Tesis descargada desde TESEO ; In Arrivederci piccole donne, di Marcella Serrano, una ragazza sogna di aprire una casa editrice. Il suo modello è quella di un'altra donna: Virginia Woolf. Esiste un modo delle donne di operare nell'editoria così come ne esiste uno di scrivere? Questa la questione che le pagine che seguono provano ad affrontare. Inizieremo fornendo un quadro storico dell'editoria italiana. Il punto di partenza sarà l'anno 1861, quello in cui l'Italia unì i propri confini politici e, con essi, il mercato editoriale. Vedremo quanto, dall'abbattimento delle frontiere interne, è cambiato. Le case editrici hanno raggiunto, oggi, il numero di settemilaseicento. Al loro interno la maggioranza degli impiegati sono donne. Un secolo e mezzo fa la figura dell'editore era assimilata con quella del tipografo. Quanto alle donne, nella Parigi all'avanguardia di allora, il loro accesso alla carriera di tipografo era vietato. Le prime donne che compaiono nella storia dell'editoria sono vedove dei fondatori. Il fatto, però, che spesso le attività proseguissero senza fratture, lascia arguire anni di lavoro nell'ombra. Esso verrà alla luce del sole con i movimenti femministi. Ciclostili, riviste in grado di rilanciarsi e superare le crisi, siti internet, non potevano però esaurirsi in un discorso complessivo. Né il quadro poteva ridursi alla rievocazione o ai bilanci delle reduci. In forme meno ideologiche come blog, periodici o marchi non solo votati a temi femminili, iniziative che si fanno portavoce delle istanze delle donne continuano a nascere. A quasi venti di esse dedicheremo schede specifiche che ne dettaglino storie e linee editoriali. Doverosa era la menzione di Noi donne, una storia che inizia in esilio, prosegue in clandestinità, vive gli anni della contestazione conquistandosi l'autonomia dal partito, cessa le pubblicazioni e quindi rinasce, nella versione attuale. Per il resto abbiamo privilegiato le testate che abbiano avuto un ruolo nel dibattito femminista e quelle che presentassero un contenuto letterario. Quanto ai siti internet, il criterio è andato al di là del numero di accessi e del contenuto letterario. Abbiamo preferito lasciare in secondo piano siti istituzionali, accademici e di associazioni anche autorevoli. L'aspetto che andava sottolineato, riteniamo, è l'eterogeneità delle iniziative in cui le donne si cimentano. Abbiamo tentato di darne conto recensendo blog, siti che sono delle vere testate registrate ma anche pagine telematiche dagli accenti quasi arcadici. Possono essere loro la soluzione ai limiti della editoria femminista che Maria Crispino lamentava già venticinque anni fa. L'editoria femminista scontava, e tuttora sconta, una penuria di mezzi che le impedisce l'accesso ad una distribuzione che la porti fuori dall'autoreferenzialità. Del resto, anche nel libro di Serrano, il fatto che aprire una casa editrice sia un sogno è dovuto al fatto di non avere abbastanza fondi. Eppure è seguendo l'esempio delle prime case femministe che, anche inconsapevolmente, tante donne si sono cimentate in avventure editoriali. Le loro sono state case editrici ostinate e pazienti – il modello è La tartaruga – ma anche fantasiose e anticonformiste, come Sottosopra. Hanno conquistato l'egemonia culturale. Il concetto, gramsciano, si lega a quello di cultura nazionalpopolare. Ad essa hanno concorso fotoromanzi, rotocalchi, romanzi rosa e, da ultimo, il fenomeno dei chik lit. Insieme, compongono la così detta paraletteratura. Le sue tirature sono multiple di quelle delle testate femministe e, non di rado, l'avversano. Esamineremo come. Riporteremo, nel concreto, l'atteggiamento dei fotoromanzi e della posta dei lettori verso il mutamento sociale. Anticipiamo che riviste patinate e romanzi rosa sono organi della conservazione. La loro modernità è strumentale al consumismo. Le lotte delle donne vi vengono non di rado osteggiate, le loro conquiste banalizzate. Anche di questo genere di pubblicazioni abbiamo ripercorso la storia che, peraltro, pesa più di quanto si creda su quella nazionale. È sulle "riviste per signore" che si è formata buona parte della conoscenza nazionale. È leggendo le loro pagine che le italiane hanno adottato una lingua e poi abitudini e consumi comuni. È tra le righe delle risposte alle loro lettrici che autrici come la Marchesa Colombi consigliavano un'accondiscendenza opportunistica. Perchè è sulle loro pagine che scrivevano e scrivono le autrici dei libri campioni di vendita. Come è evidente, il discorso parte dalle case editrici, include le scrittrici e, infine, vira sulle lettrici. Ma comprendere cosa viene proposto alle lettrici aiuta a comprendere la voglia, da parte di tante di loro, di darsi all'editoria. Laura Lepetit disse di aver fondato la sua casa editrice per editare un libro che in Italia mancava e che riteneva necessario. Anche il personaggio del libro di Serrano, in fondo, sebbene come editrice, sogna di emulare una scrittrice. La nostra analisi, quindi, cerca di considerare tutti i punti d'osservazione possibili. Guarda, cioè, alle donne in quanto lettrici e in quanto autrici. Anche quando, secondo una tradizione antica, esse si presentano con degli pseudonimi. Dove, invece, le firme indicano inequivocabilmente un autore, è nel giornalismo. In quell'ambito le donne si avviano, quanto ai numeri, a prevalere. Su quanto la maggioranza comporti un effettivo potere la discussione è aperta. Alcune voci denunciano la permanente assenza delle donne dai vertici delle testate. Altre le attribuiscono un modo di incidere sull'opinione pubblica che andrebbe al di là degli organigrammi. Oriana Fallaci, in altre parole, non avrebbe visto aumentare la propria autorevolezza dalla direzione di un giornale. Anche l'apporto delle donne al giornalismo nel suo complesso non è soggetto a una lettura univoca. Miriam Mafai , tra le altre, riconosce alle donne il merito di una benefica iniezione di frivolezza. Forse ciò che le donne possono dare va oltre. Forse il semiotico non si riduce ai pettegolezzi sui politici. Individuarlo e definirlo ha richiesto decenni di ricerche. Gran parte di esse attengono proprio ai modi espressivi. L'approdo, in estrema sintesi, è stato che il logos è maschile, mentre della donna è peculiare l'espressione dei sentimenti, il semiotico, appunto. Anche per questo l'editoria sulla quale ci concentriamo è sull'editoria letteraria. Rosi Braidotti afferma che la scrittura può ricomporre linguaggi logos-intensivi (come la scienza) e pathos-intensivi (la letteratura e la poesia). È stato questo, in fondo, l'obiettivo di autrici come Helene Cixous e di Luce Irigaray. Ognuna ha tentato di scartare dal patriarcato, uscire dall'alveo del consueto, proporre una prospettiva nuova. Sono le stesse finalità che si è posta la casa editrice il Caso e il Vento, di Sandra Giuliani. Il suo prodotto di punta sono gli audiolibri. Il modo di promuoverli è orizzontale: la declamazione da parte di persone confuse tra il pubblico. Anche la distribuzione, affidata al passaparola, cerca di mettere in discussione le gerarchie, di esplorare vie nuove. Quella di Sandra Giuliani è solo una delle numerose case editrici che abbiamo consultato sul tema della scrittura delle donne. Sulla stessa questione abbiamo sollecitato anche addetti ai lavori e femministe storiche: da Giampiero delle Molle, direttore della più diffusa rivista letteraria italiana, al compianto Vincenzo Consolo a Daniela Percovich a Piera Codognotto a Luciana Tufani. Le loro riflessioni hanno integrato la nostra lettura di Julia Kristeva e il resto del nostro bagaglio bibliografico. Ne abbiamo ricavato qualche sorpresa e qualche conferma. Sarebbero, ad esempio specialmente le donne a proporre manoscritti a contenuto erotico. Da Alda Merini a Dacia Maraini, del resto, l'importanza dei sensi, nella scrittura delle donne, è un dato assodato. Coniugato con il peso che le scrittrici tradizionalmente attribuiscono ai sentimenti, esso permette di individuare una modalità alternativa alla logica prettamente celebrale degli uomini. Detto delle caratteristiche della scrittura delle donne, ci siamo soffermati sui messaggi dei loro prodotti più recenti. Abbiamo verificato quanto e come nelle autrici degli ultimi anni sia presentato il superamento del patriarcato. A cui, peraltro, non mancano di opporsi espressioni letterarie di un sistema editoriale oligopolistico che Andrè Shriffin ha denunciato. Ancora una volta, la scrittura ci invita a guardare all'editoria nel suo complesso. Quindi al posto che vi ricoprono le donne in ogni ruolo, non solo nelle foto dei risvolti di copertina. Sul tema abbiamo raccolto le voci delle case editrici, dai titolari fino agli stagisti. Il quadro che ne abbiamo ricavato è articolato. L'insoddisfazione per gli scarsi riconoscimenti di qualcuno si sposa con la consapevolezza che tra i settori produttivi, per le donne, l'editoria rappresenta un settore privilegiato. Alberto Castelvecchi , tra gli altri, ci ha fornito una chiave d'interpretazione comune a quella che già avevamo visto proporre per la distanza delle donne dai ruoli direttivi dei giornali. In sintesi non è necessariamente dalle poltrone dei dirigenti che una donna può incidere su di una casa editrice. Al contrario, per restare nella metafora, è dagli sgabelli più operativi, magari, che si indirizzano giorno per giorno le imprese editoriali. Rintracciarvi un nuovo ordine simbolico è probabilmente qualcosa di mai tentato prima. Significa andare al di là delle singole opere e cercarne un filo rosso che dia al loro insieme un ulteriore significato. Cogliere, al di là delle dichiarazioni programmatiche, una linea editoriale. E, da ultimo, verificare un comune denominatore tra le case editrici di donne. Come, ad esempio, il proporsi come ponte di culture. Iperborea, Zandonai, Voland sono case editrici fondate da donne e da donne quasi totalmente formate. Il loro lavoro si pone in ideale continuità con Fernanda Pivano. Con il loro tradurre opere di letterature lontane o ritenute secondarie, tutte confermano quella specialità nomade che Rosi Braidotti riconosce alle donne. Ma questa è solo una, e forse la più evidente, delle peculiarità che sembra caratterizzare il cospicuo numero delle case editrici esaminate. A questo riguardo urge una nota metodologica. Il lavoro poggia su opinioni raccolte da addetti ai lavori: titolari di case editrici e stagisti, curatrici di collane, una direttrice di giornale come Tiziana Bartolini, una storica del femminismo come Piera Codognotto e un ex editore ora esperto di comunicazione come Alberto Castelvecchi ed altri ancora. Consultandoli, abbiamo voluto cercare spunti per la nostra ricerca ma anche registrare il clima che si respira all'interno del settore. Le interviste si sono svolte negli ultimi tre anni. In buona parte hanno avuto luogo nelle occasioni deputate agli incontri con le case editrici, cioè le fiere. In generale abbiamo modulato domande e l'occasione in cui formularle a seconda del soggetto che avevamo di fronte. Piera Codognotto, per esempio, ci ha accolti nella biblioteca in cui lavora, Tiziana Bartolini, direttrice di NoiDonne, presso la Casa Internazionale della donna di Roma, Alberto Castelvecchi presso l'università Luiss di Roma, Vincenzo Consolo a margine di un convegno. Altri incontri hanno avuto sedi più informali: conviviali, come nel caso di Anna Maria Crispino, o addirittura domestiche come nel caso di Luciana Tufani o della distributrice Cecilia Rossi. Di fronte a tanta eterogeneità, le questioni poste non potevano prevedere un asettico formulario. Le nostre, quindi sono state conversazioni tarate sul soggetto che avevamo di fronte: A Marianna Martino, titolare ventenne di una casa editrice surrealista, non sarebbe servito domandare lo stesso contributo che a Luciana Percovich, teologa femminista legata al movimento da quasi mezzo secolo. A tutta la nostra ricerca, qualitativa, abbiamo dato infine, una cornice di dati e statistiche. Quante sono le donne impiegate in editoria, quali sono, effettivamente, le mansioni che svolgono più di frequente, quali sono, infine, le tendenze. Al termine di un lavoro che si è data una lente cronologica, abbiamo guardato alle prospettive. Dopo anni di crescita, nell'ultimo anno il numero di case editrici è calato, si diffonde l'acquisto di libri on line, i generi letterari sono in discussione. Nuovi mezzi potrebbero soppiantare il supporto cartaceo e la nostra stessa idea di lettura. È ora, più che mai, di verificare quali frutti stiano dando, anche nell'editoria, i semi irrigati dall'inchiostro dei ciclostili quasi mezzo secolo fa.
Call me Ismail. Così inizia notoriamente il celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick. In un altro racconto, ambientato nel 1797, anno del grande ammutinamento della flotta del governo inglese, Melville dedica un breve accenno a Thomas Paine. Il racconto è significativo di quanto – ancora nella seconda metà dell'Ottocento – l'autore di Common Sense e Rights of Man sia sinonimo delle possibilità radicalmente democratiche che l'ultima parte del Settecento aveva offerto. Melville trova in Paine la chiave per dischiudere nel presente una diversa interpretazione della rivoluzione: non come una vicenda terminata e confinata nel passato, ma come una possibilità che persiste nel presente, "una crisi mai superata" che viene raffigurata nel dramma interiore del gabbiere di parrocchetto, Billy Budd. Il giovane marinaio della nave mercantile chiamata Rights of Man mostra un'attitudine docile e disponibile all'obbedienza, che lo rende pronto ad accettare il volere dei superiori. Billy non contesta l'arruolamento forzato nella nave militare. Nonostante il suo carattere affabile, non certo irascibile, l'esperienza in mare sulla Rights of Man rappresenta però un peccato difficile da espiare: il sospetto è più forte della ragionevolezza, specie quando uno spettro di insurrezione continua ad aggirarsi nella flotta di sua maestà. Così, quando, imbarcato in una nave militare della flotta inglese, con un violento pugno Billy uccide l'uomo che lo accusa di tramare un nuovo ammutinamento, il destino inevitabile è quello di un'esemplare condanna a morte. Una condanna che, si potrebbe dire, mostra come lo spettro della rivoluzione continui ad agitare le acque dell'oceano Atlantico. Nella Prefazione Melville fornisce una chiave di lettura per accedere al testo e decifrare il dramma interiore del marinaio: nella degenerazione nel Terrore, la vicenda francese indica una tendenza al tradimento della rivoluzione, che è così destinata a ripetere continuamente se stessa. Se "la rivoluzione si trasformò essa stessa in tirannia", allora la crisi segna ancora la società atlantica. Non è però alla classica concezione del tempo storico – quella della ciclica degenerazione e rigenerazione del governo – che Melville sembra alludere. Piuttosto, la vicenda rivoluzionaria che ha investito il mondo atlantico ha segnato un radicale punto di cesura con il passato: la questione non è quella della continua replica della storia, ma quella del continuo circolare dello "spirito rivoluzionario", come dimostra nell'estate del 1797 l'esperienza di migliaia di marinai che tra grida di giubilo issano sugli alberi delle navi i colori britannici da cui cancellano lo stemma reale e la croce, abolendo così d'un solo colpo la bandiera della monarchia e trasformando il mondo in miniatura della flotta di sua maestà "nella rossa meteora di una violenta e sfrenata rivoluzione". Raccontare la vicenda di Billy riporta alla memoria Paine. L'ammutinamento è solo un frammento di un generale spirito rivoluzionario che "l'orgoglio nazionale e l'opinione politica hanno voluto relegare nello sfondo della storia". Quando Billy viene arruolato, non può fare a meno di portare con sé l'esperienza della Rights of Man. Su quel mercantile ha imparato a gustare il dolce sapore del commercio insieme all'asprezza della competizione sfrenata per il mercato, ha testato la libertà non senza subire la coercizione di un arruolamento forzato. La vicenda di Billy ricorda allora quella del Paine inglese prima del grande successo di Common Sense, quando muove da un'esperienza di lavoro all'altra in modo irrequieto alla ricerca di felicità – dal mestiere di artigiano all'avventura a bordo di un privateer inglese durante la guerra dei sette anni, dalla professione di esattore fiscale alle dipendenze del governo, fino alla scelta di cercare fortuna in America. Così come Paine rivendica l'originalità del proprio pensiero, il suo essere un autodidatta e le umili origini che gli hanno impedito di frequentare le biblioteche e le accademie inglesi, anche Billy ha "quel tipo e quel grado di intelligenza che si accompagna alla rettitudine non convenzionale di ogni integra creatura umana alla quale non sia ancora stato offerto il dubbio pomo della sapienza". Così come il pamphlet Rights of man porta alla virtuale condanna a morte di Paine – dalla quale sfugge trovando rifugio a Parigi – allo stesso modo il passato da marinaio sulla Rights of Man porta al processo per direttissima che sentenzia la morte per impiccagione del giovane marinaio. Il dramma interiore di Billy replica dunque l'esito negativo della rivoluzione in Europa: la rivoluzione è in questo senso come un "violento accesso di febbre contagiosa", destinato a scomparire "in un organismo costituzionalmente sano, che non tarderà a vincerla". Non viene però meno la speranza: quella della rivoluzione sembra una storia senza fine perché Edward Coke e William Blackstone – i due grandi giuristi del common law inglese che sono oggetto della violenta critica painita contro la costituzione inglese – "non riescono a far luce nei recessi oscuri dell'animo umano". Rimane dunque uno spiraglio, un angolo nascosto dal quale continua a emergere uno spirito rivoluzionario. Per questo non esistono cure senza effetti collaterali, non esiste ordine senza l'ipoteca del ricorso alla forza contro l'insurrezione: c'è chi come l'ufficiale che condanna Billy diviene baronetto di sua maestà, c'è chi come Billy viene impiccato, c'è chi come Paine viene raffigurato come un alcolizzato e impotente, disonesto e depravato, da relegare sul fondo della storia atlantica. Eppure niente più del materiale denigratorio pubblicato contro Paine ne evidenzia il grande successo. Il problema che viene sollevato dalle calunniose biografie edite tra fine Settecento e inizio Ottocento è esattamente quello del trionfo dell'autore di Common Sense e Rights of Man nell'aver promosso, spiegato e tramandato la rivoluzione come sfida democratica che è ancora possibile vincere in America come in Europa. Sono proprio le voci dei suoi detrattori – americani, inglesi e francesi – a mostrare che la dimensione nella quale è necessario leggere Paine è quella del mondo atlantico. Assumendo una prospettiva atlantica, ovvero ricostruendo la vicenda politica e intellettuale di Paine da una sponda all'altra dell'oceano, è possibile collegare ciò che Paine dice in spazi e tempi diversi in modo da segnalare la presenza costante sulla scena politica di quei soggetti che – come i marinai protagonisti dell'ammutinamento – segnalano il mancato compimento delle speranze aperte dall'esperienza rivoluzionaria. Limitando la ricerca al processo di costruzione della nazione politica, scegliendo di riassumerne il pensiero politico nell'ideologia americana, nella vicenda costituzionale francese o nel contesto politico inglese, le ricerche su Paine non sono riuscite fino in fondo a mostrare la grandezza di un autore che risulta ancora oggi importante: la sua produzione intellettuale è talmente segnata dalle vicende rivoluzionarie che intessono la sua biografia da fornire la possibilità di studiare quel lungo periodo di trasformazione sociale e politica che investe non una singola nazione, ma l'intero mondo atlantico nel corso della rivoluzione. Attraverso Paine è allora possibile superare quella barriera che ha diviso il dibattito storiografico tra chi ha trovato nella Rivoluzione del 1776 la conferma del carattere eccezionale della nazione americana – fin dalla sua origine rappresentata come esente dalla violenta conflittualità che invece investe il vecchio continente – e chi ha relegato il 1776 a data di secondo piano rispetto al 1789, individuando nell'illuminismo la presunta superiorità culturale europea. Da una sponda all'altra dell'Atlantico, la storiografia ha così implicitamente alzato un confine politico e intellettuale tra Europa e America, un confine che attraverso Paine è possibile valicare mostrandone la debolezza. Parlando di prospettiva atlantica, è però necessario sgombrare il campo da possibili equivoci: attraverso Paine, non intendiamo stabilire l'influenza della Rivoluzione americana su quella francese, né vogliamo mostrare l'influenza del pensiero politico europeo sulla Rivoluzione americana. Non si tratta cioè di stabilire un punto prospettico – americano o europeo – dal quale leggere Paine. L'obiettivo non è quello di sottrarre Paine agli americani per restituirlo agli inglesi che l'hanno tradito, condannandolo virtualmente a morte. Né è quello di confermare l'americanismo come suo unico lascito culturale e politico. Si tratta piuttosto di considerare il mondo atlantico come l'unico scenario nel quale è possibile leggere Paine. Per questo, facendo riferimento al complesso filone storiografico dell'ultimo decennio, sviluppato in modo diverso da Bernard Bailyn a Markus Rediker e Peter Linebaugh, parliamo di rivoluzione atlantica. Certo, Paine vede fallire nell'esperienza del Terrore quella rivoluzione che in America ha trionfato. Ciò non costituisce però un elemento sufficiente per riproporre l'interpretazione arendtiana della rivoluzione che, sulla scorta della storiografia del consenso degli anni cinquanta, ma con motivi di fascino e interesse che non sempre ritroviamo in quella storiografia, ha contribuito ad affermare un 'eccezionalismo' americano anche in Europa, rappresentando gli americani alle prese con il problema esclusivamente politico della forma di governo, e i francesi impegnati nel rompicapo della questione sociale della povertà. Rompicapo che non poteva non degenerare nella violenza francese del Terrore, mentre l'America riusciva a istituire pacificamente un nuovo governo rappresentativo facendo leva su una società non conflittuale. Attraverso Paine, è infatti possibile mostrare come – sebbene con intensità e modalità diverse – la rivoluzione incida sul processo di trasformazione commerciale della società che investe l'intero mondo atlantico. Nel suo andirivieni da una sponda all'altra dell'oceano, Paine non ragiona soltanto sulla politica – sulla modalità di organizzare una convivenza democratica attraverso la rappresentanza, convivenza che doveva trovare una propria legittimazione nel primato della costituzione come norma superiore alla legge stabilita dal popolo. Egli riflette anche sulla società commerciale, sui meccanismi che la muovono e le gerarchie che la attraversano, mostrando così precise linee di continuità che tengono insieme le due sponde dell'oceano non solo nella circolazione del linguaggio politico, ma anche nella comune trasformazione sociale che investe i termini del commercio, del possesso della proprietà e del lavoro, dell'arricchimento e dell'impoverimento. Con Paine, America e Europa non possono essere pensate separatamente, né – come invece suggerisce il grande lavoro di Robert Palmer, The Age of Democratic Revolution – possono essere inquadrate dentro un singolo e generale movimento rivoluzionario essenzialmente democratico. Emergono piuttosto tensioni e contraddizioni che investono il mondo atlantico allontanando e avvicinando continuamente le due sponde dell'oceano come due estremità di un elastico. Per questo, parliamo di società atlantica. Quanto detto trova conferma nella difficoltà con la quale la storiografia ricostruisce la figura politica di Paine dentro la vicenda rivoluzionaria americana. John Pocock riconosce la difficoltà di comprendere e spiegare Paine, quando sostiene che Common Sense non evoca coerentemente nessun prestabilito vocabolario atlantico e la figura di Paine non è sistemabile in alcuna categoria di pensiero politico. Partendo dal paradigma classico della virtù, legata antropologicamente al possesso della proprietà terriera, Pocock ricostruisce la permanenza del linguaggio repubblicano nel mondo atlantico senza riuscire a inserire Common Sense e Rights of Man nello svolgimento della rivoluzione. Sebbene non esplicitamente dichiarata, l'incapacità di comprendere il portato innovativo di Common Sense, in quella che è stata definita sintesi repubblicana, è evidente anche nel lavoro di Bernard Bailyn che spiega come l'origine ideologica della rivoluzione, radicata nella paura della cospirazione inglese contro la libertà e nel timore della degenerazione del potere, si traduca ben presto in un sentimento fortemente contrario alla democrazia. Segue questa prospettiva anche Gordon Wood, secondo il quale la chiamata repubblicana per l'indipendenza avanzata da Paine non parla al senso comune americano, critico della concezione radicale del governo rappresentativo come governo della maggioranza, che Paine presenta quando partecipa al dibattito costituzionale della Pennsylvania rivoluzionaria. Paine è quindi considerato soltanto nelle risposte repubblicane dei leader della guerra d'indipendenza che temono una possibile deriva democratica della rivoluzione. Paine viene in questo senso dimenticato. La sua figura è invece centrale della nuova lettura liberale della rivoluzione: Joyce Appleby e Isaac Kramnick contestano alla letteratura repubblicana di non aver compreso che la separazione tra società e governo – la prima intesa come benedizione, il secondo come male necessario – con cui si apre Common Sense rappresenta il tentativo riuscito di cogliere, spiegare e tradurre in linguaggio politico l'affermazione del capitalismo. In particolare, Appleby critica efficacemente il concetto d'ideologia proposto dalla storiografia repubblicana, perché presuppone una visione statica della società. L'affermazione del commercio fornirebbe invece quella possibilità di emancipazione attraverso il lavoro libero, che Paine coglie perfettamente promuovendo una visione della società per la quale il commercio avrebbe permesso di raggiungere la libertà senza il timore della degenerazione della rivoluzione nel disordine. Questa interpretazione di Paine individua in modo efficace un aspetto importante del suo pensiero politico, la sua profonda fiducia nel commercio come strumento di emancipazione e progresso. Tuttavia, non risulta essere fino in fondo coerente e pertinente, se vengono prese in considerazione le diverse agende politiche avanzate in seguito alla pubblicazione di Common Sense e di Rights of Man, né sembra reggere quando prendiamo in mano The Agrarian Justice (1797), il pamphlet nel quale Paine mette in discussione la sua profonda fiducia nel progresso della società commerciale. Diverso è il Paine che emerge dalla storiografia bottom-up, secondo la quale la rivoluzione non può più essere ridotta al momento repubblicano o all'affermazione senza tensione del liberalismo: lo studio della rivoluzione deve essere ampliato fino a comprendere quell'insieme di pratiche e discorsi che mirano all'incisiva trasformazione dell'esistente slegando il diritto di voto dalla qualifica proprietaria, perseguendo lo scopo di frenare l'accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi con l'intento di ordinare la