en Costa Rica y la influencia del conservadurismo en este tipo de decisiones. Los datos se analizan utilizando técnicas e instrumentos estadísticos que aportan interesantes conclusiones a la investigación. En el octavo artículo de investigación SOCIAL MEDIA MARKETING EN EMPRESAS AGRÍCOLAS CUBANAS escrito por Rudibel Perdigón Llanes y Hubert Viltres Sala, se retoma la importancia que tiene el uso de las redes sociales e internet para el incremento de utilidades y la visibilidad de las empresas. En la investigación se recolectó información de 61 empresas del Grupo Empresarial Agrícola del Ministerio de la Agricultura de Cuba, concluyendo que es necesario reforzar el posicionamiento de las mismas debido a su bajo índice de posicionamiento digital, lo que obstaculiza su crecimiento económico. Dentro del grupo de los artículos de revisión se encuentra el presentado por Luis Améstica Rivas, Andrea King Domínguez, Carlos Cruzat Valenzuela, Constanza Stuardo Solar de la Universidad de Chile denominado CONSEJO DE ADMINISTRACIÓN Y DESEMPEÑO FINANCIERO. UN ESTUDIO BIBLIOMÉTRICO. Los autores realizaron una interesante revisión de 4.468 artículos relacionados con el área de negocios, utilizaron técnicas bibliométricas apoyadas por el software VOSviewer, con el propósito de establecer la importancia y relación entre la toma de decisiones por parte de los Consejos de Administración y el desempeño financiero de las compañías. El segundo artículo de revisión es el presentado por Claudia Magali Solarte Solarte, Martha Lida Solarte Solarte, Gloria Alicia Rivera Vallejo de la Universidad Cesmag ubicada en Colombia denominado PAPEL DEL EMPRENDIMIENTO EN EL CONFLICTO Y POSTCONFLICTO: UNA REVISIÓN SISTEMÁTICA DE LITERATURA. Con la ayuda de las bases de datos especializadas como Scopus, Scielo, Redalyc, Science Direct y Google Scholar, las autoras exploraron algunos términos generales relacionados con el emprendimiento, en vista de su interés por determinar la manera cómo el emprendimiento se convierte en una posible alternativa de reinserción productiva para excombatientes y víctimas del conflicto armado en diferentes países del mundo. En el tercer artículo de revisión, LA COMPETITIVIDAD TURÍSTICA. UNA APROXIMACIÓN DESDE EL DEPARTAMENTO DE BOYACÁ, COLOMBIA escrito por Ana Milena Serrano Amado, Luz A. Montoya Restrepo, Nidia Paola Amado Cely, se identificaron los factores determinantes de la competitividad de los destinos turísticos en la Provincia de Sugamuxi, utilizando el modelo de Crouch y Ritchie. Se revisaron algunos modelos de competitividad existentes y se establecieron interesantes conclusiones con miras a generar una dinámica turística creciente en dicha provincia. En el cuarto artículo de revisión, DESARROLLO TERRITORIAL Y ECONOMÍA SOLIDARIA: ANÁLISIS DESDE EL CONCEPTO DE DESARROLLO, EL MEDIO AMBIENTE Y LA INCORPORACIÓN DE LAS COMUNIDADES EN UNA ESTRATEGIA DE DESARROLLO TERRITORIAL, los autores Helmer Fernando Llanez Anaya y Claudia Patricia Sacristán Rodríguez, proponer un marco de análisis para articular el desarrollo territorial y la economía solidaria desde tres dimensiones: la idea de desarrollo, la dimensión ambiental y la incorporación de las comunidades en una estrategia de desarrollo territorial. Para ellos realizaron una revisión documental utilizando bases de datos como Redalyc, Scielo, Research Gate, scopus y Web of Science a través del metabuscador de la biblioteca de la Universidad Javeriana. En el último artículo de revisión OFERTA EXPORTABLE DEL CACAO DEL DEPARTAMENTO DE NARIÑO, (2010-2018), los autores Yhancy Eliana Coral Rojas, Gladys Omaira Melo Mosquera, Darlan Arley Agredo Madroñero y Jenny Katherine Moncayo Rosero, de la Universidad de nariño en Colombia, realizan una revisión secundaria sobre el sector cacaotero en Colombia, utilizando la base de datos general de exportaciones de Nariño de la plataforma oficial de la DIAN entidad que presenta las declaraciones de exportación de cada región en Colombia, la plataforma de información de Legiscomex y la herramienta ranking por subpartida arancelaria y por departamento de y la variable de ordenamiento en valor FOB (US$). Con los datos obtenidos se establecen algunas recomendaciones para el sector cacaoterio del departamento de Nariño. ; O número 1 do volume XXII do ano 2021 contém cinco artigos de pesquisa, cinco artigos de revisão e um correspondente à seção especial Vida universitária. Primeiro artigo de pesquisa RELAÇÃO ENTRE A ATIVIDADE AMBIENTAL E A COMPRA DE PRODUTOS SOCIALMENTE RESPONSÁVEIS POR CONSUMIDORES DE MEDELLÍN, COLÔMBIA, escrito por Diana María López Celis da Universidade Konrad Lorenz e Mónica Eugenia Peñalosa Otero da Universidade Jorge Tadeo Empréstimo temático de consumo responsável e sua relação com o meio ambiente. Pesquisa de desenvolvimento na cidade de Medellín - Colômbia e 390 pessoas tinham mais de 18 anos. Foi realizada a análise dos dados, cujos resultados trouxeram aspectos interessantes como a mudança no comportamento de compra das pessoas, com vistas à preservação do meio ambiente. Em segundo lugar, o artigo EFEITOS DAS CARACTERÍSTICAS DOS VÍDEOS NO YOUTUBE QUE AUMENTAM SUA POPULARIDADE: A ANÁLISE EMPÍRICA de Carlos Fernando Osorio Andrade, Augusto Rodríguez Orejuela, Fernando Moreno Betancourt, professores da Universidad del Valle, fazem uma imersão no mundo de plataformas multimídia e usar o YouTube como fonte de informação para analisar a eficácia de alguns aspectos como: a estratégia da mensagem, a consistência da marca e as características técnicas do vídeo sobre a popularidade do download de vídeos correspondentes a 4 empresas de telefonia , especificamente Tigo, Movistar, Claro, Avantel. Em terceiro lugar, no artigo TIPOLOGIAS DE POBREZA EM CALI: UMA ANÁLISE COM BASE NO SISBEN, escrito por María Isabel Caicedo Hurtado e María Castillo Valencia, da Universidad del Valle na Colômbia, foi desenvolvido um estudo comparativo das condições de pobreza na Colômbia. eles. pessoas entrevistadas pelo Sistema de Identificação de Potenciais Beneficiários de Programas Sociais (SISBEN) para o ano de 2009 e para o ano de 2019. Essas informações são utilizadas para estimar os diferentes tipos de pobreza, de acordo com a linha de pobreza monetária e necessidades básicas de pessoas insatisfeitas. a cidade de Cali. As conclusões são muito interessantes, tanto que há indícios de um empobrecimento das pessoas que ingressam no SISBEN e da inclusão dos pobres nas comunas da cidade que não eram cadastrados anteriormente. No quarto artigo ANÁLISE DA MIGRAÇÃO VENEZUELANA NA CIDADE DE PASTO: CARACTERÍSTICAS E PERCEPÇÕES DOS MIGRANTES, escrito por Bayron Paz Noguera; Oscar Alpala Ramos; Evelyn Villota Vivas apresenta uma caracterização socioeconômica dos migrantes venezuelanos que se encontram na cidade de Pasto e inclui os motivos que os levaram a deixar seu país. Para a pesquisa, que também é exploratória, foi aplicada uma survey a 180 pessoas, que incluiu questões que permitissem tirar conclusões sobre a situação dos migrantes na cidade. É interessante, tanto empiricamente, que alguns motivos para o êxodo da insegurança, pobreza e descontentamento com o governo de Nicolás Maduro. Em quinto lugar, o artigo EMPREENDEDORISMO E DESIGN: CARACTERIZAÇÃO DAS INICIATIVAS DE DESIGNERS INDUSTRIAIS de María Cristina Ascuntar Rivera e Francisco Rafael Ayala Gallardo, que faz uma análise das iniciativas empreendedoras de estudantes industriais de seus alunos. de Nariño na Colômbia, que se apresenta como uma das opções de graça nesta instituição. A revisão documental está prevista para um período de 18 anos (2000-2018), foram revisados 201 projetos de pesquisa em diferentes modalidades, dos quais apenas 5% correspondem ao método de criação de empresas. Conclui-se que é necessário fortalecer o empreendedorismo e a criação de negócios, entre outras recomendações. No sexto artigo de pesquisa, INTENÇÃO EMPRESARIAL E DIMENSÕES CULTURAIS EM ALUNOS DE MESTRE EM ADMINISTRAÇÃO NA COLÔMBIA, escrito por Edwin Ignacio Tarapuez Chamorro, Juan Manuel Aristizábal Tamayo e Adriana Patricia Uribe Urán, a dependência entre a intenção empresarial e as dimensões culturais de Alunos de MBA na Colômbia, com base nos estudos de Hofstede sobre cultura, e como referência duas variáveis: facilidade de fazer negócios, incluída no estudo Doing Business do Banco Mundial (2013) e a avaliação do ambiente empresarial na Colômbia contido no General Entrepreneurship Monitor (GEM). Para a pesquisa, foi aplicada uma pesquisa não probabilística a 485 pessoas de 36 programas presenciais em 14 cidades da Colômbia divididas entre alta e baixa renda, obtendo resultados interessantes em relação às seis dimensões estudadas. No sétimo artigo de pesquisa TOMADA DE DECISÕES E CONSERVAÇÃO DO CONSUMIDOR NA COSTA RICA apresentada por Pablo Andrés Sánchez Campos, é feita uma análise da tomada de decisão dos respondentes do consumidor na Costa Rica e a influência do conservadorismo neste tipo de decisão. Os dados são analisados por meio de técnicas e instrumentos estatísticos que fornecem conclusões interessantes para a investigação. No oitavo artigo de investigação SOCIAL MEDIA MARKETING EN EMPRESAS AGRÍCOLAS CUBANAS da autoria de Rudibel Perdigón Llanes e Hubert Viltres Sala, retoma-se a importância da utilização das redes sociais e da Internet para aumentar os lucros e a visibilidade das empresas. Na investigação foram coletadas informações de 61 empresas do Grupo Empresarial Agrícola do Ministério da Agricultura de Cuba, concluindo que é necessário reforçar seu posicionamento devido ao seu baixo índice de posicionamento digital, que dificulta seu crescimento econômico. Dentro do grupo de artigos de revisão está o apresentado por Luis Améstica Rivas, Andrea King Domínguez, Carlos Cruzat Valenzuela e Constanza Stuardo Solar da Universidade do Chile denominado CONSELHO DE ADMINISTRAÇÃO E DESEMPENHO FINANCEIRO. UM ESTUDO BIBLIOMÉTRICO. Os autores realizaram uma interessante revisão de 4.468 artigos relacionados à área de negócios, utilizando técnicas bibliométricas apoiadas no software VOSviewer, a fim de estabelecer a importância e a relação entre a tomada de decisão dos Conselhos de Administração e o desempenho financeiro. das empresas. O segundo artigo de revisão é o apresentado por Claudia Magali Solarte Solarte, Martha Lida Solarte Solarte, Gloria Alicia Rivera Vallejo da Universidade Cesmag localizada na Colômbia denominado O PAPEL DO EMPREENDEDORISMO NO CONFLITO E PÓS-CONFLITO: UMA REVISÃO SISTEMÁTICA DA LITERATURA. Com a ajuda de bancos de dados especializados como Scopus, Scielo, Redalyc, Science Direct e Google Scholar, os autores exploraram alguns termos gerais relacionados ao empreendedorismo, tendo em vista seu interesse em determinar cómo o empreendedorismo se torna um possível alternativa produtiva de reintegração para ex-combatentes e vítimas do conflito armado em diversos países do mundo. No terceiro artigo de revisão, COMPETITIVIDADE TURÍSTICA. UMA ABORDAGEM DO DEPARTAMENTO DE BOYACÁ, COLÔMBIA escrito por Ana Milena Serrano Amado, Luz A. Montoya Restrepo, Nidia Paola Amado Cely, foram identificados os fatores determinantes da competitividade dos destinos turísticos da Província de Sugamuxi, a partir do modelo Crouch e Ritchie. Foram revistos alguns modelos de competitividade existentes e estabelecidas conclusões interessantes com vista a gerar uma dinâmica turística crescente na referida província. No quarto artigo de revisão, DESENVOLVIMENTO TERRITORIAL E ECONOMIA SOLIDÁRIA: ANÁLISE A PARTIR DO CONCEITO DE DESENVOLVIMENTO, MEIO AMBIENTE E INCORPORAÇÃO DE COMUNIDADES EM UMA ESTRATÉGIA DE DESENVOLVIMENTO TERRITORIAL, os autores Helmer Fernando Llanez Anaya e Claudia Patricia a Rodríguez, propõem quadro de análise para articular o desenvolvimento territorial e a economia solidária a partir de três dimensões: a ideia de desenvolvimento, a dimensão ambiental e a incorporação das comunidades numa estratégia de desenvolvimento territorial. Para eles, realizaram uma revisão documental em bancos de dados como Redalyc, Scielo, Research Gate, scopus e Web of Science por meio do mecanismo de metabusca da biblioteca da Universidade Javeriana. No último artigo de revisão OFERTA EXPORTAVEL DE CACAU DO DEPARTAMENTO DE NARIÑO, (2010-2018), os autores Yhancy Eliana Coral Rojas, Gladys Omaira Melo Mosquera, Darlan Arley Agredo Madroñero e Jenny Katherine Moncayo Rosero, da Universidade de Nariño na Colômbia , realizar uma revisão secundária sobre o setor do cacau na Colômbia, utilizando a base de dados geral de exportações de Nariño da plataforma oficial da entidade DIAN que apresenta as declarações de exportação de cada região da Colômbia, a plataforma de informação do Legiscomex e do ferramenta de classificação por subtítulo tarifário e por departamento e a variável de pedido em valor FOB (US $). Com os dados obtidos, são estabelecidas algumas recomendações para o setor cacaueiro do departamento de Nariño.
La tesi tratta delle forme della generalizzazione normativa ed è suddivisa in tre capitoli. La prima questione che si è affrontata riguarda il rapporto tra norma e valore. Nell'ottica prescelta – quella neoistituzionalista – il sistema-diritto appare come un insieme unitario di scopi, privo di quel relativismo assiologico che caratterizza la prospettiva contrattualista, alcuni dei quali – quelli fondamentali per la civile convivenza – preselezionati dal legislatore e resi evidenti nella Carta costituzionale, altri ancora – quelli strumentali alla cooperazione interindividuale – declinati all'interno di norme gerarchicamente inferiori. Gli scopi del diritto, però, non sono finiti e non si identificano, pertanto, in quelli incorporati nelle disposizioni normative. Poste le premesse fondamentali, l'ordinamento predispone, infatti, una serie di meccanismi per mantenersi "cognitivamente aperto" rispetto alle esigenze della collettività i cui bisogni è chiamato a soddisfare. In quanto risultanti di un processo di oggettivizzazione e astrazione storica degli interessi individuali, i valori o scopi del diritto non seguono la logica escludente tipica degli insiemi conchiusi. La rispondenza o meno di determinate condotte ad un valore ben può mutare (come normalmente muta) al mutare del tempo in cui il giudizio di verosimiglianza viene svolto. Tale la ragione per cui la positività della norma non è un attributo originario della stessa ma le si accosta nel momento in cui la norma passa dalla dimensione statica e astratta di ius positum a quella dinamica e vivente del decisum. La positività del diritto, in altri termini, non nasce con il perfezionarsi dell'iter legislativo formalmente necessario ai fini della sua validità ma deriva dall'operazione ermeneutica, intesa come atto finale di creazione della norma demandato (ab origine ed in ogni caso) ad un soggetto giuridicamente educato ma appartenente alla stessa dimensione storica e concreta in cui il decisum è destinato ad incardinarsi. Tant'è che, quando interprete non è il giudice ma il consociato e non si verifica un conflitto circa il modo di intendere il modello di condotta preferito dall'ordinamento la norma è comunque positiva. In questo caso, infatti, non vi è la necessità di ricorrere alla tutela giurisdizionale dei diritti poiché vi è consenso tra le parti interessate e la norma è per ciò solo positiva ossia di fatto vigente. Si tratta, però, di una positività precaria perché affidata al mero consenso attuale sul modo di intendere il comando legislativo e sempre esposta alla eventuale decisione contraria dell'organo istituzionalmente preposto ad accertarla in modo definitivo, almeno fintanto che non subentrino meccanismi automatici di stabilizzazione di quello che chiameremo "decisum diretto", primi tra tutti la prescrizione e la decadenza. Questa dinamica conferma ulteriormente la nozione in questa tesi sposata circa il fondamento volontario del diritto (svincolato, cioè, dal principio dei rapporti di forza che rappresentano, al più, una contingenza negativa) che è corollario dell'ulteriore nozione di diritto come scienza pratica e, infine, dell'idea della protezione come "minimo assiologico giuridico". La fisiologia osmotica tra diritto e realtà si ricava intendendo i valori in senso oggettivo e sostanziale ossia come idealità che, acquistando senso solo se calate nella dimensione storica e concreta degli atti (come componenti dei fatti), necessariamente corrispondono a interessi epurati del corredo fattuale e selezionati (ex ante o ex post) come giuridicamente rilevanti. Per onestà intellettuale, è opportuno precisare che tale nozione di valore, coincidente con lo standard mengoniano, è però mediata dal riconoscimento di un dualismo dei valori al pari di quanto può dirsi, in generale, per il fenomeno giuridico, la cui natura è statica e quindi ideale nel suo essere jus positum e dinamica e quindi concreta nel suo traslare a directum. Si è ritenuto, così, di poter individuare quale tratto fondamentale del rapporto tra norma e valore la dialetticità che identifica anche il senso del sistema giuridico riguardato in un'ottica non già sostanziale ma funzionale, come congegno di riduzione della complessità secondo la logica dell'utile o dannoso. La seconda questione che si è tentato di sviscerare è se, poste queste premesse iniziali, sia possibile distinguere le generalizzazioni normative non solo (o non tanto) a seconda del loro modo di incidere sulla realtà ma anche (e soprattutto) sul tipo di procedimento cognitivo che le stesse impongono all'interprete per dotare lo ius positum della dovuta positività. Una prima distinzione si è operata con riferimento alle regole e ai principi da un punto di vista strutturale, secondo la nota distinzione forte – che non lega cioè la differenziazione tra le une e gli altri al maggiore o minore grado di vaghezza concettuale-descrittiva della norma ma riconosce (con varie soluzioni) differenze sostanziali. L'idea proposta è quella di una generalizzazione puramente assiologica nel caso dei principi e di una generalizzazione (immediatamente) descrittiva e (mediatamente o implicitamente) assiologica nel caso delle regole, le quali poi, sotto il primo profilo (concettualedescrittivo) possono essere più o meno vaghe con ciò non richiedendo un'operazione diversa all'interprete ma solo un maggiore o minore sforzo ricognitivo in punto di fatto. Una seconda distinzione si è tentata, dal punto di vista funzionale, riconoscendo quali destinatari primari dei principi il legislatore e l'interprete e quali destinatari primari delle regole i consociati. Tale circostanza si è desunta dalla diversità di struttura: i principi, in quanto norme incondizionate, identificano gli scopi del diritto e indicano a livello astratto e oggettivo le condotte (da selezionare come) preferibili al fine di darvi attuazione ma, in quanto norme non precettive, dispiegano i loro effetti solo all'interno del sistema-diritto essendo destinate ad orientare la condotta dei soggetti istituzionalmente qualificati ad edificarlo e manutenerlo. Il giudizio di verosimiglianza sulla preferibilità o meno della condotta posta in essere in forza dei principi generali riguarda, pertanto, principalmente la condotta del legislatore (in quanto primo interprete) e del giudice (in quanto ermeneuta), investendo eventualmente solo la condotta interpretativa del consociato in relazione ad una regola capace di dispiegare i suoi effetti direttamente nei confronti dello stesso. Le regole, in quanto norme condizionate e immediatamente precettive, sono destinate a regolare le umane vicende e si orientano naturalmente in senso estroflesso verso i consociati. Esse non indicano, se non a livello implicito, lo scopo perseguito dall'ordinamento (in ragione del quale sono state emanate e continuano a ricevere attuazione) ma solo la condotta attesa dal consociato e gli effetti che si ricollegano alla sua violazione. Questa distinzione funzionale fondata sulla diversità di struttura autorizza una partizione ulteriore tra principi, regole e clausole generali. Queste ultime, infatti, sono forme della generalizzazione puramente assiologiche, come i principi, ma essendo normalmente incardinate all'interno di una fattispecie completa della descrizione del fatto e corredata dall'effetto condividono la destinazione d'uso delle regole. L'avverbio normalmente è d'obbligo perché esula da questa normalità la clausola generale per eccellenza ossia la buona fede che merita, pertanto, una classificazione a sé e su cui si tornerà parlando del terzo capitolo. La natura ibrida delle clausole generali, quindi, pur implicando una certa elasticità assiologica, è mitigata dall'essere le stesse clausole dotate dell'effetto tipico della norma, quello performativo-semplice ossia teso a performare le condotte dei consociati. Diversamente, i principi esplicano i loro effetti solo all'interno delle dinamiche ordinamentali e sono, pertanto, norme di tipo performativo-costitutivo, laddove, però, la performance è attesa non tanto da parte dei consociati ma dello stesso ordinamento giuridico. Da questa stessa destinazione (unitamente alla priorità della componente assiologica del diritto su cui oltre) possiamo ricavare il criterio ermeneutico primario – sia per ragioni temporali che per ordine di importanza – della unità o coerenza assiologica del diritto che fa il paio al principio di uguaglianza sostanziale tale per cui l'introduzione all'interno dell'ordinamento giuridico di valori contrastanti con quelli già incorporati nell'architettura assiologica dello stesso è consentita solo quando vi siano contingenze tali da giustificare l'adozione di un sistema di governo delle stesse secondo rationes diverse da quelle già in uso. A titolo esemplificativo si riporta la vicenda dell'anatocismo bancario e la sua ultima fortunata svolta (con l'introduzione del divieto di cui all'art. 1283 c.c. anche nel nuovo art. 120 Tub) che ha messo bene in luce come il legislatore abbia per molto tempo violato il criterio di unità o coerenza assiologica senza poter invocare la necessità di trattare in modo diverso i diversi, poiché niente giustificava il maggior favore dimostrato fino a ieri alle banche e agli intermediari finanziari rispetto al creditore pecuniario comune. Sotto l'ulteriore profilo dell'attività richiesta all'interprete al fine di dare applicazione alle forme della generalizzazione così individuate, la differenza è notevole. Mentre, infatti, le regole richiedono di norma una mera operazione sussuntiva – di riconduzione del fatto alla fattispecie sotto il profilo fattualedescrittivo – le clausole generali e i principi implicano un attività diversa e più complessa, dovendo in primo luogo l'interprete riempire di senso il valore dalle stesse incorporato per poi procedere ad una verifica di compatibilità tra il fatto com'è e il fatto come doveva essere. Questa operazione si sostanzia: 1) nella comprensione dello scopo perseguito dal soggetto con la condotta posta in essere; 2) in una presa di coscienza della propria idea del valore (ossia di quei comportamenti verosimilmente rispondenti alla finalità incarnata dal valore); 3) in una verifica preventiva circa la conformità della propria idea a l'idea oggettiva di quel valore; 4) ad un giudizio di preferibilità o meno della condotta posta in essere dal consociato rispetto al valore sulla base di un criterio di verosimiglianza; 5) ad una verifica di condivisibilità degli effetti che discendono dall'applicazione della norma così ricostruita. I passaggi 1), 2) e 3) sono (o dovrebbero essere) normalmente assorbiti dalla previa educazione della precomprensione dell'interprete; il passaggio 4) quando il giudice interpreta una regola è caratterizzato non dalla logica della preferibilità ma da quella della doverosità risultandone di molto diminuito il margine di verosimiglianza della qualificazione giuridica del fatto e, di conseguenza, il lasso di controvertibilità della decisione; il passaggio 5) nelle regole non è quasi mai necessario ferma restando la possibilità che un fatto astrattamente riconducibile a diverse fattispecie venga inquadrato all'interno di quella produttiva degli effetti maggiormente condivisibili. Questa ricostruzione aiuta a mettere in luce come componente minima essenziale del diritto sia non la componente descrittiva propria delle regole e neppure quella performativa-semplice associata alle stesse ma la componente assiologica. Come a dire che l'ordinamento ben potrebbe reggersi solo su indicazioni di massima, orizzonti di scopo, ma non potrebbe definirsi tale senza di essi. E, poiché il valore risiede nel fatto (o, meglio, in quella sua componente caratterizzata dalla volizione umana ossia l'atto), quest'opera di riconduzione ad unità del Sein e del Sollen dal punto di vista finalistico non può che partire dal fatto per estrapolarne la componente valoriale (o, meglio, la "natura") e verificarne la rispondenza rispetto all'architettura assiologica dell'ordinamento sulla base del logos. Da ciò l'idea del diritto come scienza analogica che opera, cioè, attraverso (ana) il linguaggio (logos). Questa caratterizzazione essenziale del modo d'essere del diritto non va intesa nel modo attualmente in voga presso i linguisti – fin troppo inclini al nichilismo e alla mortificazione del dover essere, ridotto a mero argomento – ma è utile a risolvere alcune tematiche di rilevanza pratica come, esemplarmente, la questione della dicotomia tra regole di validità e regole di responsabilità in uno con la riconducibilità alla violazione della buona fede di rimedi invalidatori. Perché alla buona fede non sono associabili effetti invalidanti? Non per ragioni formalistiche ma perché gli stessi effetti – che fanno sparire ciò che fino ad un attimo prima c'era – sono il frutto del "linguaggio della magia" cioè di quel linguaggio che realizza sia l'intrinseco che l'estrinseco del detto nell'atto del dire. Il linguaggio della magia è tipico dei soli performativi-costitutivi, di quelle norme, cioè, che sono destinate a produrre effetti nel solo sistema a cui appartengono, come i principi generali, le norme abrogatrici, quelle relative all'iter legislativo, le norme attributive della personalità giuridica, etc. Questi i confini dell'ambito di operatività delle varie forme della generalizzazione che è indispensabile rispettare ai fini della sopravvivenza del sistema perché la praticità, che pure è attributo fondamentale del diritto, non può tradursi in fenomeni autodistruttivi della sua architettura. La buona fede, dunque, al pari delle altre clausole generali è destinata a mantenere l'apertura cognitiva del sistema giuridico dal punto di vista valoriale, introitando bisogni che, pur non riconcettualizzati dal legislatore, presentano nel sistema di appartenenza "naturale" (morale, mercantile, religioso, etc.) quel grado di oggettivizzazione ed astrazione che deriva loro dalla larga condivisione del giudizio di preferibilità delle condotte che li concretizzano e che ne integrano il senso. Così, potremmo dire, l'intercomunicazione tra sistemi avviene sempre su di un piano che lungi dal soffrire l'incertezza dell'arbitrio garantisce una coerenza di massima tra le scienze umane organizzate a sistema nei limiti di interferenza reciproca. Ciò che non significa che per il tramite delle clausole si introitano nel diritto elementi che questo a inteso escludere, al contrario: quando si ha a che fare con queste forme della generalizzazione la giuridica rilevanza di valori extrasistemici è in re ipsa poiché le clausole (al pari dei principi) svolgono originariamente proprio questa funzione (essendo però destinate – al contrario dei principi – ad orientare in prima battuta le condotte dei consociati). Chiaro è che quest'opera di ricezione giuridica è possibile nei limiti in cui la stessa non si traduca in una negazione di valori già inglobati nel sistema-diritto poiché, diversamente ragionando, si finirebbe per legittimare un'opera di decostruzione ex post (cioè ad opera del giudice chiamato a concretizzare le clausole stesse) del complessivo impianto assiologico o finalistico del sistema in violazione del criterio primario di unità o coerenza assiologica, che legittima questa operazione solo al ricorrere di esigenze di uguaglianza sostanziale. Il contenuto minimo inderogabile delle clausole generali è, pertanto, un contenuto riflesso rispetto alla carica valoriale dei principi che, secondo le circostanze del caso, ben può esaurirsi (ma non necessariamente si esaurisce) in una "mera" ripetizione dell'uno o dell'altro secondo il meccanismo proprio della c.d. indirekte Drittwirkung. La particolarità della buona fede risiede nell'essere la stessa priva del corredo performativo che, abbiamo detto, essere caratteristica finalistica essenziale del diritto. Ciò che comunque non vale ad escluderne l'immediata precettività. In altri termini: stando al dettato positivo i consociati sanno che devono comportarsi secondo buona fede ma non sanno né cosa ciò esattamente significhi né cosa la violazione dell'obbligo comporti. Dottrina e giurisprudenza hanno elaborato delle funzioni tipiche della buona fede, sussumibili in tre macrocategorie: integrativa, valutativa e interpretativa, affrontate nel terzo capitolo. La prima è destinata ora a indirizzare la poiesi del debitore verso la permanenza della possibilità della prestazione ora a forgiare il rapporto obbligatorio secondo un modello minimo inderogabile dello stesso che è essenzialmente votato alla protezione. La seconda è finalizzata ora ad evitare condotte opportunistiche (abuso del diritto) ora a sospendere l'efficacia coercitiva dell'obbligo dinnanzi a preminenti esigenze della persona debitrice (inesigibilità). La terza è, infine, deputata ora ad orientare in senso antiformalista la condotta dell'interprete di quel sotto-sistema normativo (o a normazione derivata) che è il contratto, coerentemente con l'impianto assiologico derivato dello stesso, ora a risolvere in via principale ed immediata il problema delle sopravvenienze. Queste le funzioni a cui si associano altrettanti rimedi, tutti operanti direttamente sul rapporto obbligatorio: ampliamento dell'area della coercibilità, paralisi del diritto, illegittimità della condotta, etc. Ciò che non significa che la buona fede non rilevi anche in punto di fattispecie ma, per far ciò, la stessa deve coincidere con l'uno o con l'altro elemento della stessa. Abbiamo visto più sopra il rapporto tra neoformalismo e buona fede e la possibilità di una coincidenza di soluzioni tra i giudizi di valore operati per il tramite dell'elemento causale e quello operati per il tramite della buona fede. Senz'altro tra regole di fattispecie e regole di responsabilità rimane ferma la distinzione finalistica primaria tale per cui le prime sono funzionali all'edificazione del regolamento contrattuale (performativi-costitutivi) e le seconde sono dirette ad orientare le condotte dei privati in un'ottica di tipo programmatico (performativi semplici). Tuttavia, tale distinzione né vale ad escludere che il valore evocato dalla causa (come scopo del contratto) e quello evocato dalla buona fede coincidano; né, quando si tratti di obbligazione senza prestazione, appare così marcata, posto che in tale contesto la buona fede dismette la sua veste di performativo semplice per assumere le sembianze di un performativo-costitutivo. Al fine di una esatta comprensione del fenomeno, la prima domanda a cui è necessario rispondere è perché sussiste quest'obbligo di comportarsi secondo buona fede ossia qual è il bisogno cui la buona fede è destinata a dare risposta. Al contrario delle altre clausole generali, che identificano con sufficiente chiarezza il sistema all'interno del quale nasce il bisogno rilevante anche per il sistema-diritto (ad es. il buon costume che individua il sistema-costume al fine di ricavare il criterio di preferibilità) la buona fede è più sfuggente inducendo a ritenere che il sistema di riferimento possa essere ora l'uno ora l'altro a seconda del contesto in cui si colloca il rapporto obbligatorio. Tratto essenziale della buona fede è, quindi, la sua pertinenza all'obbligazione il cui substrato materiale è indice rivelatore del luogo in cui attingere il valore ossia l'astrazione oggettivizzata di quelle condizioni positive d'esistenza che sono gli interessi individuali, selezionati come utili o dannosi sulla base di un criterio di preferibilità delle condotte rispetto al buon esito del rapporto obbligatorio cui inerisce espresso dalla più parte degli individui operanti nel sistema di riferimento. Dal punto di vista funzionale, l'istituto "buona fede" fondante l'obbligazione senza prestazione è, quindi, deputato a proteggere le persone coinvolte in una relazione (stabile e orientata ad uno scopo) essendo la protezione stessa il minimo finalistico del diritto; dal punto di vista assiologico, il valore "buona fede" atto ad indicare il criterio di preferibilità ben può variare a seconda del contesto fattuale in cui matura la relazione, ferma restando la pertinenza della buona fede al rapporto obbligatorio e, dunque, la sua natura di "programma di scopo". Quando la buona fede opera in senso costitutivo la sua differenza rispetto alla causa sfuma nel senso che l'istituto "buona fede" sta all'obbligazione senza prestazione come l'istituto "causa" sta al contratto. Resta fermo, però, il rapporto di reciproca esclusione tra l'una e l'altra (poiché dove c'è contratto non c'è obbligazione senza prestazione) e la duplice natura della buona fede che, anche quando costituisce, rimane pur sempre (anche) norma programmatica. Infatti, se l'analogia regge con riferimento alla funzione dell'istituto giuridico non vi sono margini di sorta per appiattire la buona fede sulla causa (o viceversa) posto che l'una è naturalmente proiettata verso il futuro e vive esclusivamente in una dimensione dinamica, sia quando si fa portatrice di valori incarnati dai principi giuridici (anch'essi ontologicamente dinamici) sia quando recepisce valori extra-giuridici; l'altra (la causa) è funzionale a fotografare una data situazione indicando una volta e per sempre lo scopo cui condotte predeterminabili a priori devono orientarsi. Per quanto attiene allo scopo incarnato nella buona fede, la questione è diversa. Non c'è un tempo o una situazione di fatto che la buona fede cristallizza una volta e per sempre indicando le condotte "dovute" e quelle escluse dall'alea di coercibilità. La buona fede opera a ridosso del bisogno nel momento in cui lo stesso bisogno emerge e, in quanto tale, è norma autenticamente rimediale. Essa buona fede – tramite costitutivo di quel minimo giuridico rappresentato dall'obbligazione in funzione protettiva "pura", senza il corredo della prestazione – veste di dignità giuridica quei valori che, in quanto tali, pur non ancora giuridicizzati hanno già subito una oggettivizzazione secondo le logiche del sistema cui naturalmente appartengono. Questa traslazione della "tensione verso un fine" dalla sua forma soggettiva e concreta di interesse a quella oggettiva e ideale di valore ne garantisce l'epurazione perché è sintomatica di condivisione sociale (che a sua volta esclude l'arbitrio) condizione primaria di esistenza della normatività. Quanto detto induce una ulteriore considerazione per quanto attiene alla diversa problematica del bilanciamento. Ci si chiede, cioè, se il bilanciamento possa riguardare i valori o se sia un fenomeno relativo ai soli interessi: nell'un caso, infatti, la nozione di valore come entità oggettiva non vale ad escludere l'arbitrio del giudice, chiamato a "bilanciare" e quindi, in buona sostanza, a "creare" il criterio discriminante tra condotte utili o dannose; nell'altro caso, viceversa, l'arbitrio riguarderebbe i soli giudizi in cui vengono in rilievo gli interessi nella loro soggettività ossia quelli equitativi. Senz'altro gli interessi subiscono un'opera di bilanciamento che, ricorrendo le stesse condizioni di fatto, permette di distinguere tra interessi condivisi, tramutabili in valori, e interessi particolari, destinati a rimanere tali perché incapaci di superare il vaglio della condivisione. Tale discernimento, però, lo si è detto più volte, non compete direttamente all'interprete ma è in re ipsa posto che i valori partecipano della natura oggettiva propria di ogni forma di decisione collettiva. Gli interessi possono essere bilanciati dall'interprete solo quando è chiamato a decidere secondo equità, compiendo in prima persona l'opera di selezione che normalmente compete alla "più parte" degli individui appartenenti ad un sistema. I valori possono anch'essi essere bilanciati solo quando si tratti di interpretare secondo i principi generali dell'ordinamento poiché, in questo caso, la giuridicità dei valori incorporati nella forma della generalizzazione in parola non consente di discriminare tra l'uno e l'altro principio. Quando, invece, l'opera ermeneutica si compie per il tramite di una clausola generale il bilanciamento non entra in gioco poiché l'assenza di veste giuridica rispetto al valore extra-sistemico impone al giudice di compiere una scelta tra l'uno e l'altro fine in base alla maggiore o minore condivisione dello stesso da parte dei consociati ossia in forza della maggiore o minore capacità inclusiva dei valori rispetto agli interessi individuali in gioco. Così, l'interazione sistemica può avvenire senza il rischio di arbitri e soggettivismi garantendo al sistema-diritto una costante tensione evolutiva assieme ad un'apertura cognitiva estesa tanto ai fatti (apertura cognitivo-descrittiva) quanto ai valori portati dagli atti (apertura cognitivo-assiologica). Ciò che non implica un abbandono a qualsivoglia pretesa dirigista: il diritto, sia chiaro, in una certa misura dirige poiché altrimenti (verrebbe da dire) sarebbe privo di "personalità". La personalità, le idee del diritto sono i suoi valori, espressi nei principi generali, che non sono confinati in una forma della generalizzazione posta in posizione apicale solo per essere privata di ogni effetto performativo in una sorta di maestosa solitudine. I principi generali, pur non immediatamente precettivi nei confronti dei consociati, manifestano tutta la loro forza performativa nei confronti del diritto stesso e di chi è chiamato ad operarvi. Legislatore e giudice, primo e secondo interprete, sono entrambi chiamati a darvi attuazione, l'uno ponendo il jus in conformità agli scopi delineati dai principi (potendo discostarsi da essi o introdurne di nuovi solo in presenza di ragioni di uguaglianza sostanziale, in virtù del canone ermeneutico primario dell'unità o coerenza assiologica); l'altro creando il directum attingendo al substrato assiologico complessivo del sistema giuridico (ossia interpretando la norma in conformità al valore portato da essa riguardato in un'ottica sistematica). Ciò è tanto più vero proprio quando l'interprete è chiamato a maneggiare forme della generalizzazione puramente assiologiche immediatamente precettive: in questo caso, infatti, i principi si frappongono all'opera di giuridicizzazione ex post del valore tutte le volte in cui questo stesso valore si traduca in una finalità contrastante con quelle espresse dai principi. Il diritto, cioè, per il tramite di quella che abbiamo chiamato indirekte Drittwirkung opera in autotutela negando l'ingresso a valori che frustrerebbero quelli già incorporati nel sistema. Ma vi è un'altra applicazione della indirekte Drittwirkung che è resa particolarmente evidente proprio dalla buona fede: ossia la sua capacità di dotare la relazione nata da un affidamento qualificato della struttura dell'obbligo in funzione protettiva della persona. Il riferimento è, ovviamente, alla categoria della obbligazione senza prestazione in cui la stabile relazionalità tra individui, caratterizzata dalla comunanza dello scopo, ingloba le ragioni della persona all'interno delle dinamiche dell'obbligazione riconoscendogli giuridica rilevanza. In questo caso: i) in origine vi è una relazione; ii) la quale relazione assurge a stabile relazionalità quando vi è una comune tensione verso un fine; iii) dalla stabile relazionalità deriva un legittimo reciproco affidamento; iv) il quale legittimo affidamento solletica la buona fede; v) una volta attiva, la buona fede giuridicizza gli interessi delle parti in gioco a patto che questi siano compatibili con il complessivo impianto assiologico giuridico; vi) la lesione degli interessi così giuridicizzati genera responsabilità. Il rapporto obbligatorio così nato è privo del corredo della prestazione e non segue, perciò, le logiche incrementative che gli sono proprie. Tale è la ragione per cui l'obbligazione senza prestazione svolge una funzionalità meramente protettiva degli interessi in gioco, in linea con lo scopo minimo del diritto che è quello di "proteggere" individui interagenti. Quindi, se l'obbligazione è priva della prestazione la buona fede la caratterizza assiologicamente in senso conservativo; se invece l'obbligazione è complessa ed arricchita della prestazione, la dimensione assiologica della buona fede identifica come preferibili le condotte finalizzate non solo alla protezione del valore riferibile alla stessa ma anche al suo accrescimento. Il che ci suggerisce di ritenere che, in effetti, la logica protettiva della buona fede fondate l'obbligazione senza prestazione risieda nell'art. 1175 c.c. e che tale obbligazione si distingua da quella complessa rispetto alla quale l'integrazione ex fide bona, seguendo le logiche incrementative del contratto, ben può spingersi oltre alla mera protezione includendo nel parteur degli obblighi a carico delle parti anche condotte preferibili non nell'ottica precauzionale (rispetto al potenziale danno) propria dell'art. 1175 c.c. ma nell'ottica incrementativa ricavabile dalla prestazione, ferma restando la regola di verosimiglianza comune tanto all'obbligazione senza prestazione quanto agli obblighi accessori alla prestazione. In questo senso, quindi, l'integrazione del contratto passa attraverso il criterio selettivo naturale della causa dello stesso in quanto identificativa del valore perseguito dalle parti inquadrato, però, in una logica di accrescimento delle sfere individuali e non di mero mantenimento delle stesse, come accade invece nell'obbligazione senza (ossia a prescindere dalla) prestazione. Se poi vi debba essere una necessaria coincidenza tra il minimo costitutivo dell'obbligo di protezione ed il minimo performativo del risarcimento (per danni) è un'altra storia. L'assenza di una esplicita previsione positiva in tal senso in uno con le caratteristiche già viste della buona fede induce a ritenere che la stessa sia qualificabile come una forma della generalizzazione ad attitudine rimediale e che, quindi, individuato il valore di riferimento lo stesso possa essere coperto da ogni tutela normalmente posta a corredo dell'obbligo. Perché altrimenti sforzarsi tanto di sottrarre alle logiche aquiliane ambiti che tradizionalmente gli sarebbero propri? L'inversione dell'onere probatorio è poca cosa, specie se si considera che la stessa inversione si verifica anche in materia extracontrattuale in tutte quelle ipotesi, tutt'altro che residuali, di c.d. responsabilità oggettiva. Vero è che il giudizio di verosimiglianza, per sua stessa natura, presuppone la presenza di più alternative tra le condotte preferibili (in quanto non dannose) e, quindi, la coercibilità delle stesse non può assurgere ad attributo astratto e generale dell'obbligazione senza prestazione ma dipende dalla incontrovertibilità del giudizio di verosimiglianza che è, però, un ossimoro poiché la verosimiglianza incontrovertibile è certezza. Potremmo quindi azzardare la seguente conclusione: l'obbligazione senza protezione che si fonda sulla buona fede in funzione protettiva si presume assoggettata alle regole di verosimiglianza e non è, perciò, coercibile; questa presunzione può però essere superata in base ad un giudizio in concreto che, in relazione a tutte le circostanze specifiche del caso, accerti come preferibile un'unica condotta che diventa, perciò, coercibile. Certo è che questa soluzione è praticabile solo a patto di ritenere la "pretesa" attributo non della prestazione ma dell'obbligo, con le inevitabili ricadute sociali in termini restrittivi delle liberta individuali che questo slittamento comporta e sul presupposto che criterio distintivo tra l'una (prestazione) e l'altro (nella sua forma autonoma di obbligazione senza prestazione) sia non tanto la maggiore o minore "debolezza" in termini rimediali ma la sola funzionalità, rispettivamente incrementativa o conservativa della sfera personale dei soggetti agenti. L'etimo in questo caso ci offre indicazioni contrastanti, posto che prae (avanti) tendere (tendere) da un lato richiama quella tensione verso uno scopo che è la caratterizzazione propria dell'affidamento "fecondo" ossia capace di generare l'obbligazione senza prestazione; dall'altro lato identifica proprio quell'aspirazione all'avere che discende dall'essere, la cosa desiderata, oggetto di una forma della generalizzazione strutturata secondo il tipo "diritto soggettivo". D'altronde, abbiamo visto come la buona fede in funzione valutativa sia capace di paralizzare temporaneamente la pretesa o di contenerne la tensione finalistica ma non di farla venire meno. Una volta costituita, pertanto, la pretesa prevale rispetto alla tensione performativa della buona fede, salvo adeguamenti sincronici tra forma e sostanza; di conseguenza, in assenza della stessa pretesa, ritenere che la buona fede costituisca ciò che altrove non è capace di destituire sconta una certa dose di contraddizione ed è, quindi, più saggio mantenere una corrispondenza tra l'essenzialità costitutiva del diritto – che si manifesta per il tramite della buona fede come fonte dell'obbligazione senza prestazione – e l'essenzialità performativa dello stesso – garantita dalla tutela risarcitoria.
1.Introduzione Nel 2014, nell'ambito dell'Agenzia Europea Frontex, prese avvio l'operazione Triton, coordinata dall'Italia. Da quel momento e fino al 2018, tutte le persone soccorse in mare dovevano essere portate in salvo sulle coste italiane. Una volta arrivate sul territorio, queste persone dovevano essere messe nella condizione di potere avanzare una richiesta di asilo o di protezione internazionale. Il già esistente sistema di accoglienza dedicato alle persone richiedenti asilo (SPRAR) si basava sulla disponibilità volontaria degli enti locali e non era in grado di gestire l'elevato numero di persone in arrivo. Furono per questa ragione istituiti (art. 11 Dlgs. n.142/2015) i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) sotto la diretta gestione degli Uffici Territoriali del Governo (Prefetture). I CAS erano quindi pensati come strutture temporanee ed emergenziali. Le azioni messe in atto dai CAS dovevano, innanzitutto, rispondere ai bisogni primari delle persone accolte, in termini di vitto, alloggio e assistenza sanitaria. Ma, a dispetto del loro carattere temporaneo, e alla stregua dello SPRAR, i CAS avevano l'obbligo di svolgere attività (apprendimento della lingua italiana, istruzione, formazione, inserimento nel mondo del lavoro e nel territorio, assistenza legale e psicosociale) finalizzate all'acquisizione di strumenti di base per favorire i migranti accolti nei processi di integrazione, di autonomia e di acquisizione di una cittadinanza consapevole. 1.1 I richiedenti asilo: L'accoglienza in Italia e una possibile traiettoria resiliente La maggior parte dei richiedenti asilo proveniva dall'Africa subsahariana o dall'Asia Meridionale (Afghanistan e Bangladesh e Pakistan) e aveva alle spalle un lungo viaggio di cui la traversata mortifera via mare o attraverso i Balcani o il Caucaso era solo l'ultima tappa. La durata media del viaggio dal paese di origine era di venti mesi, che si svolgevano quasi sempre al limite della soglia di sopravvivenza. È ormai ben documentato il fatto che la privazione di cibo, di ripari, l'affaticamento estremo, il senso di minaccia, i maltrattamenti ripetuti, i lutti dovuti alla perdita di persone care durante gli spostamenti sono condizioni che accomunavano tutti questi percorsi migratori. A queste, si aggiungeva, per la maggior parte di loro, un periodo di reclusione, che poteva superare l'anno, nei centri di detenzione della Libia dove le condizioni disumane, la pratica sistematica della tortura e della violenza sessuale sono state rese note e denunciate dalle principali organizzazioni internazionali, come Medici Senza Frontiere e Amnesty International (Fondazione Migrantes, 2018). Inoltre, l'alto potenziale traumatico di queste esperienze si aggiunge a vissuti altrettanto tragici legati alle circostanze di vita nel paese di partenza che aumentano la vulnerabilità dei migranti. Infatti, questi sono il più delle volte costretti a scappare da condizioni di instabilità politica, di gravi conflitti interni civili e di estrema povertà. È per quanto fin qui descritto che si può affermare che le persone in arrivo nei CAS sono portatrici di storie potenzialmente traumatiche e ad alta complessità psicosociale che richiedono un'attenzione particolare. Le pratiche d'accoglienza che vengono messe in atto nei centri devono tenere conto di tale complessità nel rispondere ai bisogni di ogni persona, sia nella dimensione psicologica sia in quella sociale. In questo modo, nel cercare di raggiungere l'obiettivo ultimo dell'integrazione dei richiedenti accolti, i progetti d'accoglienza potrebbero favorire la definizione di un loro processo di resilienza che li porti a vivere una condizione socialmente accettabile e di benessere. Il concetto di resilienza ha suscitato molto interesse in letteratura negli ultimi decenni. Un primo dato storico nell'evoluzione della teorizzazione di questo concetto (Cicchetti & Garmezy,1993) è lo spostamento dell'interesse dalla patologia e dalla vulnerabilità alla resilienza, che si può ricondurre alla diffusione di una prospettiva positiva e salutogena nella ricerca e nella pratica clinica e psicosociale (Bonanno & Diminitch, 2013; Bonanno, Westphal, & Mancini, 2011; Cicchetti, 2013; Cyrulnik & Malaguti,2015; Walsh, 2016). Negli anni il concetto di resilienza è stato indagato a partire da diversi approcci. Da alcuni autori (Costa & McRae, 1980) è stato studiato come un tratto di personalità, stabile e fisso, da altri (Wagnild & Young, 1993) come l'abilità di fronteggiare e adattarsi positivamente a eventi stressanti o avversivi. Cicchetti (2013), concettualizzando la resilienza come un processo, ha concentrato l'attenzione sui fattori che lo determinano, con particolare interesse a quelli genetici e neurali. Bonanno e Diminitch (2013) si sono, invece, concentrati su quei fattori di rischio o quelle condizioni esistenziali potenzialmente vulnerabili che possono determinare il processo e che gli autori (Bonanno et al., 2011) definiscono come eventi potenzialmente traumatici (EPT). Rutter (2012), da parte sua, ha teorizzato la resilienza come un concetto dinamico dato dalla continua interazione tra i fattori protettivi e di rischio, portando all'attenzione l'influenza ambientale. Tuttavia, sebbene l'autore (Rutter, 2012) abbia messo in luce la funzione dell'ambiente nel processo di resilienza, sono gli approcci più ecologici e sociali (Anaut, 2005; Cyrulnik, 2001; Cyrulnik & Malaguti, 2015; Malaguti, 2012; Walsh, 2016) che hanno enfatizzato e dato maggiore importanza ai fattori contestuali, sociali, familiari e relazionali nella definizione del processo di resilienza. In particolare, secondo Cyrulnik (2001), posti i fattori di protezione, il processo non può avvenire che nell'ambito di relazioni significative. Nello specifico, l'autore distingue tre elementi fondamentali che rendono conto, nell'insieme, del processo: 1- le esperienze pregresse nell'infanzia e nella storia personale dell'individuo, la qualità dei legami di attaccamento e la capacità di mentalizzazione; 2- il trauma e le sue caratteristiche (strutturali, contingenti ed emotive e sociali); 3- la possibilità di risignificare la tragedia avvenuta attraverso il sostegno affettivo e la relazione d'aiuto, descritta, genericamente come l'incontro con l'Altro. Secondo l'autore, la persona costruisce nel proprio passato, in particolar modo durante l'infanzia, attraverso il legame di attaccamento sufficientemente sicuro, le risorse e la capacità di mentalizzazione utili per affrontare e risignificare il trauma. È in questo spazio relazionale quindi che la persona forma una rappresentazione di Sé come persona amabile, capace di affidarsi e di costruire relazioni forti e significative anche in futuro. La capacità e la possibilità di costruire queste relazioni sono viste come le condizioni che possono aiutare la persona a riconoscere le risorse da attivare per superare la profonda ferita incisa dall'esperienza traumatica e per ristabilire un equilibrio nella propria esistenza. Nell'ultima fase della sua teoria l'autore specifica l'importanza di una figura che chiama tutore di sviluppo o di resilienza, le cui caratteristiche e funzioni sono approfonditamente delineate nella pubblicazione di Lighezzolo, Marchal, & Theis (2003). Secondo gli autori, il tutore di resilienza deve favorire un processo di autonomia e ri-strutturazione del sé, trasmettere sapere, fornire esempi e modelli che permettano e legittimino l'errore; non deve quindi ricoprire un ruolo insostituibile e onnipotente. Il tutore di resilienza, sia esso una persona adulta informale o una figura istituzionalizzata nel sistema di cura e presa in carico della persona, è una risorsa esterna che coadiuva nel processo di resilienza. In questo ultimo caso, la formazione e la definizione del ruolo dell'operatore nel processo di presa in carico contribuiranno alla costruzione di un efficace intervento sociale e clinico per la promozione della resilienza nell'assistito (Manciaux, 2001). Negli ultimi anni, una serie di rassegne internazionali (Agaibi & Wilson, 2005; Siriwardhana, Ali, Roberts, & Stewart, 2014; Sleijpen, Boeije, Kleber, & Mooren. 2016) e in Italia (Tessitore & Margherita, 2017), hanno tentato di sistematizzare i risultati degli studi sul processo di resilienza nell'esperienza potenzialmente pluritraumatica della migrazione, con particolare attenzione alla condizione esistenziale di rifugiato. I risultati evidenziano e si concentrano, soprattutto, sui principali fattori di rischio e quelli protettivi che possono intervenire nel processo di resilienza a seguito di queste esperienze pluritraumatiche. In questi lavori emerge, tuttavia, la necessità per la ricerca di individuare strategie e procedure per interventi e pratiche mirati ed efficaci a promuovere il processo di resilienza nei contesti dell'accoglienza. In particolare, rispetto al contesto italiano si riscontra che sono stati svolti pochi studi sul tema, ancora da approfondire (Tessitore & Margherita, 2017). L'analisi approfondita delle pratiche costruite e messe in atto nell'ambito dell'accoglienza negli ultimi anni in Italia risulta rilevante per una sistematizzazione di conoscenze e competenze e utili per la progettazione di interventi psicosociali efficaci. La presente ricerca si poneva l'obiettivo di studiare, se e in che misura, le pratiche dell'accoglienza e le strategie di intervento messe in atto nel sistema CAS di Parma e Provincia abbiano favorito un processo di resilienza nei richiedenti asilo accolti. Inoltre, si poneva l'obiettivo di comprendere se e in che modo l'operatore dell'accoglienza potesse svolgere una funzione di tutore di resilienza. Poiché basandosi sulla teorizzazione di Cyrulnik (2001), l'esito del processo di resilienza è dato dall'interazione dei fattori protettivi individuali, dalla qualità/intensità del trauma e/o comunque delle situazioni avverse e dall'incontro con i possibili tutori di resilienza, il progetto si è sviluppato in due fasi e ha tenuto conto sia dell'esperienza dei richiedenti asilo sia di quella degli operatori. Rispettivamente, nella prima fase l'obiettivo della ricerca si proponeva di individuare le risorse/vincoli personali presenti nella biografia dei richiedenti asilo, i vissuti emotivi e la qualità dei legami stabiliti nel passato, di individuare le risorse/vincoli messe in gioco durante il viaggio e, infine, di individuare le risorse/vincoli con funzione protettiva dal momento dell'arrivo in Italia e in particolare nel CAS di residenza e nella relazione con gli operatori. Nella seconda fase, la ricerca mirava a individuare le risorse e le competenze, rintracciabili nelle biografie degli operatori dei CAS messe in gioco nella pratica professionale e di conoscere le loro motivazioni alla base della scelta professionale, e a comprendere il significato e l'uso consapevole della relazione con i richiedenti asilo nella loro pratica professionale e, infine, a valutare la qualità della loro vita professionale tenendo conto del forte carico emotivo dovuto alla relazione con i richiedenti asilo e il loro vissuti traumatici. 2. Migrazione ed Europa: Una revisione sistematica sulla promozione della resilienza dei richiedenti asilo negli Stati membri dell'Unione Europea. La migrazione è un fenomeno complesso determinato dall'interazione di fattori di espulsione e di attrazione. L'Europa ha sempre svolto un ruolo di attrazione nei flussi migratori. Negli ultimi anni, le direttive per gli Stati membri hanno mirato a promuovere il benessere dei richiedenti asilo. È importante sviluppare la resilienza per raggiungere il benessere delle persone. L'obiettivo della revisione sistematica è stato quello di esplorare come viene studiata la resilienza nei richiedenti asilo nei paesi dell'UE. Sono stati consultati i database internazionali PsycINFO, PubMed, Web of science, Scopus, MEDLINE, Psychology e behavioural collection. Gli articoli sono stati analizzati secondo i criteri PRISMA. Sono stati ottenuti 12 articoli. Dall'analisi qualitativa sono emersi tre approcci principali e quattro principi teorici fondamentali che potrebbero guidare lo studio della resilienza in contesti migratori. Lo studio della resilienza può essere orientato verso un approccio clinico, clinico e sociale o psicosociale. Inoltre, la ricerca ha tenuto conto della necessità di costruire una nuova narrazione di sé e della propria storia nei richiedenti asilo, di restituire agency ai richiedenti asilo, di valorizzare il proprio contesto culturale e quello del paese ospitante e di promuovere una democratizzazione del sistema istituzionale di accoglienza. Si suggeriscono implicazioni per le politiche degli Stati membri dell'UE coinvolti in prima linea nella gestione dell'accoglienza in Europa. Data la limitata letteratura sull'argomento, questa rassegna suggerisce una nuova e originale visione di presa in carico dei richiedenti asilo attraverso una maggiore implementazione di interventi focalizzati sull'individuo e sulle sue risorse. 3. Promozione della salute psicosociale nei migranti: una revisione sistematica della ricerca e degli interventi sulla resilienza nei contesti migratori. La resilienza è identificata come una capacità chiave per prosperare di fronte a esperienze avverse e dolorose e raggiungere un buono stato di salute psicosociale equilibrato. Questa revisione mirava ad indagare come la resilienza è intesa nel contesto della ricerca sul benessere dei migranti e come gli interventi psicosociali sono progettati per migliorare la resilienza dei migranti. Le domande della ricerca hanno riguardato la concettualizzazione della resilienza, le conseguenti scelte metodologiche e quali programmi di intervento sono stati indirizzati ai migranti. Nei 63 articoli inclusi, è emersa una classica dicotomia tra la resilienza concettualizzata come capacità individuale o come risultato di un processo dinamico. È anche emerso che l'importanza delle diverse esperienze migratorie non è adeguatamente considerata nella selezione dei partecipanti. Gli interventi hanno descritto la procedura ma meno la misura della loro efficacia. 4. Il sistema d'accoglienza straordinaria di Parma e provincia: soddisfazione e benessere percepito dai migranti accolti. I servizi e le progettualità messi in atto nei CAS mirano a favorire integrazione, autonomia e benessere. Questi obiettivi si strutturano sull'attivazione e promozione di risorse dei richiedenti asilo. Nello specifico, vanno ad innestarsi sulle loro abilità, sulle conoscenze, sulle competenze, sulla loro agency e sulla capacità di proiettarsi verso un futuro. Poiché i richiedenti asilo sono i principali attori e fruitori di questi servizi, la valutazione di efficacia e di raggiungimento degli obiettivi preposti deve tenere conto necessariamente del loro punto di vista. I richiedenti asilo che hanno partecipato allo studio erano circa il 20% della popolazione dei richiedenti asilo adulti presenti nel territorio di Parma e provincia. Per la stratificazione del campione si è tenuto conto della variabile del paese di origine, della collocazione sul territorio provinciale (distretto) e il tempo di permanenza nel sistema CAS. È stato costruito un questionario ad hoc che mirava ad indagare la percezione di autonomia, di benessere personale, di soddisfazione verso sé stesso, la percezione di essere rispettato nelle proprie tradizioni culturali e la soddisfazione verso il servizio. Il questionario constava di una parte introduttiva, che forniva una breve descrizione al partecipante delle finalità d'indagine, e di diverse sezioni, che indagavano e approfondivano specifiche aree (temi) di interesse. Le prime due aree hanno rilevato i dati socio-anagrafici e il viaggio dei richiedenti asilo. La terza e la quarta area hanno indagato l'accoglienza nel centro e la struttura in cui risiedeva il beneficiario. Le altre aree si sono concentrate sui servizi primari (beni e servizi di prima necessità, assistenza medica) e servizi secondari (assistenza legale, lingua italiana, sostegno psicosociale, lavoro, mediazione culturale, orientamento al territorio e tempo libero) che gli venivano offerti. Le ultime sezioni si focalizzavano sul rapporto con gli operatori, sul progetto individualizzato e sui propri piani futuri. Alla fine del questionario vi era una breve sezione che mirava ad indagare la soddisfazione generale verso l'intero processo di accoglienza in Italia e la specifica esperienza nel territorio di Parma e provincia. Sono state effettuate delle analisi ed elaborazioni statistiche descrittive tramite il software SPSS. Dal questionario è emerso un quadro complessivo dei servizi offerti e una mappatura delle pratiche messe in atto all'interno delle strutture a partire dal punto di vista dei richiedenti asilo. Questi hanno espresso una generale soddisfazione del sistema accoglienza in Italia e in particolare di quella ricevuta a Parma. Hanno riportato un senso di protezione e sicurezza e una generale percezione di capacità e autonomia raggiunta in molti dei servizi e ambiti della quotidianità. Le aree più critiche sono risultate essere l'assistenza legale, l'avviamento lavorativo, la creazione di relazioni sociali con italiani nel tempo libero, la progettazione individualizzata e in particolare il sostegno psicosociale e, infine, la progettazione futura. In queste aree i richiedenti asilo hanno espresso una bassa soddisfazione verso il servizio di sostegno ricevuto, una scarsa consapevolezza di sé e delle proprie capacità e una bassa percezione di un'autonomia conquistata dal singolo servizio e, più in generale, dalla struttura d'accoglienza. 5. Vissuti, fattori di protezione e fattori di rischio nelle biografie dei richiedenti asilo: la definizione di traiettorie di resilienza nei Centri d'Accoglienza Straordinaria. I richiedenti asilo sono portatori di storie potenzialmente traumatiche a seguito delle quali possono vivere distress psicologico e PTSD nel paese d'accoglienza. Qui vengono inseriti in programmi che mirano a favorire benessere psicologico e integrazione. Tale processo è definito resilienza, La resilienza è un processo che vede le persone impegnate a guarire da esperienze dolorose, a prendersi cura della propria vita per continuare a svilupparsi positivamente in modo socialmente accettabile. Il presente studio mira a comprendere i fattori di protezione e le risorse personali e sociali che possono favorire il superamento dei traumi e un processo di resilienza nei richiedenti asilo. Sono stati somministrati 29 test CORE-10 e questionari costruiti ad hoc per il sostegno sociale percepito e condotte altrettante interviste in profondità. Con risultati moderati e gravi di distress psicologico nei partecipanti, sono emersi fattori protettivi e risorse già nella fase pre-migratoria. I legami di accudimento sembrano svolgere una funzione protettiva anche durante l'accoglienza, favorendo la costruzione di rapporti di fiducia. Il supporto sociale della comunità d'accoglienza e quello degli operatori nei centri possono influenzare la definizione di traiettorie resilienti. Lo studio solleva implicazioni di tipo clinico e sociale. Nei suoi limiti lo studio vuole essere un'apertura a nuovi approfondimenti di ricerca. 