società secondo una logica di maggiore uguaglianza. Come dimostrano Eric Foner e Gregory Claeys, attraverso Paine è allora possibile rintracciare, sulla sponda americana come su quella inglese dell'Atlantico, forti pretese democratiche che non sembrano riducibili al linguaggio liberale, né a quello repubblicano. Paine viene così sottratto a rigide categorie storiografiche che per troppo tempo l'hanno consegnato tout court all'elogio del campo liberale o al silenzio di quello repubblicano. Facendo nostra la metodologia di ricerca elaborata dalla storiografia bottom-up per tenere insieme storia sociale e storia intellettuale, possiamo allora leggere Paine non solo per parlare di rivoluzione atlantica, ma anche di società atlantica: società e politica costituiscono un unico orizzonte d'indagine dal quale esce ridimensionata l'interpretazione della rivoluzione come rivoluzione esclusivamente politica, che – sebbene in modo diverso – tanto la storiografia repubblicana quanto quella liberale hanno rafforzato, alimentando indirettamente l'eccezionale successo americano contro la clamorosa disfatta europea. Entrambe le sponde dell'Atlantico mostrano una società in transizione: la costruzione della finanza nazionale con l'istituzione del debito pubblico e la creazione delle banche, la definizione delle forme giuridiche che stabiliscono modalità di possesso e impiego di proprietà e lavoro, costituiscono un complesso strumentario politico necessario allo sviluppo del commercio e al processo di accumulazione di ricchezza. Per questo, la trasformazione commerciale della società è legata a doppio filo con la rivoluzione politica. Ricostruire il modo nel quale Paine descrive e critica la società da una sponda all'altra dell'Atlantico mostra come la separazione della società dal governo non possa essere immediatamente interpretata come essenza del liberalismo economico e politico. La lettura liberale rappresenta senza ombra di dubbio un salto di qualità nell'interpretazione storiografica perché spiega in modo convincente come Paine traduca in discorso politico il passaggio da una società fortemente gerarchica come quella inglese, segnata dalla condizione di povertà e miseria comune alle diverse figure del lavoro, a una realtà sociale come quella americana decisamente più dinamica, dove il commercio e le terre libere a ovest offrono ampie possibilità di emancipazione e arricchimento attraverso il lavoro libero. Tuttavia, leggendo The Case of Officers of Excise (1772) e ricostruendo la sua attività editoriale alla guida del Pennsylvania Magazine (1775) è possibile giungere a una conclusione decisamente più complessa rispetto a quella suggerita dalla storiografia liberale: il commercio non sembra affatto definire una qualità non conflittuale del contesto atlantico. Piuttosto, nonostante l'assenza dell'antico ordine 'cetuale' europeo, esso investe la società di una tendenza alla trasformazione, la cui direzione, intensità e velocità dipendono anche dall'esito dello scontro politico in atto dentro la rivoluzione. Spostando l'attenzione su figure sociali che in quella letteratura sono di norma relegate in secondo piano, Paine mira infatti a democratizzare la concezione del commercio indicando nell'indipendenza personale la condizione comune alla quale poveri e lavoratori aspirano: per chi è coinvolto in prima persona nella lotta per l'indipendenza, la visione della società non indica allora un ordine naturale, dato e immutabile, quanto una scommessa sul futuro, un ideale che dovrebbe avviare un cambiamento sociale coerente con le diverse aspettative di emancipazione. Senza riconoscere questa valenza democratica del commercio non è possibile superare il consenso come presupposto incontestabile della Rivoluzione americana, nel quale tanto la storiografia repubblicana quanto quella librale tendono a cadere: non è possibile superare l'immagine statica della società americana, implicitamente descritta dalla prima, né andare oltre la visione di una società dinamica, ma priva di gerarchie e oppressione, come quella delineata dalla seconda. Le entusiastiche risposte e le violente critiche in favore e contro Common Sense, la dura polemica condotta in difesa o contro la costituzione radicale della Pennsylvania, la diatriba politica sul ruolo dei ricchi mercanti mostrano infatti una società in transizione lungo linee che sono contemporaneamente politiche e sociali. Dentro questo contesto conflittuale, repubblicanesimo e liberalismo non sembrano affatto competere l'uno contro l'altro per esercitare un'influenza egemone nella costruzione del governo rappresentativo. Vengono piuttosto mescolati e ridefiniti per rispondere alla pretese democratiche che provengono dalla parte bassa della società. Common Sense propone infatti un piano politico per l'indipendenza del tutto innovativo rispetto al modo nel quale le colonie hanno fino a quel momento condotto la controversia con la madre patria: la chiamata della convenzione rappresentativa di tutti gli individui per scrivere una nuova costituzione assume le sembianze di un vero e proprio potere costituente. Con la mobilitazione di ampie fasce della popolazione per vincere la guerra contro gli inglesi, le élite mercantili e proprietarie perdono il monopolio della parola e il processo decisionale è aperto anche a coloro che non hanno avuto voce nel governo coloniale. La dottrina dell'indipendenza assume così un carattere democratico. Paine non impiega direttamente il termine, tuttavia le risposte che seguono la pubblicazione di Common Sense lanciano esplicitamente la sfida della democrazia. Ciò mostra come la rivoluzione non possa essere letta semplicemente come affermazione ideologica del repubblicanesimo in continuità con la letteratura d'opposizione del Settecento britannico, o in alternativa come transizione non conflittuale al liberalismo economico e politico. Essa risulta piuttosto comprensibile nella tensione tra repubblicanesimo e democrazia: se dentro la rivoluzione (1776-1779) Paine contribuisce a democratizzare la società politica americana, allora – ed è questo un punto importante, non sufficientemente chiarito dalla storiografia – il recupero della letteratura repubblicana assume il carattere liberale di una strategia tesa a frenare le aspettative di chi considera la rivoluzione politica come un mezzo per superare la condizione di povertà e le disuguaglianze che pure segnano la società americana. La dialettica politica tra democrazia e repubblicanesimo consente di porre una questione fondamentale per comprendere la lunga vicenda intellettuale di Paine nella rivoluzione atlantica e anche il rapporto tra trasformazione sociale e rivoluzione politica: è possibile sostenere che in America la congiunzione storica di processo di accumulazione di ricchezza e costruzione del governo rappresentativo pone la società commerciale in transizione lungo linee capitalistiche? Questa non è certo una domanda che Paine pone esplicitamente, né in Paine troviamo una risposta esaustiva. Tuttavia, la sua collaborazione con i ricchi mercanti di Philadelphia suggerisce una valida direzione di indagine dalla quale emerge che il processo di costruzione del governo federale è connesso alla definizione di una cornice giuridica entro la quale possa essere realizzata l'accumulazione del capitale disperso nelle periferie dell'America indipendente. Paine viene così coinvolto in un frammentato e dilatato scontro politico dove – nonostante la conclusione della guerra contro gli inglesi nel 1783 – la rivoluzione non sembra affatto conclusa perché continua a muovere passioni che ostacolano la costruzione dell'ordine: leggere Paine fuori dalla rivoluzione (1780-1786) consente paradossalmente di descrivere la lunga durata della rivoluzione e di considerare la questione della transizione dalla forma confederale a quella federale dell'unione come un problema di limiti della democrazia. Ricostruire la vicenda politica e intellettuale di Paine in America permette infine di evidenziare un ambiguità costitutiva della società commerciale dentro la quale il progetto politico dei ricchi mercanti entra in tensione con un'attitudine popolare critica del primo processo di accumulazione che rappresenta un presupposto indispensabile all'affermazione del capitalismo. La rivoluzione politica apre in questo senso la società commerciale a una lunga e conflittuale transizione verso il capitalismo Ciò risulta ancora più evidente leggendo Paine in Europa (1791-1797). Da una sponda all'altra dell'Atlantico, con Rights of Man egli esplicita ciò che in America ha preferito mantenere implicito, pur raccogliendo la sfida democratica lanciata dai friend of Common Sense: il salto in avanti che la rivoluzione atlantica deve determinare nel progresso dell'umanità è quello di realizzare la repubblica come vera e propria democrazia rappresentativa. Tuttavia, il fallimento del progetto politico di convocare una convenzione nazionale in Inghilterra e la degenerazione dell'esperienza repubblicana francese nel Terrore costringono Paine a mettere in discussione quella fiducia nel commercio che la storiografia liberale ha con grande profitto mostrato: il mancato compimento della rivoluzione in Europa trova infatti spiegazione nella temporanea impossibilità di tenere insieme democrazia rappresentativa e società commerciale. Nel contesto europeo, fortemente disgregato e segnato da durature gerarchie e forti disuguaglianze, con The Agrarian Justice, Paine individua nel lavoro salariato la causa del contraddittorio andamento – di arricchimento e impoverimento – dello sviluppo economico della società commerciale. La tendenza all'accumulazione non è quindi l'unica qualità della società commerciale in transizione. Attraverso Paine, possiamo individuare un altro carattere decisivo per comprendere la trasformazione sociale, quello dell'affermazione del lavoro salariato. Non solo in Europa. Al ritorno in America, Paine non porta con sé la critica della società commerciale. Ciò non trova spiegazione esclusivamente nel minor grado di disuguaglianza della società americana. Leggendo Paine in assenza di Paine (1787-1802) – ovvero ricostruendo il modo nel quale dall'Europa egli discute, critica e influenza la politica americana – mostreremo come la costituzione federale acquisisca gradualmente la supremazia sulla conflittualità sociale. Ciò non significa che l'America indipendente sia caratterizzata da un unanime consenso costituzionale. Piuttosto, è segnata da un lungo e tortuoso processo di stabilizzazione che esclude la democrazia dall'immediato orizzonte della repubblica americana. Senza successo, Paine torna infatti a promuovere una nuova sfida democratica come nella Pennsylvania rivoluzionaria degli anni settanta. E' allora possibile vedere come la rivoluzione atlantica venga stroncata su entrambe le sponde dell'oceano: i grandi protagonisti della politica atlantica che prendono direttamente parola contro l'agenda democratica painita – Edmund Burke, Boissy d'Anglas e John Quincy Adams – spostano l'attenzione dal governo alla società per rafforzare le gerarchie determinate dal possesso di proprietà e dall'affermazione del lavoro salariato. Dentro la rivoluzione atlantica, viene così svolto un preciso compito politico, quello di contribuire alla formazione di un ambiente sociale e culturale favorevole all'affermazione del capitalismo – dalla trasformazione commerciale della società alla futura innovazione industriale. Ciò emerge in tutta evidenza quando sulla superficie increspata dell'oceano Atlantico compare nuovamente Paine: a Londra come a New York. Abbandonando quella positiva visione del commercio come vettore di emancipazione personale e collettiva, nel primo trentennio del diciannovesimo secolo, i lavoratori delle prime manifatture compongono l'agenda radicale che Paine lascia in eredità in un linguaggio democratico che assume così la valenza di linguaggio di classe. La diversa prospettiva politica sulla società elaborata da Paine in Europa torna allora d'attualità, anche in America. Ciò consente in conclusione di discutere quella storiografia secondo la quale nella repubblica dal 1787 al 1830 il trionfo della democrazia ha luogo – senza tensione e conflittualità – insieme con la lineare e incontestata affermazione del capitalismo: leggere Paine nella rivoluzione atlantica consente di superare quell'approccio storiografico che tende a ricostruire la circolazione di un unico paradigma linguistico o di un'ideologia dominante, finendo per chiudere la grande esperienza rivoluzionaria atlantica in un tempo limitato – quello del 1776 o in alternativa del 1789 – e in uno spazio chiuso delimitato dai confini delle singole nazioni. Quello che emerge attraverso Paine è invece una società atlantica in transizione lungo linee politiche e sociali che tracciano una direzione di marcia verso il capitalismo, una direzione affatto esente dal conflitto. Neanche sulla sponda americana dell'oceano, dove attraverso Paine è possibile sottolineare una precisa congiunzione storica tra rivoluzione politica, costruzione del governo federale e transizione al capitalismo. Una congiunzione per la quale la sfida democratica non risulta affatto sconfitta: sebbene venga allontanata dall'orizzonte immediato della rivoluzione, nell'arco di neanche un ventennio dalla morte di Paine nel 1809, essa torna a muovere le acque dell'oceano – con le parole di Melville – come un violento accesso di febbre contagiosa destinato a turbare l'organismo costituzionalmente sano del mondo atlantico. Per questo, come scrive John Adams nel 1805 quella che il 1776 apre potrebbe essere chiamata "the Age of Folly, Vice, Frenzy, Brutality, Daemons, Buonaparte -…- or the Age of the burning Brand from the Bottomless Pit". Non può però essere chiamata "the Age of Reason", perché è l'epoca di Paine: "whether any man in the world has had more influence on its inhabitants or affairs for the last thirty years than Tom Paine" -…- there can be no severer satyr on the age. For such a mongrel between pig and puppy, begotten by a wild boar on a bitch wolf, never before in any age of the world was suffered by the poltroonery of mankind, to run through such a career of mischief. Call it then the Age of Paine".
Este trabajo estudia y analiza parte de la filosofía política de Niccolò Machiavelli (1469-1527), Francesco Guicciardini (1483-1540) y Donato Giannotti (1492-1573) en lo que tiene que ver con el republicanismo y la reforma institucional y política de Florencia. La investigación se centra en las ideas políticas de estos autores y en sus análisis y reflexiones sobre las instituciones republicanas. Estos filósofos florentinos se ocuparon de examinar los diversos tipos de Estado, las formas de gobierno y su realidad política con las miras puestas en la reforma de Florencia, especialmente a partir de la salida de los Médici del gobierno de Florencia en 1494 y su vuelta en 1512. Cada uno a su modo profundiza acerca de la realidad de la política florentina con una perspectiva histórica más o menos amplia y profunda. Los tres tienen una visión negativa del ser humano, al considerar que los hombres solo actúan bien por necesidad, por lo que se hacen necesarias instituciones y leyes que contrapesen dicha maldad e impidan la acumulación de poder. El objetivo principal del trabajo consiste en analizar la parte de la teoría política de estos autores relacionada con el republicanismo y el problema de Florencia y su reforma institucional, al objeto de comprender los cambios y reformas que propone este republicanismo cívico en la situación particular que atravesaba Florencia, principalmente desde la república de 1494 y a partir de la vuelta de los Médici en 1512 en el caso de Maquiavelo y Guicciardini, y también a partir de 1527 con la vuelta de la breve república que terminó en 1530 en el caso de Giannotti. Las obras que se analizan son los Discursos sobre la primera década de Tito Livio de Maquiavelo; el Discurso de Logroño, los Recuerdos, el Diálogo del gobierno de Florencia de Guicciardini y la República de Florencia de Giannotti. Los autores reflexionan sobre la posibilidad de un tiempo nuevo para re-vivir a su ciudad a partir de un análisis del pasado, esto es, plantean una serie de reformas necesarias con el objetivo de renovar las instituciones florentinas a fin de generar los cambios necesarios para el Estado. Las enseñanzas de estos cives florentini en todos los casos implican reorganización institucional y novedades para la libertad y el futuro de una ciudad que adolece de instituciones corruptas y malas costumbres. Maquiavelo, en los Discorsi, no se refiere tanto al análisis y cambio de las instituciones florentinas y a su –posible– reforma de una manera directa como lo hacen Guicciardini y Giannotti, sin embargo, en los textos del que fuera secretario de la segunda Cancillería de la República de Florencia se encuentran los fundamentos teóricos elaborados a partir de su experiencia política y de la historia antigua, y en concreto de las instituciones romanas que en tantos aspectos considera ejemplares y que servirían de modelo para refundar eventualmente Florencia. Subdividimos el pensamiento de Maquiavelo al respecto en tres capítulos, dedicados a la política interior, la política exterior y las relaciones entre ambas. Francesco Guicciardini, por su parte, en 1512 comienza a escribir en España su discurso Del modo di ordinari il governo popolare, también conocido como Discurso de Logroño, donde propone una serie de reformas necesarias para Florencia ante la situación de corrupción política en la que estaba envuelta la república en 1494. Tanto su Diálogo como sus Ricordi los escribió en un arco temporal más amplio; en el primero reflexiona sobre los problemas políticos del gobierno popular de 1494, al modo de un diálogo platónico donde en un primer momento compara los problemas institucionales del gobierno popolare con el gobierno de los Médici. En un segundo momento realiza su propuesta de reforma del gobierno popular en una república bien ordenada con un Confaloniero vitalicio, una Señoría, un Consejo Intermedio y el Gran Consejo donde todos los ciudadanos podrían participar según sus capacidades y en justo equilibrio para el buen funcionamiento de esa república. Esto quiere decir que se hace necesario que los hombres sabios y más virtuosos ocupen indefectiblemente un lugar preeminente en esa república para la deliberación, aunque la toma de decisiones final en algunos casos esté en manos del Gran Consejo. Giannotti, en La República de Florencia, desarrolla un análisis sistemático de los problemas pasados de las repúblicas de su ciudad en 1512 y 1527, un auténtico examen exhaustivo de los errores cometidos y que propiciaron el retorno de los Médici a la ciudad y, por ende, la vuelta a la tiranía. A partir de esos equívocos propone una serie de reformas profundas para que, cuando eventualmente se constituya la próxima república, Florencia pueda mantener su libertad para siempre. Estas reformas siguen la línea maquiaveliana y guicciardiniana: Confaloniero vitalicio, Señoría, Senado, Colegios y Gran Consejo. Los tres florentinos insisten en la necesidad de que la república pueda conservar sus dominios y, por lo tanto, debe estar en condiciones para defenderlos y defenderse a sí misma llegado el caso. Las instituciones republicanas se mantendrán, en última instancia, como lo hicieran las romanas, gracias a la fuerza militar, con una política basada en un ejército propio. Dar armas e instruir a los ciudadanos será el mejor modo de defenderse y organizar internamente al Estado. La conclusión principal que se extrae del análisis de estos autores son tres principios fundamentales y básicos que comparten: 1) el realismo político (una política basada en el ser en lugar de en el deber ser, a partir de análisis empíricos e históricos con descripción y evaluación de la situación de Florencia y de su historia), 2) la propuesta de reformas profundas de las instituciones y 3) un nuevo patriotismo cívico republicano (la conservación de las instituciones depende de la responsabilidad de todos los ciudadanos con disponibilidad y capacidad para servir al bien común). Otras conclusiones significativas de este trabajo tienen que ver con la necesidad del gobierno mixto y la separación de poderes para la reforma del Estado florentino, con la finalidad de que puedan participar todos los ciudadanos según su capacidad y en igualdad de condiciones; con el pueblo como órgano garante y controlador del poder, a fin de evitar su acumulación en pocas manos; el deseo de libertad de la ciudad, patente en la igualdad ante la ley y en la importancia concedida a la seguridad y la tranquilidad, a las que se aspira a preservar de las arbitrariedades. En los tres autores se profundiza en la realidad política a partir de tres vértices o conceptos fundamentales para el pensamiento filosófico en general y para la filosofía política en particular como son historia, experiencia y razón. ; Questa tesi di dottorato studia e analizza parte della filosofia politica di Niccolò Machiavelli (1469-1527), Francesco Guicciardini (1483-1540) e Donato Giannotti (1492-1573) in relazione al repubblicanesimo e alla riforma istituzionale e politica a di Firenze. La ricerca si concentra sulle idee politiche di questi autori e sulle loro analisi e riflessioni intorno alle istituzioni repubblicane. Questi filosofi fiorentini si preoccuparono di esaminare i vari tipi di stato, le forme di governo e la loro realtà politica in vista della riforma di Firenze, soprattutto dopo la partenza dei Medici dal governo di Firenze nel 1494 e il loro ritorno nel 1512. Ognuno scava a suo modo nella realtà della politica fiorentina con una prospettiva storica più o meno ampia e profonda. Tutti e tre hanno una visione negativa dell'essere umano, considerando che gli uomini agiscono bene solo per necessità, per cui sono necessarie istituzioni e leggi per controbilanciare questo male e impedire l'accumulo di potere. L'obiettivo principale di questo lavoro è analizzare la parte della teoria politica di questi autori legata al repubblicanesimo e al problema di Firenze e della sua riforma istituzionale, per capire i cambiamenti e le riforme proposte da questo repubblicanesimo civico nella particolare situazione che Firenze stava attraversando, principalmente dalla repubblica del 1494 e dal ritorno dei Medici nel 1512 nel caso di Machiavelli e Guicciardini, e anche dal 1527 con il ritorno della breve repubblica che finì nel 1530 nel caso di Giannotti. Le opere analizzate sono i Discorsi di Machiavelli sulla prima decade di Tito Livio; il Discorso de Logrogno, le Ricordi, il Dialogo del reggimento di Firenze di Guicciardini e Della Republica fiorentina, di Giannotti. Gli autori riflettono sulla possibilità di un nuovo tempo per far rivivere la loro città a partire da un'analisi del passato, cioè propongono una serie di riforme necessarie con l'obiettivo di rinnovare le istituzioni fiorentine per generare i cambiamenti necessari allo Stato. Gli insegnamenti di questi cives florentini implicano in tutti i casi una riorganizzazione istituzionale e delle novità per la libertà e il futuro di una città che soffre la corruzione delle istituzioni e dei costumi. Machiavelli, nei Discorsi, non si riferisce in modo tanto diretto all'analisi e al cambiamento delle istituzioni fiorentine e alla loro –possibile– riforma quanto Guicciardini e Giannotti. Tuttavia, nei testi del già segretario della seconda cancelleria della Repubblica di Firenze troviamo le basi teoriche elaborate a partire dalla sua esperienza politica nonché dalla storia antica, e specificamente dalle istituzioni romane che per tanti aspetti considera esemplari e che potrebbero servire eventualmente come modello per rifondare Firenze. A questo proposito, suddividiamo il pensiero di Machiavelli in tre capitoli, dedicati alla politica interna, alla politica estera e alle relazioni tra le due. Francesco Guicciardini, da parte sua, iniziò a scrivere in Spagna nel 1512 il suo discorso Del modo di ordinare il governo popolare, noto anche come Discorso de Logrogno, dove propone una serie di riforme necessarie per Firenze di fronte alla situazione di corruzione politica in cui si trovava la repubblica nel 1494. Sia il suo Dialogo sia i suoi Ricordi sono stati scritti in un arco temporale più ampio; nel primo riflette sui problemi politici del governo popolare del 1494, alla maniera di un dialogo platonico dove prima confronta i problemi istituzionali del governo popolare con il governo dei Medici. In un secondo momento fa la sua proposta di riforma del governo popolare in una repubblica ben ordinata con un Confaloniere a vita, una Signoria, un Consiglio Intermedio e il Consiglio maggiore dove tutti i cittadini potrebbero partecipare secondo le loro capacità e in un giusto equilibrio per il buon funzionamento di quella repubblica. Ciò significa che è necessario che gli uomini più saggi e virtuosi occupino immancabilmente un posto preminente in quella repubblica per deliberare, anche se la decisione finale in alcuni casi è nelle mani del Consiglio maggiore. Giannotti, ne Della Republica fiorentina, sviluppa un'analisi sistematica dei problemi passati delle repubbliche della sua città nel 1512 e nel 1527, un esame veramente esaustivo degli errori che portarono al ritorno dei Medici in città e quindi al ritorno alla tirannia. Da questi errori propone una serie di riforme di vasta portata in modo che, quando la prossima repubblica sarà formata, Firenze possa mantenere la sua libertà per sempre. Queste riforme seguono linee machiavelliche e guicciardiniane: Confaloniere a vita, Signoria, Senato, Collegi e Consiglio maggiore. I tre fiorentini insistono sulla necessità che la repubblica sia in grado di conservare i suoi domini e, quindi, di essere in grado di difenderli e di difendersi in caso di necessità. Le istituzioni repubblicane sarebbero state infine mantenute, come quelle romane, grazie alla forza militare, con una politica basata su un esercito proprio. Dare armi e istruire i cittadini sarebbe il modo migliore per difendere e organizzare lo stato all'interno. La principale conclusione da trarre dall'analisi di questi autori sono tre principi fondamentali e basilari che condividono: 1) il realismo politico (una politica basata sull'essere piuttosto che sul dover essere, basata sull'analisi empirica e storica con descrizione e valutazione della situazione di Firenze e della sua storia), 2) la proposta di profonde riforme delle istituzioni e 3) un nuovo patriottismo civico repubblicano (la conservazione delle istituzioni dipende dalla responsabilità di tutti i cittadini con disponibilità e capacità di servire il bene comune). Altre conclusioni significative di quest'opera riguardano la necessità del governo misto e della separazione dei poteri per la riforma dello Stato fiorentino, con l'obiettivo di permettere a tutti i cittadini di partecipare secondo le loro capacità e in condizioni di parità; con il popolo come organo di garanzia e controllo del potere, per evitare il suo accumulo nelle mani di pochi; con il desiderio di libertà della città, evidente nell'uguaglianza davanti alla legge e nell'importanza data alla sicurezza e alla tranquillità, le quali si aspira a conservare libere da ogni arbitrarietà. In tutti e tre gli autori, la realtà politica viene approfondita a partire da tre concetti fondamentali per il pensiero filosofico in generale e per la filosofia politica in particolare: storia, esperienza e ragione.
2008/2009 ; 1. Il mercato finanziario ed il risparmio costituiscono valori costituzionalmente significativi, data l'importanza che rivestono per il tessuto economico e finanziario di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata, come quella contemporanea, sempre più caratterizzata da un processo di finanziarizzazione della ricchezza. L'assetto normativo e regolamentare, che deve presiedere al funzionamento del mercato ed alla gestione del risparmio, è storicamente caratterizzato dal tentativo di ricercare un equilibrio tra due opposte esigenze: da una parte, quella di evitare il rischio di un'ipertrofia normativa e di un conseguente eccessivo soffocamento del mercato; dall'altra, quella di offrire ai risparmiatori un livello di protezione qualitativamente sufficiente per preservare la fiducia che gli stessi ripongono nell'integrità e nel corretto funzionamento del mercato stesso. Muovendo dalla consapevolezza che l'attività di intermediazione finanziaria deve essere promossa e valorizzata perché essenziale allo sviluppo di una moderna economia di mercato ma che, per la sua intrinseca fragilità e connaturata rischiosità, non può essere integralmente lasciata alla mercé delle dinamiche di quest'ultimo, necessitando invece di un intervento di eteroregolamentazione finalizzato alla protezione di interessi individuali e collettivi previamente selezionati. 2. A partire dagli anni novanta l'ordinamento dei mercati finanziari è stato interessato dal succedersi di vari interventi normativi, da ultimo quelli operati con le leggi n. 62 e n. 262 del 2005. Nel complesso, si è trattato di una produzione normativa tumultuosa e disorganica, sovente emanata sull'onda dell'emergenza per reagire ai ripetuti fenomeni di "abuso del risparmio e dei risparmiatori" che hanno duramente colpito la finanza italiana ed internazionale nell'ultimo decennio (si pensi, solo per citarne alcune, alle vicende Enron, Cirio, Parmalat, Giacomelli, Lehman Brothers ecc.). In questo frenetico ed estemporaneo procedere normativo, un ruolo di primo piano è stato svolto dal diritto penale, per la tendenza, ormai radicata, del legislatore nazionale di affidare la tutela del risparmio alla presunta forza deterrente della sanzione penale, spesso usata in chiave espressiva o simbolica, in una sorta di delega permanente conferita allo strumento penalistico a fungere da principale, se non spesso esclusivo, rimedio alla crisi del sistema finanziario ed ai fenomeni di dispersione della ricchezza. Si tratta, all'evidenza, di una visione miope e destinata all'insuccesso, prova ne siano i ripetuti tentativi di riforma occorsi nell'ultimo ventennio, dettati più dall'improvvisazione che da una logica di razionalità sistematica, tutti nel segno di un infittimento del corpo normativo e di una revisione al rialzo dei limiti edittali e tutti clamorosamente e prevedibilmente incapaci di impedire il verificarsi di casi di vero e proprio saccheggio e distruzione del risparmio gestito. La situazione è resa ancor più grave dal fatto che i tanti - troppi - fatti di dispersione della ricchezza dei risparmiatori non possono più essere considerati come scandali finanziari isolati, come semplici big apples, rappresentando, invece, l'espressione ed il risultato di una crisi di sistema che colpisce le fondamenta dell'ordinamento e della struttura finanziaria internazionale. Facendo apparire quanto mai illusoria l'idea di reagire affidandosi alle virtù salvifiche del mercato terapeuta di se stesso ed erronea la soluzione di continuare nel solco di un irrigidimento estemporaneo della normativa penalistica e della relativa cornice sanzionatoria, senza che ciò venga accompagnato da una diagnosi attenta ed analitica dei mali del sistema e da una ricognizione altrettanto puntuale dei rimedi da adottare. Quale, allora, la via d'uscita? 3. Quella di avviare, nell'immediato, un importante processo di riforma dell'ordinamento finanziario, facendolo precedere da una riflessione di fondo sul tipo di mercato finanziario che si intende prediligere: un mercato dove prevale, in termini assoluti e senza mediazioni, la necessità di una difesa del singolo risparmiatore, che si realizza garantendo un mercato contraddistinto da una tendenziale parità di condizioni tra gli investitori e da una tutela indistinta e piena delle funzioni di vigilanza, la quale verrebbe assicurata sanzionando le violazioni e le inosservanze a canoni positivi spesso solo formali od organizzatori? Oppure, un mercato inteso prioritariamente come luogo di libero scambio di informazioni e di capitali, che ha in sé e che vive e si nutre della speculazione, salvaguardandone nel contempo la fiducia, la trasparenza e l'integrità mediante la repressione di (e solo di) quei comportamenti di abuso che esauriscono il loro contenuto in una dimensione esclusivamente speculativa? L'attuale diritto del mercato finanziario risulta sostanzialmente conformato al primo dei due modelli sopra indicati: le regole sono spesso il frutto di interventi estemporanei e disorganici, dettate più dall'improvvisazione che da una logica di sistema, in ogni caso formalmente (ma con scarsa effettività pratica) finalizzate a reprimere - spesso stabilendo pene severe e con un uso frequente della strumentazione penalistica - quei comportamenti ritenuti lesivi della parità di condizioni tra gli investitori o di mera trasgressione a prescrizioni di natura prettamente formale ed organizzatoria. La realtà è dunque quella di un corpo normativo che, spesso in nome di un'eguaglianza fra gli investitori o di una simbolica ed eticheggiante difesa del risparmiatore, fa un uso massiccio della sanzione penale per reprimere comportamenti che, il più delle volte, si esauriscono in mere violazioni formali e di canoni organizzativi, esercitando una scarsa efficacia preventiva, com'è dimostrato dalla frequenza con cui si sono verificati, solo a guardare gli ultimi anni, scandali finanziari con gravi danni per i risparmiatori. E tutto questo viene realizzato avvalendosi (e piegando) il diritto penale ad un uso spesso simbolico, eticheggiante, puramente organizzatorio. 4. Si ritiene, invece, quanto mai necessario procedere verso un sistema normativo idoneo a perseguire il fine ultimo di ogni realtà giuridica posta a protezione del mercato finanziario: coniugare efficacemente l'esigenza che il Paese benefici di un mercato libero, non ingessato, capace di attrarre i capitali e gli investimenti a sostegno del circuito produttivo, con la necessità, altrettanto fondamentale, che di quel mercato venga garantito il buon funzionamento, la trasparenza dell'informazione che in esso circola e dunque, in ultima istanza, la fiducia dei risparmiatori. Allontanando ogni istanza egualitaristica ed accettando la speculazione come condizione di esistenza del mercato stesso. Inquadrato l'obiettivo - dovendosi ritenere ormai abbandonata l'idea del mercato quale esclusivo terapeuta di se stesso e presidio migliore della stabilità finanziaria - il suo conseguimento richiede un serio e ponderato processo di ristrutturazione delle regole del gioco poste a presidio del buon funzionamento e dell'integrità del mercato, muovendo lungo alcune direttrici di fondo. 5. Una prima linea guida è nel senso di un definitivo abbandono della strada dell'ipertrofia penalistica, lastricata di norme dalla scarsa effettività pratica e che spesso si esauriscono nel punire mere disfunzionalità organizzative, dando vita ad illeciti di pura disobbedienza in nome di un'idea di funzionalizzazione dell'attività d'impresa. Vi è, dunque, la contingente necessità di porre termine ad una stagione, durata oltre un ventennio, che ha visto la giustizia penale svolgere un ruolo di supplenza rispetto alle lacune dell'ordinamento societario, della giustizia civile, del modello di vigilanza sull'operato degli intermediari, alimentando sovente delle tensioni rispetto ai principi cardine del diritto penale - in primis quelli di frammentarietà, tassatività ed offensività. L'opera di rifacimento delle regole del gioco deve dunque tendere, anzitutto, a restituire al sistema penale degli intermediari finanziari i crismi dell'effettività dei precetti e della coerenza con i principi generali del diritto penale e, da ultimo, la capacità di concorrere efficacemente alla diffusione e al mantenimento di un nucleo condiviso e fondante di valori in materia di gestione del risparmio collettivo. Vanno dunque superati i tradizionali limiti che oggi affliggono il diritto penale del mercato finanziario: l'antisistematicità, vale a dire le disarmonie e le ingiustificate differenze di contenuto e sanzionatorie intercorrenti tra fattispecie relative a settori diversi del mercato finanziario, mediante la creazione di figure di reato omogenee e tendenzialmente comuni ai vari segmenti del risparmio gestito; la tensione con i principi di necessità e sussidiarietà della pena: la sanzione penale dovrebbe essere l'extrema ratio, l'ultima spiaggia cui ricorrere, mentre nel nostro Paese da tempo sembra che sia anche l'unica spiaggia su cui si gioca la difesa del risparmio e degli interessi ad esso strumentali; il basso livello di osservanza dei canoni di tassatività ed offensività, a causa della formulazione spesso vaga ed indefinita delle fattispecie incriminatrici, anche a causa di continui rinvii a qualificazioni extrapenali, e della tendenza ad arretrare la linea di tutela disancorandola da elementi di concreta lesività e costruendola più su finalità di promozione etica che su interessi giuridici aventi i crismi della materialità e dell'afferrabilità, propri dell'oggetto giuridico nella sua c.d. concezione realistica. Ciò che, però, condiziona a monte la riforma del sistema penale finanziario - e con essa la scelta di selezionare i comportamenti da reprimere penalmente – è l'interrogativo su quali siano o, meglio, dovrebbero essere gli interessi giuridici oggetto di tutela nel diritto penale finanziario. 5.1. Analizzando la fattispecie dell'insider trading, erroneamente considerata l'architrave portante del diritto penale degli intermediari finanziari, sono state esaminate le diverse correnti di pensiero che hanno trovato origine attorno al problema dell'individuazione degli interessi giuridici, meritevoli di tutela, nei quali si declina il bene o valore superiore e costituzionalmente rilevante del "risparmio": dall'istanza egualitaristica della parità conoscitiva tra gli investitori al dovere di riservatezza facente capo agli esponenti aziendali delle società emittenti; dalla tutela della trasparenza informativa all'opinione, oggi prevalente, che identifica l'interesse tutelato - forse in parte confondendolo con la ratio puniendi - riassumendolo nella formula nota, ma vaga ed indeterminata, del "buon funzionamento, dell'integrità e dell'efficienza del mercato". E' fuor di dubbio che l'eguaglianza informativa, la trasparenza, la liquidità, la stabilità degli intermediari, l'efficienza ed il buon funzionamento del mercato finanziario rappresentano valori ed ideali da perseguire e difendere, ma essi si sostanziano in obiettivi etico-moralistici ed in valori macroeconomici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena e quindi assurgere al rango di effettivi beni giuridici di una fattispecie di reato. A patto, dunque, di non voler aderire alla tesi che qualifica la norma penale sull'i.t., al pari anche di altre norme del diritto penale finanziario, come "norme manifesto" - che stabiliscono divieti al solo fine di convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito e trasparente, assolvendo dunque ad una funzione di promozione etica del mercato, invero estranea al diritto penale -, non resta che ricercare aliunde il bene protetto da assurgere ad oggettività giuridica del sottosistema del diritto penale degli intermediari finanziari. 5.2. Un primo elemento su cui costruire le fondamenta di un valido percorso argomentativo è l'osservazione secondo cui il mercato finanziario, alla stessa stregua di altri interessi o valori di ampio respiro quali l'economia o il territorio o l'ambiente, non è oggetto di tutela ma oggetto di disciplina. L'affermazione sta a significare che il mercato finanziario è un luogo nel quale convergono interessi di varia natura, individuali e collettivi, tra loro talora convergenti, talaltra contrastanti: gli interessi delle imprese, dei piccoli risparmiatori, degli operatori od investitori professionali, ma anche l'interesse collettivo alla tutela del risparmio che rappresenta una risorsa indispensabile per lo sviluppo del Paese. La struttura funzionale del mercato, per definizione basata sullo scambio ed avente come sua componente ineliminabile il fattore "rischio" e la correlativa dimensione speculativa, non è in grado a priori di regolare la coesistenza, il bilanciamento o la prevalenza dei vari interessi che vi si rappresentano. Di qui, la necessità che il legislatore stabilisca delle regole volte a disciplinare il funzionamento del mercato sotto vari profili: accessibilità degli operatori ed intermediari, negoziabilità dei prodotti, organizzazione delle contrattazioni, circolazione dei flussi informativi ecc… Ecco, allora, che se il mercato è oggetto di una disciplina che ne regolamenta l'uso ed il funzionamento, dettando delle regole del gioco, il diritto penale del mercato finanziario altro non è che la sanzione della violazione delle "regole del gioco". 5.3. Il secondo passaggio del ragionamento, consequenziale al primo, consiste allora nel comprendere quali regole del gioco, tra le tante che compongono la disciplina positiva del mercato finanziario, possano o necessitano di essere presidiate anche da una sanzione penale e quali, invece, possano e debbano beneficiare solo di tutele extrapenali per l'impossibilità di rinvenire delle oggettività giuridiche ad esse sottostanti, meritevoli di ricevere una copertura penalistica. Risulta a questo punto evidente che l'unico criterio capace di fondare validamente una selezione di tal fatta è rappresentato dall'esistenza di un interesse giuridico meritevole di tutela penale, vale a dire di un bene che abbia un contenuto valoristico autonomo e che non si confonda nei valori generali ed etici più volti menzionati, né tanto meno nello scopo della norma, e che presenti quelle caratteristiche di afferrabilità e consolidamento sociale tali da poterne apprezzare la fondazione materiale. 5.4. Ad avviso di alcuni commentatori ed anche di chi scrive, l'interesse giuridico che qualifica (o che dovrebbe qualificare) l'intero settore del diritto penale degli intermediari finanziari, rappresentandone il vero fulcro normativo, è dato dalla relazione tra la tutela dell'interesse ad una corretta allocazione del risparmio e la tutela delle funzioni delle autorità di vigilanza. Più precisamente: la funzione di vigilanza e di controllo del mercato, svolta da varie autorità nei diversi segmenti ma concettualmente riconducibile ad unità, è l'elemento specializzante e coessenziale del diritto penale finanziario. Ciò posto, l'intervento di penalizzazione è legittimo solo laddove la tutela delle funzioni di vigilanza è strumentale all'osservanza di quelle regole del gioco poste a protezione delle esigenze nelle quali si estrinseca la tutela del risparmio e dei valori ad esso connessi e consequenziali: l'interesse privatistico del risparmiatore ad una corretta allocazione del risparmio e l'interesse pubblico alla stabilità e protezione del mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo che ne possano compromettere la funzione di insostituibile fattore di produzione e sviluppo quali, ad esempio ed in primis, il riciclaggio di danaro di provenienza illecita. L'epicentro del diritto punitivo degli intermediari finanziari è pertanto rappresentato dalle funzioni di vigilanza e dalla tutela delle stesse. Vi è dunque una relazione strettissima tra le disfunzioni della vigilanza e l'instabilità del mercato, a conferma che la tutela del risparmio filtra e passa attraverso la tutela della vigilanza. Il risparmio, dunque, anche quando non viene direttamente ed immediatamente raggiunto dall'offesa racchiusa nel fatto incriminato, costituisce pur sempre la "fonte di legittimazione sostanziale" dell'avanzamento dell'intervento penale verso le "strutture" e le "funzioni" della vigilanza. La tutela del valore costituzionale del risparmio permette, dunque, al modello di anticipazione della tutela sul piano delle funzioni di vigilanza di superare indenne il giudizio di bilanciamento: posto a confronto con il risparmio, il principio di offensività deve cedere le posizioni necessarie per realizzare una tutela del primo che sia razionale ed efficace. Si ritiene pertanto non azzardato affermare che la tutela delle funzioni di vigilanza rappresenta o, meglio, dovrebbe rappresentare, l'oggetto giuridico dell'intero micro-sistema del diritto penale finanziario. Salvo poi far assumere alla stessa un sostrato materiale più concreto ed una più evidente afferrabilità sociale laddove essa è destinata ad operare, vuoi nella tutela dell'interesse privatistico alla corretta e conforme allocazione del risparmio, vuoi nella tutela dell'interesse pubblicistico alla difesa del mercato da fenomeni di criminalità organizzata o, comunque, da pratiche manipolatorie che ne distorcono i meccanismi di funzionamento. Un'impostazione, quella sopra esposta, estranea agli schemi del diritto penale classico, per cui l'oggetto giuridico è sempre identificato in beni socialmente riconosciuti e coincidenti con interessi individuali della persona. Si tratta, tuttavia, di un'opzione valida sotto il profilo sistematico ed assiologico, atteso che il diritto penale moderno è da tempo attraversato da un processo di smaterializzazione dell'oggetto giuridico e dalla contemporanea utilizzazione della strumentazione penalistica per la tutela della funzionalità dei meccanismi di intervento dello Stato e della pubblica amministrazione in diversi campi, per lo più in quelli condizionati dall'evoluzione tecnologica e degli assetti sociali e caratterizzati dalla presenza di interessi adespoti e collettivi: la salute, l'ambiente, senza dubbio l'economia, la finanza ed il risparmio. E' indubbio, da un lato, che la tutela (anche penale) delle funzioni di vigilanza è condizione indispensabile ed irrinunciabile per assicurare una protezione efficace del mercato finanziario e del risparmio e, dall'altro, che le tradizionali forme di tutela del patrimonio si rivelano, all'evidenza, insufficienti allo scopo. Ma, d'altro canto, è parimenti vero che non è accettabile quella fuga dalla concezione realistica del bene giuridico (e dalla sua insopprimibile funzione di limite al legislatore), che si è ormai sovente verificata ogni qualvolta sono state coniate delle figure di reato nelle quali si punisce la mera inosservanza di norme di organizzazione e non di fatti socialmente dannosi, scambiando gli oggetti di tutela penale con le rationes di tutela, il tutto in nome di esigenze di controllo efficientista del sistema. E' innegabile che il diritto penale svolge un ruolo di coesione e di credibilità dell'ordinamento giuridico nel suo complesso e che di esso si tende spesso a fare un uso c.d. "interventista" e "simbolico", caricandolo di un compito di profilassi della società e di una funzione di rassicurazione sull'efficienza e moralità del sistema normato. Questo è accaduto anche e soprattutto nel campo dei reati economici ed in materia di tutela del risparmio e del mercato. In sé, quella di assumere ad oggetto di tutela penale un'attività o funzione giuridicamente autorizzata - nella fattispecie la funzione di vigilanza - è una scelta necessitata, se si vuole assegnare una protezione efficace a beni di interesse collettivo, ma al tempo stesso compatibile con i canoni del diritto penale, a patto che si tratti di attività giuridicamente regolate dietro la cui lesione o messa in pericolo sia possibile cogliere ed afferrare la dimensione sociale e materiale dell'interesse tutelato e la concretizzazione dell'offesa ad esso arrecata. Declinando l'assunto, in tanto la tutela penale delle funzioni di vigilanza del mercato è compatibile con la concezione realistica del bene giuridico solo in quanto la sfera repressiva riguardi esclusivamente comportamenti che siano materialmente afferrabili e di cui si possa cogliere la dannosità sociale: ciò che, ad avviso di chi scrive, si verifica allorché la violazione delle regole del gioco si traduca in una situazione di danno o di pericolo per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione del risparmio e per l'interesse pubblico alla protezione del mercato da fattori esterni di pregiudizio. In difetto di queste condizioni, l'intervento penale si espone al rischio di creare illeciti di pura trasgressione, di tutelare non vittime ma meri obiettivi di organizzazione od istanze socio-politiche di eticità ed efficienza del sistema, addivenendo, per questa strada, alla costruzione di un assetto normativo compatibile con una concezione c.d. metodologica del bene giuridico, vanificando così le garanzie formali e sostanziali proprie della concezione realistica ed affidando alla norma penale una funzione meramente sanzionatoria, destinata, non a punire comportamenti di danno o di pericolo, bensì a rafforzare, col deterrente penale, una disciplina preventiva e di organizzazione già strutturata dal diritto privato o dal diritto amministrativo. 5.5. Tanto premesso, occorre ritornare alla questione posta, osisa quella di identificare, alla luce dell'oggettività giuridica sopra configurata, quali "regole del gioco", facenti parte della disciplina del mercato finanziario, debbano essere presidiate da una sanzione penale. In questo senso può aiutare la suddivisione operata dal Padovani tra regole poste a garanzia della neutralità del mercato finanziario e regole poste a tutela della identità del medesimo: il primo gruppo di regole è costituito da presidi organizzativi e da tecniche operative volte a delimitare il perimetro del gioco, affinché il mercato si ponga come strumento neutrale rispetto a tutti gli attori interessati e determini, per questi, pari opportunità e condizione di partenza (si pensi alle regole che disciplinano l'accesso degli intermediari a certi ambiti di operatività, alle autorizzazioni alla prestazione di certi servizi o, ancora, alle norme che prescrivono limiti nella gestione degli investimenti, a quelle che sanzionano il mancato o non corretto invio delle segnalazioni di vigilanza ecc); il secondo gruppo di regole è funzionale ad assicurare l'identità del gioco stesso, ossia a garantire che questo non sia truccato, cioè a dire contaminato da forme e comportamenti di abuso che possono determinare un'indiscriminata ed ingiustificata distribuzione del rischio tra gli operatori (vi rientrano il comportamento penalmente sanzionato di chi manipola il mercato diffondendo notizie false su determinati strumenti finanziari, il fenomeno del riciclaggio nel mercato di danaro di provenienza illecita, per molti Autori anche la condotta di insider trading). L'opinione largamente dominante tra gli studiosi del diritto penale è quella per cui ambedue i gruppi di regole sopra menzionati meritano di essere assistiti da un presidio penale. Ciò, anzitutto, sotto il profilo della proporzione in quanto, se è pur vero che queste regole realizzano, per lo più, una tutela anticipata rispetto alla possibile produzione dell'evento lesivo, è anche vero che esse dispiegano la loro utilità proprio nel pervenire ad una neutralizzazione tempestiva dei possibili effetti dannosi e pregiudizievoli di una determinata condotta. Secondariamente, il giudizio di favor trova poi conferma anche sul fronte della sussidiarietà od extrema ratio, in considerazione della mancanza di valide alternative sanzionatorie, adducendo la necessità di una tutela preventiva e forte a difesa del buon funzionamento, dell'efficienza e dell'integrità del mercato, che solo il deterrente penalistico è in grado di offrire. 