6. La qualità della vita professionale di chi lavora con i richiedenti asilo: Compassion Staisfaction, Burnout e Secondary Traumatic Stress negli operatori dell'accoglienza In Italia negli ultimi anni sono stati strutturati Centri di Accoglienza Straordinaria per rispondere ai bisogni primari e secondari dei richiedenti asilo approdati sulle coste mediterranee. A seguito dell'apertura dei CAS, sul territorio nazionale si è formato un nuovo corpo professionale, i professionisti dell'accoglienza. Poiché inizialmente non è stata richiesta una formazione specifica in base al contesto e agli obiettivi posti, il loro profilo professionale derivava tendenzialmente dai diversi percorsi formativi e lavorativi precedenti. Considerando il mandato istituzionale del loro lavoro, quale favorire l'accoglienza e una completa presa in carico dei richiedenti asilo, i professionisti dell'accoglienza sono quotidianamente coinvolti nella relazione con gli accolti ed esposti ai racconti traumatici o ai sintomi agiti di questi. Infatti, i richiedenti asilo sono persone spesso profondamente traumatizzate dalle esperienze passate, dal viaggio, ma anche disorientate e impreparate per la complessa esperienza dell'accoglienza e dell'integrazione. Questo aspetto del lavoro con i richiedenti asilo può influenzare il clima e la qualità della vita professionale dei professionisti dell'accoglienza. Infatti, come nelle altre professioni d'aiuto continuamente esposte a eventi stressanti o traumatici, anche nel lavoro di cura e accoglienza dei richiedenti asilo è alto il rischio di sviluppare i sintomi negativi associati al burnout e al trauma vicario. Sebbene, negli ultimi venti anni, la qualità della vita professionale sia stata ampiamente approfondita in diversi settori, non risultano studi che esplorino questo tema tra i professionisti del settore dell'accoglienza. In questo studio è stato sottoposto il questionario ProQOL 5 ai professionisti dell'accoglienza dei Centri di Accoglienza Straordinaria di Parma e provincia, attivamente coinvolti nella relazione d'aiuto con i richiedenti asilo, con lo scopo di definire lo stato di benessere psicosociale rispetto alla loro qualità di vita professionale. Anche se si è dimostrato che mediamente i professionisti dell'accoglienza riportano una buona soddisfazione nello svolgere il proprio lavoro, sono emersi tre profili. Il primo gruppo sembra esprimere soprattutto Burnout, il secondo gruppo una maggiore Compassion Satisfaction e il terzo gruppo un malessere evidente sia per il Burnout che per il Secondary Traumatic Stress. I dati ottenuti permettono di colmare parzialmente un vuoto nella letteratura di settore. Inoltre, la rilevanza dei dati spinge alla riflessione sulla possibilità di incoraggiare interventi efficaci di prevenzione e management delle organizzazioni, al fine di favorire il benessere psicosociale di questo corpo professionale emergente. 7. Essere professionisti dell'accoglienza: l'importanza di un uso consapevole del Se' nella relazione d'aiuto e la funzione del tutore di resilienza. All'interno dei CAS sono stati impiegati professionisti di differenti background formativi ed esperienziali. Appannaggio degli operatori è l'attivazione dei servizi interni ed esterni e il monitoraggio di tutte le fasi del progetto di accoglienza. La presa in carico si configurerebbe come una relazione d'aiuto possibile attraverso la compresenza di diversi aspetti di Sé. Chi lavora con i richiedenti asilo deve affrontare e gestire vissuti potenzialmente traumatici che influenzano il buon esito dell'intervento clinico-sociale. Nel favorire benessere psicologico nei beneficiari, gli operatori svolgono funzioni che richiamano quelle del tutore di resilienza. In questo studio si è esplorata la rappresentazione dei professionisti dell'accoglienza e la consapevolezza di Sé a partire dal loro punto di vista. Sono stati condotti tre focus group e le trascrizioni verbatim sono state analizzate secondo l'approccio IPA. Sono emersi tre aspetti del Sé (Sé personale, Sé professionale e Sé burocrate). Il Tempo e il Contesto sociale sono risultate possibili variabili che influenzano la relazione d'aiuto. Lo studio propone implicazioni di ricerche future e di policy. 8. Conclusioni Negli anni il sistema italiano dell'accoglienza si era ormai rodato e formalizzato su due principali dispositivi: il sistema SPRAR e i cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Tuttavia, negli ultimi due anni, con il cosiddetto decreto Salvini (D.lg. 4/19/2018 n° 113), si è assistito ad un graduale ridimensionamento dei numeri degli accolti e ad una conseguente chiusura di strutture del sistema CAS. Pertanto, assume rilevanza e importanza capitalizzare le esperienze di accoglienza e comprenderne maggiormente le potenzialità e i limiti. Con la presente ricerca e le analisi delle pratiche d'accoglienza e delle progettualità messe in atto all'interno del sistema CAS sono emersi due risultati principali. Il primo risultato emerso è che i richiedenti asilo accolti abbiano consapevolezza delle risorse e dei fattori protettivi che hanno acquisito nell'arco di vita. Inoltre, si è evidenziata una forte e imprescindibile interdipendenza tra i vissuti psicologici, i bisogni e le risorse dei richiedenti asilo e la funzione relazionale dell'operatore dell'accoglienza. Dalla ricerca è emerso che il valore di tale interdipendenza, non essendo riconosciuto formalmente e quindi esplicitamente richiamato nelle norme e regolamentazioni, era dipeso da un reciproco riconoscimento dei richiedenti asilo accolti e degli operatori. Tuttavia, questa relazione, se opportunamente strutturata e formalizzata, può favorire la definizione di traiettorie di resilienza e il raggiungimento degli obiettivi di integrazione, autonomia e benessere psicosociale. Al momento in cui è stata condotta la ricerca, questi obiettivi erano parzialmente raggiunti. Infatti, sebbene nel sistema d'accoglienza i richiedenti asilo abbiano percepito di essere in un luogo sicuro e protetto e fossero generalmente soddisfatti dei servizi offerti, hanno riportato livelli medio-alti di disagio psicologico. Il valore traumatico delle loro esperienze di vita è stato esplorato e compreso nella sua diacronicità, in quanto i vissuti traumatici sono rintracciabili non solo durante il viaggio ma già nelle esperienze pre-migratorie. Le biografie dei richiedenti asilo sono segnate da profonde ferite, che spesso risalgono a perdite, lutti o tradimenti da parte delle figure significative dell'infanzia o della comunità allargata, fino a sentirsi espulsi dalle politiche disattente degli Stati d'appartenenza. Anche l'arrivo in Italia e l'inserimento nel sistema d'accoglienza comportano sfide esistenziali, che in alcuni casi arrivano a reiterare esperienze traumatiche passate. Nonostante questo, i richiedenti asilo hanno mostrato consapevolezza delle proprie risorse e dei fattori di protezione acquisiti già durante l'infanzia, attraverso le relazioni significative e di accudimento. Queste risorse hanno svolto una funzione di protezione e sostegno nel loro sforzo psicologico di fronteggiare e sopravvivere alle avversità incontrate in tutto l'arco di vita. Nonostante la loro consapevolezza e tenuto conto della permanenza relativamente lunga nel sistema d'accoglienza, è risultato che le esperienze traumatiche non trovano uno spazio adeguato di ascolto e di ri-significazione una volta inseriti nei progetti di accoglienza. Le caratteristiche strutturali e organizzative del sistema non sembrano favorire quell'incontro con l'Altro che può garantire la rielaborazione delle esperienze passate e riattribuire senso e agency alla propria vita, anche nella quotidianità. Al contrario, i richiedenti asilo sono consapevoli di ritrovarsi in una posizione di svantaggio rispetto al potere decisionale sui loro progetti di vita. Non sono coinvolti nelle scelte progettuali e non percepiscono una crescita personale nelle competenze e nelle capacità necessarie per rendersi autonomi. Tuttavia, i richiedenti asilo riconoscono negli operatori degli interlocutori diretti che svolgono un ruolo di congiunzione con la società ospitante. Nello svolgimento del proprio ruolo, gli operatori possono aprirsi ad un ascolto attivo di tutte le parti della biografia dei richiedenti asilo per costruire un rapporto di fiducia. Al fine di favorire la costruzione di tale rapporto, è importante che gli operatori nella loro pratica quotidiana mirino a riattribuire agency ai richiedenti asilo, coinvolgendoli nella progettazione individualizzata. Ciò favorirebbe la valorizzazione e l'attivazione delle risorse dei richiedenti asilo, l'instaurarsi di relazioni di fiducia che consentano la ricostruzione di significato delle proprie esperienze traumatiche di vita e la restituzione di una rappresentazione di Sé attiva e agente. In generale, si otterrebbe una maggiore adesione al progetto d'accoglienza. Inoltre, la valorizzazione della funzione relazionale degli operatori dell'accoglienza favorirebbe una maggiore qualità di vita professionale. I professionisti avrebbero così la possibilità di riconoscere e far riconoscere il proprio ruolo, che è stato profondamente messo in discussione dalla comunità e dalle politiche degli ultimi anni. Quindi, l'ascolto attivo, la riattribuzione di agency e l'esempio nella quotidianità da parte degli operatori favorirebbero il riconoscimento del loro ruolo come tutori di resilienza e promuoverebbero la definizione di traiettorie di resilienza. In questo modo si faciliterebbe il raggiungimento di uno stato di salute psicosociale nei richiedenti asilo. La legittimazione del ruolo funzionale della relazione tra i richiedenti asilo e gli operatori dell'accoglienza da parte del contesto sociale e istituzionale diventa un fattore necessario allo sviluppo di buone pratiche d'accoglienza e alla promozione di traiettorie di resilienza. 9. 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La presente tesi non è solo l'esito di una ricerca su un precetto giuridico controverso, ma è anche la narrazione di un processo personale di scoperta, che a partire dallo studio di una specifica norma ha fatto emergere la complessità delle interazioni nell'ambito delle politiche in materia penale, economica, e finanziaria. Partendo da un approccio microsociologico focalizzato sull'analisi di una determinata norma penale, il reato di riciclaggio,1 la ricerca ha dovuto confrontarsi con temi di interesse macrosociologico, al fine di inserire l'analisi della legge all'interno di un contesto più ampio di politiche nazionali, europee e internazionali, di attori e di governance transnazionale. Per mantenere la scientificità dell'elaborato ho omesso di esprimere opinioni personali sui temi, talvolta di carattere fortemente politico, e ho cercato, invece, di presentare aspetti critici e discussioni aperte fornendo una visione completa e imparziale delle contrastanti argomentazioni in modo da lasciare il lettore libero di trarre le proprie conclusioni. Il riciclaggio di denaro sporco è il processo tramite cui a proventi di reati viene data un'apparenza di essere stati guadagnati in modo illecito. È un reato tipico della cosiddetta 'zona grigia', poiché avviene al confine tra la sfera della legalità e quella dell'illegalità. Nel momento in cui profitti realizzati illecitamente si mescolano ai flussi di denaro lecito è molto difficile discernere ciò che ha un'origine legale da ciò che è stato guadagnato illegalmente. Il reato di riciclaggio di denaro sporco è stato introdotto proprio per affrontare questa difficoltà ed impedire che le strutture legittime dell'economia e della finanza globale venissero abusate da trasgressori al fine di ripulire i proventi di reato. Infatti i flussi di denaro sporco utilizzano spesso gli stessi canali usati per le transazioni lecite; la loro riuscita dipende dalla cooperazione di professionisti quali avvocati commerciali, agenti finanziari, commercialisti, la cui reputazione è raramente sospetta. Data questa promiscuità spesso la gravità del fenomeno è sottovalutata dal pubblico che non ha gli strumenti per riconoscerne la pericolosità, anche a causa dell'assenza di vittime dirette. Dall'altra parte le stime sulla quantità di proventi di reato riciclati a livello mondiale (che oscillano tra il 2,5 % e il 5,5 % del PIL globale) richiamano l'attenzione su quella che Dalla Chiesa definisce la mitologia del volume dell'economia criminale,2 e una parte della letteratura descrive il riciclaggio come il lato oscuro della globalizzazione,3 e come uno dei maggiori problemi dell'era moderna.4 Con questa ricerca ho voluto mettere in discussione l'efficacia del reato di riciclaggio nel far fronte al fenomeno dell'infiltrazione dei flussi di denaro sporco nell'economia lecita. Sebbene la pratica di nascondere i proventi di reato in modo da evitare la persecuzione giudiziaria risalga probabilmente a molto tempo addietro, il concetto giuridico di riciclaggio è relativamente recente ed è stato introdotto nei codici penali nella maggior parte del mondo a partire dalla fine degli anni 80.5 Nel frattempo un gran numero di autori si è scagliato contro la scarsa efficacia delle legislazione anti-riciclaggio6, nonostante le innumerevoli novità introdotte e i cospicui ammendamenti che hanno in larga parte espanso il campo di applicazione della normativa. La decisione di scegliere il contesto tedesco come caso di studio deriva dal fatto che il paese è considerato avere un rischio particolarmente alto di riciclaggio di denaro sporco. Secondo il rapporto emesso dal 2010 dal GAFI (Groupe d'Action Financière), dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) e dall'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico)7 ci sono alcuni fattori che rendono la Germania propensa ad essere usata al fine di riciclaggio di denaro sporco: il volume del sistema economico-finanziario, la locazione strategica al centro dell'Unione Europea con forti legami internazionali, l'uso diffuso di denaro contante,8 l'apertura delle frontiere, la vastità del settore informale, l'importante ruolo a livello di economia globale, e il coinvolgimento nei flussi di denaro transfrontalieri. Anche i media, a partire soprattutto dalla pubblicazione del citato rapporto, hanno attirato l'attenzione del pubblico sul fenomeno, descrivendo la Germania come "paradiso" o "Eldorado" per i riciclatori. Alcuni recenti scandali hanno visto coinvolte prominenti banche tedesche, come la Deutsche Bank, la Commerybank e l'Hyopovereinsbank, contro cui procure straniere hanno sollevato l'accusa di riciclaggio di denaro sporco.9 La legislazione in atto, ed in particolare l'articolo 261 del codice penale tedesco, non sembra essere sufficientemente efficace per contrastare il fenomeno, nonostante gli abbondanti emendamenti e il continuo processo di aggiornamento e di espansione del campo di applicazione della norma. Al fine di spiegare questa per lo meno apparente incapacità della norma di fare fronte al fenomeno del riciclaggio, ho costruito l'ipotesi di ricerca sulla base delle teorie sociologico-giuridiche relative all'efficacia del diritto, alle funzioni manifeste e latenti delle norme e quindi alle intenzioni espresse e non dal legislatore, all'efficacia simbolica del diritto e di singole legislazioni e all'impatto, inteso come comprensivo degli effetti indesiderati o collaterali. L'ipotesi di ricerca è che la norma esplichi una funzione simbolica di allineamento dell'ordinamento nazionale a quello europeo e transnazionale, di compromesso tra gli interessi politici in gioco, e di creazione di consenso pubblico verso il legislatore per essersi occupato della questione. Si ipotizza che il legislatore abbia quindi consapevolmente accettato o addirittura scelto di formulare una norma strumentalmente poco efficace, ma simbolicamente capace di raggiungere i suoi obiettivi latenti. Si solleva inoltre l'ipotesi che la norma sia stata appositamente approvata con lo scopo di non modificare lo status quo delle relazioni e strutture economiche, e di permettere quindi l'ingresso di capitali sporchi nel paese, sulla base del motto pecunia non olet. La suddetta ipotesi viene parzialmente smentita dai risultati della ricerca empirica. La ricostruzione del processo di produzione legislativa mette in risalto l'esistenza di svariati e contrastanti interessi e della forte pressione esercitata dagli organismi internazionali per l'introduzione e lo sviluppo del reato di riciclaggio, e conferma, quindi, l'argomentazione che la norma sia stata approvata in un contesto di pressione politica esterna e di necessità di trovare un compromesso tra diverse parti politiche. Anche l'analisi degli aspetti problematici dell'articolo 261 del codice penale tedesco messi in risalto dalla dottrina supporta l'ipotesi della simbolicità della norma. Il fatto che il legislatore abbia formulato un reato così complesso crea evidenti problemi di integrazione dello stesso all'interno del sistema penale tedesco, e quindi di accettazione da parte degli studiosi e potenzialmente da parte degli operatori del diritto. Inoltre, la scelta di costruire un reato così complesso riflette la necessità di venire a compromesso con opposti interessi, ma potrebbe essere anche essere interpretata come un disinteresse al raggiungimento di un'efficacia materiale. La ricerca empirica sull'implementazione dell'articolo 261, invece, smentisce l'idea che la norma abbia un'efficacia puramente simbolica. Infatti il numero di condanne, di investigazioni, ed in generale l'uso ricorrente della legge riscontrato nelle statistiche criminali provano che essa conduca ad effetti strumentali, oltre che simbolici. Inoltre, nella prospettiva di alcuni degli operatori del diritto e degli esperti intervistati, l'articolo 261 è percepito come una norma particolarmente efficiente, sia in relazione alle quote di chiarimento, che come strumento di demarcazione tra comportamenti leciti e illeciti, in un contesto di deregolamentazione del settore finanziario. Da un'analisi piè ravvicinata delle statistiche e di altri rapporti emessi da enti internazionali e nazionali emerge però un quadro non così univoco: La norma sembra colpire più le vittime dei network criminali che operano a livello transnazionale che gli autori, perché spesso i colpevoli sono coinvolti in transazioni sospette in cambio di guadagni monetari. Le cospicue indagini finanziarie non riescono a raggiungere coloro che operano dietro gli esecutori dei reati minori, ed infatti la maggior parte di esse si concludono senza una condanna per riciclaggio. Questo a fronte di un volume di denaro sporco circolante nel paese che rimane allarmante, secondo alcuni degli studi analizzati. Se da una parte i risultati dell'applicazione della norma, sebbene strumentali, non possono considerarsi soddisfacenti, perché non sono riusciti ad evitare l'ingresso di capitali illeciti nell'economia nazionale, dall'altra parte sembra che l'esistenza di interessi profondamente contrastanti in gioco renda quasi impossibile la formulazione di un reato piè efficace. La tesi è composta da cinque capitoli, un'introduzione e una conclusione. Nel primo capitolo espongo le teorie sociologiche adottate per la valutazione di efficacia della norma e il metodo della ricerca. Inizialmente richiamo concetti di efficacia forniti da discipline affini alla sociologia del diritto - tra cui per esempio il concetto di efficienza e di efficienza indipendente rispetto allo scopo (zielunhabhängige Effizienz) riferito agli apparati amministrativi - che torneranno utili per l'interpretazione dei risultati delle interviste. Successivamente procedo con una panoramica sulle definizioni di efficacia del diritto fornite in sociologia del diritto, sulla ci base adotto una nozione "elastica" -riprendendola da Ferrari- di efficacia di una norma che guarda alle funzioni della norma e alle intenzioni del legislatore, in una prospettiva "intenzionalistica": "la corrispondenza fra un disegno politico di utilizzo di uno strumento normativo e i suoi effetti". Tale nozione, oltre a prestarsi ad un'analisi critica del diritto, fornisce indicazioni utili per l'analisi empirica dell'efficacia della legge in questione. In particolare ritengo utile considerare le seguenti variabili: le intenzioni latenti e manifeste del legislatore, gli scopi diretti e ed indiretti, l'eventuale efficacia simbolica del diritto, l'implementazione, la ricezione della norma nel senso di accettazione nel sistema giuridico e di interpretazione e percezione da parte degli operatori giuridici. Nella seconda parte si evidenzia il rilievo di tali variabili con riferimento specifico al diritto penale. In conclusione, sulla base delle riflessioni teoriche, formulo l'ipotesi sull'efficacia simbolica del reato di riciclaggio nell'ordinamento tedesco, che verrà poi verificata nei capitoli successivi. Nello specifico, presumendo che il reato di riciclaggio, introdotto come strumento fondamentale della lotta alla criminalità organizzata, così com'è formulato non adempie agli scopi dichiarati, nonostante gli innumerevoli emendamenti finalizzati proprio ad aumentarne l'efficacia, ipotizzo un'efficacia simbolica della norma, introdotta per offrire un'immagine di efficienza al pubblico (elettori). Inoltre sollevo l'ipotesi che la norma sia stata emanata appositamente inefficace per neutralizzarne le aspirazioni di punizione delle condotte illecite tipiche dei colletti bianchi, in una lettura moderna del conflitto sociale che avviene tramite l'emanazione di norme, con la volontà di decriminalizzare secondariamente comportamenti tipici delle classi forti. Nel secondo capitolo analizzo il processo legislativo a livello internazionale, europeo e nazionale. Il processo che ha portato alla creazione del reato di riciclaggio a livello internazionale viene ricostruito tramite dichiarazioni di intenti degli attori partecipanti, opinioni pubblicate, trascrizioni dei dibattiti parlamentari. Una particolare attenzione è posta sulle diverse intenzioni degli attori che hanno partecipato alla formulazione del reato. Il processo legislativo che ha portato alla formulazione dell'attuale legislazione anti-riciclaggio è un processo complesso, in cui diversi attori partecipanti hanno contribuito con differenti aspettative e dunque attribuendo diverse funzioni alla criminalizzazione del riciclaggio. Al fine di permettere svariate interpretazioni del dettato normativo in modo da soddisfare i differenti bisogni, e con lo scopo di trovare un compromesso tra gli interessi divergenti, il reato di riciclaggio è stato formulato in modo vago. Mentre alcuni Stati (ad esempio la Francia) inizialmente sostenevano l'introduzione del reato con lo scopo di combattere i paradisi fiscali e rafforzare la lotta all'evasione fiscale, altri Stati, come la Svizzera, hanno accettato di firmare l'accordo internazionale sulla criminalizzazione del riciclaggio solo a condizione che l'evasione fiscale non fosse inserito nella lista dei reati antecedenti. Con la nascita del GAFI la policy viene usata allo scopo di difendere l'integrità del sistema finanziario dall'infiltrazione di capitale illecito e dal 2001 si aggiunge la funzione di lotta al finanziamento del terrorismo. Tramite la soft law emanata dal GAFI per la prevenzione del riciclaggio, si trasferiscono compiti solitamente pubblici al settore privato: banche e istituti finanziari devono segnalare alla polizia ogni transazione sospetta, devono raccogliere e mantenere informazioni sui clienti e verificare le identità dei clienti. L'Unione Europea finora ha emanato quattro direttive nell'ambito del riciclaggio, l'ultima risale al 20 maggio 2015. Inizialmente la CE non aveva competenza in ambito penale, perciò la materia riciclaggio fu assorbita nella sfera economica (DG Economia e industria). La funzione dichiarata dal legislatore è la protezione del mercato interno, con particolare riguardo al fatto che i criminali possano sfruttare la libera circolazione dei capitali e l'eliminazione delle frontiere. Le direttive esprimono anche la volontà di impedire agli stati membri di emanare regolamentazioni che possano bloccare il libero mercato al fine di difendere le proprie economie dall'infiltrazione di capitale illecito. Emerge dunque un ulteriore conflitto di interessi. Nella seconda parte ricostruisco il processo legislativo e le evoluzioni interne alla Germania fino al momento della scrittura e fornisco il quadro del sistema repressivo e di prevenzione anti-riciclaggio. L'articolo 261 StGB è stato introdotto con legge Gesetz zur Bekämpfung des illegalen Rauschgifthandels und anderer Erscheinungsformen der Organisierten Kriminalität, quindi nell'ambito della lotta alla criminalità organizzata. Il dibattito parlamentare rileva che la norma è il frutto di un compromesso sotto diversi aspetti, non ultimo il fatto che è stata emanata del 1992, a pochi anni dalla riunificazione, e che quindi è parte del processo di negoziazione per la formazione di un diritto penale adattabile alle due culture giuridiche. Il legislatore tedesco evidenzia alcune funzioni della norma: la lotta al consumo di eroina e al traffico di stupefacenti, la diffusione e la pericolosità della mafia alla luce dei fatti recenti italiani, la volontà di proteggere l'amministrazione della giustizia e di isolare i criminali puntando alla criminalizzazione dei cosiddetti gate-keepers. Nel terzo capitolo individuo alcuni dei problemi sollevati dalla dottrina tedesca sul piano teorico con riferimento alla criminalizzazione del reato di riciclaggio nel contesto del sistema penale tedesco. Uno dei temi più discussi è relativo al bene giuridico protetto. La dottrina non ha ancora trovato un accordo su quale interesse sia protetto dall'articolo 261 StGB, le ipotesi sono: gli interessi dei reati antecedenti, l'amministrazione della giustizia, il sistema finanziario e la sicurezza. La vaghezza del dettato normativo non aiuta a trovare un interpretazione dottrinale univoca. La questione del bene giuridico protetto, lungi dall'essere una mera questione teorica, risente delle diverse funzioni attribuite alla norma dagli attori partecipanti al processo legislativo. Finora la giurisprudenza, che pur è intervenuta a chiarire altre questioni relative alla norma, non è intervenuta sul tema. Un altro tema su cui il dibattito è ancora aperto è il fatto di aver previsto al comma 5 l'ipotesi di colpa lieve, in controtendenza rispetto al legislatore europeo. Questo, secondo alcuni studiosi porta all'assurdo per cui anche il panettiere Tizio che vende del pane ad un evasore fiscale Caio potendo aver riconosciuto che Caio fosse un evasore, si rende colpevole di riciclaggio. La questione del livello di mens rea richiesto per una condanna per riciclaggio era sorta anche durante il dibattito parlamentare e l'introduzione del comma 5 è stato sostenuto da un emendamento della SPD che avrebbe voluto criminalizzare anche l'ipotesi di colpa lievissima. Questo, secondo la CDU avrebbe messo un freno al mercato e alle transazioni, poiché avrebbe costituito una minaccia per chiunque avesse intrapreso operazioni economiche. Essendo la funzione della norma incerta, la dottrina si divide tra chi sostiene che questa vasta criminalizzazione faccia perdere il senso del reato che sarebbe invece colpire i criminali che agiscono con intento, e chi invece sostiene che la norma abbia lo scopo di impedire qualsiasi infiltrazione di denaro illecito e quindi richieda una responsabilizzazione di tutti colori i quali prendano parte in operazioni finanziarie o economiche. Ancora una volta l'indeterminatezza del precetto legislativo è di ostacolo ad un'interpretazione univoca. Il quarto capitolo offre un'analisi qualitativa delle statistiche officiali sull'implementazione della legge dal 1992 ad oggi da parte delle istanze repressive e di prevenzione. Tra i dati analizzati i più rilevanti sono per esempio il numero di segnalazioni di transazioni sospette ricevuto dalle procure, il numero delle investigazioni condotte, il numero di condanne effettivamente inflitte ed eseguite e per quale delle ipotesi di riciclaggio, il volume di denaro confiscato. Essendo tali numeri indici del funzionamento del sistema penale e non del fenomeno del riciclaggio per sé, in conclusione si confrontano tali statistiche con le stime sul volume di flussi illeciti in Germania. Tale analisi, non potendo dare conto del numero dei reati evitati, sulla base dell'efficacia deterrente della norma, non intende esaurire il giudizio di efficacia della legislazione. Tra i risultati più rilevanti vi sono il fatto che il 60% delle persone condannate vengono condannate per l'ipotesi di colpa lieve, che solitamente consiste in casi in cui una persona poco abbiente ha accettato di far usare il proprio conto a terzi per operazioni sospette in cambio di un guadagno. Nel 5% dei casi le condanne sono inflitte per le ipotesi aggravate di commissione da membro di un'associazione criminale o in forma commerciale. Nel 90% dei casi le transazioni sospette segnalate alle procure portano a una chiusura dei procedimenti per mancanza di indizi che possano sostenere un rinvio a giudizio. La norma sembra colpire delinquenti minori e non grandi gruppi criminali, né altri delinquenti più potenti. Si ipotizza inoltre che l'incapacità di sostenere un rinvio a giudizio nonostante le informazioni acquisite e le indagini preliminari riduce la capacità deterrente della norma e permette, invece, ai criminali di conoscere le modalità di funzionamento del sistema repressivo e agire di conseguenza. Inoltre, le transazioni sospette sono segnalate nel circa 90% dei casi sa parte di istituti di credito, mentre gli altri enti obbligati dalla legislazione non sembrano partecipare attivamente al processo preventivo, in particolare il settore forense e immobiliare e del gioco d'azzardo. Sulla base di questi dati si ipotizza un effetto spill-over, ossia un trasferimento di illegalità dai settori più controllati a quelli meno controllati. I rapporti pubblicati dalla polizia, invece, considerano l'articolo 261 StGB come una norma con una delle più alte quote di chiarimento (ca 90%), quota calcolata sul numero di casi chiariti dal sistema penale, a prescindere dalle modalità di chiarimento. Per quanto riguardo il volume di denaro riciclato, il capitolo richiama alcune delle stime pubblicate da diversi enti, tra cui il Fondo Monetario Internazionale, il GAFI e la polizia criminale federale. Essendo il fenomeno del riciclaggio un campo in cui la cifra oscura è stimata essere molto alta, tali dati non possono essere presi come misura obiettiva del fenomeno. Infine il capitolo si conclude richiamando alcune analisi del tipo costi-benefici per misurare l'efficacia delle politiche anti-riciclaggio o alcune delle sue norme, condotte da enti terzi. Tali analisi sembrano concordare nel considerare i costi di implementazione della politica più alti rispetto ai benefici conseguenti. Nel quinto capitolo, infine, vengono discussi i risultati della ricerca empirica con gli operatori giuridici e con alcuni osservatori privilegiati, in modo da fornire una prospettiva interna sul funzionamento della norma. Tramite le interviste condotte si mettono in luce aspetti della prassi giuridica non fotografati dalle statistiche, allo scopo di offrire un'immagine dell'impatto della legge quanto più vicina possibile alla realtà. La ricerca empirica si avvale di interviste con operatori del diritto e con osservatori privilegiati che siedono in posizioni ministeriali rilevanti nella lotta al riciclaggio. La metodologia adottata è di tipo qualitativo, è stato fatto uso di interviste semi-strutturate a operatori del