5.6. Si ritiene di discostarsi in parte dalla soluzione generalmente condivisa e di proporre una riforma del diritto penale finanziario che, muovendo da una ricostruzione dell'oggettività giuridica e recuperando una dimensione rafforzata dei canoni di proporzione, sussidiarietà e tassatività, pervenga ad un assetto regolamentare ispirato alle seguenti linee guida: - il ricorso alla sanzione penale solo come presidio alla violazione delle regole poste a tutela della c.d. identità del gioco, preferendo mezzi sanzionatori alternativi con riferimento all'inosservanza delle regole poste a tutela della c.d. neutralità del mercato; per queste ultime, infatti, la sanzione penale è sproporzionata e priva di una reale efficacia deterrente, venendo a configurarsi illeciti penali di stampo meramente organizzatorio, che si sostanziano in una tutela eccessivamente anticipata rispetto alla possibile lesione dell'interesse privatistico alla corretta allocazione del risparmio. E' indubbio che l'accertamento della violazione di queste regole dipende dal corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti agli organi di controllo e vigilanza, di tal guisa che, con la sanzione criminale, si vuole che anche la possibilità di accertamento risulti anticipata rispetto ad ogni eventuale futuro evento lesivo. Ma, così ragionando, si arriva a piegare lo strumento penale ad una funzione, per così dire, sostitutiva della tempestività dell'esercizio delle funzioni di vigilanza: altrimenti detta, si rafforza la (supposta) funzione specialpreventiva della pena per compensare le lacune ed i ritardi di un sistema di vigilanza sull'operato degli intermediari. Siffatto modus operandi si rivela, prima di tutto, inutile perché non perviene ad alcun risultato sul terreno della prevenzione, che richiede per contro di rivedere il modello di vigilanza prefigurando meccanismi di costante dialogo tra gli organismi di controllo e i soggetti vigilati, così da favorire una sorta di accompagnamento dei secondi ad opera dei primi, condizione indefettibile per garantire la neutralità del mercato finanziario rispetto agli interessi in gioco, Dall'altro, si dimostra in contrasto con i principi di offensività, proporzionalità e sussidiarietà, atteso che si tratta di fattispecie formali od organizzatorie rispetto alle quali non è dato rintracciare un oggetto giuridico consolidato ed afferrabile e che, in più, esprimono un grado di lesività tale da giustificare il ricorso alla meno severa e più duttile sanzione amministrativa. - l'introduzione di una nuova fattispecie di infedeltà patrimoniale, la cui mancanza nel vigente ordinamento è il riflesso di un evidente stato di contraddizione, incoerenza e lacunosità dell'attuale assetto del sistema penale finanziario, posto che oggi si sanzionano, con pene anche gravi, comportamenti che violano mere regole di organizzazione spesso prive di un'effettiva carica offensiva, oppure si promuovono crociate verso fenomeni la cui lesività è tutta da dimostrare (il riferimento è all'insider trading), nel mentre manca una fattispecie ad hoc idonea ad incriminare quella variegata e complessa serie di comportamenti con cui, sempre più diffusamente, gli emittenti o gli intermediari/gestori realizzano vere e proprie forme di abuso a danno dei risparmiatori. Si è detto che il nucleo centrale della tutela penale del mercato finanziario è rappresentato, oltre che dall'interesse pubblicistico di difendere il mercato da fenomeni criminali provenienti da fattori esterni, dall'interesse del singolo risparmiatore/investitore ad un'allocazione e gestione del proprio risparmio fedele al mandato fiduciario conferito, alle disposizioni di legge e ai principi di prudenza, stabilità ed integrità patrimoniale e buona fede. Non potendo applicare lo statuto penale della pubblica amministrazione alle banche, e tanto meno ad altri intermediari, non resterebbe che ricondurre quei comportamenti ai paradigmi della truffa ex art. 640 c.p. e dell'appropriazione indebita ex art. 646 c.p., con tutti i limiti che ne derivano, trattandosi di figure generaliste e spesso inadatte a dare copertura a fatti molto specifici e dal complesso tecnicismo. S'impone, a questo punto, la necessità, già espressa dal Pedrazzi, di introdurre nell'ordinamento la figura autonoma del reato di infedeltà patrimoniale, capace di reprimere, non solo quei comportamenti nei quali è evidente l'appropriazione di un vantaggio patrimoniale a danno di un terzo, ma anche quelle condotte caratterizzate da una connotazione in termini di rischio eccessivo od anomalo dell'operazione perfezionata, oltre i limiti del mandato fiduciario ovvero per gestione infedele o in conflitto di interessi. - la configurazione di una soluzione ad hoc per il fenomeno dell'insider trading che, nonostante si possa ascrivere al gruppo di regole poste a presidio della c.d. identità del mercato, si ritiene necessiti di essere depenalizzato in difetto di un solido fondamento socio-economico sottostante all'attuale divieto, prevedendo, per converso, l'adozione di presidi infrasocietari nell'ambito del rapporto privatistico insider/emittente. 6. Al di là delle divisioni che emergono dal dibattito sull'individuazione dell'interesse giuridico protetto dalla fattispecie di incriminazione dell'insider trading, si registra un generale favor per l'opzione penale, sostenendo che il rango dell'interesse da proteggere e la gravità dell'offesa giustificano l'impiego dello strumento penalistico alla luce dei due criteri che devono guidare la scelta della sanzione penale: la proporzionalità e la sussidiarietà. 6.1. Si ritiene di dissentire dall'opinione comune, prima di tutto per la mancanza del connotato della dannosità sociale del fenomeno, capisaldo del garantismo illuminista che esprime l'istanza per cui la legge penale deve punire solo quei comportamenti che effettivamente turbino le condizioni di una pacifica coesistenza e che siano avvertiti dalla collettività come generatori di danni ad interessi significativi e meritevoli di protezione. Anche se ad avviso dei più è dato registrare, oggi, un consenso sociale sulla repressione della pratica de qua, si ritiene quanto meno legittimo porre in dubbio che il fenomeno dell'insider trading sia davvero sentito come socialmente dannoso dalla generalità dei consociati. Basti porre mente al fatto che la diffusione della pratica dell'i.t. nei mercati finanziari non sembra avere affatto minato la fiducia degli investitori, se si guarda all'evoluzione che ha caratterizzato i mercati azionari nell'ultimo ventennio. Si è, invece, dell'opinione che la società avverta fortemente la necessità di colmare il vuoto di tutela che esiste avverso quelle forme di indebita sottrazione e sperpero della ricchezza risparmiata, poste in essere da intermediari ed operatori che agiscono secondo logiche poco trasparenti e permeate da situazioni di conflitto di interesse, mentre non appare per nulla diffusa nell'opinione pubblica la convinzione circa l'immoralità della pratica di insider trading, di cui spesso non si conosce neppure il significato. 6.2. Ritornando sulla vexata quaestio della ricerca del bene giuridico offeso dall'i.t., si è detto che l'opinione dominante fra gli interpreti, sostenuta dai Considerando del legislatore comunitario e dalle dichiarazioni di intenti di quello nazionale, è nel senso di qualificare l'insider trading alla stregua di un reato plurioffensivo, lesivo di interessi generali dell'economia quali la fiducia degli investitori, il buon funzionamento e l'efficienza del mercato, la trasparenza, la potenziale parità di condizioni tra gli investitori ecc… I commentatori si dividono dando prevalenza ora all'uno ora all'altro dei valori testé menzionati, ma le loro posizioni convergono nel ritenere che l'interesse da difendere non vada ricercato nella sfera privatistica della società emittente o del privato controparte dell'insider, quanto in un interesse generale e collettivo, adespota, riferibile alla regolarità del mercato mobiliare nel suo insieme, declinata talora in termini di efficienza, liquidità e buon funzionamento, talaltra in termini di parità di condizioni, ovvero ancora adducendo la lealtà e l'eticità delle contrattazioni e l'immagine di un mercato pulito e trasparente quale stimolo agli investimenti. La sussistenza di un interesse generale di ampia e significativa portata e di rilievo costituzionale, unitamente alla riconosciuta inefficacia delle sanzioni extrapenali, conduce dunque la maggioranza degli interpreti a ritenere che la scelta repressiva dell'i.t. è coerente con i canoni di proporzione e sussidiarietà: se in forza dell'art. 47 Cost., la Repubblica incoraggia il risparmio, l'insider trading lo scoraggia, frustrando l'aspettativa dei risparmiatori ad un comportamento leale e trasparente degli operatori. 6.3. La tesi sopra esposta, nonostante incontri il sostegno del pensiero dominante tra gli interpreti e della volontà della maggior parte dei legislatori europei e non, risulta per una serie di argomentazioni poco convincente ed in parte anche incoerente con il sistema. In primo luogo, occorre ricordare che il fondamento economico del divieto di i.t. è tutt'altro che dimostrato. L'analisi delle diverse scuole di pensiero, riportata nel capitolo che precede, rende alquanto evidente la mancanza di un chiaro fondamento politico e socio-economico del divieto o della liceità dell'insider trading. La legislazione penale sull'i.t. sembra quasi assumere un connotato di autoreferenzialità e di status symbol: punisce il fenomeno perché rappresenta una pratica costante e diffusa nei mercati finanziari, perché è sanzionata nella maggior parte dei paesi, perché così facendo il legislatore è messo nelle condizioni di reagire ai ripetuti scandali finanziari e lanciare un messaggio forte sulla pulizia e moralità del mercato, veicolate attraverso le etichette del buon funzionamento, della trasparenza e dell'efficienza del mercato stesso. Certo è che si tratta di espressioni generiche e tautologiche che non possono rappresentare la motivazione sociale ed economica della scelta punitiva. Un punto fermo dell'indagine è quello per cui l'informazione rappresenta una componente essenziale per l'efficienza del mercato: maggiore è la quantità e la qualità dell'informazione disponibile, più il mercato si caratterizza per una facile convertibilità dei titoli negoziati, e più le quotazioni di questi ultimi ne rapprentano il reale valore intrinseco, sicché il giudizio di ammissione o di riprovevolezza del comportamento dell'insider dipende dalla verifica se lo sfruttamento di notizie riservate contribuisce o meno all'efficienza del mercato, se accresce o pregiudica l'efficienza informativa del mercato. Sul punto non vi sono chiare evidenze scientifiche sul fatto che l'uso di informazioni riservate pregiudichi la trasparenza del mercato, impedendogli di perseguire l'efficienza informativa. Un secondo motivo di riflessione è che la scelta di reprimere il fenomeno dell'i.t. non può addivenire al risultato di ingessare il mercato privandolo del contributo essenziale dato, alla propria efficienza informativa, dall'attività di ricerca, studio ed analisi. Se, come si ritiene, si deve privilegiare una concezione del mercato come luogo la cui funzione principale è quella di elaborare e produrre informazioni che si riflettano sul meccanismo di determinazione dei prezzi per favorire, in ultima istanza, l'investimento del risparmio nel capitale delle imprese, ne consegue che va incoraggiato il lavoro degli analisti che producono e divulgano informazioni, anche consentendo loro di sfruttare economicamente dette informazioni perché altrimenti verrebbe a mancare lo stimolo alla ricerca, all'analisi ed alla diffusione delle stesse. L'attività di produzione, diffusione e sfruttamento delle informazioni va difesa ed incentivata rappresentando l'ossatura del mercato finanziario, che deve pertanto rifuggire da ogni mozione di livellamento informativo e di concorrenza perfetta tra gli investitori propria del market egualitarism, riconoscendo invece che la speculazione - intesa come ricerca di un profitto eccedente quello medio di mercato - è la caratteristica saliente ed ineliminabile di ogni sistema finanziario basato su un'economia di scambio. 6.4. Resta, sullo sfondo, l'unico possibile profilo di criticità che si ritiene possa anche esaurire un'eventuale ragione incriminatrice: è giusto riconoscere il diritto di sfruttare economicamente le price sensitive anche a coloro che non hanno contribuito alla loro produzione ed analisi, ma che ne sono venuti a conoscenza in modo occasionale ed estemporaneo, in virtù della carica societaria ricoperta all'interno della società emittente? La logica, prima che il diritto, ci porta ad affermare che il possessore di informazioni privilegiate ha il diritto di utilizzarle se, per ottenerle, ha sopportato un costo di produzione tanto da esserne divenuto proprietario (è il caso degli analisti finanziari), mentre i managers e gli altri insiders aziendali non possono considerarsi acquirenti dell'informazione essendone entrati in possesso in modo del tutto casuale ed in virtù della sola carica ricoperta. Di qui la conclusione per cui l'obiettivo di una regolamentazione anti insider trading (a livello non solo penale) deve essere il contenimento e il contrasto di quelle forme di speculazione abusiva originate dall'approfittamento di una situazione di superiorità informativa, che ricorrono nel solo caso in cui l'informazione riservata sia stata acquisita senza sostenere alcun costo e solo attraverso un collegamento privilegiato con la società emittente. Resta tuttavia l'interrogativo di fondo se lo strumento, per così dire di contenimento e di contrasto a pratiche di siffatta natura, debba essere rappresentato dalla sanzione penale. Il quesito merita una risposta negativa, per una ragione prima fra tutte: l'impiego della strumentazione penalistica deve escludersi ogni qual volta il divieto non presenti un chiaro ed evidente fondamento economico e faccia difetto l'esistenza di un determinato ed afferrabile oggetto giuridico. Non solo, infatti, il divieto di i.t. non è sorretto da una lucida motivazione economica, anche per la debole confutazione che si è fatta degli argomenti che sostengono gli effetti benefici dell'i.t. sul mercato, ma nella fattispecie incriminatrice non è dato neppure rintracciare un bene giuridico materialmente afferrabile e socialmente consolidato. Non è un caso che, nelle intenzioni del legislatore, il divieto di i.t. miri a sanzionare il comportamento ritenuto immorale di chi lo tiene (unfairness), allo scopo di rassicurare gli investitori sulla eticità e correttezza delle contrattazioni di borsa ed incoraggiarli così ad operare. Salvo poi chiamare in causa, nel tentativo di conferire un'oggettività giuridica ad una scelta incriminatrice decisa a priori prescindendo da essa e per obiettivi che attengono al piano dell'etica e della moralità, interessi generali connessi al buon funzionamento ed all'efficienza del mercato, alla sua trasparenza, alla parità di condizioni tra gli investitori che, pur rappresentando valori positivi da promuovere e da difendere, restano pur sempre obiettivi etico-moralistici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena. 6.5. Ritornando all'impostazione concettuale da cui siamo partiti, si è detto, in chiave riformatrice, che la struttura del sistema penale degli intermediari finanziari dovrebbe essere rappresentata dalla tutela delle funzioni di vigilanza, limitando tuttavia il ricorso alla sanzione penale ai casi in cui detta tutela è prodromica a difendere, o l'interesse del risparmiatore ad una corretta allocazione delle risorse patrimoniali affidate in gestione, o l'interesse pubblico a proteggere il mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo ed alterazione. Il fenomeno dell'i.t. non si pone in relazione di danno o di pericolo con nessuno dei due interessi succitati. Non con l'interesse pubblicistico atteso che, a differenza del riciclaggio e dell'aggiotaggio, dell'i.t. non è stata affatto provata la sua dannosità per il mercato, se non adducendo motivazioni di ordine etico e morale che tuttavia, quando rappresentano il solo fondamento del divieto, piegano il diritto penale ad una funzione simbolica, pedagogica ed eticheggiante, estranea alla cornice costituzionale dell'ordinamento. Tanto che la vigente norma penale di incriminazione dell'i.t. è stata qualificata da alcuni esponenti della dottrina come una "norma manifesto", che vieta perché deve convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito, trasparente, è un luogo in cui le contrattazioni avvengono lealmente. Si dirà di più. Con la riforma del 2005 il legislatore, se per un verso si è spinto fino a prevedere una sanzione draconiana per il fatto di i.t., per altro verso è pervenuto alla decisione di depenalizzare i fatti di i.t. compiuti dai c.d. insiders secondari. Ma se l'obiettivo di fondo è quello di difendere l'integrità, l'efficienza e il buon funzionamento del mercato finanziario e la fiducia dei risparmiatori, perché depenalizzare dei fatti comunque muniti - se ci si pone nell'ottica, non condivisa da chi scrive, del legislatore - di quelle potenzialità aggressive tali da meritare comunque una risposta sanzionatoria penale? La depenalizzazione di siffatta forma di insider trading (c.d. tippee e tuyautage trading) è infatti sufficiente ad ingenerare il dubbio su quale sia l'oggetto giuridico che il legislatore intende tutelare: va sempre ravvisato nella trasparenza, nell'efficienza e nel corretto funzionamento del mercato finanziario e nella fiducia degli investitori sull'integrità del medesimo (ma se così fosse, non si coglie il perché della non punibilità di chi, assunte informazioni privilegiate da soggetti qualificati, le diffonde e le usa a proprio profitto: condotta, questa, al pari delle altre, capace di pregiudicare il bene ultimo della trasparenza e integrità del mercato), oppure - più modestamente - la volontà legislativa è quella di punire chi è tenuto a doveri fiduciari di riservatezza per la posizione ed il ruolo qualificato rivestito all'interno (o nei confronti) della società emittente? Si ritiene meritevole di accoglimento la seconda ipotesi. La parziale abolitio criminis realizzata sul previgente art. 180 D.lgs. n. 58/1998 ha comportato un parziale mutamento dell'interesse tutelato dalla fattispecie in esame, perché, riducendo l'ambito di rilevanza penale della fattispecie - ossia abolendo l'ipotesi del c.d. tippee trading -, ha ridisegnato i contenuti dell'interesse tutelato, identificandolo più nella lesione di un interesse privatistico rappresentato dall'inosservanza di un dovere fiduciario tra l'insider e la società emittente, piuttosto che nella difesa di un interesse pubblicistico - in ogni caso a parere di chi scrive poco afferrabile - costituito dall'integrità dei mercati e dalla fiducia degli investitori, istituzionali e non. Ma se così è, ci sembra del tutto sproporzionato, oltre che in spregio al canone di sussidiarietà, il ricorso alla sanzione penale. 6.6. Del pari, non sembra condivisibile l'assunto secondo cui l'i.t. rappresenterebbe unaa minaccia per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione dei propri investimenti, giustificando il ricorso alla sanzione penale in ragione della lesione che il fenomeno de quo arrecherebbe al patrimonio conoscitivo dell'investitore. Il mercato finanziario è senza dubbio un luogo giuridico che va regolamentato e dove l'informazione esercita un ruolo fondamentale. L'efficienza allocativa del mercato presuppone la sua efficienza informativa. Quest'ultima richiede che gli investitori possano poter contare sulla massima quantità possibile di informazioni, che queste vengano diffuse e fatte circolare nella maggiore quantità e con la maggiore tempestività possibili. Il mercato finanziario è profondamente influenzato dalle informazioni e dal sentiment sui più svariati temi macro e micro economici, relativi al sistema Paese come alla singola società emittente, capaci di incidere ed impattare sull'andamento borsistico di un determinato titolo. E questo perché l'investimento nel mercato finanziario è sostanzialmente speculazione e - per citare Keynes nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta - "la speculazione è la capacità di scoprire cosa l'opinione media ritiene che l'opinione media sia". I canali attraverso i quali l'informazione viene reperita, elaborata, creata, analizzata e poi diffusa, sono tanti e diversi, la loro efficacia è legata a così tante variabili - costi di investimento sostenuti per l'attività di ricerca e studio, capacità di analisi ecc. - che il configurarsi di situazioni di vantaggio o svantaggio informativo è condizione fisiologica propria del mercato e della sua dimensione speculativa e competitiva, tanto da rifiutare ogni logica propria della teoria del c.d. market egualitarism. Nel caso dell'insider trading, come detto, la sola nota di criticità che può legittimare un intervento sanzionatorio è data dall'ipotesi in cui il vantaggio informativo viene conseguito sfruttando, abusando della posizione fiduciaria rivestita in seno alla società emittente e, quindi, senza sostenere i costi correlati all'acquisizione o alla produzione dell'informazione. In tale ipotesi, l'asimmetria informativa non è il risultato dell'opera di ricerca di un analista, ma di una forma vera e propria di abuso funzionale ad una successiva speculazione, non compensata da un investimento iniziale. Appare pertanto corretta la distinzione tra informazioni ottenute sostenendo costi di investimento ed informazioni conseguite a costo zero in virtù di una rendita di posizione: le prime devono essere sottratte all'obbligo di disclosure; per le seconde è corretto stabilire un divieto di utilizzo perchè, se utilizzate e sfruttate, realizzerebbero una ripartizione dei costi economicamente inefficiente, favorendo lo speculatore, a discapito di chi l'informazione l'ha prodotta. Ora, se non si può non convenire sul fatto che le informazioni del secondo tipo non possano essere utilizzate e che dunque debbano essere eliminate o neutralizzate le asimmetrie informative che non sono espressione di un'attività di ricerca e di investimento, si è per contro scettici sull'utilità del ricorso alla sanzione penale per perseguire tale obiettivo. Un punto fermo del percorso logico-argomentativo che si intende sviluppare è il seguente: scevri dalle enunciazioni di principio a sfondo etico-moralistico, il solo ed unico schema economico cui poter ricondurre il divieto di i.t. è quello dell'asimmetria informativa e degli effetti che la stessa - nell'ipotesi in cui sia il risultato di una speculazione abusiva e non di un investimento - può produrre sul piano allocativo e distributivo delle risorse. Gli effetti distorsivi generabili da un dislivello informativo, frutto di una condotta di abuso di posizione, sono sostanzialmente due. Da una parte, quello che porta i risparmiatori/investitori a richiedere un rendimento più elevato a fronte di un rischio che aumenta oltre la normale alea dell'investimento, appunto in ragione della presenza di un fattore estraneo allo stesso rappresentato dall'esistenza di una superiorità informativa, dall'agire di operatori insider. Dall'altra, quello per cui la pratica di insider trading è un modo per estrarre benefici privati sfruttando informazioni di proprietà della società emittente, fenomeno tanto più negativamente impattante sull'immagine del mercato quanto più questo sia composto da società proprie di un capitalismo familiare con meccanismi di governance sbilanciati a favore degli azionisti di controllo. Di qui, la considerazione per cui troppo insider potrebbe nuocere al mercato ed il conseguente auspicio che il fenomeno venga regolato al fine di contenere o neutralizzare i due effetti negativi che ne possono derivare. Poiché entrambi i succitati effetti vedono come danneggiato finale la società emittente, la quale è la sola proprietaria delle informazioni price sensitive, ecco allora che la questione relativa alla regolamentazione dell'insider trading diventa una questione di regolamentare l'uso dei diritti di proprietà sull'informazione. L'assunto poggia su due presupposti meritevoli di adeguata verificazione. 6.7. Il primo è che l'informazione è un bene economico, idoneo ad essere sfruttato economicamente da chi ne è proprietario. Non possiamo certo trascurare l'antico ed ancora non sopito dibattito sulla natura giuridica del bene "informazione", in particolare se questa sia qualificabile come bene privato o come pubblico. Secondo una prima teoria, l'informazione è un bene pubblico che non può essere oggetto di proprietà privata, configurandosi come un bene indivisibile e non escludibile: l'indivisibilità sarebbe legata al fatto che ogni individuo può utilizzare l'informazione senza sostenere alcun costo aggiuntivo; la non escludibilità discederebbe dalla difficoltà di circoscrivere la cerchia dei soggetti che se ne possono appropriare, ovvero dalla difficoltà di apporre vincoli di riservatezza. Sul versante opposto si schierano quegli economisti che sostengono la divisibilità e l'escludibilità dell'informazione, ritenendo che l'accesso al bene può essere circoscritto e che, pertanto, è possibile appropriarsi a pagamento dei suoi vantaggi, acquisendone così la titolarità prima che l'informazione diventi pubblica. E' chiaro che il riconoscimento al bene informazione di una natura pubblica o privata si riflette sulla definizione dell'assetto regolamentare che ne deve disciplinare la produzione, l'uso e la divulgazione. Se aderissimo alla tesi liberista - per cui l'informazione è un bene che può essere fatto oggetto di proprietà privata -, addiverremo a respingere qualsivoglia intervento esterno di regolamentazione dei meccanismi di produzione e circolazione dei flussi informativi, che i sostenitori di questa tesi ritengono controproducenti perché aventi l'effetto di scoraggiare la produzione di nuove informazioni, riducendo in tal modo il contributo dell'informazione al miglioramento della capacità segnaletica dei prezzi. Se, per contro, riconoscessimo all'informazione la qualifica di bene pubblico, si dovrebbe ammettere un impianto regolamentare ispirato alla logica del market egualitarism, caratterizzato da obblighi di disclosure e dal divieto di insider trading in capo agli operatori. Una posizione intermedia è quella per cui l'informazione è un bene privato che, tuttavia, genera delle esternalità, degli effetti aventi ricadute su soggetti esterni e sul mercato in generale, assommando in sé - il riferimento è nello specifico all'informazione societaria - esigenze di riservatezza (proprie del soggetto proprietario che quelle informazioni ha creato e prodotto) ed obblighi di trasparenza verso il mercato a tutela della comunità di investitori. Di qui la necessità di predisporre un sistema di regole che possa contemperare questi due termini del contendere. Con il risultato, innanzitutto, di ammettere che chi crea e produce l'informazione risulti anche assegnatario esclusivo del diritto di sfruttarne economicamente il contenuto (un diritto che non può essere negato, pena l'inefficiente allocazione delle risorse ed il conseguente scoraggiamento dell'attività di analisi e ricerca, condicio sine qua non per un mercato finanziario efficiente e trasparente). Prevedendo, in secondo luogo, un sistema di tutele per il proprietario dell'informazione e per il mercato in generale, avverso quelle possibili esternalità negative derivanti da comportamenti di terzi che, abusando della posizione rivestita, facciano un uso scorretto dell'informazione price sensitive. 6.8. Quanto al secondo presupposto, si è sostenuto che i diritti di uso e sfruttamento delle informazioni devono essere assegnati a chi quelle informazioni le ha create attraverso un'attività di ricerca ed analisi ovvero, nel caso di informazioni già esistenti in seno alla società emittente, a questa stessa. Non si può d'altronde negare che gli effetti negativi dell'i.t., poco sopra delineati, vanno ad impattare proprio sulla società emittente in termini di deprezzamento del pricing del relativo titolo quotato, che, proprio perché sospettato di essere oggetto di operazioni insider, vedrà gli investitori disposti ad acquistarlo solo a fronte di un premio aggiuntivo (implicitamente espresso nella disponibilità ad acquistare a prezzi che scontino l'effetto insider). L'informazione, però, a differenza degli altri beni che vengono prodotti e consumati, viene scoperta, e quindi diffusa, tramite la trasmissione o divulgazione al mercato, la quale, tuttavia, se da un lato incrementa il livello informativo del mercato e dunque la sua efficienza, dall'altro riduce le opportunità di profitto per chi ha creato quell'informazione. In altri termini: la divulgazione del bene-informazione è, al tempo stesso, fattore di trasparenza ed efficienza allocativa del mercato e disincentivo alla produzione delle informazioni, perché riduce in capo a chi le ha prodotte la possibilità di estrarne profitto. Da questo tratto peculiare dell'informazione nasce una sorta di conflitto, di trade off tra produzione ed uso dell'informazione: la regolamentazione di questo trade off, si ritiene, debba rappresentare l'obiettivo esclusivo di una normativa anti-insider. Un obiettivo che si ritiene debba essere perseguito per mezzo di un sistema regolamentare fondato su alcuni punti chiave: i diritti di proprietà sul bene informazione devono essere assegnati alla società emittente ovvero a chi, sostenendo costi di investimento e di ricerca, ha creato e prodotto l'informazione; una ridefinizione della normativa sulla trasparenza societaria, che sappia più efficacemente coniugare l'esigenza dell'emittente di tutelare istanze di riservatezza e l'interesse del mercato alla divulgazione delle informazioni; obbligare le società emittenti a dotarsi al proprio interno di processi operativi finalizzati alla mappatura delle informazioni e alla disciplina sull'uso, sulla trasferibilità e sulla divulgazione delle medesime, acconsentendo che il diritto allo sfruttamento economico di esse venga trasferito esclusivamente a managers e dipendenti della società e non a soggetti terzi, perché questo impedirebbe di esercitare un controllo sull'uso del flusso informativo e sulla profittabilità dell'attività (autorizzata) di insider. Quanto, infine, all'aspetto repressivo, si ritiene che qualsivoglia forma di sfruttamento non autorizzato di informazioni societarie, ovvero con modalità difformi dal sistema adottato di compliance aziendale, dovrebbe esporre l'autore della violazione a sanzioni di tipo civilistico a tutela della società e dei suoi azionisti ma anche del mercato in generale, abbandonando in questo modo lo strumento penalistico. Si ritiene, a tale riguardo, che il diritto degli investitori ad operare in un mercato integro possa trovare adeguata ed efficiente tutela, non nella sanzione penale - per i limiti e le tensioni che la caratterizzano - , quanto piuttosto in rimedi privatistici esperibili nei confronti dell'insider dalla società emittente, tanto nell'interesse proprio e dei suoi azionisti (per il danno che il comportamento insider reca all'immagine della società e per l'impatto sull'andamento del titolo in termini di liquidità, pricing e percezione di una sua maggiore rischiosità), quanto anche nell'interesse del mercato e dei risparmiatori quale ente esponenziale che più rappresenta l'interesse diffuso alla stabilità del mercato, alla sua efficienza (intesa primariamente come remunerazione delle sole informazioni privilegiate ottenute sostenendo un costo di investimento e non per mero abuso di posizione) e al fairness (per la funzione di rassicurare gli investitori sulla trasparenza ed il buon funzionamento del mercato). Facendo peraltro coesistere sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza, sia nei confronti delle società emittenti e degli esponenti aziendali per inosservanza dei sistemi interni di compliance disciplinanti la produzione e l'uso delle informazioni sensibili, sia nei confronti degli autori di condotte di tipping e tuyautage. In conclusione, muovendo dall'assunto secondo cui lo scopo di una disciplina sull'insider trading deve essere identificato nella prevenzione e nel contrasto di quelle forme di abuso di situazioni di vantaggio informativo, e comprovata l'ineffettività e difformità costituzionale della via penale, non resta che accogliere la soluzione che impone, in primis, di revisionare i meccanismi societari di produzione, uso e divulgazione delle informazioni price sensitive, in nome di una maggiore trasparenza sulla titolarità del diritto di sfruttamento delle stesse e di una maggiore responsabilizzazione degli amministratori, agendo sul piano della corporate governance e sui programmi di compliance aziendale. In secundis, combinando un enforcement fatto di sanzioni e rimedi civilistici (nei termini meglio specificati nel prosieguo) esperibili dall'emittente nei confronti dei soggetti insiders, nonché di sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza contro l'emittente (per la mancata inosservanza dei programmi di compliance sull'uso delle informazioni societarie) e gli insiders societari e non, all'esito di un'attività di indagine e di controllo che si auspica possa essere rafforzata e resa più incisiva. Nella convinzione che la pratica di i.t. lede in modo diretto la società emittente deprezzandone il titolo e gli investitori che su quel titolo operano e che potrebbero risultare danneggiati dal dislivello informativo, di talché l'unico rimedio efficiente per il contenimento di siffatta pratica è quello di prevedere, a carico dell'insider autore della condotta di abuso, un costo aggiuntivo (dato ad es. ma non solo dalla restituzione del profitto conseguito sfruttando la notizia riservata) tale da rendere l'abuso, se scoperto, economicamente inutile o addirittura svantaggioso. Nella convinzione che la maggiore responsabilizzazione di chi riveste posizioni di vertice all'interno delle società emittenti, congiuntamente all'adozione di un sistema di autodisciplina che renda trasparente l'uso delle informazioni rilevanti e l'assegnazione dei vantaggi insiti nel loro sfruttamento, costituisca il maggior antidoto all'opacità ed all'inefficienza del mercato. 7. Occorre poi prendere contezza del fatto che qualsivoglia progetto di riforma dell'ordinamento finanziario e di revisione degli strumenti di tutela del risparmiatore che si intenderà mettere in cantiere, non porterà i risultati attesi, se non sarà accompagnato da quel plesso di riforme dei vari apparati tangenti e complementari all'organizzazione del mercato finanziario: la riforma dell'amministrazione della giustizia per assicurare, anche istituendo una magistratura specializzata, tempi rapidi nell'accertamento degli illeciti e nell'irrogazione delle sanzioni; nuove regole in materia di informazione societaria al fine di migliorare la trasparenza informativa; l'introduzione di sistemi di governance più chiari ed indipendenti, capaci di presidiare e risolvere le tante, troppe, situazioni di conflitto di interesse di cui oggi è intrisa la catena dell'intermediazione finanziaria e che rappresentano, ad un tempo, la molla dell'agire economico nel mercato capitalistico e la principale causa di disgregazione e polverizzazione di ricchezza; regole chiare sulla circolazione dei prodotti finanziari; un ridisegno generale dei sistemi di controllo, vigilanza e di revisione contabile all'interno delle società di intermediazione del risparmio; da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, un intervento correttivo della disciplina del c.d. falso in bilancio, che rappresenta a tutti gli effetti un presidio a tutela del risparmiatore. Senza queste riforme complementari, anche una buona legge di riforma del mercato finanziario non coglierebbe appieno il risultato sperato. E' chiaro, infatti, che il mercato, come pure il suo grado di efficienza e trasparenza, sono il risultato della convergenza di una pluralità di fattori, esogeni ed endogeni, che agiscono su piani diversi ed incidono su differenti meccanismi di funzionamento del mercato stesso, cercando il non facile equilibrio tra i valori in gioco. 8. La ri-configurazione di un nuovo assetto di regolamentazione del mercato finanziario è condizione necessaria ma non sufficiente per alimentare un processo di prevenzione generale e di orientamento dei modelli comportamentali, che possano rappresentare un efficace argine al dilagare dei fenomeni di market abuse e di market failure. Serve, in parallelo, anche un processo di revirement culturale che porti ad una sorta di rifondazione etica della business comunity, nella consapevolezza che anche il migliore sistema normativo non ha presa sulla realtà effettuale, se questa non è a priori innervata da un insieme di regole etiche generalmente condivise. Il contesto attuale mostra un mercato finanziario caratterizzato dall'assenza di regole di condotta e di principi tali da costituire un governo etico, prima che giuridico, al lavoro dei suoi operatori. La grande ondata di deregolamentazione finanziaria che si è avuta nell'ultimo decennio ha favorito il dilagare dei conflitti di interesse in cui si trovano ad operare gli intermediari finanziari. Si pensi, per fare qualche esempio tra i tanti, al caso delle banche che hanno collocato ai propri clienti titoli tossici presenti nel loro portafoglio, al fine di dismetterli evitando perdite già prevedibili al momento del collocamento; agli effetti perversi del sistema degli incentivi ai vari operatori presenti nella catena dell'intermediazione finanziaria, che hanno favorito la diffusione di pratiche ad elevato rischio pur di conseguire l'obiettivo di lauti compensi; senza dimenticare il caso delle società di rating che hanno senza dubbio concorso a favorire l'occultamento di situazioni di difficoltà, attribuendo giudizi "a tripla A" a società che di lì a poco sarebbero state dichiarate fallite. La cultura di illegalità diffusa e di abuso di cui oggi è permeato il sistema del risparmio gestito va contrastata, non con norme cariche di una minaccia sanzionatoria severissima ma con bassa probabilità di trovare un'effettiva ed efficace applicazione, bensì con una revisione normativa ad ampio spettro, funzionale ad assicurare maggiore trasparenza nei meccanismi di corporate governance, razionalizzazione e rafforzamento del sistema dei controlli interni ed esterni alle società. Una considerazione è d'obbligo: la causa prima dei tanti, troppi, dissesti finanziari che hanno provocato nell'ultimo ventennio una dispersione gigantesca di ricchezza collettiva è da individuare nei conflitti di interesse di cui è profondamente permeato l'ordinamento societario, finanziario ed istituzionale, tanto da far affermare, all'illustre Guido Rossi, che "il risparmio di massa galleggia letteralmente sui conflitti di interesse e la sua salvaguardia dipende, anzitutto, dalla corretta impostazione di tali conflitti, la cui esistenza è peraltro fisiologica all'agire economico". Occorre pertanto ripartire dal male oscuro dell'ordinamento finanziario, lavorando ad una revisione dei meccanismi di corporate governance, dei processi decisionali interni alle società, troppo spesso affidati ad amministratori che agiscono alla stregua di monarchi assoluti, al di sopra ed a prescindere da ogni forma di controllo. Nel procedere in quest'opera di riscrittura delle regole del gioco, è corretto immaginare che il primo intervento del diritto nell'ambito economico e dell'impresa debba avvenire sul piano della prevenzione, avvalendosi degli strumenti propri del diritto civile, del diritto amministrativo e dell'autoregolamentazione. Arrivando, per questa strada, alla configurazione di un diritto penale minimo ma efficace e severo, nel sanzionare quei comportamenti ritenuti immediatamente offensivi di quegli interessi meritevoli di protezione, perché in diretta e stretta relazione con la tutela della funzione di vigilanza, epicentro del complesso normativo a difesa del risparmio. ; XXI Ciclo ; 1972
Come, dunque, studiare Ernesto Basile oggi e quale ambito della sua copiosa produzione analizzare? Alla luce dello stato degli studi odierni si potrebbe ritenere che possa essere stato detto tutto. Tuttavia, ci sono diversi ambiti che si offrono a ulteriori indagini, a nuove letture e ricerche. Tra questi, vi è quello dei viaggi, non irrilevante, per diverse ragioni. Una prima motivazione, che vale per Ernesto Basile così come per altri architetti, è quella più interna ed è strettamente legata alla natura stessa dell'architettura e dei luoghi, alla formazione continua dell'architetto e al ruolo che hanno i viaggi nel processo di costruzione o assimilazione del patrimonio di immagini e dei portati teorici. Solo entrando dentro gli spazi, girandoci attorno, osservando il mutare delle ombre col variare della luce, cogliendo il colore dei materiali e dei contesti, osservando la gente muoversi e "modificare lo spazio", si può fare un'esperienza attiva, formativa, sincera e diretta, riducendo i filtri posti tra il fruitore e l'opera architettonica. In questo senso e per l'arco cronologico di cui questa tesi di dottorato si occupa, è esplicativo e fa da guida lo studio di Fabio Mangone sugli architetti nordici in Italia dal 1850 al 1925. Mangone li definisce «viaggiatori specialistici» e mette in evidenza nuove tendenze rispetto all'immaginario e alla pratica più ampia e antica del classico Grand Tour, già documentato da numerosissimi esempi di letteratura odeporica e studi odeporici. Un'altra, non meno importante e di carattere metodologico, è quella legata ai concetti di transfers culturel, cultural exchanges e histoire croisée, introdotti negli Anni Ottanta da Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, applicabili a diversi ambiti dello studio storico, e in particolar modo agli studi sui viaggi degli architetti. Possiamo riassumere cosa si intende per transfert culturel, cultural exchanges e histoire croisée, attraverso le parole di Michael North che, in un suo saggio sulla storia economica, ne fa un'analisi comparativa: «Cultural exchange and cultural transfers have become an independent field of research in the last 20 years. This began in the 1980s, when Michel Espagne and Michael Werner coined the term "transfers culturels" to refer to the transfer of elements of a "French National Culture" to Germany and its reception there during the eighteen and nineteen centuries. Espagne, Werner and their followers focussed on national cultures in order to avoid some of the shortcomings of comparative history by contextualizing questions of transfer, reception, and acculturation». Sulla scia delle sollecitazioni avviate anche dai contributi di Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, le riflessioni attuali nell'ambito storiografico vertono sempre più sul rapporto fra la realtà delle vicende nazionali o regionali e quelle più ampie e di carattere internazionale o generale, quindi su cosa è al centro e cosa è periferico. Questo tipo di analisi può essere usato come filtro di indagine per rispondere ad alcune questioni fondamentali nel caso Basile, cioè per sapere quanto, in cosa e in che modo il suo modernismo è debitore a realtà "extraterritoriali" e quanto, in cosa e in che modo, al contrario, il "fenomeno Basile" sia invece il frutto di particolari condizioni ambientali locali, portatrici di istanze identitarie fondamentali, attraverso lo studio dei suoi viaggi. Un'ulteriore lente di ingrandimento con cui potere osservare aspetti specifici all'interno del più ampio fenomeno dei viaggi specialistici e dei contatti internazionali è quello dei legami con gli espatriati, in forma privata, come nel caso della corrispondenza ad esempio, o in via ufficiale nella partecipazione a concorsi internazionali con il ruolo di giurato, come accade a Ernesto Basile. Se non è difficile sapere, attraverso le letture consultate da Basile, di quale patrimonio di immagini egli disponesse, al contrario, pur sapendo che ha viaggiato, andando in luoghi che potremmo chiamare "strategici" per le vicende architettoniche europee a lui contemporanee, nelle quali - è opportuno dire - si trovava dentro, non è stato, ad oggi, documentato in modo sistematico quali architetture e spazi egli abbia effettivamente visitato e chi abbia incontrato nelle sue mete. Lo studio dell'archivio di Ernesto Basile (che nonostante alcune lacune - si pensi all'esigua quantità di corrispondenza a noi pervenuta - è uno dei più cospicui fra quelli del Novecento italiano) ha consentito di potere avviare un'indagine sugli spostamenti, le mete di viaggio, le impressioni, le tappe, gli appuntamenti, puntualmente annotati nei taccuini e nelle agende personali. Basile stesso parla di viaggi e ne organizza. Egli ne scrive, ad esempio, quando fornisce un reportage dall'Esposizione di Parigi del 1878, oppure quando, in un modo per certi aspetti ancora più significativo, racconta di "Un viaggiatore italiano del secolo XVI", che parte «dall'estremo della Sicilia al lembo delle Alpi», scritto dal quale lo studio dei suoi viaggi ha inizialmente tratto spunto. Un'attenzione particolare all'interno del tema generale, è stata certamente richiesta dall'occasione del viaggio del 1888 a Rio de Janeiro, che vede Basile incaricato della progettazione per la Nuova Avenida de Libertação, nella capitale brasiliana, a ridosso del cambio di regime, a seguito del quale questo importante lavoro viene interrotto. Per questo motivo gli studi sono stati estesi alla cartografia di Rio de Janeiro e alla