diritto e a osservatori privilegiati. Il capitolo presenta le percezioni degli intervistati su quattro temi principalmente: la dimensione del fenomeno del riciclaggio, l'adeguatezza tecnica della legislazione, i conflitti di interesse intrinseci alla legge e sorti dall'applicazione della norma e l'efficacia delle legge. A fronte di un rapporto emesso da quattro ONG nel novembre 2013, sulla base di statistiche prodotte dall'UNODC e dal Fondo Monetario Internazionale, e immediatamente riprese dai media, che descrive il paese come "Eldorado" per i riciclatori,10 le interviste sono dirette a cogliere l'opinione dei rispondenti sulle dimensioni del fenomeno del riciclaggio in Germania. Un intervistato ritiene inaccettabile desumere dal PIL tedesco il volume di affari del crimine organizzato nel paese, e obietta che non si possa, sulla base del giro d'affari del centro finanziario di Francoforte, definire lo stesso come centro di riciclaggio di denaro sporco. Un altro intervistato, dichiara, al contrario, che sicuramente il fatto che la Germania abbia un'economia stabile ed un settore bancario affidabile attiri coloro che vogliano investire proventi illeciti, neppure quest'ultimo possiede, però, dati affidabili sulla quantità di denaro riciclato. Il riciclaggio, come altri fenomeni legati alla criminalità organizzata, è una fattispecie che per definizione sfugge alle autorità e ai confini nazionali. Lo scopo dello stesso è nascondere proventi di reato e sottrarli in questo modo al sistema repressivo, questo è sicuramente un elemento che rende complessa, se non impossibile, la sua quantificazione. D'altra parte, osservano i soggetti intervistati autori del Rapporto del 2013, l'incapacità di fornire statistiche rilevanti dopo più di 20 anni di lotta al riciclaggio, sembra essere un sintomo di una carente volontà politica nel contrastare efficacemente il fenomeno. Secondo gli osservatori privilegiati se la Germania fosse davvero un paradiso per i riciclatori, ciò non sarebbe collegabile ad un deficit legislativo, dato l'impegno del governo nella lotta al riciclaggio, negando, quindi, l'accusa rivolta dai media per cui i criminali sceglierebbero il paese tedesco ai fini di riciclaggio di denaro sporco sulla base delle lacune normative. Agli intervistati è stato chiesto di evidenziare aspetti positivi e problematici della legislazione. Tra i più rilevanti vi sono: la necessità di bilanciare il bisogno di punire la condotta di riciclaggio e rispettare i principi fondamentali del sistema giuridico, il disinteresse da parte degli istituti finanziari nell'indagare l'origine del capitale investito dai clienti, anche in caso di sospetto di provenienza criminale, a causa della possibile conseguente perdita di reputazione nell'ipotesi di apertura di investigazioni da parte delle autorità sul cliente sospetto. Vi è poi una difficoltà materiale nel condurre indagini finanziarie, che spesso, conducono a condotte illecite commesse all'estero; sul punto si osserva che le condotte di riciclaggio, intese come operazioni atte ad ostacolare la provenienza delittuosa, non avvengono su territorio tedesco, bensì all'estero, il denaro che entra in Germania, è, quindi, già "pulito". Inoltre, l'articolo 261 è stato introdotto nel sistema tedesco come trasposizione di una direttiva Europea e non rifletteva una necessità interna dello Stato; la formulazione così vaga, infatti, si presta più per il sistema giuridico degli Stati Uniti, in cui non vige l'obbligo dell'azione penale, mentre in Germania, dove i pubblici ministeri hanno l'obbligo di azione penale, tale norma porta ad iniziare numerose indagini senza avere la capacità di proseguirle. In generale, gli intervistati rappresentanti dei Ministeri rilevano la forte pressione subita da parte del GAFI e dell'Unione Europea per l'emanazione della legge anti-riciclaggio e concordano nel dire che se la norma fosse stata creata sulla base di una necessità e di un dibattito nazionale sarebbe stata scritta diversamente. C'è chi individua nel sistema penale le cause di inefficacia dell'articolo 261, nello specifico, la limitata possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche, le restrizioni in materia di inversione dell'onere probatorio, e lo scarso utilizzo della confisca dei proventi di reato a causa del disinteresse da parte delle procure (gestite a livello di Bundesländer) nell'investire risorse in tal senso dato che i beni confiscati non resterebbero in mano al Bundesland ma verrebbero raccolti in un fondo federale e poi spartiti. Si osserva una generale mancanza di risorse pubbliche che porta ad una carenza di personale coinvolto nelle investigazioni e, quindi, ad una incapacità di far fronte ai processi in corso in modo efficace. Per questo motivo, i pm non hanno la capacità di indagare più a fondo casi di riciclaggio all'apparenza semplici, ma che potrebbero portare alla luce organizzazioni criminali operanti nell'ombra. Alla totalità degli intervistati è stata chiesta un'opinione sull'efficacia della legge. L'articolo 261 del codice penale tedesco è stato definito da un soggetto "una legge scritta in modo indecente, che produce risultati banali sul piano delle statistiche criminali, soprattutto con riferimento alle condanne per riciclaggio in grossi casi di criminalità economica". Il reato è così difficile da provare in giudizio, che risulta facile, per la difesa, sfruttare le lacune legislative per evitare una condanna per riciclaggio. I rappresentanti dei Ministeri confermano che la lettera dell'articolo 261 crea confusioni e che quindi l'accusa, pur trovandosi di fronte ad un caso di riciclaggio spesso preferisca perseguire i delitti presupposto. Questo non è, però, un sintomo di inefficacia, dato che l'effettività a cui mira il Ministero dell'interno non è data dal numero di condanne per riciclaggio, ma dal numero di casi risolti, e quindi dal numero di condanne in generale, a prescindere dall'imputazione. D'opinione opposta un altro intervistato che ritiene che l'articolo 261 non abbia alcuna capacità deterrente nei confronti della criminalità organizzata, "la norma ricorre così raramente nella prassi giudiziaria che di fatto non rappresenta una "minaccia" per i potenziali criminali". I soggetti intervistati esprimono più soddisfazione a riguardo della legislazione di prevenzione (GWG); in particolare, con riferimento alle piccole e medie imprese, per le quali è difficile riconoscere tra i partner commerciali coloro i quali investono denaro di provenienza illecita, la possibilità di affidarsi alle autorità investigative, in caso di sospetto è fondamentale. Un avvocato specializzato in compliance per società, descrive la norma preventiva come molto efficace e severa, tanto che è impossibile per le aziende, specialmente per quelle di medie o piccole dimensioni, adempiere a tutti gli obblighi prescritti dalla norma, ma, egli osserva, l'efficacia del sistema sta proprio nel fatto che le autorità di controllo, consapevoli dell'elevata rigorosità della legge, chiudono un occhio di fronte a lievi inadempienze. Una legge meno severa e un controllo più fiscale non otterrebbero la stessa efficacia, perché la norma non avrebbe lo stesso potenziale deterrente. L'efficacia all'interno delle amministrazioni responsabili per la lotta al riciclaggio è interpretata come efficienza dell'apparato, per questo motivo, non ci sono verifiche sull'efficacia degli strumenti giuridici sulla base degli scopi dichiarati, quanto piuttosto sulla correttezza del funzionamento dell'amministrazione e sulle possibilità di migliorarlo; il punto è capire come migliorare, non se il sistema sia efficace o no. Agli intervistati è stata chiesta un'opinione sull'eventuale efficacia simbolica della legislazione. La maggioranza delle risposte è stata negativa, gli sforzi compiuti da parte dello Stato -e quindi delle procure, della autorità competenti e della polizia- nel contrastare il riciclaggio e la criminalità economica non possono essere considerati simbolici. Alcuni intervistati ritengono assolutamente necessaria e strumentale – e quindi non simbolica- l'esistenza del reato nel codice penale come demarcazione di illegalità di tali condotte e come strumento atto a contrastare la criminalità economica perché mette in chiaro entro quali limiti le società possano perseguire profitti in modo legittimo. Di opinione diversa, invece, gli avvocati penalisti i quali si sono detti favorevoli a tale definizione sulla base dello scarso numero di condanne e soprattutto sulla mancata previsione da parte del Governo di mezzi adeguati per l'implementazione della legislazione. Lo stesso è osservato dal terzo settore, il quale sostiene che, a fronte di una legge complessa, oggetto di svariati emendamenti nel corso degli anni, non c'è stato un sufficiente impegno sul versante dell'implementazione; il coinvolgimento del GAFI e dell'OECD nella lotta al riciclaggio è percepito come un modo per creare posti di lavoro e nuove figure professionali, più che un'arena dove discutere efficaci strumenti di lotta ai reati economici. Altri elementi interessanti riscontrabili nelle interviste sono i conflitti di interessi che emergono dall'applicazione delle leggi anti-riciclaggio. Tra essi, vi è il dibattito tra il Ministero dell'Interno e quello di Giustizia in riferimento all'adeguatezza dello strumento penalistico nel contrastare la criminalità economica, dibattito già affrontato dalla dottrina, a cui, però finora, non è stata data una risposta univoca. Da una parte il Ministero dell'Interno auspica un intervento giuridico più deciso, che, per esempio, ricomprenda il reato di riciclaggio nella responsabilità penale degli enti (non ancora esistente in Germania) e sollecita una svolta politica generale in tema di criminalità economica dalla deregolazione del mercato finanziario all'intervento dello Stato in ambito economico ai fini di chiarire i comportamenti leciti e quelli illeciti. Dall'altra parte, il Ministero della Giustizia considera erroneo il ricorso al diritto penale ai fini di risolvere problemi di tipo economico o finanziario e cerca di frenare la tendenza moderna alla proliferazione penale, a favore di un intervento di tipo preventivo-sociale. A tal proposito, si osserva che agli incontri del GAFI a cui partecipano i rappresentanti dei Ministeri di Giustizia, coloro che provino a richiamare l'attenzione sulla necessità di rispettare i principi fondamentali costituzionali e di limitare l'intervento penale a tutela dei cittadini, vengano tacciati di non voler combattere la criminalità organizzata in modo efficace. In conclusione riapro la prospettiva a livello globale ed inserisco il reato di riciclaggio in una riflessione più ampia sulla governace finanziaria. In una prospettiva storica di analisi delle politiche economiche recenti si osserva come vi sia stata una tendenza a deregolare il mercato per mano delle istanze tradizionali pubbliche, e al contempo un aumento di strumenti transnazionali di cosiddetta soft-law che si sono fatti portatori di interessi particolari. Finché questa conflittualità non verrà risolta sarà impossibile impedire il riciclaggio di denaro sporco. Con particolare riferimento al contesto europeo, si prende atto che è stato molto più facile chiudere le frontiere per le persone fisiche e non a quelle giuridiche o ai capitali. ; This paper aims to question the sociolegal1 effectiveness of the money laundering offence.2 The literature that assesses the effectiveness of the anti-money laundering system is abundant. While most of it does not question the regime's goals this paper takes a step back and critically looks at the law-making process. In addition, while most studies have assessed the effectiveness of anti-money laundering law by looking at statistical outcomes, this paper takes a step forward and tries to explain those statistics by looking at legal praxis and at indirect effects. The significance of the research derives from the insertion of the analysis on money laundering offence in a broader political, economic and historical context. The methodology adopted is qualitative, with the intended purpose of underlining the complexity of the issue tackled, rather than reducing it through a quantitative approach. While most of the existing literature has quantitatively assessed the effectiveness of the anti-money laundering regimes on the basis of statistical data and other quantitative indexes and has tried to reduce the complexity of the issue by measuring it numerically, this research adopts a qualitative methodology, which instead highlights the entanglement and the different perspectives on the question. Money laundering is the process of giving profits originated illegally an appearance of having been made lawfully.3 Due to the tightening of economic criminal policies that limit the possibility of integrating ill-gotten gains in the legitimate economy, offenders have developed more and more complex methods and subterfuges to launder proceeds of crime, so the rise of a proper 'money laundering industry' (industria del riciclaggio) is mentioned.4 The total volume of money laundered is estimated to amount to between 2,5 and 5, 5 % of the world GDP.5 Due to the borderline nature of money laundering, which happens between the so-called 'legitimate economy' and the 'dirty economy', and thus involves different actors such as banks, the financial sector, certain professions and businesses, offenders, victims and law enforcement agencies, the legal response needs to compromise with all the various economic, political, social and financial interests at play. Furthermore, where legitimate business intermingles with illegal business and legitimate funds with illicit funds, it is very difficult to distinguish what is legal from what is not. The criminalisation of money laundering was specifically supposed to tackle this fine line. The goal of this research is to assess whether the choice of criminalising money laundering has been effective to tackle this fine line. In order to assess the impact of the domestic implementation of the existing legal framework, the research uses a case study that specifically questions the effectiveness of the money laundering offence in the German national criminal legal system. The interest in the German case derives from the fact that, according to the IMF, the OECD and the FATF, Germany might have 'a higher risk profile for large scale money laundering than many other countries'.6 There are some factors identified as enablers of money laundering activities, such as the large economy and financial centre, the strategical location in the middle of Europe, with strong international links, the substantial proceeds of the crime environment involving organised crime operating in most profit generating criminal spheres, the open borders, the large informal sector and a high use of cash, the large and sophisticated economy and financial sector, the important role in world trade, and finally the involvement in large volumes of cross-border trade and financial flows. The media have kept on reporting the fact that Germany is an ideal country, or even a paradise for money launderers.7 According to most recent media reports, corruption is increasing in Germany along with money laundering and organised crime,8 and illicit financial flows are estimated to amount to 50 Billion Euros annually.9 Renowned banks such as Commerzbank, Deutsche Bank, and Hypovereinsbank have been the focus of recent scandals due to their involvement in large tax evasion and money laundering schemes, investigated mostly by US law enforcement agencies.10 The legal framework has been considered as not being sufficient to tackle the estimated volume of money laundering. In 2007 and 2010 the European Commission initiated two proceedings against the German government for having contravened the European treaty by not having effectively transposed into national law the European framework to tackle money laundering and terrorist financing.11 In response to this wave of criticism, some important changes have been made.12 With specific regards to penal law, the legislature has amplified the scope of the money laundering offence and the sphere of criminal liability in order to improve the effectiveness of the existing legislation.13 Yet the continual expansion process has raised legal challenges that could constitute an obstacle for the effective enforcement of the measure. With regards to international legislation, scholars have often criticized the ineffectiveness of the anti-money laundering regime to not be able to achieve its goals and thus to be only appearance of public action. 14 While there is theoretical support for the perception that policies have contributed to a decrease in the incidence of money laundering, there is no evidence that this goal has actually been achieved.15 The official discourse describes the regime as a crucial tool to prevent and combat money laundering, and lawmakers have been focusing on expanding the reach of anti-money laundering laws. This work however takes a critical approach towards the existing legal framework and presents the view that questioning the effectiveness of the money laundering offence is essential before expanding the scope of the existing legal framework.16 On the background of the reflections based on the sociolegal framework that sets the definition of legal effectiveness with specific respect to criminal law, and on the critical literature on the inadequateness of the international anti-money laundering system to eliminate the targeted activity recalled in the introduction, the hypothesis underlying the case study is the following: Article 261 Gcc may be an example of a symbolic legislation, whose latent functions prevail on its declared functions. In particular, it is hypothesised that the law is an example of a 'compromise-law' that satisfy all parties taking part in the law-making process, thanks to the vagueness of the wording that allows a broad range of possible interpretations, and also thanks to the actual ineffectiveness, which pleases those who were contrary to the introduction of the provision. It is here necessary to recall the considerations on the 'legislator' being an heterogeneous group of parties not only constituted of members of the Parliament but often also by external actors, who can influence more or less transparently the law making-process. While the manifested function of tackling money laundering has in fact remained in the background, the thesis hypothesises that other latent goals have been pursued. It is further hypothesised that the 'law inaction' is part of a process of decriminalisation that intentionally grants impunity to a certain group of actors, in this case those laundering money, while giving the appearance that the practice is not accepted by law by labelling it as criminal. By using the concept of function, the study focuses on eventual conflicting interests emerging throughout the policy-making process and/or being displayed through the implementation of the provisions. In order to verify these hypotheses the research proceeds with a case study that aims at empirically assessing the sociolegal effectiveness of Article 261 Gcc. In particular, by applying the 'elastic' definition of effectiveness, the following chapters analyse the law-making process, the level of acceptance by legal scholars, the implementation, and the opinions of legal experts and professionals. The methodology adopted is qualitative. The research consists of a case study that includes a documental research, a qualitative analysis of statistical data and the conduction of interviews with privileged observers and legal actors. The study is a macro-sociological assessment of the effectiveness of a criminal legislation through the analysis of the motives that have triggered lawmakers to enact the current legal framework and the practical effects of the 'law in action'17 and of the 'law inaction'.18 Thanks to the use of sociological conceptual tools, as the ones of function, symbolic effectiveness, power, labelling, and legal culture, the research critically approaches the legal framework. In addition, the sociolegal perspective allows us to take into account the multidisciplinary nature of the phenomenon of money laundering and of its countermeasures and the diverse conflicting interests at play. The work has been conducted by a single person and not by a team of researchers; this has imposed a limit on the interviewing sample and the impossibility of undertaking, along with the qualitative analysis of the provision, a qualitative analysis of the jurisprudence and a quantitative analysis of the case law. In addition, criminal provisions have a deterrent purpose, yet in certain cases it is almost impossible to quantify the deterrence effect of those provisions, as in the case of the money laundering offence, and this represents a shortcoming of the current research. Official numbers are highly problematic, this element, despite impeding an objective quantification of the phenomenon, can represent a partial result for the qualitative analysis, because it highlights the complexity of the matter. The anti-money laundering regime is constantly evolving, and this would require continuously updating the assessment, instead the research provides a picture of the current situation. Yet the work offers the reader an instrument to critically interpret also possible changes in the wording of the money laundering offence that may be made following the publication of this work. The outcomes of the critical study on the reasons and effects of the current legislation can be used as a starting point for further research; the methodology set for the empirical analysis can be applied to assess the effectiveness of following developments. The structure of the thesis is the following: The first chapter presents the theoretical sociolegal framework and provides an operational definition of the concept of effectiveness that directs the empirical research. At the end the chapter describes the methodology of the qualitative research. Chapter two traces the genesis of the money laundering offence, as well on an internal, European and domestic level. The chapter analyses legislative intents, parliamentarian debates and other external contributions as declarations of intents and opinions through a desktop-study. The third chapter is dedicated to the doctrinal debate about the money laundering offence regulated in the German penal code. In particular the chapter highlights the controversial issues that have emerged through the abundant legal scholarship production, which might affect the effectiveness of the money laundering offence. Chapters four and chapter five present the empirical research. The fourth chapter analyses the quantitative data of the implementation of the money laundering offence from a qualitative perspective. The last chapter presents the results of the interviews. The main outcomes of the research are that the interests expressed more or less manifestly from the actors taking part in the initial phase of the creation of the anti-money laundering regime were strongly conflicting with each other. One representative example is the question whether to use the policy also to tackle large scale tax evasion or to leave proceeds deriving from fiscal crimes outside of the regime. Very different justifications were given for the criminalisation of money laundering at different stages. Often the declared motives did not correspond to the real goals of the actors taking part in the law-making process. The rhetoric connected to the seriousness of the drug issue was the manifest function of the new criminalisation of money laundering. However, other latent goals, for instance, the desire of financial institutions to clean their reputation and gain customs confidentiality or the interest of some governments to curb tax evasion were already present during this initial phase. Another controversial issue concerns the fact national states have adopted anti-money laundering measures under the pressure of the FATF, which is led by most industrialised countries.19 Despite lacking democratic legitimation, the FATF has imposed worldwide a brand new regime of criminalisation, prevention and enforcement. The legal framework has been used to address ever-new challenges, and this expansion process has been coupled by a rhetoric that scholars have defined the securitisation rhetoric.20 The most recent function manifestly attributed to the anti-money laundering legal framework, that is, in short, the protection of the soundness of the financial system. Especially in times of financial insecurity, the tendency of hardening laws against economic crimes increases. Having previously deregulated the financial system to enhance economic liberties, legislatures resort to criminal law to control illegality in the economy. As a response to the European financial crisis of 2007-2011, legislatures, instead of rethinking the approach towards the protection of the global finance, called for a tightening of economic crimes regulations. The European discourse on money laundering has mostly been related to the destabilisation of the market, the abuse of capitals' movement liberty, the disintegration of the internal economy. But, why was the EU so keen on imposing a common standard for the criminalisation of money laundering, without even enjoying competence in penal matters? The introduction of a common anti-money laundering control policy served to a latent function, namely to the purposes of the creation of the 'Single Market', by way of avoiding that Member States would have adopted measures inconsistent with the completion of the Internal Market, while taking action to protect their own national economies from money laundering.21 This was done by avoiding that domestic regulations implemented for protecting national economies from the infiltration of ill-gotten capital could have hampered the freedom of movement of capital within the European borders. The tension emerges, also in the wording of the most recent EU money laundering Directives, due to lack of Community action against money laundering could lead Member States, for the purpose of protecting their financial systems, to adopt measures which could be inconsistent with completion of the single market.22 There are thus conflicting interests between the claim for regulation to avoid the infiltration of illicit capital, and the demand for deregulation to foster the free market. The European legislature, however, did not declare completely this intention and justified, instead, the imposition of anti-money laundering rules given the threats posed by money laundering to the financial system and thus to society. According to this critical approach, the criminalisation of money laundering turns out to be more of a political tool aimed at achieving governance within the EU, while being presented to the public as an essential intervention to guarantee security and well-being. Once again, thus, the declared goals of the lawmakers did not correspond with the real intentions. It is especially in the interest of a research on the law's effectiveness to unveil functions that were undeclared, in order to evaluate the outcomes in a more critical way. Also from the analysis of the national law-making process emerged divergent opinions and expectations relating to the criminalisation of money laundering. The Parliamentarians debate that took place with regard to the introduction of the money laundering offence and other instruments to tackle drug-trafficking shows that the discussion was deeply embedded in the political-historical context. Given that Germany was just reunified after a period of two dictatorial regimes, the hearing gives the impression that lawmakers felt the responsibility of creating a new legal system against such historical background. In order to balance the very different legal cultures, the divergent approaches had to be compromised. The introduction of a new crime was particularly delicate due to the discriminatory and arbitrary use of criminal labels by the previous dictatorial regimes. Therefore, delegates would not easily give up on fundamental rights for the cause of persecuting criminals. The legislation can be seen as an attempt to balance the need to adopt more effective measures to tackle crime and the necessity of respecting the rule of law and creating a 'militant democracy'. Yet, given the external pressure of the FATF, the EU and of the media, the text was less of a compromise and rather a ratification of 'internationally' accepted standards. The rule of law was not the only issue emerged in the initial phase of the political debate. Controversial opinions were raised also with regard to the questions of the mens rea and the interest protected by the new criminal provision: Certain political parties supported the broadest criminal liability to ensure an effective prosecution of money laundering, other parties were worried that a widespread liability would have been cumbersome for the economic system. Moreover, along with the expansion of the international criminal legal framework to fight against money laundering, also the scope of Article 261 Gcc was extended to include ever-new predicate offences. From the analysis of the doctrinal debate, it emerged that legal scholars have revealed technical hindrances that hinder the provision's legitimacy and thus hamper a positive integration of the act in the criminal legal system. In addition, given that most controversial issues are caused by the wording of the offence, the chapter seems to uphold the idea of an intentional potential decriminalisation of money launderers. The wording of Article 261 Gcc has the potential of frustrating some of the intentions expressed by the legislature in occasion of the adoption of the provision. While the vague formulation of the money laundering offence was thought to tackle ever-new emergencies and has been justified by legislatures as necessary to ensure a more effective fight against money laundering, it has also raised issues that, far from being purely dogmatic, have undermined the acceptance of such law. If law makers have designed the offence in a broad way to allow the criminalisation of conducts that could not have been prosecuted by the existing offences before, the large discretion left to prosecutors, has resulted in a cumbersome element for the prosecution of money laundering. In addition, criminalising the reckless conduct without envisaging a specific criminal liability for security positions has widened the scope of the offence to the point that the law has missed its function of isolating criminals by criminalising gate-keepers' activities. In addition it emerged that there are some open questions with regard to the wording of the offence, for example the question of the interests protected by Article 261 Gcc. On one side a state intervention is considered necessary to contain the impact of economic misbehaviours to protect citizens, on the other side it is important to limit the resort to criminal law only for safeguarding individual or collective situations and not for defending an existing economic structure. The economic system may, in fact, not be considered as a collective interest that needs protection. Also, safeguards provided by penal law need to be substantial and not symbolic, because they urge to change a given situation of inequality, where criminals can profit from illegal practices while legitimate economic actors undergo unfair competition. From the doctrinal analysis it has instead emerged that the legislator seemed to be more interested in drafting a symbolic legislation that can be hardly integrated in the legal system and that raise strong challenges. Lawmakers have been focusing on expanding the reach of anti-money laundering in order to improve its effectiveness, yet without providing legitimacy for such expansion. One of the most meaningful fact observed in the qualitative analysis of statistical data is that organised crime and 'gross money laundering' are not persecuted through Article 261 Gcc. This