storia urbanistica della città. Le carte storiche di Barcellona, Parigi e di altre mete europee, per il solo periodo relativo ai viaggi esteri di Basile, quindi per un periodo compreso fra gli anni 1876 e 1900, rientrano tra gli utili strumenti di questo lavoro. L'indagine è stata svolta su tutto l'arco di attività - dal 1876, anno del primo viaggio di studio documentato, ed effettuato con il padre Giovan Battista Filippo Basile, alla volta di Parigi, passando per diverse città italiane, al 1932 anno della sua morte – e ha avuto come principale sfida metodologica la sua profonda natura multidisciplinare. In prima istanza coinvolgendo la storia dell'architettura, la scienza archivistica e l'odeporica, quindi molte altre discipline. Si è analizzata la produzione scritta di Ernesto Basile relativamente ai viaggi, evidenziandone le continuità e le discontinuità in relazione alla più vasta produzione architettonica. In merito a quest'ambito, esce fuori un quadro che getta una luce soprattutto sugli esordi e il clima particolarmente favorevole per una classe di giovani artisti e professionisti, che si raduna nel triennio 1878-1880 intorno alla redazione del periodico scientifico, letterario e artistico palermitano «Pensiero ed Arte», e che si fa strada, a volte guidata per mano dai predecessori, altre in opposizione alle voci più ufficiali e tradizionali delle accademie. La funzione di guida, in questo caso, è certamente quella del padre, Giovan Battista Filippo Basile, ma questa guida viene affiancata da altre figure di rilievo, quali ad esempio quella di Gaetano Giorgio Gemmellaro, di cui si documenta puntualmente una delle attività laboratoriali svolte per la Regia Scuola di Applicazione per gl'Ingegneri di Palermo. I primi viaggi sono viaggi di esplorazione e studio lungo il territorio italiano, con qualche puntata a Parigi, dove il giovane Ernesto conosce Garnier. Anche l'esperienza del militare viene usata dall'appena laureato Ernesto Basile come pretesto per un lungo e approfondito sopralluogo nell'Italia centrale, tra la Campania e l'Abruzzo, alla ricerca di segni di "antico", e ogni genere di traccia storica sul paesaggio costruito. Gli appunti sono numerosissimi e vengono accompagnati da disegni tanto piccoli quanto accurati, delle miniature, poste a margine delle lettere che egli spedisce alla famiglia. Appena qualche anno dopo, questo bagaglio di immagini, unito al desiderio di un approfondimento, lo spingerà a indirizzare le escursioni tecniche della Regia Scuola Romana, avendone la facoltà in qualità di docente incaricato, dando un grande contributo in Italia al filone degli studi sul vernacolare, l'architettura "spontanea" e sui centri minori. E' così che dalla pratica delle escursioni tecniche si passa ai veri e propri viaggi d'istruzione, documentati dagli annuari di quegli anni. La figura di Ernesto Basile come viaggiatore procede quindi di pari passo con quella del professionista, dell'architetto che va dove gli incarichi lo chiamano e dove egli ritiene davvero opportuno andare. I tempi e gli spostamenti sono generalmente lunghi e prendono una media di venti giorni per ogni viaggio estero. Sono anni che lo vedono andare in posti particolarmente caldi per l'architettura contemporanea, con un tempismo da vero professionista, quale è. Con dei colpi fortunati, anche, come capita per la sosta a Barcellona nel 1888 sulla via del Brasile. E con dei colpi mirati; è questo il caso emblematico dell'ancora misterioso viaggio a Vienna nel 1898, l'anno della Secessione Viennese. La conoscenza di quello che accadeva era veicolata dagli articoli sulle riviste, come si sa, ma certamente anche dai rapporti con altri artisti e professionisti che hanno tra i propri fulcri culturali Roma, città a cui Ernesto Basile resterà legato per tutta la vita, se consideriamo anche l'enorme e lunghissimo incarico di Montecitorio. E' lungo le vie della ricerca dell'antico e del contemporaneo che Ernesto Basile dipana tutta la sua vicenda progettuale e indirizza gli studi, le escursioni, le letture. Il contatto con l'antico, da buona tradizione post-illuminista e positivista, è sempre diretto, egli non si accontenta di superficiali acquisizioni frutto dello sguardo altrui. E' ovviamente un grande lettore, ma la scuola palermitana di cui è pienamente figlio lo aveva iniziato alla cultura del disegno come scienza, come mezzo di indagine, come strumento per la resa dell'idea, sulla via della realizzazione. E un altro incarico emblematico lo metterà sulla strada dell'antico, portandolo dapprima in Egitto, quindi in Grecia, nel 1895. I viaggi analizzati sono ampi, eterogenei e documentati, anche se non sempre in modo omogeneo : a volte lo sono con le parole sotto forma di diario, in altre attraverso liste di posti visitati, in altre ancora con le immagini dei suoi schizzi di viaggio. Il ragionamento e l'indagine sono articolati in quattro momenti, che seguono un ordine cronologico e tematico, andando dai viaggi del periodo della formazione (1876-1880) a quelli della piena maturità (1898-1900). Il percorso si muove lungo un binario principale, quello della ricerca sui viaggi esteri, con una strada parallela che si dipana nel territorio italiano nell'arco di tempo analizzato. La città di Parigi ha un ruolo cardine perché apre e chiude la lunga ma discontinua stagione dei viaggi esteri: dal primo viaggio a Parigi, effettuato nel 1876 con il padre, all'ultimo viaggio a Parigi, in occasione dell'Esposizione Universale del 1900, passano ventiquattro anni. Dopo quella data non si riscontrano altri viaggi fuori dall'Italia. Fulcro di tutti questi spostamenti è sempre e comunque Roma, anche dopo il 1892 e il ritorno a Palermo come residenza principale. La lettura delle agende ha evidenziato che dal 1893 al 1932 Basile passa almeno un mese a Roma ogni anno e generalmente almeno un altro mese in viaggio per altre località italiane, tra queste la seconda città più visitata è certamente Napoli. Del periodo della formazione vengono studiati due viaggi e un'escursione scientifica. I due viaggi sono in qualche modo l'uno la continuazione dell'altro e sono affini per lo studio dell'architettura storica italiana. Se nel primo caso, quando l'allievo Ernesto Basile va a Parigi e in alcune città italiane, Giovan Battista Filippo Basile, suo padre e maestro, è fisicamente presente, facendogli da guida e introducendolo anche in ambienti accademici (a Roma) e professionali (a Parigi), nel secondo viaggio, quello del militare, egli è comunque presente in modo costante nei pensieri e nell'attività di ricerca del giovane Ernesto che gli indirizza un centinaio di lettere in cui descrive minuziosamente ogni architettura vista, individuata, "classificata" e ritratta. Questo viaggio del militare, che pure è un viaggio accidentale e in qualche modo obbligatorio, è tuttavia il primo lungo, consapevole tour italiano che Ernesto Basile compie volutamente, ampliando il bagaglio di conoscenze acquisito nel 1876 accanto a Giovan Battista Filippo Basile. Tra queste due significative esperienze viene documentata e descritta un'escursione scientifica di un solo giorno che apre un breve spaccato sulla rigorosa preparazione tecnica in seno alle attività formative previste nel corso di studi per gli allievi ingegneri e architetti della Regia Scuola di Applicazione di Palermo. La ricerca prosegue seguendo il binario dei viaggi internazionali con un saggio su quello che accade otto anni dopo. Anche in questo caso i viaggi predominanti sono due: il primo è quello in Svizzera, previsto nell'attività didattica della Regia Scuola d'Applicazione di Roma, dove Basile è docente a contratto, il secondo è quello in Brasile, dove si reca all'improvviso per progettare su incarico diretto uno dei nuovi principali assi stradali della città di Rio de Janeiro. Questi due viaggi sono accomunati dalla motivazione del viaggio (in entrambi i casi due incarichi professionali, come docente e come progettista) e dal tipo dai soggetti rappresentati negli schizzi di viaggio: architetture storiche dei secoli precedenti, eccezione fatta per la torre dell'ascensore a Bahia. Lungo il tragitto vi è la visita alla città di Barcellona durante l'Esposizione Universale del 1888, una fortunata sosta fra le altre previste lungo la rotta fra Genova e il Brasile. Nell'ultimo periodo analizzato (1895-1900) si svolgono quindi gli altri viaggi esteri di Basile, anche questi legati a due incarichi, questa volta di natura istituzionale. Nel 1895 Basile avrà l'occasione di visitare l'Egitto, chiamato a fare parte della giuria internazionale per il concorso al Museo di antichità egizie del Cairo e la Grecia, sulla strada del ritorno. Dal 1898 al 1900, veloci e purtroppo poco documentati, si svolgono i viaggi nell'Europa centrale, con Parigi come polo di attrazione per l'Esposizione Universale del 1900, dove è membro della Commissione reale. Questa esperienza chiude definitivamente il ciclo dei viaggi esteri ma non quello dei viaggi italiani che continuano, costantemente lungo tutto l'arco di attività, fino ad un ultimo viaggio a Roma a maggio del 1932, anno della morte.
È oggetto del presente lavoro di ricerca il pensiero filosofico-politico e giuridico di frate Bartolomé de Las Casas. Senza pretese di completezza e con il solo scopo di fornire linee guida per la sua valutazione critica, ho analizzato la complessa struttura intellettuale di Las Casas, le cui idee non si manifestano come rispondenti a un'unica e specifica scuola di pensiero, ma si avvicinano a diverse correnti di opinione e si collocano in una posizione d'avanguardia rispetto alla cultura medievale. Pur richiamandosi spesso ai maestri della Scuola di Salamanca e rifacendosi a numerosi fonti tradizionali del diritto, Las Casas riesce a organizzare il materiale così ricavato in maniera coerente, adattandolo a una situazione inedita e rendendolo effettivamente originale. Senza intento di dare risposte definitive, ho provato a offrire uno schema lineare e completo dell'apparato ideologico lascasiano, al fine di dimostrare l'importanza del suo contributo nell'ambito della Filosofia del diritto e della Filosofia politica. Ho scelto di studiare e approfondire le tre opere portanti del pensiero lascasiano: l'Apologética Historia Sumaria, il De Unico Vocationis Modo e il De Regia Potestate, nell'intento di fornire una visione d'insieme del progetto intellettuale di Las Casas e dare una spiegazione organica delle sue tendenze antropologiche, religiose, politiche e giuridiche, tra loro strettamente connesse. Dalla lettura critica dell'Apologética Historia Sumaria si ricava che: 1. in Las Casas esiste l'idea portante di unità del genere umano e da detta idea prende spunto l'intera sua speculazione filosofica: tutti gli uomini, indipendentemente dalle caratteristiche fisiche, dalle condizioni sociali e dal livello culturale, sono uguali, in quanto dotati di ragione. Di conseguenza, tutti gli uomini, di qualsiasi nazione, godono degli stessi diritti naturali, inalienabili e inviolabili e devono essere rispettati allo stesso modo; 2. Las Casas crede nell'ideale evolutivo della società: non esistono società superiori o inferiori per definizione, ma esistono società temporalmente più antiche, che hanno accumulato una maggiore esperienza storica e che, per questo motivo, possono fungere da modello di civilizzazione, come nel caso della società europea. D'altra parte, tutte le società, finanche quella indigena, possiedono la capacità di giungere al livello più alto della cultura mediante l'educazione; 3. infine, Las Casas riprende criticamente il concetto aristotelico di "servo di natura" per interpretarlo mediante gli strumenti fornitigli dal cristianesimo: tutti gli uomini sono ugualmente degni e non esistono servi di natura se non per cause puramente accidentali. Di conseguenza, tutti gli uomini godono dei diritti naturali fondamentali, che non possono essere violati in nessun caso, neppure in nome di una presunta superiorità. Dalla lettura critica del De Unico Vocationis Modo si ricava che: 1. la religione è la colonna portante del pensiero lascasiano, tanto è vero che la fonte più citata nelle sue opere, salvo che nel De Regia Potestate, è la Sacra Scrittura. Pur mantenendo un'impostazione prevalentemente ortodossa, Las Casas mostra degli elementi di avanguardia, schierandosi contro l'assolutismo etico e dicendosi consapevole del fatto che neppure l'universalismo del cattolicesimo può appiattire le differenze; 2. Las Casas è un deciso difensore del rispetto delle credenze, delle culture e dei costumi, anche se diversi da quelli europei. Pur sostenendo che la verità è unica e appartiene alla sola religione cristiana, egli lotta per l'autodeterminazione religiosa dei popoli, i quali devono decidere autonomamente se aderire alle idee evangeliche o meno. Si colloca fuori dalla grazia di Dio chi tenta di imporre il Vangelo mediante la violenza e la sopraffazione, perché l'unico modo per attrarre gli uomini alla vera religione è quello persuasivo dell'intelletto e attrattivo della volontà. Solo il metodo pacifico è legittimo e conduce gli uomini sulla via della giustizia; 3. dunque, secondo Las Casas non è possibile imporre un sistema di valori, in generale, e una religione, in particolare, per quanto detentrice della verità. Nello specifico, egli si schiera contro l'uso della guerra al fine di evangelizzare: essa è iniqua, tirannica e ingiusta e costituisce un grave attentato contro il diritto naturale; 4. infine, Las Casas getta le fondamenta perché si possa incominciare a parlare di libertà religiosa, intesa non solo come un tentativo di non forzare i popoli a convertirsi al cristianesimo, ma anche e soprattutto come impegno a rispettare le culture e le credenze religiose diverse e proprie di ciascun popolo. Dalla lettura critica del De Regia Potestate si ricava che: 1. in Las Casas è preponderante la visione contrattualista: l'uomo è un soggetto comunicativo e l'insicurezza, il bisogno e la precarietà lo inducono a riconoscere l'altro, a stringere con lui patti certi e a rispettarli; 2. il pensiero di Las Casas è democratico e anticipa la modernità, basti pensare ad alcuni principi tipici del giusnaturalismo posteriore: il popolo come unica fonte del potere sovrano, il patto sociale come costitutivo del potere, il carattere volontario dell'associazione politica, il potere del principe come giurisdizione e non come dominio, il governo delle leggi e non delle persone, le libertà originarie e l'uguaglianza di tutti i popoli; 3. i principi sopra elencati diventano costitutivi dell'identità e autonomia di ciascun popolo e da essi nasce il concetto di libertà politica, intesa come la possibilità di godere e di esercitare nella pratica i propri diritti. Las Casas è chiaro nell'affermare che i cittadini, nell'assoggettarsi a un'autorità non perdono la loro sovranità, né tantomeno le loro libertà primigenie. Infatti, il grado di perfezione di una comunità è direttamente proporzionale alla libertà di cui godono i suoi cittadini: a maggiore libertà corrisponde maggiore perfezione; 4. infine, il nucleo centrale del trattato consiste nell'ammonizione dei governanti che compiono fatti o atti lesivi degli interessi e dei diritti dei cittadini. Nella pratica, afferma Las Casas, il governante non può alienare la giurisdizione, i beni fiscali o le proprietà del regno e dei privati. Egli, infatti, è solo un mandatario della comunità e non può agire se non avallato dal consenso di tutti i componenti. Esponendo l'idea del dominium, cioè della proprietà su se stessi e sui propri beni, Las Casas denuncia le prevaricazioni degli spagnoli sugli indios e, in particolare, la pratica dell'encomienda. Come è evidente, l'originalità del pensiero di Las Casas non risiede nelle idee singolarmente considerate, facilmente riconducibili a correnti filosofiche a lui precedenti, quanto nel loro congiunto: studiate organicamente, esse rappresentano un armonico inno alla libertà, alla democrazia e alla pace e fanno di Las Casas il filosofo dei diritti. Partendo da fonti tradizionali e ricorrendo a dottrine che non destano il sospetto di eterodossia, Las Casas propone qualcosa di nuovo, che servirà da spinta verso la modernità. Egli riprende i materiali intellettuali tipici del medioevo e della cristianità per disporli in maniera originale, così che possano essere adattati ai prima inimmaginabili scenari, che con l'incontro dell'America si prospettano reali per l'umanità. In tal senso, non bisogna dimenticare che Las Casas vive e scrive in un periodo di transizione epocale, in cui si verificano episodi cruciali per il passaggio dalla tradizione alla modernità. Egli opera in un periodo in cui un nuovo mondo può essere costruito, oltre che immaginato: infatti, l'originalità del progetto lascasiano diventa ancora più pregnante se si considera il suo impegno nel realizzarlo nel contesto delle Indie. Oltre a dimostrare coraggio morale e forza intellettuale, Las Casas è esempio di attivismo; infatti, la sua produzione, che si compone di una grande quantità di opere, è interamente finalizzata all'applicazione pratica. Con le sue teorie Las Casas vuole riuscire a gestire l'incontro tra Vecchio e Nuovo Mondo e a mediare tra gli interessi di popoli diversi, che adottano universi simbolici in gran parte discordanti tra loro. Egli prova ad affrontare la difficile transizione storica che l'Europa si trova a vivere dopo la scoperta dell'America, senza cadere in logiche imperialiste e in ideologie belliciste, ma piuttosto proponendo un modello che, ante litteram, potrebbe definirsi di pluralismo pacifista. Con un atteggiamento che non ha precedenti nella cultura europea, Las Casas inaugura un approccio plurale alla realtà prospettatasi dopo il 1492: egli abbandona il triviale pregiudizio razzista e incomincia ad ascoltare il punto di vista degli "altri", anche se infedeli, e tenta di accogliere serenamente le diversità. Las Casas non propone l'immagine della superpotenza europea destinata a governare il mondo, ma sottolinea la reciprocità di diritti e doveri tra spagnoli e indigeni autoctoni, insistendo sul doveroso rispetto dei costumi altrui. Egli è convinto sostenitore che ciascun popolo possiede una propria storia, un proprio destino e propri valori di riferimento, che devono essere rispettati. In altri termini, ogni popolo possiede una propria cultura, le cui caratteristiche dipendono dalle precondizioni antropologiche e sociologiche in cui si forma e che, di conseguenza, è particolare, contingente e provvisoria. Las Casas, dunque, si schiera contro il monismo culturale e pur riconoscendo la possibilità dell'esistenza di culture temporalmente più avanzate, come quella europea, non conferisce loro una funzione egemonica, ma anzi si prodiga perché le diverse culture possano rispettarsi e dialogare tra loro al fine di migliorarsi vicendevolmente. Ad esempio, così come gli spagnoli possono insegnare agli indigeni l'arte della dialettica, gli indigeni possono insegnare agli spagnoli l'arte del vivere secondo natura, ed entrambi trarne beneficio. Dunque, Las Casas denuncia il carattere ingannevole delle visioni imperialiste e propone un modello socio-politico meno ambizioso e presuntuoso, capace di accettare senza scandalo le diversità culturali, le discontinuità storiche e la frammentazione dei saperi. Egli promuove ante tempora gli ideali di solidarietà, fratellanza e uguaglianza e, in virtù di questi, combatte l'aggressività degli europei che nel XVI sec. vengono totalmente travolti dalla logica bellicista della conquista. Egli condanna gli spagnoli che, in nome di una presunta eccellenza morale, inneggiano alla guerra e benedicono idoli sanguinari, degradando uomini già deboli e sconfitti. Essi emettono sistematicamente sentenze di morte collettiva contro uomini che non hanno compiuto alcun illecito: la loro unica colpa è essere indios. Las Casas denuncia la magniloquenza e la violenza omicida degli aggressori e, da buon cristiano, si schiera dalla parte dei deboli, degli indigeni, dei poveri, dei vinti e di tutti quei soggetti che sono oppressi da una struttura sociale ingiusta. Egli condanna l'ideologia della "guerra giusta" e la considera solo una supina legittimazione a posteriori delle sistematiche prevaricazioni perpetrate dagli europei a discapito degli aborigeni americani: infatti, la guerra che gli spagnoli conducono contro gli indios è una vera e propria guerra di aggressione, asimmetrica e impari, in cui il potere degli aggressori è irresistibile e la difesa degli aggrediti senza speranza. In questo senso, l'unica "guerra giusta" è la guerra di difesa condotta dai popoli autoctoni continuamente vessati. Las Casas è lontano dall'intendere la guerra che ha come scenario le terre americane come una guerra del bene contro l'asse del male: nessuna civiltà, come nessun uomo, è detentrice del puro bene o del puro male. Tutte le civiltà, come tutti gli uomini, presentano in sé una parte di bene e una parte di male e, perciò, perché sia possibile un miglioramento, devono procedere insieme, dialogando e confrontandosi tra loro. Quindi, Las Casas propone un nobile ideale comunitario, basato sulla collaborazione tra popoli e sul rispetto e l'integrazione del diverso. Disegna il suggestivo quadro di un nuovo mondo fondato sulla giustizia, in cui è possibile la convivenza pacifica e in cui tutti gli uomini possono considerarsi ugualmente liberi. Questo è ciò che fa di Las Casas un pensatore straordinariamente e drammaticamente attuale. Non è un caso che ancora oggi la sua figura continui a suscitare molto interesse e numerose controversie interpretative: basti pensare che, a distanza di cinquecento anni, i movimenti che in Latino America si ispirano alla teologia della liberazione e perseguono l'obiettivo del rinnovamento cattolico, ufficialmente esposto per la prima volta dal Concilio Vaticano II, riprendono benevolmente la figura di Bartolomé de Las Casas. A titolo di esempio, si consideri la diocesi del Chapas, in cui Las Casas ha svolto la funzione di vescovo, che ancora oggi è impegnata nella lotta degli indios nella selva Lacandona e nella diffusione della dottrina cattolica-sociale. Las Casas ha proposto e affrontato questioni che nei nostri giorni rimangono aperte: egli ha vissuto e descritto tragici eventi, attribuendo loro una portata universale che va ben oltre alla questione indigena e coinvolge tutti gli uomini, di ogni luogo e tempo. In particolare, è stupefacente constatare la continuità che esiste tra gli argomenti utilizzati da Las Casas nel XVI sec. e quelli utilizzati oggi dai critici della politica espansionista dell'Occidente: in un'epoca in cui l'Occidente tenta di esportare i propri valori, in virtù di una presunta maggiore razionalità, e il mondo islamico non riesce a rispondere se non con lo strumento del terrorismo, la figura di Bartolomé de Las Casas ritorna di estrema attualità. In un mondo in cui a governare è l'economia di mercato e la politica incentiva la conflittualità tra popoli, Las Casas ritorna a ricordare i principi cattolici di fratellanza e uguaglianza, si erge nuovamente a simbolo di tolleranza, difende rigorosamente il pacifismo e riconosce l'alterità in nome della comune condizione umana.