fact can be inferred by the low number of convictions pursuant to Article 261 (4),23 by the low number of money laundering proceedings categorised as organised crime and by the low number of investigations in the field of money laundering, tax crimes and economic crimes recorded by public prosecutors offices in 2013, where more than one person was involved (18 %). Yet, this does not mean that the criminal justice system does not act against them, but rather that it uses other tools to achieve the goal. While the low conviction rate for serious money laundering cases could be also a symptom of a high degree of deterrence of the provision, it seems that law enforcement uses the money laundering charge as a fallback for authorities who are unable to acquire sufficient evidence in a preliminary phase for the predicate crime and necessitate further information otherwise not accessible. The charge of money laundering allows investigators to access the vast amount of information recorded pursuant to the GwG, which would not be otherwise accessible. Yet, after the investigative phase, prosecutors seem to prefer to modify the charge and opt for indictment for predicate offences instead. The law seems to be effective to the extent that it facilitates the initial investigations, while it does not serve directly the function of punishing money launderers. Besides having a substantial nature, the provisions seem to have a procedural function. It can be inferred that prosecutors find particularly difficult to bring evidence against organised money launderers also due to the fact that professional offenders do not leave traces. From the scarce use of Article 261 Gcc for tackling organised criminality, it can be inferred that the measure is not serving for one of the purposes declared by the legislature when introducing the offence. In addition, it can be hypothesised that other measures may be more suitable to tackle 'gross money laundering'. Given the high number of STRs filed and the low number of money laundering charges and of convictions deriving from the STRs since the introduction of the laws, it can be assumed that the system has been anyway maintained because it still provides some sort of benefits. It can be hypothesised that one benefit is the number of information provided to law enforcement agencies. This amount of recorded information is helpful not only to support further indictments, but also to increase the personnel awareness about the ever-changing money laundering techniques and schemes. Again the effect of the 'law in action' differs in respect to the declared legislative intentions, which justified the criminalisation of money laundering with the necessity of tackling organised crime's economic power. By spelling out this function, the assessment on the effectiveness of the law - as the possibility of collecting information - can be positive. Yet, this effect could be considered a social cost rather than a benefit. On a theoretical side, many scholars see the recording of personal information by private actors as an infringement of the right to privacy.24 On a more practical side such mechanism imposes significant costs on the designated businesses and professions that are in charge of collecting the data.25 When compared to the effective outcomes of the preventive regulations, in terms of law enforcement results, this aspect does not seem to win a cost-benefit analysis, as showed in the quoted researches. If one considers the advantages in terms of information collected, the policy may be considered worth the burden imposed, instead. However, the fact that the laws would have an effective impact on the long run on the fight against money laundering and organised crime may be seen as a diminished deterrence effect, because perpetrators would have the time to adapt to the new laws and find new ways of circumventing them. A collateral effect of the long-run effectiveness of the policy hypothesised on the basis of the outcomes of the research on the implementation is the fact that perpetrators could take advantage of the initiated but not completed cases, by acquiring knowledge about law enforcement strategies and thus develop subterfuges to elude them. On the contrary, it seems that the legislature is always running after to cope with the offenders' ever-new strategies. In fact, regulations about a new sector are updated when there is evidence that there is a risk of money laundering in that specific sector. Yet, offenders might have already moved their laundering activities to another sector. On the assumption that the inclusion of the reckless conduct would have potentially criminalised daily activities, a focus was posed on the number of convictions related to Article 261 (5) Gcc26 to verify the target of the criminal provision. Since 2005 a high number of convictions have been actually referring to reckless money laundering. This shows that the offence is used to punish primarily 'petty money laundering'. This fact can also be inferred from the relevant number of money laundering cases to the detriment of senior citizens, signalled by the FIU in the recent years. Also the fact that a significant number of STRs is filed in relation to the 'financial agents' phenomenon' is a symptom that the preventive mechanism targets more 'small fishes' rather than big perpetrators. Individuals convicted for the reckless conduct may be even victims of a fraud perpetrated by criminal networks. However, the criminal network acting behind the offender remains undetected. If on the one side it cannot be claimed that such offenders, given the lower degree of culpability should not be punished at all, on the other side this effect of the law involves a change of paradigm. The money laundering offence was initially introduced with the goal of tackling serious crimes. The observed effect, however, changes the function and the nature of the law, so that Article 261 Gcc could be considered rather a 'blue collar crime' more than a 'white collar crime'. From the analysis on the quality of STRs filed to the FIU, it can be inferred that certain designated professions and businesses are very reluctant in filing STRs, despite their notably exposure to money laundering risks. The list of designated professions and businesses has been amplified over the years exactly with the goal of facing this transfer of crime from one area to the other. Yet some professionals, such as legal advisors, do not report them, although they possess the capacity of recognising illicit transactions. The fact that some sectors do not actively participate in the effort of preventing money laundering, by allowing criminal proceedings to enter the legitimate economy, may lead to a general ineffectiveness of the system, because it can significantly hinder the capacity of the whole anti-money laundering system to respond to the ability of offenders to move their field of activity there where the law is lax. The provision does generate some instrumental effects by punishing offenders and by triggering a cooperation directed at signalling suspicious transactions between the obliged entities and law enforcement. However, some of the effects do not seem to completely fulfil the legislature's declared goals. For example the chapter seems to prove wrong the legislature's expectation of tackling the grey area by punishing gate-keepers or the attributed function of eliminating organised and serious crime. Given the high costs of implementation highlighted by the cost-benefits analyses, the rather low outcomes seem to be insufficient to fulfil the legislature's goals. Since it is sufficient that without latent functions it would be impossible to explain the adoption and maintenance of a legal act,27 it can be concluded that the intents declared by lawmakers do not satisfy the reasons why the provision was introduced. This opens up the hypothesis that Article 261 Gcc is an example of a symbolic legislation, which has been enacted with the purpose of compromising a complex parliamentarian debate. The analysis of the law-making process has revealed the existence of different expectations attributed to the introduction of Article 261 Gcc. Expectations that were conflicting with each other had to be negotiated and were compromised through the formulation of a vague offence that allowed different interpretations. Yet, the implementation of the law has led to the re-emersion of some of the conflicting situations. In addition, given that the policy regulates a complex and multifaceted issue new conflicts have emerged through its enforcement. The effects triggered by the norm can be indeed perceived positively or negatively by the different actors involved. In particular five principal conflicting situations have surfaced from the interviews. The first issue is the role played by external actors in the law-making process and the constant influence exercised by those actors in the process of updating the policy. The imposition of a US American approach to money laundering control through the role of the FATF has also been highlighted in the second chapter. Specifically, some scholars see the development of a global prohibition regime fostered by the US in the diffusion of anti-money laundering law. According to this literature, the powerful state creates an international regime focussed on achieving its own goals through global acceptance triggered by the securitisation rhetoric and compliance processes imposed through the menace of exclusion by international business relations. The second conflict that emanates from the words of the respondents is the one of the demand for criminal law to face financial misbehaviours and the necessity of limiting the tendency of expanding criminal law on the background of a situation of financial instability. Given the previous deregulation of the market, policy makers need to control and sanction economic abuse in order to protect fair competition and law-abiding individuals. On the other hand, the state needs to respect fundamental principles, such as the rule of law and the principle of ultima ratio that imposes a restriction of the use of criminal law in situations in which no other measures are suitable. This conflict has already been raised along the formulation of the money laundering offence with regards to the question of the interests protected by the law. Despite the legislator tying to limit the scope of the offence by attributing to Article 261 Gcc the protection of the administration of justice and of the interests protected by the predicate offences, this explanation was not considered suitable to the peculiarity of the offence. Indeed, shortly after the enactment, legal scholarship and the judiciary entered in a vivid debate in order to identify more suitable interests protected by the law, among them the financial and economic system under different perspectives. However, as chapter three shows, no solution could be found. In fact, the question concerning the suitability of criminal law to tackle illicit financial flows is perceived in the current research as still unsolved. The matter does not only concern money laundering control. On the contrary, it is a fairly widespread issue that has recently emerged due to the tendency of hardening economic crimes on the background of a situation of financial instability. The third conflict can be summarised as the following: on the one hand the policy being required to interfere with the personal sphere of suspected money launderers; on the other hand private institutions being interested in protecting their relations with loyal and trusted customers. Therefore, they are reluctant to give law enforcement the possibility to interfere too much in their business. The interest manifested by the private sector involved in the prevention of money laundering seems thus to collide with the legislative intent of preventing the infiltration of dirty money by way of preventing gate-keepers to help money launderers. The clash emerges at a micro-economic level and is triggered by the fact that the anti-money laundering policy demands an active participation by private sector in the detection of suspects. Private actors, are not appropriate to bear the burden of detecting offenders, moreover they need to protect the relationships with customers by avoiding unnecessary interferences. At the same time, the privatisation of crime control is questionable also from a governance point of view. It seems therefore that the public interest in persecuting crimes through having access to personal information from the private sector only marginally collides with the interest of protecting the right to privacy. Businesses and professions are predominantly interested in not interfering with their clients and in not bearing the burden of detecting offenders. The issue was also addressed during the national Parliamentarian debate, with regards to the degree of mens rea required for money laundering criminal liability. Making everybody taking part in economic or financial activities actively participating in the monitoring of the economic system under the threat of criminal liability for negligent money laundering was considered harmful for the business market. The same debate has been picked up by legal scholarship too. Yet, it seems that, despite the law being the result of negotiations, the question is still open. The fourth issue consists of discording opinions with regards to the opportunity of including tax evasion as predicate offence for money laundering. On one hand there is the interest of tackling tax evasion through the anti-money laundering regime, on the hand the concern of keeping the two phenomena distinct in order to avoid an overrating of money laundering. Since the genesis of the anti-money laundering policy, some actors taking part in the international law-making process, opposed the labelling of 'black money', naming money deriving from tax violations, as 'dirty money', indicating all proceeds of crime typically committed by organised crime. This distinction was based on the perception that tax-related offences were less serious and less harmful than capital flight and were advocated by financial centres in order to maintain a good reputation while still granting peculiar financial services, such as bank secrecy. This issue is a good example of the labelling theory, to the extent that it shows how a practice that was firstly not considered criminal enough to amount to a predicate offence for money laundering, has become part of the scope of the anti-money laundering regime on the basis of a political decision of labelling it as such. Respondents of the current research show to have different perceptions of the degree of the seriousness of tax laws violations and thus about the appropriateness and necessity of tackling them under the umbrella of the anti-money laundering policy. Again, the matter, which seemed to have been resolved through the negotiations on an international and European level, is still being debated at national level. The last two contrasting interests are the necessity of regulating the flows of money and the free movements of capitals in a neoliberal economy. The question is intrinsic in the nature of money laundering, which is a phenomenon that happens at the interface between legality and illegality. Regulations that facilitate the licit exchange of goods, capitals and services do also facilitate the flow of ill-gotten gains; there are thus conflicting interests between the public interest of persecuting crime and the claims for less regulation in a free market economy. From the interviews surfaced that not only opinions on the effectiveness of the law differ, but the very concept of effectiveness is perceived differently among the interview partners. Perceptions about how effective the anti- money laundering policy is appear to be similar among respondents belonging to the same experts' group. In particular, given the fact that the policy triggers many preliminary investigations, investigators work on a daily basis with the provision. This led to their opinion on the implementation of the legislation being rather positive. Positive opinions have common ground: they assert that the policy is not a simple one to implement, however, they believe that the legal practice has found its way through. On the contrary, defence attorneys specialised in economic crimes do not receive a significant amount of clients suspected for money laundering. For this reason they tend to have a rather negative opinion on the policy's effectiveness, also driven by the perception that the policy is not able to achieve the indirect goals. The diverse concepts of effectiveness provided by disciplines close to the sociology of law and the different definitions of effectiveness given by sociologists of law turn out to be useful here. Particularly the notions of 'efficiency' and of 'efficiency regardless of the goals' are proved very useful to interpret the respondents' opinions. Efficiency, is according to the administrative legal approach, the optimal relation between the goals achieved and the instruments used. A subcategory of this concept is the efficiency calculated through a cost-benefit analysis, of which some examples have been presented in the fourth chapter, which defines efficiency as the functioning of a legal order without assessing the goals achieved. This type of analysis focuses on the correctness of the operating system since the purpose of the system is its own existence. It refers to a whole legal order rather than to a specific single provision. Given that the anti-money laundering policy constitutes a legal order, due to the diverse regulations involved and the competent authorities created in order to achieve the goals of the policy, this notion can be applied. In the field of administrative legal theories, the first chapter has focussed on the approach that considers the (in)effectiveness of a law depending on its (failing) enforcement. A high degree of compliance of the anti-money laundering legislation might correspond to a high level of effectiveness of the policy with respect to its direct function, but at the same time to a rather low level of effectiveness with regards to its indirect purposes. The way to evaluate the degree of effectiveness is therefore also different. While compliance with legal provisions is calculated through a quantitative assessment of the processes in force and of the functioning of the system, the achievement of the indirect functions is measured on the impact of the policy. Interview partners have different perceptions about the indirect functions of the legislation too. This reflects, once again, the fact that the policy was a result of a compromise between different expectations and that the legislator was not able to limit the scope of its application to a particular goal. The different expectations and intents, which already emerged in the doctrinal debate about the legally protected interests, appears again in the different perceptions of the interviewees. The respondents were asked about the legislation's effectiveness with regards to one of the indirect functions, namely the capacity to deter organised crime. The legislator enacted the money laundering offence in the context of the fight against drug trafficking and other forms of organised crime, thus Article 261 Gcc's expressed rationale is the prevention and repression of organised crime. Finally, a relevant outcome regards the respondents' opinions on article 261 Gcc's latent symbolic function. Some of them agree with this. Others strongly oppose the hypothesis. They argue instead that the policy has instrumental effects on their daily practice, which cannot be defined as purely symbolic. According to most respondents, the law cannot be defined as symbolic, because it has led to instrumental effects. In the first place information gathered thanks to the GwG is used to start preliminary investigations under Article 261 Gcc. Secondly, the structure enacted to comply with the anti-money laundering policy is attainable and is visible and cannot be denied. Thirdly, the law is considered necessary because it labels a deviant behaviour. In particular, despite the fact that investigations do not lead to a conviction for money laundering they allow investigators to collect information in support of criminal cases for the predicate offences or to start a preliminary investigation for a predicate offence. In this sense, the function of the 'law in action', despite being questionable, is objectively instrumental. However, the fact that the law serves the purpose of tackling predicate offences through the support of investigations does not exclude the hypothesis that the law was enacted to pursue latent functions too. According to the sociologist Aubert, it is not necessary that the latent goal is the only one that plays a role, but it is necessary that the other purposes would not explain the analysed phenomenon completely. Indeed, in the opinions of those who exclude the symbolic function, yet the results achieved through compliance do not legitimate the burden imposed by the legislation. In other words, it seems that they recognise that the purpose of compliance cannot completely explain the policy makers' motivation, which re-opens the doors for the hypothesis of the existence of latent functions. In fact, such a demanding policy cannot be accepted for the sole purpose of re-enforcing the action of the criminal justice system in tackling predicate offences. On the other hand, compliance with the policy in terms of building of a structure and of expertise does not automatically mean fulfilling the policy's purpose. Particularly the creation of new professionalism, has been interpreted by scholars as a sign given to the public that the policy has produced certain effects. In conclusion, on the background of the research's outcome, the paper tries to reply to the question: (How) can the effectiveness of the money laundering offence be improved? While technical hindrances can (and perhaps) will be removed through legal reforms, 28 the inherent political economic and financial conflicting interests that impede a higher level of effectiveness are more difficult to solve. In contemporary industrialised economies there is a complicated and sometimes shifting boundary between legitimate and illegitimate transactions. This is particularly exacerbated in the context of financial capitalism, which 'subordinates the capitalist productive process to the circulation of money and monetary assets and hence to the accumulation of money profits'. Since the very beginning, determining the boundary between an area defined as 'criminal' and the space of 'legality' has been controversial. In fact, money has a neutral nature, pecunia non olet, making profit, irrespective of the monies' origin, is a very strong interest for both private and public entities, which collides with the one of eliminating illicit financial flows. In other words criminal policy goals diverge from purely economic interests. While one can assume the justice and correctness of the current financial system, and thus describes money laundering as harmful because it interferes with the existing economic order, one can also assume that the capitalist system leads per se to injustice and inequality, and that money laundering is actually embedded in this profit-oriented system and represents just the darker side of the capitalist economy. A compromised viewpoint is the one that describes money laundering as an accepted collateral effect of the capitalist system, that is to say 'a certain amount of illicit financial flows may be considered an acceptable price to pay for a market where free mobility of capital is guaranteed'. In other words, money laundering is intrinsic in or at least exacerbated by the capitalist system.
La ricerca in oggetto ha avuto lo scopo di analizzare la disciplina normativa e la rilevanza politico sociale di una delle pene più severe comminate dal tribunale della Santa Inquisizione: la confisca dei beni agli eretici. L'esame si è concentrato, in particolare, sulla centralità che questa pena assunse nei conflitti antiinquisitoriali che caratterizzarono i vari tentativi da parte della corona di introdurre, nel Regno di Napoli, un'Inquisizione di tipo spagnolo. La costante reazione popolare che vide uniti come mai prima popolo, nobili e ceto togato, apparve diretta più che contro l'Inquisizione, contro l'uso indiscriminato di una pena che, rappresentando un utilissimo strumento di progressione monarchica, minava alle basi l'autonomia delle organizzazioni politiche locali. Le fonti su cui si è diretta la nostra attenzione sono state per la prima parte della tesi quelle tipiche del diritto comune per la seconda, invece i manoscritti della biblioteca nazionale di Napoli e i numerosi documenti ritrovati nell'Archivio di Stato e in quello diocesano. Il primo capitolo della tesi si è concentrato sull'esatta ricostruzione normativa della pena attraverso il vaglio di norme sia del Corpus iuris civilis che del Corpus iuris canonici. L'esame ha dimostrato che la confisca, anche se limitatamente ai casi di lesa maestà umana, fu prescritta per la prima volta nelle leges QuisQuis di età imperiale che ne sancirono la caratteristica peculiare: a patire le colpe dei condannati erano anche i discendenti non colpevoli degli stessi i quali venivano spogliati dei loro beni, della capacità di contrarre e di ogni altra dignità civile. Parzialmente revocata dalla lex Sancimus e dalla lex Cognovimus la costituzione in esame non fu mai estesa dagli imperatori cristiani alla discendenza degli eretici. La pena venne, poi, adottata anche nel diritto canonico a partire dalla Vergentis di Innocenzo III con la quale il papato equiparò l'eresia ad un crimine di lesa maestà stabilendo in modo definitivo il carattere pubblico dei reati di fede. In particolare la confisca assunse carattere retroattivo con l'effetto di annullare tutti gli atti inter vivos e mortis causa stilati nel periodo intercorso tra il delitto e la sentenza. Più tardi, le Gazaros di Federico II prescrissero il castigo dell'infamia e della confisca anche contro i figli ortodossi degli eretici pertinaci sottolineando la maggiore gravità del reato di lesa maestà divina rispetto a quello di lesa maestà umana. Fu, infine, la Cum Secundum Leges di Bonifacio VIII a rendere la confisca una pena in ipso iure o latae sententiae a tutti gli effetti con l'obbligo per il colpevole di consegnare spontaneamente i beni alle autorità fiscali senza necessità di alcun intervento giudiziario. L'esame normativo della confisca ha cercato anche di evidenziare, seppur sinteticamente, le significative divergenze dottrinali e giuridiche sull'uso della pena che, nonostante le comuni basi di diritto canonico, esistevano tra Inquisizione romana e Inquisizione spagnola. Il riferimento ha riguardato, in particolare le istruzioni dettate dal Torquemada e il suo, meno noto, codice del 1484 ritrovato nella Storia Universale di Cesare Cantù . Da queste fonti è stato possibile desumere che i sequestri, in Spagna, venivano applicati, di norma, prima delle sentenze; che l'infamia e la perdita dei beni erano estese anche ai discendenti e l'esproprio finiva per riguardare persino i pentiti. Gli inquisitori, del resto, avevano poteri illimitati. Potevano, infatti, condannare alla tortura, come falso penitente, ogni riconciliato la cui confessione veniva giudicata, arbitrariamente, imperfetta e corroborata da un pentimento solo simulato, nonché, quanti erano accusati di aver nascosto molti peccati durante la confessione giudiziale. L'interesse si è, successivamente, spostato, sulla disputa relativa alla legittimità della pena che divampò nella prima metà del XVI secolo. L'esame delle fonti di diritto comune ha dimostrato che il punto centrale del dibattito riguardava l'ammissibilità di sanzioni, definite dalla storiografia "puramente penali", in cui il castigo era integralmente sganciato dagli elementi soggettivi della fattispecie normativa astratta e gli effetti della pena si estendevano anche a soggetti pienamente innocenti. I giuristi dell'umanesimo giuridico italiano e francese cercarono di restringere la portata della pena attraverso interpretazioni che ne riconducessero gli effetti entro ambiti di stretta legalità. L'Anarcano , ad esempio, considerava la confisca latae sententia contraria allo ius naturae e negava la liceità della condanna post mortem ammettendo la capacità di donare, testare e alienare del presunto eretico. Ancora De Vio avvalorava l'obbligo della sentenza prima dell'acquisizione fiscale dei beni del condannato e insisteva sul fatto che il reo poteva considerarsi obbligato solo ad assolvere una pena regolarmente prescritta non certo ad infliggersela spontaneamente. Fu poi Budè a sferrare l'attacco definitivo contro le leggi che colpivano gli eredi dei condannati per eresia nel Commento alle Pandectae del 1508 nel quale definiva la pena della confisca una norma orrenda estranea alla tradizione romana e contraria ai fondamenti stessi della giustizia. Eppure una revisione generale delle posizioni finora quasi unanimemente condivise, in materia d'Inquisizione, sembra attraversare la storiografia più recente . Su di essa è sembrato doveroso concentrare l'attenzione per comprendere i nuovi sviluppi delle attuali ricerche. Alla luce di questi studi la terminologia inquisitoriale avrebbe fuorviato non pochi studiosi contribuendo alla diffusione di una ingiustificata cattiva fama dell'istituzione che è durata per secoli. Il Sant'Ufficio non appare più, oggi come un tunnel di errori, abusi e violazioni dei diritti umani ma l'unico tribunale dell'epoca a garantire l'osservanza di un codice giuridico moderato e una prassi procedurale uniforme. Questi studi dimostrano come solo una piccola percentuale dei processi di fede si concluse, effettivamente, con la pena di morte e come, nelle sentenze, predominassero pene molto lievi. Il processo, del resto, assumeva connotati altamente garantisti concedendosi agli imputati la possibilità di chiedere il cambiamento della sede in caso di corruzione dell'inquisitore che si occupava del caso e di avvalersi sempre di un avvocato difensore. Queste tesi storiografiche lasciano, a mio avviso, non poche perplessità. La presunta clemenza del sacro tribunale viene largamente smentita oltre che dalle critiche dei giuristi dell'evo medievale e moderno da quei manuali che nel 500 rappresentarono il vademecum cui il giudice inquisitore avrebbe dovuto attenersi nell'amministrazione della giustizia. Il Directorium di Eymrich, poi ripreso e commentato dal Pena nel cinquecento, il Iudicale Inquisitorium di Umberto Locati ed il Sacro Arsenale di Eliso Masini , su cui pure si è concentrata la nostra analisi, rappresentano un esempio lampante in tal senso. Analizzarli ha significato comprendere, attraverso la forma della prassi giudiziaria, come la confisca dei beni venisse, effettivamente, applicata nel cinquecento. Dai manuali emerge che dopo la cattura del reo, nella stragrande maggioranza dei casi, la dimora dove abitava l'eretico o erano custodite cose eretiche era posta sotto sequestro. L'autorità politica, in collaborazione con quella ecclesiastica, entro un certo lasso di tempo, aveva l'obbligo di provvedere, a sue spese, al recupero di tutti i beni in essa rivenuti e, su autorizzazione delle autorità ecclesiastiche, di procedere alla distruzione della casa, dalle fondamenta . La confisca trovava un'applicazione spietata. Secondo i tre inquisitori non era ammessa alcuna possibilità di pentimento "salvifico" per i penitenti che confessavano spontaneamente le loro colpe dopo l'emanazione della sentenza; non era prevista nessuna grazia neppure per i recidivi e per coloro che avevano persistito nell'eresia «per multo vel parvo tempore» e si ammetteva, per prassi, la possibilità di procedere alla pubblicazione dei beni anche dopo la morte dell'eretico «non obstante», in tal caso, il principio per cui «crimine morte estinguntur quo ad temporales pena» . I figli degli eretici subivano la