Rosario Diana Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISPF-CNR) rosariodiana61@gmail.com Editoriale Performative Thinking in Humanities Un Quaderno periodico Editoriale in cui si spiega che il Quaderno Think Tank PTH – Performative Thinking in Humanities diventerà una pubblicazione annuale dedicata alla disseminazione dei saperi filosofici e umanistici attraverso le arti audiovisive e musicali. Filosofia, Musica, Teatro, Impegno, Politica Fabrizio Masucci Museo Cappella Sansevero fabriziomasucci@museosansevero.it Un melologo filosofico per Raimondo di Sangro principe di Sansevero Prefazione del Presidente del Museo Cappella Sansevero al libretto e alla partitura del melologo. Velo, Cristo velato, Museo Cappella Sansevero, Teatro della Filosofia, Disseminazione Rosario Diana Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISPF-CNR) rosariodiana61@gmail.com Il pensiero velato Una meditazione notturna del principe di Sansevero melologo in quattro quadri per voce recitante, voci registrate e percussioni libretto Basato sulle opere di Raimondo di Sangro e su altri testi dell'epoca concepiti nella cerchia dei cosiddetti Liberi pensatori, il libretto mette a fuoco la personalità del principe di Sansevero nel momento in cui scrive la Supplica (1753) da inviare a Benedetto XIV per chiedergli di derubricare la sua Lettera apologetica (1751) dall'Index librorum prohibitorum. Raimondo di Sangro viene presentato come un ostinato difensore della libertà di pensiero e della tolleranza. Il suo interesse per il sistema di segni del popolo peruviano (quipu) denuncia in lui un'attenzione per la scrittura, intesa come l'unico strumento concesso all'uomo per lasciare traccia di sé e guadagnare quindi una immortalità (non personale) nella fama. Pensiero critico, Tolleranza, Censura, Scrittura, Sperimentazione Rosalba Quindici Hochschule der Künste Bern rosalbaquindici@yahoo.it Il pensiero velato Una meditazione notturna del principe di Sansevero melologo in quattro quadri per voce recitante, voci registrate e percussioni score Partitura musicale del melologo. Musica contemporanea, Ricerca timbrica, Percussioni, Scrittura, Sperimentazione Rosario Diana Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISPF-CNR) rosariodiana61@gmail.com Pandemia 2020 / scena deserta Breve storia di un progetto nato e mutato dall'emergenza sanitaria Il breve saggio racconta le fasi di lavorazione necessarie a produrre il video Pandemia 2020 / scena deserta, che evoca il tema dei teatri chiusi per la l'epidemia di Covid-19 ed è dedicato ad attori e musicisti in difficoltà perché rimasti senza lavoro. L'esplodere dell'emergenza sanitaria ha costretto i partecipanti a modificare il progetto mentre era in corso di svolgimento. Teatro, Video, Scenografia, Musica, Sceneggiatura Nera Prota Accademia di Belle Arti di Napoli nera.prota@yahoo.com Pensare con le mani nell'era digitale Manualità tra Information Technologies (IT) e creatività umana Nelle Accademie di Belle Arti, sempre più spesso l'information technology è proposta come un sostituto o un surrogato dello sviluppo individuale della manualità. Coloro i quali, per qualsiasi motivo, si sentono a disagio nell'usare la loro manualità, possono trovare un'apparente via di uscita nell'uso dei software. Tuttavia, questo trend rinforza la perdita di manualità impedendo alle persone di costruire un loro personale linguaggio artistico. L'aiuto delle macchine nella produzione artistica incontra un'esigenza di mercato, consolidando l'idea fittizia che la creatività umana possa essere espressa attraverso processi standardizzati. Certamente, ciò è funzionale all'interesse del mercato. Per esempio, uno dei software più usati in ambito artistico progettuale è il CAD (Computer-aided design). Il nome del software immediatamente svela la relazione asimmetrica con l'utente. In molti casi, software come il CAD possono interagire direttamente con altre macchine complesse (ossia macchine a controllo numerico) per intraprendere attività di larga scala ed estrema precisione. In questo saggio, l'autrice ricerca il confine tra la produzione industriale e la creatività umana in ambito artistico, sfatando in questo modo alcune ambiguità sul ruolo che la tecnologia ricopre nella società. Design, Virtuale, Arte, Tecnologia, Didattica Benedetta Tramontano Accademia di Belle Arti di Napoli bene_98@hotmail.it Ricerca stilistica e scelte personali Tecla: un'evocazione visuale in tre bozzetti di una città invisibile di Italo Calvino Nel contributo si descrivono le modalità seguite nel dare una raffigurazione fantastica – dunque soggettivo-prospettica – di una delle città invisibili di Italo Calvino: Tecla, la metropoli-cantiere. L'Autrice ha deliberatamente scelto il disegno e la colorazione a mano libera, rifiutandosi di utilizzare software di disegno digitale. Acquerello, china, bozzetto, colore, disegno digitale Rosario Diana Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISPF-CNR) rosariodiana61@gmail.it Giancarlo Turaccio Conservatorio Statale di Musica di Salerno "Antonio Martucci" giancarlo.turaccio@gmail.com Un ascolto iniziatico Conversazione tra un filosofo e un compositore sulla musica acusmatica Un ricercatore di filosofia e un docente di composizione dialogano sulla musica acusmatica, ossia quella proposta (anche in concerto) in assenza della sua fonte sonora. La discussione ricostruisce brevemente la storia del concetto e mette in evidenza l'importanza dell'ascolto "puro", fondato sulla relazione diretta fra l'orecchio e l'oggetto sonoro. Pitagorici, Pierre Schaeffer, Walter Benjamin, Oggetto sonoro, Spazializzazione del suono Gianvincenzo Cresta Conservatorio Statale di Musica di Avellino "Domenico Cimarosa" gianvincenzo.cresta@conservatoriocimarosa.org Ricordo di Bruno Maderna (1920-1973) a cento anni dalla nascita Del canto immobile Qualche riflessione su Per Caterina di Bruno Maderna per violino e pianoforte Spesso nell'indagine storico analitica su un compositore si cerca una sintesi e ci si focalizza su alcune opere ritenendole maggiormente rappresentative. È una via possibile che però delimita l'identità del compositore, piegandolo a una narrazione semplificata, mentre invece il cammino creativo di un artista è un complesso caleidoscopio. Per Caterina di Bruno Maderna è un breve brano per violino e pianoforte composto nel 1963, il cui esito, pur ponendosi in rottura rispetto ad altre sue opere e agli stilemi stilistici degli anni '50 e '60, si colloca con naturalezza nell'arco creativo dell'autore. È un brano emblematico del suo modo di vivere la musica come fenomeno unitario, senza steccati stilistici e categorizzazioni. La retorica è per Maderna un mezzo e non un'estetica e la musica un'esperienza complessa che mescola al sonoro il percettivo, il motorio e l'emozionale. Afferma Maderna: «la musica non può essere che un fatto espressivo, un suono suscita reazioni e i suoni non sono che mezzi». Identità, Canto, Antico, Modernità, Libertà Tommaso Rossi Conservatorio Statale di Musica di Benevento "Nicola Sala" info@tommasorossi.it Una grande Aulodìa Flauto e oboe nella "melodia arcaica" di Bruno Maderna Nella variegata e copiosa produzione musicale di Bruno Maderna la scelta di dedicare una particolare attenzione al flauto e all'oboe – i due più acuti rappresentanti della famiglia dei "legni" – sembra andare oltre il pur comprensibile interesse del compositore per l'indagine timbrica di due affascinanti strumenti, ma è legato a ragioni più profonde, che risiedono in aspetti fondanti della poetica musicale del compositore. Il flauto e l'oboe sono "gli" strumenti della mitologia classica, e il loro suono particolare rimanda immediatamente alla Grecia antica, alla civiltà che il popolo greco ha creato e al culto della bellezza che ne è scaturito, influenzando il corso della storia dell'Occidente. Maderna guarda, attraverso il suono di questi strumenti, a questo mondo – oggi perduto – con il preciso desiderio di riproporre utopicamente, in una modernità segnata dalla violenza delle macchine e nel contesto di una società disumanizzata, un ideale superiore ma irraggiungibile di armonia. Attraverso l'analisi di molti dei lavori scritti da Maderna, che hanno per protagonisti il flauto e l'oboe, l'autore ricostruisce alcuni aspetti dell'estetica maderniana. Hyperion, Musica su due dimensioni, Grande Aulodia, Don Perlimplìn, Terzo concerto per oboe Rossella Gaglione Università degli Studi di Napoli Federico II rossellagaglione@hotmail.com Discorsi tra Eco e Narciso A proposito di un recente libro di Dario Giugliano Che rapporto c'è tra ίδιοςe κοινός? E come possono la filosofia (nello specifico la metafisica) e la letteratura coniugare questi due termini? Quanto è difficile, e allo stesso tempo necessario, comunicare con l'Altro, cioè trasferire la propria voce singolare all'interno del sistema segnico condiviso affinché possa essere compresa? Che cos'è l'esperienza? Cosa si intende per idiotismo? Com'è possibile leggere il mito di Eco e Narciso? Questi e altri interrogativi sono alla base del testo di Giugliano che – grazie anche al confronto con vari pensatori (tra cui Platone, Novalis e Nietzsche) – offre numerosi e interessanti spunti di riflessione. Idiotismo, comunicazione, esperienza, Filosofia, linguaggio ; Rosario Diana Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISPF-CNR) rosariodiana61@gmail.com Editorial Performative Thinking in Humanities A Periodical Book Editorial explaining that the Book Think Tank PTH – Performing Thinking in Humanities will become an annual publication dedicated to the dissemination of philosophical and humanistic knowledge through the visual and musical arts. Philosophy, Music, Theater, Commitment, Politics Fabrizio Masucci Museo Cappella Sansevero fabriziomasucci@museosansevero.it A Philosophical Melologue for Raimondo di Sangro principe di Sansevero Preface by the President of the Sansevero Chapel Museum to the libretto and score of the melologue. Veil, Veiled Christ, Sansevero Chapel Museum, Philosophy Theater, Dissemination Rosario Diana Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISPF-CNR) rosariodiana61@gmail.com The Veiled Thought A Nocturnal Meditation by the Prince of Sansevero melologue in four scenes for narrating voice, recorded voices and percussion libretto Based on the works of Raimondo di Sangro and on other texts of the circle of the Free Thinkers, the libretto focuses on the personality of the Prince of Sansevero when he writes the Supplica (1753) for Benedict XIV. In it he ask him to delete his Lettera apologetica (1751) from the Index librorum prohibitorum. Raimondo di Sangro is presented as an obstinate defender of freedom of free thought and tolerance. His interest in the system of signs of the Peruvian people (quipu) denounces in him an attention to writing, which – understood as a trace of an existence – can guarantee immortality in fame. Critical Thinking, Tolerance, Censorship, Writing, Experimentation Rosalba Quindici Hochschule der Künste Bern rosalbaquindici@yahoo.it The Veiled Thought A Nocturnal Meditation by the Prince of Sansevero melologue in four scenes for narrating voice, recorded voices and percussion partitura musicale Score of the melologue. Contemporary music, Timbric Research, Percussion, Writing, Experimentation Rosario Diana Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISPF-CNR) rosariodiana61@gmail.com Pandemic 2020 / Deserted Scene A Brief History of a Project that the Pandemic has changed The short essay describes the processing steps to produce the video Pandemic 2020 / deserted scene, which evokes the theme of closed theaters because of the Covid-19 epidemic and is dedicated to actors and musicians in difficulty, because without work. The explosion of the health emergency forced the participants to modify the project while it was in progress. Theater, Video, Scenography, Music, Screenplay Nera Prota Accademia di Belle Arti di Napoli nera.prota@yahoo.com Thinking with Hands in the Digital Age Crafting Art Amidst Information Technology (IT) and Human Creativity In Art Academies, IT is increasingly proposed as a substitute or a surrogate to developing individual crafting abilities. Those that, for any reasons, feel uncomfortable using their hands can easily find in computer applications an apparent way-out. However, this trend reinforces hands disability preventing individuals to build their own personal artistic language. Machine support in art crafting meets a growing market demand ushering in the fictitious idea that human creativity can be achieved through standardized processes. This is of course functional to market interests. For example, one of the most popular software is used in art design is CAD (Computer-Aided Design). The name itself highlights the asymmetric relation with the user. In many cases software like CAD can directly interact with other complex machines (i.e., numeric control machines) to undertake large-scale, precision tasks. In this essay, the Author will search the boundary between industrial production and human creativity, thus debunking some ambiguity about the role of technology in society. Design, Virtual, Art, Technology, Didactics Benedetta Tramontano Accademia di Belle Arti di Napoli bene_98@hotmail.it Stylistic Research and Personal Choices Tecla: A Visual Evocation in Three Sketches of an Invisible City by Italo Calvino The contribution describes the methods followed in giving a fantastic – therefore subjective-perspective – representation of one of Italo Calvino's invisible cities: Tecla, the building site-city. The Author has deliberately chosen freehand drawing and coloring, refusing to use digital drawing software. Watercolor, Ink, Sketch, Color, Digital Drawing Rosario Diana Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISPF-CNR) rosariodiana61@gmail.it Giancarlo Turaccio Conservatorio Statale di Musica di Salerno "Antonio Martucci" giancarlo.turaccio@gmail.com An Initiatory Listening Conversation between a Philosopher and a Composer about Acousmatic Music A philosophy researcher and a professor of composition talk about acousmatic music, which is proposed (even live) in the absence of her sound source. The discussion briefly reconstructs the history of the concept and highlights the importance of "pure" listening, which is based on the direct relationship between the ear and the sound object. Pythagoreans, Pierre Schaeffer, Walter Benjamin, Sound Object, Spatialization of Sound Gianvincenzo Cresta Conservatorio Statale di Musica di Avellino "Domenico Cimarosa" gianvincenzo.cresta@conservatoriocimarosa.org Memory of Bruno Maderna (1920-1973) One Hundred Years After his Birth On Steady Song Some Reflections on Per Caterina by Bruno Maderna for Violin and Piano In the analytic historical survey of a composer we usually look for a synthesis and we focus on some works that are considered more representative. It is a possible way but that can restrict the identity of the composer, bending it to a simplified narrative whereas the creative journey of an artist is a complex kaleidoscope. Per Caterina by Bruno Maderna is a short piece for violin and piano composed in 1963, and despite being in contrast with his other works and stylistic styles of the '50s and '60s, it is naturally placed in the creative arc of the author. It is an emblematic piece of his way of experiencing music as a unitary event, without stylistic fences and categorizations. Rhetoric is for Maderna a means and not an aesthetic and music is a complex experience that mixes sound with the perception, the motor and the emotional. Maderna says: «Music can only be an expressive fact, a sound that elicits reactions and sounds are only a means». Identity, Song, Ancient, Modernity, Freedom Tommaso Rossi Conservatorio Statale di Musica di Benevento "Nicola Sala" info@tommasorossi.it Una grande Aulodìa The Flute and the Oboe in Bruno Maderna's "Arcaic Melody" In Bruno Maderna's varied and copious musical production, the choice to devote particular attention to the flute and the oboe – the two highest pitched members of the "woodwind" family – seems to go beyond the composer's understandable interest in the timbre investigation of two fascinating instruments, but it is linked to deeper reasons, which reside in fundamental aspects of the composer's musical poetics. The flute and the oboe are "the" instruments of classical mythology. Their particular sound immediately recalls ancient Greece, the civilization that the Greeks founded, with its inherent cult of beauty, which influenced the whole history of Western civilization. Through the sound of these instruments, Maderna looks at this world – now lost – with the precise desire to re-propose utopically–in a modernity marked by the violence of machines and in the context of a dehumanized society–a superior but unattainable ideal of harmony. Through the analysis of many of his works, which feature the flute and the oboe, the author reconstructs some aspects of Maderna's aesthetics. Hyperion, Musica su due dimensioni, Grande Aulodia, Don Perlimplìn, Terzo concerto per oboe Rossella Gaglione Università degli Studi di Napoli Federico II rossellagaglione@hotmail.com Talkbetween Echo and Narcissus About a Recent Book by Dario Giugliano What is the relationship between ίδιος and κοινός? And how can philosophy (specifically metaphysics) and literature combine these two terms? How difficult is, and at the same time necessary, communicate with Other, that is to transfer one's singular voice in the shared sign system for this voice can be understood? What is experience? What is idiotism? What about the myth of Echo and Narcissus? These questions and other ones are the basis of Giugliano's text which – thanks also to the comparison with various thinkers (including Plato, Novalis and Nietzsche) – offers numerous interesting food for thought. Idiotism, Communication, Experience, Philosophy, Language
W artykule przyglądam się temu, jaką edukację polityczną warto rozwijać we współczesnej polskiej szkole i wszędzie tam, gdzie buduje się w ludziach zdolność do wspólnej i niewyalienowanej pracy. Kierunek rozważań wyznaczyła konieczność ustosunkowania się myśli pedagogicznej – i równoległego dostosowania praktyk wychowawczych – do zmian w sposobie koordynacji społeczeństwa, które dokonują się w atmosferze groźby wybuchu wojny. Rozważania te buduję na dotychczasowych badaniach własnych z obszaru uczenia się w ruchach społecznych, analizując trzy porządki zapewniające koordynację społeczeństw (neoliberalizm, nacjonalizm, militaryzm) w kontekście wykluczanych przez nie wartości: dobra wspólnego, samorządu i pokoju. Rezultatem pracy jest matryca przyporządkowująca te kontrwartości różnym typom współpracy (koordynacji, kooperacji i kolaboracji). Matryca pozwala identyfikować specyfikę konkretnych przykładów mobilizacji społecznej, jak i rozpoznawać luki w kształceniu kolektywnych umiejętności współdziałania. Rezultaty analizy pozwalają zoperacjonalizować praktyki oporu pod kątem celów wychowania i stawiają w nowym świetle problemy powiązań i nawarstwiania się wrogich szkole ideologii neoliberalizmu, nacjonalizmu i militaryzmu. ; The paper analyses types of political education worth developing in contemporary Polish schools and in other places dedicated to building human capacity to work together in a non-alienated way. The analysis is based on my own research from the area of learning in social movements. I analyze three orders ensuring social coordination (neoliberalism, nationalism, and militarism) in the context of the values they exclude: the common good, self-government and peace. The result of the work is a matrix assigning these counter-values, accordingly, to coordination, cooperation and collaboration. The matrix allows for identification of the specificity of some examples of social mobilization, as well as identification of gaps in teaching collective interaction skills. The results of the analysis can be used to operationalize the practices of resistance in terms of educational goals. They also put in a new light the problems of connections between and building up of ideologies hostile to schools, that is, neoliberalism, nationalism and militarism. ; satkow@gmail.com ; Uniwersytet Gdański ; Amici, F., & Bietti, L.M. (2015). Coordination , collaboration and cooperation. Interdisciplinary perspectives. Interaction Studies, 16 (3), 7–12. ; Armingeon, K., & Guthmann, K. (2014). Democracy in crisis? The declining support for national democracy in European countries, 2007–2011. European Journal of Political Research, 53 (3), 423–442. ; Bajaj, M. (2014). Pedagogies of resistance and critical peace education praxis. Journal of Peace Education, 12 (2), 154–166. ; Bieler, A., & Jordan, J. 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La riflessione sartriana sulla dialettica che si instaura tra la libertà ontologica costitutiva dell'esistenza umana e la necessità di una Storia pesantemente condizionata dal pratico-inerte, in cui in virtù della controfinalità, l'energia della nostra praxis è ritorta contro di noi, è senz'altro di stretta attualità: essa abbraccia un lungo arco di tempo, dagli anni della drôle de guerre in cui Sartre dichiara di aver conosciuto per la prima volta la Storia e di aver "scoperto il sociale" fino alla fine della vita di Sartre, quando il filosofo dichiarava che "ribellarsi è giusto". In particolare il periodo più significativo per l'evoluzione in senso storico-dialettico del suo esistenzialismo è quello compreso tra il 1960, data di pubblicazione del primo volume della Critique de la raison dialectique, dedicato alla teoria degli insiemi pratici, e il 1972, quando uscì L'Idiot de la famille, monumentale ricostruzione della biografia di Gustave Flaubert in cui viene applicato il metodo progressivo-regressivo teorizzato nelle Questions de méthode e banco di prova di "cosa si può conoscere di un uomo". In questi anni (1958-1962) Sartre scrive la parte del secondo tomo della Critique pubblicata postuma e dedicata al problema dell'intelligibilità della storia e tiene, nel 1961 e nel 1964 le due conferenze di Roma sulla questione della soggettività e sulle possibilità di un'etica nel pensiero marxista. Obiettivo del mio lavoro di ricerca, intitolato Storia e libertà: Hegel e Marx nel pensiero dialettico di Sartre. Una lettura delle Conferenze di Roma, è una ricostruzione storico-filosofica della prospettiva dialettica del pensiero di Sartre, un lungo e combattuto percorso di riflessione sul rapporto fra individuo e società e fra libertà umana e necessità storica culminato nella pubblicazione del primo volume della Critique, che mirava a superare gli errori prodotti in campo culturale dallo strutturalismo e in campo politico dallo stalinismo, e quindi a riportare il marxismo alla sua matrice umanistica, rileggendone le categorie alla luce dei nuovi saperi del Novecento. Per ricostruire il legame che unisce il primo e il secondo tomo della Critique e chiarire il senso dell'ultima parte della produzione sartriana, ho scelto di concentrarmi in modo particolare sui due testi delle Conferenze di Roma, interventi sartriani ancora parzialmente inediti in traduzione italiana e di cui in questi anni l'équipe Sartre dell'ITEM (Institut des textes et manuscrits modernes) di Parigi, fondata e a lungo animata da Michel Contat e attualmente coordinata da Jean Bourgault e Gilles Philippe, sta preparando un'edizione critica completa. Il percorso che ho seguito per sviluppare la mia tesi, ricostruendo la genesi delle due Conferenze e offrendone un contesto interpretativo, è articolato in tre capitoli e un'appendice. Il primo capitolo, intitolato Dalla libertà in situazione alla ricerca di un senso della storia: Sartre e la "questione morale", è dedicato a una ricostruzione della genesi della Critica della ragione dialettica sartriana – a partire dall'impossibilità di realizzare una morale conseguente con le acquisizioni sulla realtà-umana de l'Essere e il nulla – e dei suoi contenuti fondamentali a proposito del rapporto tra l'insopprimibile spontaneità della coscienza umana e l'ineluttabilità di un processo storico condizionato dalla penuria e ostacolato dal pratico-inerte. Il capitolo inizia con una presentazione critica del dibattito storiografico sui temi storico-morali nel pensiero di Sartre, iniziato nel 1947 con l'uscita di Le problème moral dans la pensée de Sartre di Francis Jeanson e culminato nel lavoro di Arno Münster, Sartre