punizione anche se ortodossi. Questo passaggio della pena da padre in figlio, di generazione in generazione, trovava un fondamento preciso. Si consideravano "intrasmissibili", infatti, solo le pene dette "puramente" personali, come ad esempio la pena di morte, per le quali era impossibile scorporare la responsabilità per il fatto dall'autore del reato, essendo , invece, la confisca una pena patrimoniale, si ammetteva la possibilità che fosse espiata «per alium» . La pena non trovava applicazione solo contro i beni dei membri eretici del clero i quali andavano semplicemente restituiti alla Chiesa che li aveva loro erogati a titolo di mero mantenimento . L'interesse della ricerca, nella seconda parte della tesi, si è spostato sulla ricostruzione normativa e i riflessi socio-dottrinali che la pena della confisca ebbe nel Regno di Napoli. Incrociando i manoscritti inediti conservati presso la Biblioteca Nazionale, le carte dell'Archivio di Stato e i processi dell'Archivio diocesano si è potuto evincere che la storia della confisca dei beni nel Viceregno ha assunto connotati del tutto particolari intrecciandosi, inevitabilmente, con le travagliate vicende relative all'introduzione in esso della Santa Inquisizione. Per la prima tipologia di fonti particolarmente rilevanti appaiono, tra gli altri, gli scritti inediti di Rubino , Parrino , Gio Battista Giotti e Pietro Di Fusco , e i notamenti e le carte sciolte dell'Archivio di Stato quanto, invece, alla seconda tipologia lo spoglio dei processi del fondo Sant'Ufficio ha riportato in luce casi processuali di rilevantissimo significato. L'obbiettivo è stato quello di scardinare le tesi di quanti, semplicisticamente, liquidavano la centralità acquisita, nel napoletano, dai vescovi nella cura dell'ortodossia con la sufficienza della giurisdizione ordinaria alle cause di fede della città e quella di quanti, invece, riconducevano i loro poteri straordinari ad una delega segreta di Roma volta ad eludere l'opposizione popolare. Da una parte, infatti, appare con certezza che il fulcro reale intorno al quale ruotarono i tumulti che tra il cinquecento ed il seicento si scatenarono nel Viceregno spagnolo fu la confisca dei beni, dall'altro dubbi si pongono anche quanto alla provenienza del conferimento del titolo di inquisitori ai vescovi. L'uso indiscriminato della pratica della confisca dei beni fu introdotto, per la prima volta a Napoli, in seguito dell'entrata in vigore della prammatica aragonese "De Blasphementibus" del 1481 . Ferdinando il Cattolico avocava a se la competenza di uno dei reati di eresia considerato baluardo della cura dell'ortodossia e sanciva la pena della confisca di un terzo del patrimonio contro i blasfemi con modalità processuali del tutto diverse da quelle tipicamente adottate nei tribunali vescovili. La prammatica fu successivamente riconfermata dal sovrano nel1483 . La necessità di intervenire sul tema, a distanza di soli due anni, era legata all'urgenza di rimarcare la competenza regia su un crimine che avrebbe consentito indirettamente di estendere, non poco, il controllo sui reati di fede. L'impegno profuso in ambito penale collideva con i privilegi che in materia di Inquisizione lo Stato da sempre aveva concesso ai Napoletani. Quando il sovrano cercò di introdurre, per la prima volta, il Sacro Tribunale nel 1510 fu costretto ad emanare un editto nel quale rendeva noto «que la Inquisition espanola se quietasse par el sossiego y bien universal de todo, y con esso la confiscation» . Il "Re Cattolicissimo", dovendo rinunciare ad un tribunale alla spagnola stabile, emanava, nello stesso periodo, due prammatiche che concretizzavano nei fatti quello che il rescritto reale si proponeva di scongiurare realizzando i fini per cui l'Inquisizione era nata in Spagna: l'espulsione "Hebreorum sive Iudaorum". La prima prammatica ordinava che gli Ebrei, di sesso sia maschile che femminile, a partire dai dieci anni di età si rendessero riconoscibili ai membri della comunità cristiana indossando al petto un segno di panno rosso. Chi avesse contravvenuto a tale disposizione avrebbe pagato una multa pari ad un oncia d'oro. La seconda, più rigida, vietava ogni forma di «commixtio atque conversatio» tra i perfidi Giudei e i probi Cristiani e stabiliva che tutti «gli Ebrei e i nuovamente convertiti di Puglia e Calabria» nonché quelli che se n'erano fuggiti da Spagna e si trovassero condnnati da Santo Officio […]» fossero espulsi irreversibilmente «a Civitate Neapolis totque Regno» . Stessa tattica quella di Carlo V. Dopo la sua ascesa al trono, il sovrano cercò nuovamente di introdurre un tribunale alla spagnola stabile ma i dissidi popolari furono a tal punto cruenti da costringerlo a riconfermare, almeno in via formale, l'attribuzione agli ordinari della competenza dei reati di fede . Il sovrano in realtà era forte delle Prammatiche con cui ribadiva le disposizioni contro i blasfemi e i Giudei sancite dal suo predecessore acuendone la portata. Del resto, anche Filippo II per sedare i tumulti contro l'Inquisizione sorti tra il 1564-5, da una parte, emise una declaration nella quale dichiarava di «non haver dicto che la dicta Cità y Reyno habbia havere la Inquisition en la forma de Hespana» dall'altra riconfermava la pena della confisca dei beni per i Giudei e i blasfemi emettendo una prammatica nella quale aumentava le pene stabilite in precedenza aggravandole con quattro anni di galera. L'uso della confisca era, dunque, indubbiamente fissato in norme di legge astratte ma ciò che rileva alla luce delle più recenti scoperte è che anche la sua applicazione fu costante tanto che la resistenza alla pena non fu solo quella di carattere teorico-culturale condotta dagli autori anticuriali ma assunse le vesti di una vera e propria opposizione sociale. La riottosità alla confisca accomunava tutti gli strati della società realizzando una solidarietà cetuale mai conosciuta prima. La motivazione che spingeva nobili e toghe a restare uniti contro il Sacro Tribunale era svincolato dai privilegi di casta e legato piuttosto all'uso spietato della confisca che colpiva incondizionatamente la nobiltà come personaggi più direttamente legati al sovrano, quando con la loro ricchezza minacciavano di ricoprire un ruolo politico prestigioso nel Regno. Per questo motivo anche i togati che, nella polemica anticuriale, avevano da sempre difeso gli interessi della corona a scapito delle rivendicazioni della Chiesa, appoggiarono l'opposizione in principio innescata dalla nobiltà e propagandarono, a mezzo stampa, una visione negativa dell'Inquisizione in generale che serviva a garantire l'appoggio del popolo nella lotta anticuriale. Attraverso quest'opera di propaganda i cittadini condivisero l'opposizione dei ceti alti all'instaurazione di un tribunale di fede diverso da quello ordinario. Non è un caso che, nel riferire gli avvenimenti del 1661, Rubino ribadisca che « la Città tutta e tutti li cittadini », senza alcuna distinzione di ceto, « erano pronti ad abbrusiar le case» se il tribunale dell'Inquisizione avesse permesso l'uso della confisca dei beni e aggiungeva, ancora, che era questo il motivo che induceva « tutte le persone di qualsivoglia che fusse» a desiderare « che lo tribunale de lo Santo Officio vi fusse ma che si esercitasse dall'Ordinario e cancellando anco affatto il nome di Inquisizione » . Scopo di tutti era avere la certezza « acciò che da tutti si venisse sicuro che mai in questa Fid.ma Città e Regno ci debba essere confiscatione di beni per delitti di heresia come si sperava inviolabilmente per futura notizia di questa Città Ill.ma » . Anche il Parrino nell'opera dal titolo Teatro eroico e politico de governi del vicerè di Napoli individuava i motivi della rivolta nella necessità da parte di tutto il popolo di difendersi dagli attacchi della confisca. Nella disamina dei fatti è chiara l'unione tra ceti che distinse l'intera vicenda. I cittadini, senza distinzione di casta, erano uniti per ottenere contro la confisca «un rimedio» che durasse « per sempre » . A suo dire, infatti, i sequestri comminati per motivi di fede, erano numerosi. La stessa rivolta del 1661 non era legata solo al più noto caso del conte di Mola, ma nel suo manoscritto l'autore ne annoverava almeno altri sei. Nel rendere noto che per sanare i conflitti del 1661 si supplicava sua Altezza di « stabilire che mai vi fosse confiscatione de beni […] et che si facesse supplicatio S. A in generale a mantenere senza novità e senza confiscatione di beni negli delitti di heresia», annoverava tra gli inquisiti a cui erano stati confiscati i beni ad opera dell'Inquisizione, anche il conte delle Noci, due gentiluomini che erano al suo servizio, Vincenzo Liguoro rappresentante della piazza di Porto « et in ogni modo li altri signori Liraldo, Mirabello et Alessandro di Cassano » . A ribadire le osservazioni del Rubino e del Parrino fu Giò Battista Giotti, nel suo Raggioni per la Fidelissima Città di Napoli negli Affari della Santa Inquisitione. Nel manoscritto l'Inquisizione era considerata pericolosa perché portava con se la pretesa di confiscare i beni agli eretici. « I litigi ogn'ora agitati» fungevano, per il Giotti, da astuti stratagemmi per confiscare beni e soddisfare interessi meramente fiscali. Spesso questi interessi erano il pretesto per « figurare macchie di Religione in alcuni degli stipiti donde le azioni provengono» col solo scopo di sottrarre beni a coloro contro i quali venivano intentate azioni legali. Per ottenerne l'appoggio nella lotta anticuriale il popolo minuto diventava il principale bersaglio dell'Inquisizione. Essendo, infatti, gli artigiani, i lazzari, i bottegai ecc. i più inclini a commettere, anche involontariamente, peccati come « la nefanda libidine, la golosità ne cibi ne giorni vietati, l'inosservanza de digiuni, la trascuraggine de divini ufficij ne tempi stabiliti, lo studio delle scienze divinatorie e l'esercitio delle vane superstizioni » per i quali era prevista la pena della confisca e la perdita di tutti i beni era opportuno restare uniti nella difesa di interessi civili comuni a tutti i ceti. Ma la dimostrazione più tangibile dell'uso della confisca e delle sue ripercussioni sociali risulta particolarmente evidente nei processi conservati presso il fondo Sant'Ufficio dell'Archivio diocesano di Napoli. Dall'esame di questi processi emergono numerosi dati. Oltre alla certezza che la confisca, contrariamente che nel resto d'Italia, veniva comminata anche dal tribunale ordinario, il primo dato che salta agli occhi è che nel Regno la confisca dei beni colpiva gli Ebrei e i nobili locali per non trovare alcuna applicazione contro eretici "maggiori", come i Luterani, per i quali il tribunale del Sant'Ufficio era stato riformato con il Concilio di Trento. Appare desumibile, inoltre, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza della dottrina, accanto alla Curia vescovile esisteva, nel Regno, un tribunale delegato del Sant'Ufficio con giurisdizione, competenze e apparati autonomi. I processi contro i seguaci di religioni eterodosse, infine, a differenza di quanto sostenuto, ancora una volta, dagli autori anticuriali, erano molto numerosi. Se, infatti, nei loro manoscritti il candore di fede dimostrato dai Napoletani giustificava le esenzioni e i privilegi concessi dai sovrani e li induceva ad ammettere l'uso di procedure straordinarie solo contro Ebrei e Saraceni bersagli dell'Inquisizione spagnola, la presenza di processi contro luterani, calvinisti, anabattisti, greci-ortodossi, e perfino seguaci di Zwingli di cui l'Archivio diocesano è pieno, dimostrerebbe quanto l'eterodossia fosse, invece, radicata nel Regno. Il primo processo preso in esame è quello condotto dal ministro delegato del Sant'Ufficio di Roma Carlo Baldino che ha come protagonista Gio' Cola de Marinis barone del Cilento . Il processo risale al febbraio del 1587. I capi d'accusa contestati sono molteplici. All'accusa di «non aver compiuto quanto necessario alla salute dell'anima» si aggiungono quella «di non avere distinto il Paradiso da lo Inferno e dunque il bene da lo male; di non aver fatto astinenza né digiunato nei giorni stabiliti considerandoli abusi del Papa e della Madre Chiesa; di aver negato l'adorazione de' Santi ch'essa è idolatria; di non aver creduto alla necessità de' sacramenti ma solo alla parola del vangelo; di non aver creduto al sacramento della comunione e nella consustanziazione del Corpo di Cristo nell'eucarestia». Nell'abiura cui fu sottoposto, il De Marinis riporta un dato interessante ai fini della ricerca. Racconta, infatti, che «havendo fatto resolutione di far bona confessione generale» si era recato «dal P. R. de li Regolari Santo Apostolo di Napoli» il quale «havendo preso da me tutto il fatto mi dicea ch'era mia absoluto bene per non subjre li tormenti e la confiscatione confessar a l'altrui chi m'havea adescato per l'absolutione da simili eccessi […]». Era questo timore che l'aveva indotto a recarsi «prontamente a cercar perdono a N.S. Dio alla Santa Madre Chiesa » e a confessare « tutto il fatto […] e tutti li complici […] a V.S. come ministro de lo Santo Officio». Per quanto il processo si sia in effetti concluso con l'assoluzione dell'imputato dall'ultima affermazione riportata si desumono due dati interessanti. Inanzitutto contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia più risalente appare chiaro che nel Regno le cause di fede erano controllate anche da uffici dell'Inquisizione stabili, sostanzialmente autonomi dalla Curia vescovile e dipendenti direttamente dalla Congregazione del Santo Ufficio di Roma. Di poi l'altra osservazione riguarda la normalità con cui veniva avvertita la pena della confisca dei beni dagli "addetti alla confessione" la quale, alla stregua dei "tormenti", appariva quasi una tappa obbligata del processo inquisitorio. Le accuse imputate al De Marinis lo accostano ad un Luterano e, di fatti, dall'esame di altre carte processuali contenute nell'Archivio diocesano e prese in esame in questa sede, si profilava l'esistenza a Napoli, tra il cinquecento ed il seicento di una folta comunità di luterani e calvinisti che predicavano e diffondevano i loro dogmi tra gli strati più disparati della società. Luterano era Sigismondo Chemer , sponte comparente, giunto a Napoli da Norimberga per frequentare l'università, il quale denunciava all'Inquisitore di essere Luterano « da che havea havuto cognizione et uso di ragione ». Il Chemer confessava di aver continuato a vivere ereticamente « et a sequitare queglia vita et a essere hereticissimo» fino a sei mesi prima della sua spontanea comparizione. In particolare non aveva mai creduto alla potestà del Pontefice ed alla necessità delle indulgenze il che lo aveva indotto a non rispettare le censure e i divieti imposti dalla Chiesa; non aveva mai venerato le immagini dei Santi giacchè, non esistendo il Purgatorio, non era necessaria la loro intercessione per accedere al Paradiso e, quanto ai sacramenti, egli aveva creduto nella sacralità del solo battesimo e dell'eucarestia e, per questo motivo, aveva deciso di non sottoporsi alla confermazione. Per il resto confessava di mangiare carne di venerdì, sabato, nelle vigilie e nei giorni proibiti disprezzando i precetti papali, e di comunicarsi non secondo l'uso cristiano ma sub utraque spetie. Il Chemer raccontava di aver sempre approvato quei dogmi al punto da diffonderli « oppugnando e contrastando alla fede cattolica […]». Luterano era anche Joannes Ruf, di dicotto anni, proveniente da Villa Keinign un paese lontano circa otto leghe da Norimberga. Il ragazzo era nato da padre luterano e mamma cristiana e resiedeva in Napoli in via Toledo presso il maestro Lorenzo Flamengo per il quale esercitava la professione di scrivano. Dal racconto del Ruf emerge che era stato il padre ad iniziarlo alla nuova setta sicchè sin da piccolo aveva cominciato a confessarsi e a comunicarsi nel modo dei luterani. In particolare egli si confessava in generale senza esprimere i peccati singolarmente e dicendo « io me confesso haver peccato innanzi a Dio et innanzi al mondo con pregar Iddio di volere perdonare con animo di voler essere migliore per l'avvenire». Quanto al sacramento dell'eucarestia per ben cinque volte si era comunicato sub utraque spetie cioè senza credere che « sotto la spetie del pane e del vino fosse il vero corpo e sangue di Christo » opinione che aveva mantenuto fino al giorno del suo interrogatorio. Luterano, infine, Stefano Orellio , anch'egli, come gli altri, sponte comparente, venuto, apposta nel Regno per convertirsi. I capi di imputazione che gravavano su di lui erano molteplici. Al tedesco veniva obiettato di non aver creduto che Gesù Cristo fosse Dio « né che fusse stato di verginità concetto » ma di aver sostenuto e divulgato che era un uomo nato, come tutti gli altri, dalla congiunzione carnale tra Maria e Giuseppe. Come gli altri Luterani aveva dubitato che oltre all'inferno per i cattivi e al paradiso per i buoni esistesse il purgatorio per coloro che non avessero integralmente espiato i peccati sulla terra e non aveva mai prestato fede all'intercessione dei Santi considerando idolatria omaggiarne le immagini. Condivideva, del resto, con gli altri membri dell'empia setta a cui apparteneva, l'opinione per cui nell'ostia non c'era il vero corpo di Cristo «ma un poco di pasta cossì fatta» e veniva accusato, infine, di aver negato la potestà del Sommo Pontefice di ordinare le indulgenze additandolo, nei suoi sermoni pubblici, come l'anticristo inviato dal male. Il luterano aveva divulgato tutte queste credenze invitando i cattolici a contravvenire ai divieti della Chiesa. Tali divieti, non essendo supportati da alcuna autorità, potevano essere liberamente violati essendo lecito mangiare carne, latticini e gli altri cibi proibiti nei giorni dedicati al Signore. Al di là dei capi d'imputazione, ciò che si evince nei processi esaminati è che nonostante la molteplicità e la particolare gravità delle accuse mosse, le sentenze definitive di condanna apparivano particolarmente miti rispetto a quelle comminate dai tribunali delegati romani per gli stessi casi. I tre Luterani, del resto, erano stati indotti a presentarsi spontaneamente al tribunale di fede per confessare la propria eresia dopo aver soggiornato per circa sei mesi nella casa del vescovo, consultore della santa fede nonché inquisitore. Se ne deduce che per il controllo dell'eresia luterana nel Viceregno era stata escogitata una particolare procedura. I prelati che avessero avuto notizia, durante la confessione, di sospetti di luteranesimo avevano l'obbligo di informare il consultore della congregazione della fede, normalmente il vescovo, affinchè chiamasse a se la persona sospetta e cercasse, in un lasso di tempo non superiore ai sei mesi, di convertirla al cristianesimo. Se la conversione aveva buon esito, il convertito veniva indotto a sottoporsi ad un processo inquisitorio nel quale la confessione spontanea e la certezza della conversione fondavano la sentenza per assoluzione dalle pene maggiori, compresa quella di confisca dei beni, le quali venivano, normalemente, commutate in penitenze pubbliche come monito per gli altri eretici. Più complessa la ricostruzione del processo contro il duca salernitano Giovanni Sabbato Califre . L'accusa mossa era quella di bigamia. Il caso partiva dalla confessione resa da Valenzia Formisano, seconda moglie del Califre, al parroco del suo paese. Contro il Califre veniva aperto d'ufficio un processo che vedeva la comparizione di numerose persone. Chiusa la fase istruttoria apparve indubitabile che il duca contratto due matrimoni. Le deposizioni della difesa non bastarono ad evitargli una sentenza di condanna in contumacia. L'Arcivescovo fu irremovibile: « ipsum excomunicamus et intimamus confiscationem bonorum». La vertenza passava ad "ministrum aerarium fiscalem causarij". Citato a giudizio, questa volta il Califre decise di comparire all'udienza. In questo modo sperava di ottenere, attraverso la denuncia di persone sospette, la commutazione del sequestro dei beni con una pena di minore entità. Per le denunce e la confessione rese il Califre veniva, assolto « dalla scomunica maggiore, et tutte le altre censure, confiscationi et pene» a lui imposte, per essere condannato « a servire per remiero nelle Regie Galere per anni cinque prossimi continui» lasso di tempo dopo il quale le autorità si impegnavano a «rilasciare il sopravvenuto sequestro». Rileva nel processo che l'interrogatorio del vescovo era sempre seguito da uno del "Reggente" e che, dopo la condanna, il caso si aprì di nuovo questa volta "D.Nos Regentes et iudices Vicariae" rei di aver liberamente modificato la pena imposta per una causa già conclusa. A suscitare la controversia fu un ordine del duca D'Ossuna con il quale, probabilmente per l'intercessione del fratello e del suocero del Califre nonché di membri influenti del casale, dopo appena quattordici giorni di permanenza, il condannato fu fatto prelevare dalla galera per essere ricondotto nelle carceri della Vicaria. La giustificazione dell'ordine risiedeva nelle condizioni di salute dell'uomo. L'autorità politica, in realtà, subiva le pressioni della nobiltà napoletana ma cercava, allo stesso tempo, di protrarre quanto più a lungo possibile nel tempo gli effetti della pena. La sentenza emessa in secondo grado, infatti, aveva visto la commutazione della condanna dalla scomunica maggiore a cinque anni di triremi ma l'esenzione dalla confisca dei beni era stata solo parziale. A ben guardare, si prevedeva che la restituzione del patrimonio al Califre e l'annullamento del sequestro dovessero eseguirsi solo allo scadere della pena. Il che significava che, in caso di morte del duca prima dei cinque anni, cosa altamente probabile sulle galere, il legittimo successore nella titolarità dei suoi beni dovesse considerarsi l'ultimo che ne aveva detenuto il possesso e quindi, in questo caso, il fisco cui ne spettava, nel frattempo, il godimento e l'usufrutto. Spinti dalle pressioni della nobiltà, gli ufficiali regi avevano cercato di sedare gli animi con una parziale e limitata modifica della sentenza che serviva anche a scongiurare il tentativo dei membri del casale di chiederne l'annullamento, in ultima istanza, direttamente al Papa. Ma, placati gli animi, il casato dovette presto ritirare il suo intento. La sentenza conclusiva, emessa nelle persone di «Alessandro Bosolino in spiritualibus e temporali bus vicarius et officilibus vobis Ill.bus Dnõs Regenti, iudicibus Magnae Curiae Vicariae Neapolitana ac alijs», chiudeva definitivamente la questione ed eliminava ogni dubbio. Si stabiliva che per la salute della sua anima Giovanni Sabato Califre dovesse essere restituito alle triremi o quinqueremi regie essendo «nullum et impossibile appellari ad Summum Pontificem». Nel riconfermare la pena alla galera precedentemente imposta i giudici affermavano che il monitorio regio era nullo e nessun intervento era più possibile tanto ai secolari quanto al Papa perché la pena era già stata mutata una volta «ab declaratione excomunicationis» e perché «spettavit ac spectat cognitio huiusmodi criminis in Tribunalis S. O.» rientrando questa «heresis suspicione in abusu sacramenti matrimoni». Che il reale interesse fosse quello di ottenere il repentino dissequestro dei beni era dimostrato dal fatto che nella sentenza definitiva emessa dal tribunale in composizione mista l'impossibilità di commutare ulteriormente la pena era fondata su norme di diritto fiscale che, a quanto pare, «nec impugnationibus nolle ullo modo consentire in iudice nec potest componendi». Si conclusero con la condanna alla confisca anche i processi contro Giovan Giacomo Corcione e Francesco Castaldo accusati di ebraismo ratione peccati . Il caso si apriva per la denuncia di un certo Giovan Battista Ristaldo il quale, per discolparsi dai sospetti di eresia che cominciavano ad annidarsi sul suo conto, sviava l'attenzione dell'inquisitore su Corcione della Fragola e l'amico Castaldo. Era «cosa nota » affermava il denunciante che il Corcione « non senta bene de fide poiché porta molte profetie per provare che ancora non sia venuto il Messia». Secondo le deposizioni d'accusa era abitudine del Corcione «strappare l'ostia consacrata» e, di persona, aveva potuto assistere ad un rito nel quale l'ostia veniva «strappata havendola sopra andato con il corpo […] dicendola Idolo la quale ostia era stata consacrata da un prete de Fragola che non me volse nominare […] decendomi de più che avrebbe voluto trovare un altro che havesse voluto fare quell'esperientia». Il Corcione, appariva come il capo carismatico della setta. Conosceva, a memoria, «la gabbalà» e parlava perfettamente la «lingua canina». Quanto al Castaldo molti abitanti della Fragola, sua città natale, davano certezza della sua adesione alla setta ebraica. Gli ebrei non violavano solo il divieto di «conversatio atque commistio» con i cristiani sancito sia dall'Inquisizione romana che da quella spagnola ma si rendevano colpevoli di un delitto ancora più pesante. Avevano contrastato la fede cattolica cercando di convertire all'ebraismo individui pienamente cristiani. Per questo « in Curia Archiepti Neapolitana» nella vertenza «in super dnos fiscum inquirente contra Joannes Jacomo Corcione et Joannes Fracisco Castaldo inquisiti causae haeresiae» il «ministrum aerarium fiscalem causarij» intimava la confisca in modo anomalo. Precisava infatti l'ufficiale fiscale che gli eretici non venivano condannati a deporre al fisco l'«unum quartum» dei loro beni, come era previsto dalle Prammatiche reali precedentemente emesse, ma intimava «confisca ipsorum omnium honorum» per aver cercato di convertire altri cristiani.In conclusione, dall'esame condotto sui processi dell'Archivio diocesano appare indubitabile che la confisca dei beni nel Regno era regolarmente applicata solo per nobili ed Ebrei. Ma occorre porre attenzione su altri particolari interessanti. In primis i processi vescovili che seguivano la via straordinaria non erano affidati alla competenza generale della Curia ma ad un particolare ufficio preposto alla materia fiscale; altro dato da non sottovalutare, è che i presbiteri a cui venivano affidati i casi, erano indicati nelle formule di rito con il titolo non meglio precisato di ministri in spiritualibus et temporalibus de lo Santo Officio. Ciò, se si tiene conto della diversa dicitura usata per l'individuazione dei ministri con le stesse competenze nei tribunali delegati di Roma o dei tribunali alla spagnola, connota di una complessità ancora maggiore la struttura dell'inquisizione napoletana. Sembrerebbe, infatti, che i ministri in questione avessero ricevuto una doppia delega, sia ecclesiastica che temporale. Essi erano al tempo stesso servitori del vicerè di Napoli e commissari spetialiter deputati della Congregazione della Santa Inquisizione. Si realizzava una tipologia processuale che aveva alla base l' anomala struttura giudiziaria di un tribunale di fede misto che tendeva indubbiamente ad un prototipo più vicino per forma alla sua configurazione spagnola. La giustificazione a questo comportamento probabilmente risiedeva nella volontà dello Stato spagnolo di rivestire il ruolo di promotore delle campagne antiereticali sia stimolando il clero locale sia cercando di controllare indirettamente i tribunali di fede. Non potendo instaurare un tribunale di fede autonomo, l'intento, in pratica, era quello di rigettare il titolo di " Commissario delegato della Santa Inquisizione" imponendo, nello stesso tempo, nei tribunali di fede una presenza che fosse anche laica. Del resto nota è la tendenza spagnola di eleggere vescovi quali inquisitori. Se la teoria sposata fosse giusta verrebbe scardinata la tesi di Elena Brambilla e di tutti coloro che vedono in un accordo segreto tra i vescovi e Roma lo strumento che legittimava la Curia ad usare le procedure straordinarie nelle cause di fede. Semmai, secondo questa ricostruzione era l'appoggio del governo e la sua fiera resistenza ad un Inquisizione quale quella romana che estrometteva il potere laico dalla compagine giudiziaria a rendere la cura dell'ortodossia quasi di totale appannaggio della Curia vescovile. A questi elementi occorre aggiungere che con le prammatiche aventi ad oggetto il reato di blasfemia e quelle contro i Giudei i sovrani avevano mostrato chiaramente l'intento di mantenere il controllo delle cause di fede. In una prammatica, in particolare, ad esempio, si incaricava il Tribunale della Vicaria, le Udienze e tutti gli Ufficiali del Regno «si Regj che Baronali […] che usino tutta la sopraffina attenzione nella Inquisizione che dallo Stato si farà de' bestemmiatori » . Il Giotti, invece, nel descrivere cosa dovesse intendersi per modo di procedere ordinario alludeva ad una stretta collaborazione tra vescovi Collaterale e Vicerè. Chi amministrava le cause di fede, infatti, aveva il potere di imbastire autonomamente le cause, di provvedere alle indagini, di raccogliere gli elementi probatori, di valutarli ai fini della sentenza e anche quello di scegliere le pene più adatte al caso ma la condanna, doveva necessariamente essere sottoposta al vaglio del Consiglio Collaterale che, a sua volta, se lo riteneva opportuno, dava il beneplacito per l'esecuzione della sentenza su espressa autorizzazione del Vicerè. Questa stretta collaborazione è chiara nelle sue pagine. Scrive ad esempio, relativamente ad un caso, che «l'Arcivescovo cosentino dimanda a Regj del Collaterale di ottenere la castigatione di alcuni macchiati di eresia negli anni stessi, e scrittane parere favorevole al vicerè, rispose che presti all'Arcivescovo aiuto con che non si comandino se non come le leggi civili vogliono e nel tempo medesimo si ritrova, che il vescovo di Mottola procede contro il Barone di quel luogo come similmente in altri affari il Prelato di Agnola» . Ma il Giotti riporta anche molti esempi di inquisiti di religione catturati dalla Vicaria criminale e « con decreti poi agli ordinari conceduti» . A ciò si aggiunge che in un anonimo manoscritto dei primi del seicento nel difendere l'Inquisizione romana l'Autore affermava che la prassi di eleggere vescovi come inquisitori controllati dal sovrano di Spagna si perpetrò nei secoli. Questa consuetudine era stata introdotta da Ferdinando il Cattolico, si era rinnovata anche ai tempi di Carlo V e di Filippo II, ed era seguita fino al 1560 quando vennero eletti inquisitori il D.V. Bernardino Croce e nel 1561 il D.V. Annibale Moles al fine di «confiscare le robbe de condannati per delitti di eresia». La praticasi era perpetrata, «segretamente nelli secoli» da quando don Pietro da Toledo aveva emesso un editto in materia di Inquisizione nel quale stabiliva che non poteva ammettersi, nella cura dell'ortodossia, altro ministro « in questa occupazione più utile per colui che la esercita che amabile a chi l'esercita che tra i molti vescovi dependenti da Regj» . Il Parrino, infine, nella sua ricostruzione della rivolta del 1661, riporta un altro dato "anomalo". Racconta, infatti, che, durante i tumulti, il vicerè, per impedire al popolo l'invio di un'ambasceria al sovrano volta ad ottenere la liberazione dei beni del conte di Mola e degli altri eretici catturati da monsignor Piazza, aveva precisato che nelle cause di fede «non si dovesse andare da sua Altezza a supplicarlo per i detti dissequestri in osservanza alla bolla di Giulio III» in quanto il sovrano aveva rimesso ogni competenza su questa materia al Tribunale della Suprema Camera e «per prendere tali decisioni è convenevole andare dalla Camera né da altro Tribunale». Dalle analisi condotte risulta suffragata l'opinione di Adriano Prosperi sull'impossibilità di ricondurre l'Inquisizione ad un ideal tipo astratto dal momento che la sua struttura muterebbe in base alla realtà sociale politica e culturale in cui il tribunale attecchiva. Di certo appare improbabile, per la particolare organizzazione politica della corona spagnola, che i vescovi, nel Regno, operassero senza exequatur regio e alle dipendenze di Roma . Se il tribunale vescovile fosse stato dipendente unicamente da Roma e autorizzato a procedere da una delega segreta del Papa non si capirebbe il motivo dei conflitti, attestati dal Romeo , sorti con il tribunale delegato quando con la nomina ad inquisitore di Carlo Baldino esso fu introdotto, stabilmente, nel Regno. In conclusione è possibile attestare la presenza nel Regno di un' Inquisizione ibrida sottoposta al capillare controllo regio ma non completamente staccata dalla congregazione romana alle cui dipendenze rimaneva, nei fatti, il clero al contrario di quanto avveniva nell'Inquisizione spagnola.
2008/2009 ; 1. Il mercato finanziario ed il risparmio costituiscono valori costituzionalmente significativi, data l'importanza che rivestono per il tessuto economico e finanziario di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata, come quella contemporanea, sempre più caratterizzata da un processo di finanziarizzazione della ricchezza. L'assetto normativo e regolamentare, che deve presiedere al funzionamento del mercato ed alla gestione del risparmio, è storicamente caratterizzato dal tentativo di ricercare un equilibrio tra due opposte esigenze: da una parte, quella di evitare il rischio di un'ipertrofia normativa e di un conseguente eccessivo soffocamento del mercato; dall'altra, quella di offrire ai risparmiatori un livello di protezione qualitativamente sufficiente per preservare la fiducia che gli stessi ripongono nell'integrità e nel corretto funzionamento del mercato stesso. Muovendo dalla consapevolezza che l'attività di intermediazione finanziaria deve essere promossa e valorizzata perché essenziale allo sviluppo di una moderna economia di mercato ma che, per la sua intrinseca fragilità e connaturata rischiosità, non può essere integralmente lasciata alla mercé delle dinamiche di quest'ultimo, necessitando invece di un intervento di eteroregolamentazione finalizzato alla protezione di interessi individuali e collettivi previamente selezionati. 2. A partire dagli anni novanta l'ordinamento dei mercati finanziari è stato interessato dal succedersi di vari interventi normativi, da ultimo quelli operati con le leggi n. 62 e n. 262 del 2005. Nel complesso, si è trattato di una produzione normativa tumultuosa e disorganica, sovente emanata sull'onda dell'emergenza per reagire ai ripetuti fenomeni di "abuso del risparmio e dei risparmiatori" che hanno duramente colpito la finanza italiana ed internazionale nell'ultimo decennio (si pensi, solo per citarne alcune, alle vicende Enron, Cirio, Parmalat, Giacomelli, Lehman Brothers ecc.). In questo frenetico ed estemporaneo procedere normativo, un ruolo di primo piano è stato svolto dal diritto penale, per la tendenza, ormai radicata, del legislatore nazionale di affidare la tutela del risparmio alla presunta forza deterrente della sanzione penale, spesso usata in chiave espressiva o simbolica, in una sorta di delega permanente conferita allo strumento penalistico a fungere da principale, se non spesso esclusivo, rimedio alla crisi del sistema finanziario ed ai fenomeni di dispersione della ricchezza. Si tratta, all'evidenza, di una visione miope e destinata all'insuccesso, prova ne siano i ripetuti tentativi di riforma occorsi nell'ultimo ventennio, dettati più dall'improvvisazione che da una logica di razionalità sistematica, tutti nel segno di un infittimento del corpo normativo e di una revisione al rialzo dei limiti edittali e tutti clamorosamente e prevedibilmente incapaci di impedire il verificarsi di casi di vero e proprio saccheggio e distruzione del risparmio gestito. La situazione è resa ancor più grave dal fatto che i tanti - troppi - fatti di dispersione della ricchezza dei risparmiatori non possono più essere considerati come scandali finanziari isolati, come semplici big apples, rappresentando, invece, l'espressione ed il risultato di una crisi di sistema che colpisce le fondamenta dell'ordinamento e della struttura finanziaria internazionale. Facendo apparire quanto mai illusoria l'idea di reagire affidandosi alle virtù salvifiche del mercato terapeuta di se stesso ed erronea la soluzione di continuare nel solco di un irrigidimento estemporaneo della normativa penalistica e della relativa cornice sanzionatoria, senza che ciò venga accompagnato da una diagnosi attenta ed analitica dei mali del sistema e da una ricognizione altrettanto puntuale dei rimedi da adottare. Quale, allora, la via d'uscita? 3. Quella di avviare, nell'immediato, un importante processo di riforma dell'ordinamento finanziario, facendolo precedere da una riflessione di fondo sul tipo di mercato finanziario che si intende prediligere: un mercato dove prevale, in termini assoluti e senza mediazioni, la necessità di una difesa del singolo risparmiatore, che si realizza garantendo un mercato contraddistinto da una tendenziale parità di condizioni tra gli investitori e da una tutela indistinta e piena delle funzioni di vigilanza, la quale verrebbe assicurata sanzionando le violazioni e le inosservanze a canoni positivi spesso solo formali od organizzatori? Oppure, un mercato inteso prioritariamente come luogo di libero scambio di informazioni e di capitali, che ha in sé e che vive e si nutre della speculazione, salvaguardandone nel contempo la fiducia, la trasparenza e l'integrità mediante la repressione di (e solo di) quei comportamenti di abuso che esauriscono il loro contenuto in una dimensione esclusivamente speculativa? L'attuale diritto del mercato finanziario risulta sostanzialmente conformato al primo dei due modelli sopra indicati: le regole sono spesso il frutto di interventi estemporanei e disorganici, dettate più dall'improvvisazione che da una logica di sistema, in ogni caso formalmente (ma con scarsa effettività pratica) finalizzate a reprimere - spesso stabilendo pene severe e con un uso frequente della strumentazione penalistica - quei comportamenti ritenuti lesivi della parità di condizioni tra gli investitori o di mera trasgressione a prescrizioni di natura prettamente formale ed organizzatoria. La realtà è dunque quella di un corpo normativo che, spesso in nome di un'eguaglianza fra gli investitori o di una simbolica ed eticheggiante difesa del risparmiatore, fa un uso massiccio della sanzione penale per reprimere comportamenti che, il più delle volte, si esauriscono in mere violazioni formali e di canoni organizzativi, esercitando una scarsa efficacia preventiva, com'è dimostrato dalla frequenza con cui si sono verificati, solo a guardare gli ultimi anni, scandali finanziari con gravi danni per i risparmiatori. E tutto questo viene realizzato avvalendosi (e piegando) il diritto penale ad un uso spesso simbolico, eticheggiante, puramente organizzatorio. 4. Si ritiene, invece, quanto mai necessario procedere verso un sistema normativo idoneo a perseguire il fine ultimo di ogni realtà giuridica posta a protezione del mercato finanziario: coniugare efficacemente l'esigenza che il Paese benefici di un mercato libero, non ingessato, capace di attrarre i capitali e gli investimenti a sostegno del circuito produttivo, con la necessità, altrettanto fondamentale, che di quel mercato venga garantito il buon funzionamento, la trasparenza dell'informazione che in esso circola e dunque, in ultima istanza, la fiducia dei risparmiatori. Allontanando ogni istanza egualitaristica ed accettando la speculazione come condizione di esistenza del mercato stesso. Inquadrato l'obiettivo - dovendosi ritenere ormai abbandonata l'idea del mercato quale esclusivo terapeuta di se stesso e presidio migliore della stabilità finanziaria - il suo conseguimento richiede un serio e ponderato processo di ristrutturazione delle regole del gioco poste a presidio del buon funzionamento e dell'integrità del mercato, muovendo lungo alcune direttrici di fondo. 5. Una prima linea guida è nel senso di un definitivo abbandono della strada dell'ipertrofia penalistica, lastricata di norme dalla scarsa effettività pratica e che spesso si esauriscono nel punire mere disfunzionalità organizzative, dando vita ad illeciti di pura disobbedienza in nome di un'idea di funzionalizzazione dell'attività d'impresa. Vi è, dunque, la contingente necessità di porre termine ad una stagione, durata oltre un ventennio, che ha visto la giustizia penale svolgere un ruolo di supplenza rispetto alle lacune dell'ordinamento societario, della giustizia civile, del modello di vigilanza sull'operato degli intermediari, alimentando sovente delle tensioni rispetto ai principi cardine del diritto penale - in primis quelli di frammentarietà, tassatività ed offensività. L'opera di rifacimento delle regole del gioco deve dunque tendere, anzitutto, a restituire al sistema penale degli intermediari finanziari i crismi dell'effettività dei precetti e della coerenza con i principi generali del diritto penale e, da ultimo, la capacità di concorrere efficacemente alla diffusione e al mantenimento di un nucleo condiviso e fondante di valori in materia di gestione del risparmio collettivo. Vanno dunque superati i tradizionali limiti che oggi affliggono il diritto penale del mercato finanziario: l'antisistematicità, vale a dire le disarmonie e le ingiustificate differenze di contenuto e sanzionatorie intercorrenti tra fattispecie relative a settori diversi del mercato finanziario, mediante la creazione di figure di reato omogenee e tendenzialmente comuni ai vari segmenti del risparmio gestito; la tensione con i principi di necessità e sussidiarietà della pena: la sanzione penale dovrebbe essere l'extrema ratio, l'ultima spiaggia cui ricorrere, mentre nel nostro Paese da tempo sembra che sia anche l'unica spiaggia su cui si gioca la difesa del risparmio e degli interessi ad esso strumentali; il basso livello di osservanza dei canoni di tassatività ed offensività, a causa della formulazione spesso vaga ed indefinita delle fattispecie incriminatrici, anche a causa di continui rinvii a qualificazioni extrapenali, e della tendenza ad arretrare la linea di tutela disancorandola da elementi di concreta lesività e costruendola più su finalità di promozione etica che su interessi giuridici aventi i crismi della materialità e dell'afferrabilità, propri dell'oggetto giuridico nella sua c.d. concezione realistica. Ciò che, però, condiziona a monte la riforma del sistema penale finanziario - e con essa la scelta di selezionare i comportamenti da reprimere penalmente – è l'interrogativo su quali siano o, meglio, dovrebbero essere gli interessi giuridici oggetto di tutela nel diritto penale finanziario. 5.1. Analizzando la fattispecie dell'insider trading, erroneamente considerata l'architrave portante del diritto penale degli intermediari finanziari, sono state esaminate le diverse correnti di pensiero che hanno trovato origine attorno al problema dell'individuazione degli interessi giuridici, meritevoli di tutela, nei quali si declina il bene o valore superiore e costituzionalmente rilevante del "risparmio": dall'istanza egualitaristica della parità conoscitiva tra gli investitori al dovere di riservatezza facente capo agli esponenti aziendali delle società emittenti; dalla tutela della trasparenza informativa all'opinione, oggi prevalente, che identifica l'interesse tutelato - forse in parte confondendolo con la ratio puniendi - riassumendolo nella formula nota, ma vaga ed indeterminata, del "buon funzionamento, dell'integrità e dell'efficienza del mercato". E' fuor di dubbio che l'eguaglianza informativa, la trasparenza, la liquidità, la stabilità degli intermediari, l'efficienza ed il buon funzionamento del mercato finanziario rappresentano valori ed ideali da perseguire e difendere, ma essi si sostanziano in obiettivi etico-moralistici ed in valori macroeconomici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena e quindi assurgere al rango di effettivi beni giuridici di una fattispecie di reato. A patto, dunque, di non voler aderire alla tesi che qualifica la norma penale sull'i.t., al pari anche di altre norme del diritto penale finanziario, come "norme manifesto" - che stabiliscono divieti al solo fine di convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito e trasparente, assolvendo dunque ad una funzione di promozione etica del mercato, invero estranea al diritto penale -, non resta che ricercare aliunde il bene protetto da assurgere ad oggettività giuridica del sottosistema del diritto penale degli intermediari finanziari. 5.2. Un primo elemento su cui costruire le fondamenta di un valido percorso argomentativo è l'osservazione secondo cui il mercato finanziario, alla stessa stregua di altri interessi o valori di ampio respiro quali l'economia o il territorio o l'ambiente, non è oggetto di tutela ma oggetto di disciplina. L'affermazione sta a significare che il mercato finanziario è un luogo nel quale convergono interessi di varia natura, individuali e collettivi, tra loro talora convergenti, talaltra contrastanti: gli interessi delle imprese, dei piccoli risparmiatori, degli operatori od investitori professionali, ma anche l'interesse collettivo alla tutela del risparmio che rappresenta una risorsa indispensabile per lo sviluppo del Paese. La struttura funzionale del mercato, per definizione basata sullo scambio ed avente come sua componente ineliminabile il fattore "rischio" e la correlativa dimensione speculativa, non è in grado a priori di regolare la coesistenza, il bilanciamento o la prevalenza dei vari interessi che vi si rappresentano. Di qui, la necessità che il legislatore stabilisca delle regole volte a disciplinare il funzionamento del mercato sotto vari profili: accessibilità degli operatori ed intermediari, negoziabilità dei prodotti, organizzazione delle contrattazioni, circolazione dei flussi informativi ecc… Ecco, allora, che se il mercato è oggetto di una disciplina che ne regolamenta l'uso ed il funzionamento, dettando delle regole del gioco, il diritto penale del mercato finanziario altro non è che la sanzione della violazione delle "regole del gioco". 5.3. Il secondo passaggio del ragionamento, consequenziale al primo, consiste allora nel comprendere quali regole del gioco, tra le tante che compongono la disciplina positiva del mercato finanziario, possano o necessitano di essere presidiate anche da una sanzione penale e quali, invece, possano e debbano beneficiare solo di tutele extrapenali per l'impossibilità di rinvenire delle oggettività giuridiche ad esse sottostanti, meritevoli di ricevere una copertura penalistica. Risulta a questo punto evidente che l'unico criterio capace di fondare validamente una selezione di tal fatta è rappresentato dall'esistenza di un interesse giuridico meritevole di tutela penale, vale a dire di un bene che abbia un contenuto valoristico autonomo e che non si confonda nei valori generali ed etici più volti menzionati, né tanto meno nello scopo della norma, e che presenti quelle caratteristiche di afferrabilità e consolidamento sociale tali da poterne apprezzare la fondazione materiale. 5.4. Ad avviso di alcuni commentatori ed anche di chi scrive, l'interesse giuridico che qualifica (o che dovrebbe qualificare) l'intero settore del diritto penale degli intermediari finanziari, rappresentandone il vero fulcro normativo, è dato dalla relazione tra la tutela dell'interesse ad una corretta allocazione del risparmio e la tutela delle funzioni delle autorità di vigilanza. Più precisamente: la funzione di vigilanza e di controllo del mercato, svolta da varie autorità nei diversi segmenti ma concettualmente riconducibile ad unità, è l'elemento specializzante e coessenziale del diritto penale finanziario. Ciò posto, l'intervento di penalizzazione è legittimo solo laddove la tutela delle funzioni di vigilanza è strumentale all'osservanza di quelle regole del gioco poste a protezione delle esigenze nelle quali si estrinseca la tutela del risparmio e dei valori ad esso connessi e consequenziali: l'interesse privatistico del risparmiatore ad una corretta allocazione del risparmio e l'interesse pubblico alla stabilità e protezione del mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo che ne possano compromettere la funzione di insostituibile fattore di produzione e sviluppo quali, ad esempio ed in primis, il riciclaggio di danaro di provenienza illecita. L'epicentro del diritto punitivo degli intermediari finanziari è pertanto rappresentato dalle funzioni di vigilanza e dalla tutela delle stesse. Vi è dunque una relazione strettissima tra le disfunzioni della vigilanza e l'instabilità del mercato, a conferma che la tutela del risparmio filtra e passa attraverso la tutela della vigilanza. Il risparmio, dunque, anche quando non viene direttamente ed immediatamente raggiunto dall'offesa racchiusa nel fatto incriminato, costituisce pur sempre la "fonte di legittimazione sostanziale" dell'avanzamento dell'intervento penale verso le "strutture" e le "funzioni" della vigilanza. La tutela del valore costituzionale del risparmio permette, dunque, al modello di anticipazione della tutela sul piano delle funzioni di vigilanza di superare indenne il giudizio di bilanciamento: posto a confronto con il risparmio, il principio di offensività deve cedere le posizioni necessarie per realizzare una tutela del primo che sia razionale ed efficace. Si ritiene pertanto non azzardato affermare che la tutela delle funzioni di vigilanza rappresenta o, meglio, dovrebbe rappresentare, l'oggetto giuridico dell'intero micro-sistema del diritto penale finanziario. Salvo poi far assumere alla stessa un sostrato materiale più concreto ed una più evidente afferrabilità sociale laddove essa è destinata ad operare, vuoi nella tutela dell'interesse privatistico alla corretta e conforme allocazione del risparmio, vuoi nella tutela dell'interesse pubblicistico alla difesa del mercato da fenomeni di criminalità organizzata o, comunque, da pratiche manipolatorie che ne distorcono i meccanismi di funzionamento. Un'impostazione, quella sopra esposta, estranea agli schemi del diritto penale classico, per cui l'oggetto giuridico è sempre identificato in beni socialmente riconosciuti e coincidenti con interessi individuali della persona. Si tratta, tuttavia, di un'opzione valida sotto il profilo sistematico ed assiologico, atteso che il diritto penale moderno è da tempo attraversato da un processo di smaterializzazione dell'oggetto giuridico e dalla contemporanea utilizzazione della strumentazione penalistica per la tutela della funzionalità dei meccanismi di intervento dello Stato e della pubblica amministrazione in diversi campi, per lo più in quelli condizionati dall'evoluzione tecnologica e degli assetti sociali e caratterizzati dalla presenza di interessi adespoti e collettivi: la salute, l'ambiente, senza dubbio l'economia, la finanza ed il risparmio. E' indubbio, da un lato, che la tutela (anche penale) delle funzioni di vigilanza è condizione indispensabile ed irrinunciabile per assicurare una protezione efficace del mercato finanziario e del risparmio e, dall'altro, che le tradizionali forme di tutela del patrimonio si rivelano, all'evidenza, insufficienti allo scopo. Ma, d'altro canto, è parimenti vero che non è accettabile quella fuga dalla concezione realistica del bene giuridico (e dalla sua insopprimibile funzione di limite al legislatore), che si è ormai sovente verificata ogni qualvolta sono state coniate delle figure di reato nelle quali si punisce la mera inosservanza di norme di organizzazione e non di fatti socialmente dannosi, scambiando gli oggetti di tutela penale con le rationes di tutela, il tutto in nome di esigenze di controllo efficientista del sistema. E' innegabile che il diritto penale svolge un ruolo di coesione e di credibilità dell'ordinamento giuridico nel suo complesso e che di esso si tende spesso a fare un uso c.d. "interventista" e "simbolico", caricandolo di un compito di profilassi della società e di una funzione di rassicurazione sull'efficienza e moralità del sistema normato. Questo è accaduto anche e soprattutto nel campo dei reati economici ed in materia di tutela del risparmio e del mercato. In sé, quella di assumere ad oggetto di tutela penale un'attività o funzione giuridicamente autorizzata - nella fattispecie la funzione di vigilanza - è una scelta necessitata, se si vuole assegnare una protezione efficace a beni di interesse collettivo, ma al tempo stesso compatibile con i canoni del diritto penale, a patto che si tratti di attività giuridicamente regolate dietro la cui lesione o messa in pericolo sia possibile cogliere ed afferrare la dimensione sociale e materiale dell'interesse tutelato e la concretizzazione dell'offesa ad esso arrecata. Declinando l'assunto, in tanto la tutela penale delle funzioni di vigilanza del mercato è compatibile con la concezione realistica del bene giuridico solo in quanto la sfera repressiva riguardi esclusivamente comportamenti che siano materialmente afferrabili e di cui si possa cogliere la dannosità sociale: ciò che, ad avviso di chi scrive, si verifica allorché la violazione delle regole del gioco si traduca in una situazione di danno o di pericolo per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione del risparmio e per l'interesse pubblico alla protezione del mercato da fattori esterni di pregiudizio. In difetto di queste condizioni, l'intervento penale si espone al rischio di creare illeciti di pura trasgressione, di tutelare non vittime ma meri obiettivi di organizzazione od istanze socio-politiche di eticità ed efficienza del sistema, addivenendo, per questa strada, alla costruzione di un assetto normativo compatibile con una concezione c.d. metodologica del bene giuridico, vanificando così le garanzie formali e sostanziali proprie della concezione realistica ed affidando alla norma penale una funzione meramente sanzionatoria, destinata, non a punire comportamenti di danno o di pericolo, bensì a rafforzare, col deterrente penale, una disciplina preventiva e di organizzazione già strutturata dal diritto privato o dal diritto amministrativo. 5.5. Tanto premesso, occorre ritornare alla questione posta, osisa quella di identificare, alla luce dell'oggettività giuridica sopra configurata, quali "regole del gioco", facenti parte della disciplina del mercato finanziario, debbano essere presidiate da una sanzione penale. In questo senso può aiutare la suddivisione operata dal Padovani tra regole poste a garanzia della neutralità del mercato finanziario e regole poste a tutela della identità del medesimo: il primo gruppo di regole è costituito da presidi organizzativi e da tecniche operative volte a delimitare il perimetro del gioco, affinché il mercato si ponga come strumento neutrale rispetto a tutti gli attori interessati e determini, per questi, pari opportunità e condizione di partenza (si pensi alle regole che disciplinano l'accesso degli intermediari a certi ambiti di operatività, alle autorizzazioni alla prestazione di certi servizi o, ancora, alle norme che prescrivono limiti nella gestione degli investimenti, a quelle che sanzionano il mancato o non corretto invio delle segnalazioni di vigilanza ecc); il secondo gruppo di regole è funzionale ad assicurare l'identità del gioco stesso, ossia a garantire che questo non sia truccato, cioè a dire contaminato da forme e comportamenti di abuso che possono determinare un'indiscriminata ed ingiustificata distribuzione del rischio tra gli operatori (vi rientrano il comportamento penalmente sanzionato di chi manipola il mercato diffondendo notizie false su determinati strumenti finanziari, il fenomeno del riciclaggio nel mercato di danaro di provenienza illecita, per molti Autori anche la condotta di insider trading). L'opinione largamente dominante tra gli studiosi del diritto penale è quella per cui ambedue i gruppi di regole sopra menzionati meritano di essere assistiti da un presidio penale. Ciò, anzitutto, sotto il profilo della proporzione in quanto, se è pur vero che queste regole realizzano, per lo più, una tutela anticipata rispetto alla possibile produzione dell'evento lesivo, è anche vero che esse dispiegano la loro utilità proprio nel pervenire ad una neutralizzazione tempestiva dei possibili effetti dannosi e pregiudizievoli di una determinata condotta. Secondariamente, il giudizio di favor trova poi conferma anche sul fronte della sussidiarietà od extrema ratio, in considerazione della mancanza di valide alternative sanzionatorie, adducendo la necessità di una tutela preventiva e forte a difesa del buon funzionamento, dell'efficienza e dell'integrità del mercato, che solo il deterrente penalistico è in grado di offrire. 5.6. Si ritiene di discostarsi in parte dalla soluzione generalmente condivisa e di proporre una riforma del diritto penale finanziario che, muovendo da una ricostruzione dell'oggettività giuridica e recuperando una dimensione rafforzata dei canoni di proporzione, sussidiarietà e tassatività, pervenga ad un assetto regolamentare ispirato alle seguenti linee guida: - il ricorso alla sanzione penale solo come presidio alla violazione delle regole poste a tutela della c.d. identità del gioco, preferendo mezzi sanzionatori alternativi con riferimento all'inosservanza delle regole poste a tutela della c.d. neutralità del mercato; per queste ultime, infatti, la sanzione penale è sproporzionata e priva di una reale efficacia deterrente, venendo a configurarsi illeciti penali di stampo meramente organizzatorio, che si sostanziano in una tutela eccessivamente anticipata rispetto alla possibile lesione dell'interesse privatistico alla corretta allocazione del risparmio. E' indubbio che l'accertamento della violazione di queste regole dipende dal corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti agli organi di controllo e vigilanza, di tal guisa che, con la sanzione criminale, si vuole che anche la possibilità di accertamento risulti anticipata rispetto ad ogni eventuale futuro evento lesivo. Ma, così ragionando, si arriva a piegare lo strumento penale ad una funzione, per così dire, sostitutiva della tempestività dell'esercizio delle funzioni di vigilanza: altrimenti detta, si rafforza la (supposta) funzione specialpreventiva della pena per compensare le lacune ed i ritardi di un sistema di vigilanza sull'operato degli intermediari. Siffatto modus operandi si rivela, prima di tutto, inutile perché non perviene ad alcun risultato sul terreno della prevenzione, che richiede per contro di rivedere il modello di vigilanza prefigurando meccanismi di costante dialogo tra gli organismi di controllo e i soggetti vigilati, così da favorire una sorta di accompagnamento dei secondi ad opera dei primi, condizione indefettibile per garantire la neutralità del mercato finanziario rispetto agli interessi in gioco, Dall'altro, si dimostra in contrasto con i principi di offensività, proporzionalità e sussidiarietà, atteso che si tratta di fattispecie formali od organizzatorie rispetto alle quali non è dato rintracciare un oggetto giuridico consolidato ed afferrabile e che, in più, esprimono un grado di lesività tale da giustificare il ricorso alla meno severa e più duttile sanzione amministrativa. - l'introduzione di una nuova fattispecie di infedeltà patrimoniale, la cui mancanza nel vigente ordinamento è il riflesso di un evidente stato di contraddizione, incoerenza e lacunosità dell'attuale assetto del sistema penale finanziario, posto che oggi si sanzionano, con pene anche gravi, comportamenti che violano mere regole di organizzazione spesso prive di un'effettiva carica offensiva, oppure si promuovono crociate verso fenomeni la cui lesività è tutta da dimostrare (il riferimento è all'insider trading), nel mentre manca una fattispecie ad hoc idonea ad incriminare quella variegata e complessa serie di comportamenti con cui, sempre più diffusamente, gli emittenti o gli intermediari/gestori realizzano vere e proprie forme di abuso a danno dei risparmiatori. Si è detto che il nucleo centrale della tutela penale del mercato finanziario è rappresentato, oltre che dall'interesse pubblicistico di difendere il mercato da fenomeni criminali provenienti da fattori esterni, dall'interesse del singolo risparmiatore/investitore ad un'allocazione e gestione del proprio risparmio fedele al mandato fiduciario conferito, alle disposizioni di legge e ai principi di prudenza, stabilità ed integrità patrimoniale e buona fede. Non potendo applicare lo statuto penale della pubblica amministrazione alle banche, e tanto meno ad altri intermediari, non resterebbe che ricondurre quei comportamenti ai paradigmi della truffa ex art. 640 c.p. e dell'appropriazione indebita ex art. 646 c.p., con tutti i limiti che ne derivano, trattandosi di figure generaliste e spesso inadatte a dare copertura a fatti molto specifici e dal complesso tecnicismo. S'impone, a questo punto, la necessità, già espressa dal Pedrazzi, di introdurre nell'ordinamento la figura autonoma del reato di infedeltà patrimoniale, capace di reprimere, non solo quei comportamenti nei quali è evidente l'appropriazione di un vantaggio patrimoniale a danno di un terzo, ma anche quelle condotte caratterizzate da una connotazione in termini di rischio eccessivo od anomalo dell'operazione perfezionata, oltre i limiti del mandato fiduciario ovvero per gestione infedele o in conflitto di interessi. - la configurazione di una soluzione ad hoc per il fenomeno dell'insider trading che, nonostante si possa ascrivere al gruppo di regole poste a presidio della c.d. identità del mercato, si ritiene necessiti di essere depenalizzato in difetto di un solido fondamento socio-economico sottostante all'attuale divieto, prevedendo, per converso, l'adozione di presidi infrasocietari nell'ambito del rapporto privatistico insider/emittente. 6. Al di là delle divisioni che emergono dal dibattito sull'individuazione dell'interesse giuridico protetto dalla fattispecie di incriminazione dell'insider trading, si registra un generale favor per l'opzione penale, sostenendo che il rango dell'interesse da proteggere e la gravità dell'offesa giustificano l'impiego dello strumento penalistico alla luce dei due criteri che devono guidare la scelta della sanzione penale: la proporzionalità e la sussidiarietà. 6.1. Si ritiene di dissentire dall'opinione comune, prima di tutto per la mancanza del connotato della dannosità sociale del fenomeno, capisaldo del garantismo illuminista che esprime l'istanza per cui la legge penale deve punire solo quei comportamenti che effettivamente turbino le condizioni di una pacifica coesistenza e che siano avvertiti dalla collettività come generatori di danni ad interessi significativi e meritevoli di protezione. Anche se ad avviso dei più è dato registrare, oggi, un consenso sociale sulla repressione della pratica de qua, si ritiene quanto meno legittimo porre in dubbio che il fenomeno dell'insider trading sia davvero sentito come socialmente dannoso dalla generalità dei consociati. Basti porre mente al fatto che la diffusione della pratica dell'i.t. nei mercati finanziari non sembra avere affatto minato la fiducia degli investitori, se si guarda all'evoluzione che ha caratterizzato i mercati azionari nell'ultimo ventennio. Si è, invece, dell'opinione che la società avverta fortemente la necessità di colmare il vuoto di tutela che esiste avverso quelle forme di indebita sottrazione e sperpero della ricchezza risparmiata, poste in essere da intermediari ed operatori che agiscono secondo logiche poco trasparenti e permeate da situazioni di conflitto di interesse, mentre non appare per nulla diffusa nell'opinione pubblica la convinzione circa l'immoralità della pratica di insider trading, di cui spesso non si conosce neppure il significato. 6.2. Ritornando sulla vexata quaestio della ricerca del bene giuridico offeso dall'i.t., si è detto che l'opinione dominante fra gli interpreti, sostenuta dai Considerando del legislatore comunitario e dalle dichiarazioni di intenti di quello nazionale, è nel senso di qualificare l'insider trading alla stregua di un reato plurioffensivo, lesivo di interessi generali dell'economia quali la fiducia degli investitori, il buon funzionamento e l'efficienza del mercato, la trasparenza, la potenziale parità di condizioni tra gli investitori ecc… I commentatori si dividono dando prevalenza ora all'uno ora all'altro dei valori testé menzionati, ma le loro posizioni convergono nel ritenere che l'interesse da difendere non vada ricercato nella sfera privatistica della società emittente o del privato controparte dell'insider, quanto in un interesse generale e collettivo, adespota, riferibile alla regolarità del mercato mobiliare nel suo insieme, declinata talora in termini di efficienza, liquidità e buon funzionamento, talaltra in termini di parità di condizioni, ovvero ancora adducendo la lealtà e l'eticità delle contrattazioni e l'immagine di un mercato pulito e trasparente quale stimolo agli investimenti. La sussistenza di un interesse generale di ampia e significativa portata e di rilievo costituzionale, unitamente alla riconosciuta inefficacia delle sanzioni extrapenali, conduce dunque la maggioranza degli interpreti a ritenere che la scelta repressiva dell'i.t. è coerente con i canoni di proporzione e sussidiarietà: se in forza dell'art. 47 Cost., la Repubblica incoraggia il risparmio, l'insider trading lo scoraggia, frustrando l'aspettativa dei risparmiatori ad un comportamento leale e trasparente degli operatori. 6.3. La tesi sopra esposta, nonostante incontri il sostegno del pensiero dominante tra gli interpreti e della volontà della maggior parte dei legislatori europei e non, risulta per una serie di argomentazioni poco convincente ed in parte anche incoerente con il sistema. In primo luogo, occorre ricordare che il fondamento economico del divieto di i.t. è tutt'altro che dimostrato. L'analisi delle diverse scuole di pensiero, riportata nel capitolo che precede, rende alquanto evidente la mancanza di un chiaro fondamento politico e socio-economico del divieto o della liceità dell'insider trading. La legislazione penale sull'i.t. sembra quasi assumere un connotato di autoreferenzialità e di status symbol: punisce il fenomeno perché rappresenta una pratica costante e diffusa nei mercati finanziari, perché è sanzionata nella maggior parte dei paesi, perché così facendo il legislatore è messo nelle condizioni di reagire ai ripetuti scandali finanziari e lanciare un messaggio forte sulla pulizia e moralità del mercato, veicolate attraverso le etichette del buon funzionamento, della trasparenza e dell'efficienza del mercato stesso. Certo è che si tratta di espressioni generiche e tautologiche che non possono rappresentare la motivazione sociale ed economica della scelta punitiva. Un punto fermo dell'indagine è quello per cui l'informazione rappresenta una componente essenziale per l'efficienza del mercato: maggiore è la quantità e la qualità dell'informazione disponibile, più il mercato si caratterizza per una facile convertibilità dei titoli negoziati, e più le quotazioni di questi ultimi ne rapprentano il reale valore intrinseco, sicché il giudizio di ammissione o di riprovevolezza del comportamento dell'insider dipende dalla verifica se lo sfruttamento di notizie riservate contribuisce o meno all'efficienza del mercato, se accresce o pregiudica l'efficienza informativa del mercato. Sul punto non vi sono chiare evidenze scientifiche sul fatto che l'uso di informazioni riservate pregiudichi la trasparenza del mercato, impedendogli di perseguire l'efficienza informativa. Un secondo motivo di riflessione è che la scelta di reprimere il fenomeno dell'i.t. non può addivenire al risultato di ingessare il mercato privandolo del contributo essenziale dato, alla propria efficienza informativa, dall'attività di ricerca, studio ed analisi. Se, come si ritiene, si deve privilegiare una concezione del mercato come luogo la cui funzione principale è quella di elaborare e produrre informazioni che si riflettano sul meccanismo di determinazione dei prezzi per favorire, in ultima istanza, l'investimento del risparmio nel capitale delle imprese, ne consegue che va incoraggiato il lavoro degli analisti che producono e divulgano informazioni, anche consentendo loro di sfruttare economicamente dette informazioni perché altrimenti verrebbe a mancare lo stimolo alla ricerca, all'analisi ed alla diffusione delle stesse. L'attività di produzione, diffusione e sfruttamento delle informazioni va difesa ed incentivata rappresentando l'ossatura del mercato finanziario, che deve pertanto rifuggire da ogni mozione di livellamento informativo e di concorrenza perfetta tra gli investitori propria del market egualitarism, riconoscendo invece che la speculazione - intesa come ricerca di un profitto eccedente quello medio di mercato - è la caratteristica saliente ed ineliminabile di ogni sistema finanziario basato su un'economia di scambio. 6.4. Resta, sullo sfondo, l'unico possibile profilo di criticità che si ritiene possa anche esaurire un'eventuale ragione incriminatrice: è giusto riconoscere il diritto di sfruttare economicamente le price sensitive anche a coloro che non hanno contribuito alla loro produzione ed analisi, ma che ne sono venuti a conoscenza in modo occasionale ed estemporaneo, in virtù della carica societaria ricoperta all'interno della società emittente? La logica, prima che il diritto, ci porta ad affermare che il possessore di informazioni privilegiate ha il diritto di utilizzarle se, per ottenerle, ha sopportato un costo di produzione tanto da esserne divenuto proprietario (è il caso degli analisti finanziari), mentre i managers e gli altri insiders aziendali non possono considerarsi acquirenti dell'informazione essendone entrati in possesso in modo del tutto casuale ed in virtù della sola carica ricoperta. Di qui la conclusione per cui l'obiettivo di una regolamentazione anti insider trading (a livello non solo penale) deve essere il contenimento e il contrasto di quelle forme di speculazione abusiva originate dall'approfittamento di una situazione di superiorità informativa, che ricorrono nel solo caso in cui l'informazione riservata sia stata acquisita senza sostenere alcun costo e solo attraverso un collegamento privilegiato con la società emittente. Resta tuttavia l'interrogativo di fondo se lo strumento, per così dire di contenimento e di contrasto a pratiche di siffatta natura, debba essere rappresentato dalla sanzione penale. Il quesito merita una risposta negativa, per una ragione prima fra tutte: l'impiego della strumentazione penalistica deve escludersi ogni qual volta il divieto non presenti un chiaro ed evidente fondamento economico e faccia difetto l'esistenza di un determinato ed afferrabile oggetto giuridico. Non solo, infatti, il divieto di i.t. non è sorretto da una lucida motivazione economica, anche per la debole confutazione che si è fatta degli argomenti che sostengono gli effetti benefici dell'i.t. sul mercato, ma nella fattispecie incriminatrice non è dato neppure rintracciare un bene giuridico materialmente afferrabile e socialmente consolidato. Non è un caso che, nelle intenzioni del legislatore, il divieto di i.t. miri a sanzionare il comportamento ritenuto immorale di chi lo tiene (unfairness), allo scopo di rassicurare gli investitori sulla eticità e correttezza delle contrattazioni di borsa ed incoraggiarli così ad operare. Salvo poi chiamare in causa, nel tentativo di conferire un'oggettività giuridica ad una scelta incriminatrice decisa a priori prescindendo da essa e per obiettivi che attengono al piano dell'etica e della moralità, interessi generali connessi al buon funzionamento ed all'efficienza del mercato, alla sua trasparenza, alla parità di condizioni tra gli investitori che, pur rappresentando valori positivi da promuovere e da difendere, restano pur sempre obiettivi etico-moralistici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena. 6.5. Ritornando all'impostazione concettuale da cui siamo partiti, si è detto, in chiave riformatrice, che la struttura del sistema penale degli intermediari finanziari dovrebbe essere rappresentata dalla tutela delle funzioni di vigilanza, limitando tuttavia il ricorso alla sanzione penale ai casi in cui detta tutela è prodromica a difendere, o l'interesse del risparmiatore ad una corretta allocazione delle risorse patrimoniali affidate in gestione, o l'interesse pubblico a proteggere il mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo ed alterazione. Il fenomeno dell'i.t. non si pone in relazione di danno o di pericolo con nessuno dei due interessi succitati. Non con l'interesse pubblicistico atteso che, a differenza del riciclaggio e dell'aggiotaggio, dell'i.t. non è stata affatto provata la sua dannosità per il mercato, se non adducendo motivazioni di ordine etico e morale che tuttavia, quando rappresentano il solo fondamento del divieto, piegano il diritto penale ad una funzione simbolica, pedagogica ed eticheggiante, estranea alla cornice costituzionale dell'ordinamento. Tanto che la vigente norma penale di incriminazione dell'i.t. è stata qualificata da alcuni esponenti della dottrina come una "norma manifesto", che vieta perché deve convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito, trasparente, è un luogo in cui le contrattazioni avvengono lealmente. Si dirà di più. Con la riforma del 2005 il legislatore, se per un verso si è spinto fino a prevedere una sanzione draconiana per il fatto di i.t., per altro verso è pervenuto alla decisione di depenalizzare i fatti di i.t. compiuti dai c.d. insiders secondari. Ma se l'obiettivo di fondo è quello di difendere l'integrità, l'efficienza e il buon funzionamento del mercato finanziario e la fiducia dei risparmiatori, perché depenalizzare dei fatti comunque muniti - se ci si pone nell'ottica, non condivisa da chi scrive, del legislatore - di quelle potenzialità aggressive tali da meritare comunque una risposta sanzionatoria penale? La depenalizzazione di siffatta forma di insider trading (c.d. tippee e tuyautage trading) è infatti sufficiente ad ingenerare il dubbio su quale sia l'oggetto giuridico che il legislatore intende tutelare: va sempre ravvisato nella trasparenza, nell'efficienza e nel corretto funzionamento del mercato finanziario e nella fiducia degli investitori sull'integrità del medesimo (ma se così fosse, non si coglie il perché della non punibilità di chi, assunte informazioni privilegiate da soggetti qualificati, le diffonde e le usa a proprio profitto: condotta, questa, al pari delle altre, capace di pregiudicare il bene ultimo della trasparenza e integrità del mercato), oppure - più modestamente - la volontà legislativa è quella di punire chi è tenuto a doveri fiduciari di riservatezza per la posizione ed il ruolo qualificato rivestito all'interno (o nei confronti) della società emittente? Si ritiene meritevole di accoglimento la seconda ipotesi. La parziale abolitio criminis realizzata sul previgente art. 180 D.lgs. n. 58/1998 ha comportato un parziale mutamento dell'interesse tutelato dalla fattispecie in esame, perché, riducendo l'ambito di rilevanza penale della fattispecie - ossia abolendo l'ipotesi del c.d. tippee trading -, ha ridisegnato i contenuti dell'interesse tutelato, identificandolo più nella lesione di un interesse privatistico rappresentato dall'inosservanza di un dovere fiduciario tra l'insider e la società emittente, piuttosto che nella difesa di un interesse pubblicistico - in ogni caso a parere di chi scrive poco afferrabile - costituito dall'integrità dei mercati e dalla fiducia degli investitori, istituzionali e non. Ma se così è, ci sembra del tutto sproporzionato, oltre che in spregio al canone di sussidiarietà, il ricorso alla sanzione penale. 6.6. Del pari, non sembra condivisibile l'assunto secondo cui l'i.t. rappresenterebbe unaa minaccia per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione dei propri investimenti, giustificando il ricorso alla sanzione penale in ragione della lesione che il fenomeno de quo arrecherebbe al patrimonio conoscitivo dell'investitore. Il mercato finanziario è senza dubbio un luogo giuridico che va regolamentato e dove l'informazione esercita un ruolo fondamentale. L'efficienza allocativa del mercato presuppone la sua efficienza informativa. Quest'ultima richiede che gli investitori possano poter contare sulla massima quantità possibile di informazioni, che queste vengano diffuse e fatte circolare nella maggiore quantità e con la maggiore tempestività possibili. Il mercato finanziario è profondamente influenzato dalle informazioni e dal sentiment sui più svariati temi macro e micro economici, relativi al sistema Paese come alla singola società emittente, capaci di incidere ed impattare sull'andamento borsistico di un determinato titolo. E questo perché l'investimento nel mercato finanziario è sostanzialmente speculazione e - per citare Keynes nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta - "la speculazione è la capacità di scoprire cosa l'opinione media ritiene che l'opinione media sia". I canali attraverso i quali l'informazione viene reperita, elaborata, creata, analizzata e poi diffusa, sono tanti e diversi, la loro efficacia è legata a così tante variabili - costi di investimento sostenuti per l'attività di ricerca e studio, capacità di analisi ecc. - che il configurarsi di situazioni di vantaggio o svantaggio informativo è condizione fisiologica propria del mercato e della sua dimensione speculativa e competitiva, tanto da rifiutare ogni logica propria della teoria del c.d. market egualitarism. Nel caso dell'insider trading, come detto, la sola nota di criticità che può legittimare un intervento sanzionatorio è data dall'ipotesi in cui il vantaggio informativo viene conseguito sfruttando, abusando della posizione fiduciaria rivestita in seno alla società emittente e, quindi, senza sostenere i costi correlati all'acquisizione o alla produzione dell'informazione. In tale ipotesi, l'asimmetria informativa non è il risultato dell'opera di ricerca di un analista, ma di una forma vera e propria di abuso funzionale ad una successiva speculazione, non compensata da un investimento iniziale. Appare pertanto corretta la distinzione tra informazioni ottenute sostenendo costi di investimento ed informazioni conseguite a costo zero in virtù di una rendita di posizione: le prime devono essere sottratte all'obbligo di disclosure; per le seconde è corretto stabilire un divieto di utilizzo perchè, se utilizzate e sfruttate, realizzerebbero una ripartizione dei costi economicamente inefficiente, favorendo lo speculatore, a discapito di chi l'informazione l'ha prodotta. Ora, se non si può non convenire sul fatto che le informazioni del secondo tipo non possano essere utilizzate e che dunque debbano essere eliminate o neutralizzate le asimmetrie informative che non sono espressione di un'attività di ricerca e di investimento, si è per contro scettici sull'utilità del ricorso alla sanzione penale per perseguire tale obiettivo. Un punto fermo del percorso logico-argomentativo che si intende sviluppare è il seguente: scevri dalle enunciazioni di principio a sfondo etico-moralistico, il solo ed unico schema economico cui poter ricondurre il divieto di i.t. è quello dell'asimmetria informativa e degli effetti che la stessa - nell'ipotesi in cui sia il risultato di una speculazione abusiva e non di un investimento - può produrre sul piano allocativo e distributivo delle risorse. Gli effetti distorsivi generabili da un dislivello informativo, frutto di una condotta di abuso di posizione, sono sostanzialmente due. Da una parte, quello che porta i risparmiatori/investitori a richiedere un rendimento più elevato a fronte di un rischio che aumenta oltre la normale alea dell'investimento, appunto in ragione della presenza di un fattore estraneo allo stesso rappresentato dall'esistenza di una superiorità informativa, dall'agire di operatori insider. Dall'altra, quello per cui la pratica di insider trading è un modo per estrarre benefici privati sfruttando informazioni di proprietà della società emittente, fenomeno tanto più negativamente impattante sull'immagine del mercato quanto più questo sia composto da società proprie di un capitalismo familiare con meccanismi di governance sbilanciati a favore degli azionisti di controllo. Di qui, la considerazione per cui troppo insider potrebbe nuocere al mercato ed il conseguente auspicio che il fenomeno venga regolato al fine di contenere o neutralizzare i due effetti negativi che ne possono derivare. Poiché entrambi i succitati effetti vedono come danneggiato finale la società emittente, la quale è la sola proprietaria delle informazioni price sensitive, ecco allora che la questione relativa alla regolamentazione dell'insider trading diventa una questione di regolamentare l'uso dei diritti di proprietà sull'informazione. L'assunto poggia su due presupposti meritevoli di adeguata verificazione. 6.7. Il primo è che l'informazione è un bene economico, idoneo ad essere sfruttato economicamente da chi ne è proprietario. Non possiamo certo trascurare l'antico ed ancora non sopito dibattito sulla natura giuridica del bene "informazione", in particolare se questa sia qualificabile come bene privato o come pubblico. Secondo una prima teoria, l'informazione è un bene pubblico che non può essere oggetto di proprietà privata, configurandosi come un bene indivisibile e non escludibile: l'indivisibilità sarebbe legata al fatto che ogni individuo può utilizzare l'informazione senza sostenere alcun costo aggiuntivo; la non escludibilità discederebbe dalla difficoltà di circoscrivere la cerchia dei soggetti che se ne possono appropriare, ovvero dalla difficoltà di apporre vincoli di riservatezza. Sul versante opposto si schierano quegli economisti che sostengono la divisibilità e l'escludibilità dell'informazione, ritenendo che l'accesso al bene può essere circoscritto e che, pertanto, è possibile appropriarsi a pagamento dei suoi vantaggi, acquisendone così la titolarità prima che l'informazione diventi pubblica. E' chiaro che il riconoscimento al bene informazione di una natura pubblica o privata si riflette sulla definizione dell'assetto regolamentare che ne deve disciplinare la produzione, l'uso e la divulgazione. Se aderissimo alla tesi liberista - per cui l'informazione è un bene che può essere fatto oggetto di proprietà privata -, addiverremo a respingere qualsivoglia intervento esterno di regolamentazione dei meccanismi di produzione e circolazione dei flussi informativi, che i sostenitori di questa tesi ritengono controproducenti perché aventi l'effetto di scoraggiare la produzione di nuove informazioni, riducendo in tal modo il contributo dell'informazione al miglioramento della capacità segnaletica dei prezzi. Se, per contro, riconoscessimo all'informazione la qualifica di bene pubblico, si dovrebbe ammettere un impianto regolamentare ispirato alla logica del market egualitarism, caratterizzato da obblighi di disclosure e dal divieto di insider trading in capo agli operatori. Una posizione intermedia è quella per cui l'informazione è un bene privato che, tuttavia, genera delle esternalità, degli effetti aventi ricadute su soggetti esterni e sul mercato in generale, assommando in sé - il riferimento è nello specifico all'informazione societaria - esigenze di riservatezza (proprie del soggetto proprietario che quelle informazioni ha creato e prodotto) ed obblighi di trasparenza verso il mercato a tutela della comunità di investitori. Di qui la necessità di predisporre un sistema di regole che possa contemperare questi due termini del contendere. Con il risultato, innanzitutto, di ammettere che chi crea e produce l'informazione risulti anche assegnatario esclusivo del diritto di sfruttarne economicamente il contenuto (un diritto che non può essere negato, pena l'inefficiente allocazione delle risorse ed il conseguente scoraggiamento dell'attività di analisi e ricerca, condicio sine qua non per un mercato finanziario efficiente e trasparente). Prevedendo, in secondo luogo, un sistema di tutele per il proprietario dell'informazione e per il mercato in generale, avverso quelle possibili esternalità negative derivanti da comportamenti di terzi che, abusando della posizione rivestita, facciano un uso scorretto dell'informazione price sensitive. 6.8. Quanto al secondo presupposto, si è sostenuto che i diritti di uso e sfruttamento delle informazioni devono essere assegnati a chi quelle informazioni le ha create attraverso un'attività di ricerca ed analisi ovvero, nel caso di informazioni già esistenti in seno alla società emittente, a questa stessa. Non si può d'altronde negare che gli effetti negativi dell'i.t., poco sopra delineati, vanno ad impattare proprio sulla società emittente in termini di deprezzamento del pricing del relativo titolo quotato, che, proprio perché sospettato di essere oggetto di operazioni insider, vedrà gli investitori disposti ad acquistarlo solo a fronte di un premio aggiuntivo (implicitamente espresso nella disponibilità ad acquistare a prezzi che scontino l'effetto insider). L'informazione, però, a differenza degli altri beni che vengono prodotti e consumati, viene scoperta, e quindi diffusa, tramite la trasmissione o divulgazione al mercato, la quale, tuttavia, se da un lato incrementa il livello informativo del mercato e dunque la sua efficienza, dall'altro riduce le opportunità di profitto per chi ha creato quell'informazione. In altri termini: la divulgazione del bene-informazione è, al tempo stesso, fattore di trasparenza ed efficienza allocativa del mercato e disincentivo alla produzione delle informazioni, perché riduce in capo a chi le ha prodotte la possibilità di estrarne profitto. Da questo tratto peculiare dell'informazione nasce una sorta di conflitto, di trade off tra produzione ed uso dell'informazione: la regolamentazione di questo trade off, si ritiene, debba rappresentare l'obiettivo esclusivo di una normativa anti-insider. Un obiettivo che si ritiene debba essere perseguito per mezzo di un sistema regolamentare fondato su alcuni punti chiave: i diritti di proprietà sul bene informazione devono essere assegnati alla società emittente ovvero a chi, sostenendo costi di investimento e di ricerca, ha creato e prodotto l'informazione; una ridefinizione della normativa sulla trasparenza societaria, che sappia più efficacemente coniugare l'esigenza dell'emittente di tutelare istanze di riservatezza e l'interesse del mercato alla divulgazione delle informazioni; obbligare le società emittenti a dotarsi al proprio interno di processi operativi finalizzati alla mappatura delle informazioni e alla disciplina sull'uso, sulla trasferibilità e sulla divulgazione delle medesime, acconsentendo che il diritto allo sfruttamento economico di esse venga trasferito esclusivamente a managers e dipendenti della società e non a soggetti terzi, perché questo impedirebbe di esercitare un controllo sull'uso del flusso informativo e sulla profittabilità dell'attività (autorizzata) di insider. Quanto, infine, all'aspetto repressivo, si ritiene che qualsivoglia forma di sfruttamento non autorizzato di informazioni societarie, ovvero con modalità difformi dal sistema adottato di compliance aziendale, dovrebbe esporre l'autore della violazione a sanzioni di tipo civilistico a tutela della società e dei suoi azionisti ma anche del mercato in generale, abbandonando in questo modo lo strumento penalistico. Si ritiene, a tale riguardo, che il diritto degli investitori ad operare in un mercato integro possa trovare adeguata ed efficiente tutela, non nella sanzione penale - per i limiti e le tensioni che la caratterizzano - , quanto piuttosto in rimedi privatistici esperibili nei confronti dell'insider dalla società emittente, tanto nell'interesse proprio e dei suoi azionisti (per il danno che il comportamento insider reca all'immagine della società e per l'impatto sull'andamento del titolo in termini di liquidità, pricing e percezione di una sua maggiore rischiosità), quanto anche nell'interesse del mercato e dei risparmiatori quale ente esponenziale che più rappresenta l'interesse diffuso alla stabilità del mercato, alla sua efficienza (intesa primariamente come remunerazione delle sole informazioni privilegiate ottenute sostenendo un costo di investimento e non per mero abuso di posizione) e al fairness (per la funzione di rassicurare gli investitori sulla trasparenza ed il buon funzionamento del mercato). Facendo peraltro coesistere sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza, sia nei confronti delle società emittenti e degli esponenti aziendali per inosservanza dei sistemi interni di compliance disciplinanti la produzione e l'uso delle informazioni sensibili, sia nei confronti degli autori di condotte di tipping e tuyautage. In conclusione, muovendo dall'assunto secondo cui lo scopo di una disciplina sull'insider trading deve essere identificato nella prevenzione e nel contrasto di quelle forme di abuso di situazioni di vantaggio informativo, e comprovata l'ineffettività e difformità costituzionale della via penale, non resta che accogliere la soluzione che impone, in primis, di revisionare i meccanismi societari di produzione, uso e divulgazione delle informazioni price sensitive, in nome di una maggiore trasparenza sulla titolarità del diritto di sfruttamento delle stesse e di una maggiore responsabilizzazione degli amministratori, agendo sul piano della corporate governance e sui programmi di compliance aziendale. In secundis, combinando un enforcement fatto di sanzioni e rimedi civilistici (nei termini meglio specificati nel prosieguo) esperibili dall'emittente nei confronti dei soggetti insiders, nonché di sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza contro l'emittente (per la mancata inosservanza dei programmi di compliance sull'uso delle informazioni societarie) e gli insiders societari e non, all'esito di un'attività di indagine e di controllo che si auspica possa essere rafforzata e resa più incisiva. Nella convinzione che la pratica di i.t. lede in modo diretto la società emittente deprezzandone il titolo e gli investitori che su quel titolo operano e che potrebbero risultare danneggiati dal dislivello informativo, di talché l'unico rimedio efficiente per il contenimento di siffatta pratica è quello di prevedere, a carico dell'insider autore della condotta di abuso, un costo aggiuntivo (dato ad es. ma non solo dalla restituzione del profitto conseguito sfruttando la notizia riservata) tale da rendere l'abuso, se scoperto, economicamente inutile o addirittura svantaggioso. Nella convinzione che la maggiore responsabilizzazione di chi riveste posizioni di vertice all'interno delle società emittenti, congiuntamente all'adozione di un sistema di autodisciplina che renda trasparente l'uso delle informazioni rilevanti e l'assegnazione dei vantaggi insiti nel loro sfruttamento, costituisca il maggior antidoto all'opacità ed all'inefficienza del mercato. 7. Occorre poi prendere contezza del fatto che qualsivoglia progetto di riforma dell'ordinamento finanziario e di revisione degli strumenti di tutela del risparmiatore che si intenderà mettere in cantiere, non porterà i risultati attesi, se non sarà accompagnato da quel plesso di riforme dei vari apparati tangenti e complementari all'organizzazione del mercato finanziario: la riforma dell'amministrazione della giustizia per assicurare, anche istituendo una magistratura specializzata, tempi rapidi nell'accertamento degli illeciti e nell'irrogazione delle sanzioni; nuove regole in materia di informazione societaria al fine di migliorare la trasparenza informativa; l'introduzione di sistemi di governance più chiari ed indipendenti, capaci di presidiare e risolvere le tante, troppe, situazioni di conflitto di interesse di cui oggi è intrisa la catena dell'intermediazione finanziaria e che rappresentano, ad un tempo, la molla dell'agire economico nel mercato capitalistico e la principale causa di disgregazione e polverizzazione di ricchezza; regole chiare sulla circolazione dei prodotti finanziari; un ridisegno generale dei sistemi di controllo, vigilanza e di revisione contabile all'interno delle società di intermediazione del risparmio; da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, un intervento correttivo della disciplina del c.d. falso in bilancio, che rappresenta a tutti gli effetti un presidio a tutela del risparmiatore. Senza queste riforme complementari, anche una buona legge di riforma del mercato finanziario non coglierebbe appieno il risultato sperato. E' chiaro, infatti, che il mercato, come pure il suo grado di efficienza e trasparenza, sono il risultato della convergenza di una pluralità di fattori, esogeni ed endogeni, che agiscono su piani diversi ed incidono su differenti meccanismi di funzionamento del mercato stesso, cercando il non facile equilibrio tra i valori in gioco. 8. La ri-configurazione di un nuovo assetto di regolamentazione del mercato finanziario è condizione necessaria ma non sufficiente per alimentare un processo di prevenzione generale e di orientamento dei modelli comportamentali, che possano rappresentare un efficace argine al dilagare dei fenomeni di market abuse e di market failure. Serve, in parallelo, anche un processo di revirement culturale che porti ad una sorta di rifondazione etica della business comunity, nella consapevolezza che anche il migliore sistema normativo non ha presa sulla realtà effettuale, se questa non è a priori innervata da un insieme di regole etiche generalmente condivise. Il contesto attuale mostra un mercato finanziario caratterizzato dall'assenza di regole di condotta e di principi tali da costituire un governo etico, prima che giuridico, al lavoro dei suoi operatori. La grande ondata di deregolamentazione finanziaria che si è avuta nell'ultimo decennio ha favorito il dilagare dei conflitti di interesse in cui si trovano ad operare gli intermediari finanziari. Si pensi, per fare qualche esempio tra i tanti, al caso delle banche che hanno collocato ai propri clienti titoli tossici presenti nel loro portafoglio, al fine di dismetterli evitando perdite già prevedibili al momento del collocamento; agli effetti perversi del sistema degli incentivi ai vari operatori presenti nella catena dell'intermediazione finanziaria, che hanno favorito la diffusione di pratiche ad elevato rischio pur di conseguire l'obiettivo di lauti compensi; senza dimenticare il caso delle società di rating che hanno senza dubbio concorso a favorire l'occultamento di situazioni di difficoltà, attribuendo giudizi "a tripla A" a società che di lì a poco sarebbero state dichiarate fallite. La cultura di illegalità diffusa e di abuso di cui oggi è permeato il sistema del risparmio gestito va contrastata, non con norme cariche di una minaccia sanzionatoria severissima ma con bassa probabilità di trovare un'effettiva ed efficace applicazione, bensì con una revisione normativa ad ampio spettro, funzionale ad assicurare maggiore trasparenza nei meccanismi di corporate governance, razionalizzazione e rafforzamento del sistema dei controlli interni ed esterni alle società. Una considerazione è d'obbligo: la causa prima dei tanti, troppi, dissesti finanziari che hanno provocato nell'ultimo ventennio una dispersione gigantesca di ricchezza collettiva è da individuare nei conflitti di interesse di cui è profondamente permeato l'ordinamento societario, finanziario ed istituzionale, tanto da far affermare, all'illustre Guido Rossi, che "il risparmio di massa galleggia letteralmente sui conflitti di interesse e la sua salvaguardia dipende, anzitutto, dalla corretta impostazione di tali conflitti, la cui esistenza è peraltro fisiologica all'agire economico". Occorre pertanto ripartire dal male oscuro dell'ordinamento finanziario, lavorando ad una revisione dei meccanismi di corporate governance, dei processi decisionali interni alle società, troppo spesso affidati ad amministratori che agiscono alla stregua di monarchi assoluti, al di sopra ed a prescindere da ogni forma di controllo. Nel procedere in quest'opera di riscrittura delle regole del gioco, è corretto immaginare che il primo intervento del diritto nell'ambito economico e dell'impresa debba avvenire sul piano della prevenzione, avvalendosi degli strumenti propri del diritto civile, del diritto amministrativo e dell'autoregolamentazione. Arrivando, per questa strada, alla configurazione di un diritto penale minimo ma efficace e severo, nel sanzionare quei comportamenti ritenuti immediatamente offensivi di quegli interessi meritevoli di protezione, perché in diretta e stretta relazione con la tutela della funzione di vigilanza, epicentro del complesso normativo a difesa del risparmio. ; XXI Ciclo ; 1972