et la morale (2007), la prima opera all'interno della quale è dedicato uno spazio significativo alla Conferenza Etica e società, considerata non solo come prova della centralità della morale nella filosofia di Sartre, ma anche come momento essenziale della riflessione sulla dialettica storica. A ciò fa seguito la ricostruzione dell'origine dell'interesse di Sartre per tali temi. L'indagine è compiuta sulla scorta delle testimonianze autobiografiche e biografiche (da Les Mots all'Autoportrait à soixante-dix ans, passando per le numerose interviste e le testimonianze di Simone de Beauvoir e Michel Contat), delle opere letterarie (specialmente la raccolta di racconti Le Mur e il romanzo la Nausée, ma anche le opere teatrali come Les Mouches e Le Diable et le Bon Dieu), degli scritti di matrice fenomenologica e, soprattutto, dei Carnets de la drôle de guerre, documento in presa diretta dell'incontro di Sartre con la Storia. L'individualista d'anteguerra, l'autore de La nausea che sognava una morale della redenzione tramite l'opera d'arte, viene congedato per far spazio a un Sartre più responsabile, socialmente consapevole e politicamente impegnato, consapevole del suo posto nella storia e dell'enormità degli eventi in cui si trova coinvolto. Su queste nuove basi Sartre innesta la riflessione sull'ambiguità della Storia, centrale nei Cahiers pour une morale e preparatoria rispetto alle Questions de méthode e al confronto con il marxismo. Quando la possibilità di una struttura intersoggettiva aperta alla sola trascendenza (cioè capace di infrangere la catena delle alienazioni che costituiscono la storia) si rivela infondata, l'unica autentica possibilità di liberazione sarebbe l'eliminazione dell'alterità in tutte le sue forme, impossibile per la struttura esistenziale dell'uomo: «Non si può fare la conversione da soli. In altre parole, la morale è possibile solo se tutti sono morali». È proprio da questa sorta di impasse che matura in Sartre la necessità di interrogarsi sulle possibilità della propria filosofia, interamente basata sul concetto di libertà assoluta dell'individuo, di dar conto della logica opprimente della storia. La sua riflessione avrà come esito l'abbandono del progetto di pubblicare un saggio compiuto sulla morale e l'avvio di un'impresa sistematica per fondare una dialettica della storia per il XX secolo. L'analisi che ho sin qui intrapreso procede allora con la ricostruzione delle categorie dell'antropologia storica (come il rapporto circolare tra serie e gruppo e lo statuto di contro-finalità tipico del pratico-inerte) della Teoria degli insiemi pratici, il primo volume della Critica della ragione dialettica, per concludersi con le riflessioni sulla Histoire trouée e sulla totalisation d'enveloppement, caratteristiche del secondo volume su L'intelligibilità della storia. Nel secondo capitolo della tesi, intitolato Alle fonti della dialettica sartriana: Sartre lettore di Hegel e di Marx, ho analizzato in che modo – in modo particolare attraverso la mediazione di Kojève e di Hyppoliyte – Sartre abbia respirato il clima della Hegel-Renaissance nella Parigi della prima metà del Novecento e sia in questo modo entrato in contatto con la Fenomenologia dello spirito. Figure come la dialettica servo-padrone e la coscienza infelice non si limitano a lasciare un'eco importante ne L'essere e il nulla, come documenta l'importante opera di Judith Butler Subjects of Desire, dedicata alla ricezione di Hegel nella filosofia francese del XX secolo, ma sono altresì materiale essenziale per la comprensione delle categorie antropologiche della Critica quali il gruppo in fusione o il pratico-inerte. Inoltre ho esaminato l'influenza della dialettica della storia, la cui centralità caratterizza il sistema di Hegel, nello sviluppo del pensiero sartriano. Passando al rapporto tra il pensiero di Sartre e la dialettica marxiana della storia, ho evidenziato come uno degli aspetti più controversi della figura di Sartre come marxista "eretico" sia il suo continuo tentativo di separare il materialismo storico dal materialismo dialettico, oltre all'aver privilegiato gli scritti giovanili, senza però trascurare il Capitale. Ho utilizzato le Questions de méthode e i materiali sulla Rivoluzione Francese mai confluiti nella Critique e ora pubblicati dalla rivista «Études Sartriennes» per mostrare come la "scoperta" sartriana del marxismo sia avvenuta grazie al 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Inoltre ho messo in evidenza – sulla scorta della Critica del programma di Gotha – i punti di contatto tra l'immagine dell'uomo "onnilaterale" di Marx e la riflessione sartriana sulla réalité-humaine. Il terzo e ultimo capitolo della tesi, intitolato La "dialettica in cammino": le Conferenze di Roma, ho ripreso le fila del discorso sartriano alla luce dei testi successivi alla Critica e in particolare delle due conferenze tenute all'Istituto Gramsci di Roma, dedicate rispettivamente a Marxismo e soggettività (12 dicembre 1961) e a Etica e società (23 maggio 1964). La mia scelta è stata motivata dal fatto che le note per le conferenze di Roma – delle quali ci sono pervenute 165 pagine manoscritte e 139 pagine dattiloscritte – restano indubbiamente le più compiute fra le pagine dedicate da Sartre all'etica dialettica e si aprono con questa frase, che contiene già in sé l'indirizzo programmatico dell'intero corpus concernente questa "seconda etica": «La nostra riunione prova che per il socialismo è venuto il momento storico di ritrovare la sua struttura etica, o meglio di alzare il velo su di essa». La convinzione profonda di Sartre – abbozzata in modo ancora embrionale nei Quaderni per una morale, e poi alla base del progetto sviluppato nella Critica della ragione dialettica, portato in seguito ancora avanti negli scritti successivi, raccolti in edizione italiana in un'antologia dal titolo L'universale singolare, e infine testimoniato dalle due conferenze di Roma – era che il marxismo fosse l'«insuperabile filosofia del nostro tempo». Sartre, però, riteneva anche – e con altrettanta forza – che il pensiero originale di Marx fosse stato sepolto e dimenticato sotto interpretazioni che ne avevano deformato i tratti costitutivi per farlo divenire funzionale alla conservazione di regimi politici autoritari e basati sul capitalismo di Stato. La Critica doveva dunque servire a coniugare col marxismo le fondamentali acquisizioni che Sartre aveva laboriosamente maturato attraverso la sua formazione fenomenologica e la costruzione di una prospettiva esistenzialista. Seguendo l'esempio di Marx che, nella Tesi su Feuerbach, aveva sintetizzato l'intuizione feuerbachiana della natura concreta dell'uomo con quella hegeliana della sua storicità, Sartre nell'ultimo decennio della sua produzione filosofica tenta l'impossibile: mira cioè a fondare il sistema salvando l'individuo, trovare un senso alla storia umana senza rendere il singolo sacrificabile in nome di un'ideologia, pensare una rivoluzione che non trasformasse il gruppo in fusione in serialità e che determinasse un rinnovamento anche ontologico dell'essere umano, finalmente liberato dall'orizzonte della penuria. Con il passaggio dai Cahiers alla Critique de la raison dialectique, l'impostazione globale di Sartre è cambiata, divenendo più complessa. In particolare, il suo punto di vista sulle tematiche dell'oppressione e della rivolta ormai include anche la realtà socio-economica. Ogni filosofia viva è azione ed implica l'impegno pratico di uno o più uomini che tentino di realizzarla; da questo consegue che la sola ragione analitica non può più essere, per il Sartre della Critique, lo strumento adeguato per una ricerca attiva della verità umana. Soltanto una ragione dialettica permette di oltrepassare il livello della mera accumulazione di conoscenze parziali, al fine di tentare di comprendere la realtà concreta nel suo significato globale per poi migliorarla. Il metodo da seguire per giungere alla costituzione di una tale antropologia strutturale e storica è ugualmente un metodo dialettico, l'unico a giudizio di Sartre in grado di tener conto della complessità dei rapporti che legano gli uomini fra loro e con il mondo. Nella conferenza del 1961, Sartre fa notare che, nello spirito stesso dei testi di Marx, i concetti restano aperti ed appaiono al lettore come idee regolatrici, come principi direttivi e che in nessun caso si può tacciare il marxismo di essere una filosofia del sapere già totalizzato. La prima acquisizione del marxismo fatta propria da Sartre è l'aver definito la praxis un progetto incarnato nel mondo materiale, sociale e storico: da questo si desume il peso determinante della vita materiale e del lavoro dell'uomo sulla materia. La Storia umana deve globalmente essere compresa come storia della lotta di classe. Marx ha avuto inoltre ragione contro Hegel, avendo sostenuto la specificità e l'irriducibilità dell'esistenza umana, che il filosofo della Fenomenologia dello spirito aveva trascurato; e lo stesso Marx ha ragione anche contro Kierkegaard, che aveva sì considerato l'uomo concreto, ma trascurandone l'oggettiva realtà storica. Il marxismo avrà completato la sua funzione soltanto quando per tutti gli uomini del mondo esisterà un margine di libertà reale al di là della produzione e della sottomissione al mondo materiale. Nelle Questions de méthode che costituiscono l'introduzione ai due tomi della Critica della ragione dialettica, Sartre manifesta il proprio accordo con il materialismo storico: il corpo dell'opera avrà il ruolo di fondare filosoficamente e praticamente questa adesione. In particolare, il primo volume porrà le basi dialettiche di un'antropologia strutturale, ed il secondo – rimasto incompiuto – porrà la questione dell'intelligibilità della Storia concreta. La Conferenza del 1964 è dedicata al paradosso della necessità/impossibilità della morale nella società dell'oppressione, in seno alla quale l'uomo diviene inevitabilmente il prodotto dei suoi prodotti, dato che il senso delle azioni è suscettibile di essere pervertito dall'alienazione. Il pratico-inerte ha un'esistenza reale poiché la praxis vissuta è legata alla materia ed ogni società è attraversata dalla passività. Nel pratico-inerte la reciprocità dei rapporti umani è il più delle volte negata a vantaggio della serialità. Nella serialità domina la mutua indifferenza, e l'eventuale raggruppamento è solo la riunione di una pluralità di solitudini: gli individui sono assolutamente intercambiabili. Ciascuno è di troppo per gli altri. Le conclusioni (provvisorie) di Sartre in ambito etico sono oggetto delle riflessioni che concludono il terzo capitolo di questa tesi. Nell'ambiguità del pratico-inerte, in cui ogni morale è per forza di cose contraddittoria, la coscienza di classe è la sola manifestazione di lucidità, il riconoscimento che la società si trova ad essere divisa in classi antagoniste per il fatto contingente e storico del règne de la rareté. In ogni istante possono verificarsi prima una rottura e poi l'oltrepassamento dell'essere seriale. Negando l'exis seriale, la classe sociale assume una nuova dimensione, incentrata non più sulla passività, ma sull'organizzazione attiva. L'atto comune – che è l'atto costitutivo del gruppo e la cui responsabilità è condivisa dagli agenti individuali – si realizza a partire dal rifiuto radicale della separazione, della distruzione collettiva che minaccia in ogni istante la fragile e dispersa molteplicità seriale. Nella Critique, Sartre aveva introdotto il concetto di Apocalisse, per indicare la dissoluzione – sempre possibile, anche se mai necessaria – della serie nel gruppo in fusione. Sotto la pressione esterna di una praxis consapevolmente vissuta come terza, i membri di una classe oppressa possono passare dall'informe stato collettivo alla praxis rivoluzionaria di gruppo. Non c'è nulla di magico o di irrazionale in questo processo che porta a concepire la serialità non più come un destino, ma come una passività superabile: si tratta della reinteriorizzazione di una reciprocità fra i diversi individui che formano il gruppo. I limiti della praxis di gruppo sono tanto dei limiti esterni, ovvero tutte le resistenze materiali proprie di certe situazioni particolari, così come dei limiti interni. Il gruppo in fusione è ancora senza strutture e senza gerarchie, e si caratterizza come l'esatto opposto della serialità. Se in precedenza, difatti, l'unità era del tutto esterna alla serie, realizzata soltanto dallo sguardo reificante del Terzo, che è l'evoluzione del concetto di alterità de L'essere e il nulla, ora l'unità è interna al gruppo e fondata sulla reciprocità delle relazioni al suo interno. Nel gruppo i progetti liberi e singolari convergono e si identificano in un progetto comune, secondo i canoni di una reciprocità mediata. L'ulteriore caratteristica distintiva del gruppo nella visione sartriana è che esso è orientato a uno scopo ben preciso – e condiviso –, e una volta che lo ha raggiunto, deve fissarne di ulteriori oppure è ineludibilmente condannato a ricadere nell'anonimato della serialità. Se nella Critique il paradigma del rapporto circolare tra inerzia della serialità e vitalità della praxis del gruppo in fusione era quasi completamente affidato all'analisi della Rivoluzione Francese, nella Conferenza del 1964 ampio spazio viene dedicato alla lotta contro la dominazione coloniale francese intrapresa pochi anni prima dai rivoluzionari algerini. Il lavoro si chiude con un'Appendice dedicata a un lessico sartriano per le Conferenze di Roma in cui mi sono impegnata a ricostruire l'evoluzione del linguaggio di Sartre, contraddistinto dal forte potere evocativo, ma anche da una costitutiva e rivendicata ambiguità, e a creare in questo modo un glossario che contenesse tutti i termini caratteristici della fase "dialettica" del suo pensiero, il cui significato è il presupposto implicito per una lettura filosofica delle Conferenze, che in questo senso rappresentano un documento inestimabile della stretta relazione che intercorre tra i due tomi della Critique.
Nel corso della ricerca ho tentato di indagare lo stato d'animo della nostalgia nell'opera di Ernst Jünger [1895–1998] dialogando parallelamente con l'imprescindibile questione della tecnica, centrale nel pensiero dell'autore. Ho deciso di lavorare sui testi di Jünger scegliendo, analizzando e citando quegli scritti che risultavano particolarmente di rilievo nel contraltare tecnica-nostalgia. Il lavoro si divide in due parti. Nella prima seguo principalmente il percorso filosofico di Jünger sulla questione della tecnica e lo sviluppo anche grazie al costante confronto con alcuni pensatori tedeschi che hanno vissuto il disagio della modernità. Poi tento di mappare i luoghi letterari jüngeriani oscillanti tra tecnica e nostalgia, raggruppandoli – nella seconda parte – in una sorta di atlante. Ne emerge una geofilosofia dei topoi che Jünger sceglie per fuggire l'accelerazione, la mobilitazione massiva nata sotto l'insegna del lavoro e la dilagante tecnicizzazione e trasformazione del mondo. Ho potuto delineare, attraverso questo percorso, lo stato d'animo scelto come trasporto verso un tempo e uno spazio diversi da quelli offerti nel panorama del mondo mutato della tecnica, come una spinta opposta al lineare avanzare del progresso. La premessa al lavoro è relativa a una breve sintesi della ricezione di Jünger in Italia. Un chiarimento in questo ambito – che avviene accennando alcune delle principali posizioni critiche – è necessario se si pensa che alcune interpretazioni legate a rigide schematizzazioni, hanno a lungo condizionato la diffusione e la circolazione della produzione di Jünger in Italia. Nonostante la sua "riabilitazione" avvenuta durante gli anni Settanta, molti interpreti anche contemporanei tendono a leggere il dopo-operaio come un arenarsi nella perdita della carica spirituale esponenzialmente affievolitasi con il passare del tempo, come uno spiaggiamento in una produzione fiacca, un'estetica letteraria dai contenuti aridi. Altra è la matrice interpretativa che ha indirizzato questa ricerca. Diversi studiosi contemporanei si sono infatti interessati notevolmente anche alla produzione successiva a L'operaio [Der Arbeiter, 1932], tracciando fertili sentieri ancora poco battuti e ampliando la critica sul pensiero di Ernst Jünger. Considerato questo, la mia ricerca si apre tracciando una cornice biografica che cerca di mettere in luce l'epoca in cui Jünger si forma, focalizzando l'attenzione sulla sua adesione al movimento culturale della Konservative Revolution1. L'aspetto conservatore e quello rivoluzionario, emblematici del movimento konservative-revolutionäre che viene analizzato come contenitore del disagio della modernità della Germania weimariana, faranno sempre parte della personalità di Jünger come insanabili tensioni e contraddizioni riscontrabili in tutta la sua produzione letteraria. Per questo ad alcuni capitoli è stato dato un titolo "ossimorico", valorizzando le coppie oppositive che contraddistinguono i relativi contenuti dei paragrafi sviluppati e cercando al contempo di trasmettere al lettore il profondo senso di frattura interna dell'autore stesso. Lo stesso titolo generale del lavoro: Tecnica e Nostalgia vuole sottolineare che l'argomento che ci si appresta ad affrontare verterà su due elementi in tensione. L'indagine vera e propria si dispiega a partire dagli anni Trenta, un'epoca emblematicamente definita della mobilitazione totale. Tale definizione è anche il titolo di un saggio di Jünger La mobilitazione totale [Die totale Mobilmachung, 1930], panoramica di quel tempo che ha indotto il massimo dispiegamento delle forze umane sotto il segno della produzione e del lavoro e che funziona come sfondo imprescindibile e formulazione preliminare alla sua opera più conosciuta, L'operaio. Lo scritto al quale in questa sintesi si accenna soltanto, è estremamente eterogeneo ed è stato letto criticamente analizzando i diversi livelli testuali riscontrabili al suo interno: politico, sociale, filosofico, estetico, visionario e profetico. Nel saggio il fenomeno tecnico è pensato a partire da quello del lavoro. In questo senso il lavoratore mobilita il mondo ricorrendo alla tecnica, la quale non rappresenta solo il simbolo della figura de L'Operaio ma anche, e soprattutto, la maniera con cui questa figura mobilita il mondo. L'impero tecnico non distingue più tra tempo di guerra e tempo di pace, perché tutto è preda di questa titanica mobilitazione. Il rapporto che si instaura tra il Lavoratore e la tecnica è di reciprocità, nel senso che mentre la tecnica è l'unica potenza che consente al Lavoratore di instaurare il proprio dominio sul mondo, solo l'instaurazione del regno del Lavoratore può consentire alla tecnica di raggiungere la sua perfezione, la sua compiutezza o espressione totale. Jünger crede che l'impersonalità attiva che trova espressione come "Arbeiter" possa dominare la tecnica, dunque l'avvento del regno del Lavoratore equivale all'irruzione di forze elementari nel mondo borghese ed è il preludio alla formazione totale dello spazio del Lavoro. La formulazione dell'essenza non tecnica della tecnica influenzerà profondamente le riflessioni filosofiche di uno dei più fedeli lettori di Jünger, Martin Heidegger [1889-1976]. Un paragrafo della presente ricerca è dedicato proprio a questa ascendenza. Il confronto tra i pensatori, a lungo vincolato e in parte ridotto allo scambio epistolare pubblicato e conosciuto con il titolo Oltre la linea [Über die Linie,1950] sul quale la critica è ampia e dibattuta2, non può non tenere conto anche del volume Zu Ernst Jünger3 che raccoglie gli appunti heideggeriani degli anni Trenta, diverse annotazioni su Der Arbeiter, sul pensiero di Jünger e altri scritti, imprescindibile punto di partenza per la comprensione dell'Auseinandersetzung fra i due pensatori. Nel 1934 compare il saggio Sul dolore [Über den Schmerz, 1934] dove il dolore è intimamente connesso alla questione del lavoro e della tecnica. In particolare il rapporto con il dolore, in questo senso pietra di paragone, diviene una delle misure fondamentali per leggere le trasformazioni dell'epoca della tecnica e il senso di estraneazione che affiora nella produzione di Jünger. Nella seconda coscienza, vissuta risolutamente come un compito assegnato al nuovo tipo, la freddezza e il distacco sono tratti fondamentali e rappresentativi di una nuova concezione del corpo e del mondo, sintomatica sia della compenetrazione tra tecnica ed ethos, sia della fusione meccanico-organico. La costruzione organica [organische Konstruktion], parola chiave del saggio dedicato al dolore, resta nella presente ricerca e nella produzione jüngeriana un torrente sotterraneo che affiora ciclicamente come fonte per le riflessioni su perfezione e perfezionamento, alimentando inoltre le invenzioni e gli espedienti letterari dell'opera di Jünger. Perfezione e perfezionamento è anche il titolo che ho deciso infatti di assegnare al capitolo in cui vengono dibattute le considerazioni jüngeriane degli anni Cinquanta. Tali considerazioni sono influenzate dal contributo del fratello di Ernst Jünger, Friedrich Georg Jünger [1898-1977] e del suo saggio Die Perfektion der Technik [1946]4, La perfezione della tecnica – per l'appunto – che inizialmente doveva intitolarsi Illusione della tecnica, se non fosse per il fatto che l'autore si accorse che l'illusione era proprio figlia dell'aspirazione alla perfezione. Ne ho analizzato i passaggi fondamentali, indicando i punti che maggiormente possono aver influenzato Ernst e le discrepanze d'opinione con le considerazioni espresse nel disegnare l'impero dell'operaio e la mobilitazione totale sotto l'insegna del lavoro e della fusione con la macchina "tecnica" ritenuta, fino agli anni Cinquanta, non soltanto necessaria ma anche auspicabile. Certamente la costruzione organica trova la sua sede letteraria privilegiata nel panorama descritto nel romanzo Le api di vetro [Gläserne Bienen, 1957]. Nel paragrafo dedicatogli ho tentato di lasciar risuonare la domanda jüngeriana dell'uomo sui suoi mezzi tecnici e sulla tipizzazione dell'individuo nell'epoca delle macchine, con particolare attenzione alla con-fusione presente nel mondo mutato che circonda il protagonista del romanzo. L'insetto artificiale, l'ape di vetro, è come lo specchio di un destino collettivo che da una parte seduce e incanta, perché incarna lo sforzo titanico dell'uomo, quasi demiurgico, una capacità tecnica simile all'abilità artistica; e al contempo inquieta, perché sottende la possibile sostituibilità dell'ape naturale, organica, con quella artificiale, modello riproducibile, intercambiabile, un esemplare della dimensione pianificata e della progettazione tecnica. La possibilità della tecnica di imitare in simili modelli l'uomo, è concepita sin dall'antichità. Ho fornito brevemente allora un quadro sintetico di queste imitazioni nel tempo, soffermandomi su alcuni esempi letterari del Deutsche Romantik, movimento che ha offerto a Jünger un ampio spettro di spunti per le riflessioni e le fantasie letterarie su quella con-fusione perturbante che nel Novecento ha contribuito a mettere in luce l'assottigliamento della linea di demarcazione fra umano e macchina. Il compimento letterario vero e proprio, il contenitore di tali fantasie, è rappresentato dalle utopie distopiche che la penna di Jünger genera. Nella seconda parte del lavoro ho cercato allora di analizzare e mettere in luce la nostalgia, attraverso le utopie tecniche – che in parte si rivelano la ricerca, messa su carta e romanzata, di una fuga verso una stabilità originaria – e i luoghi che ho deciso di definire "del tempo perduto", spazi dove al Leviatano tecno-logico5 non è concesso entrare. Le principali geofilosofie degli avvicinamenti jüngeriani sono il bosco e l'isola. Sul primo e in particolare sulla figura del Waldgänger esiste una discreta letteratura secondaria che indaga il saggio rappresentativo di tale figura Trattato del ribelle [Der Walgang,1951], breviaro il cui nucleo teorico è legato alla descrizione di uno spazio lontano dal nichilismo, una radura incontaminata dove i due poli heimlich e unheimlich convivono e lottano in una tensione costante che è però autentica e originaria, preistorica ma anche post storica in quanto resistenza, ribellione che sfugge dal corso del tempo calcolabile. Altro luogo che consente questo avvicinamento è l'isola. L'isola è un topos letterario vivo nella produzione di Jünger. Ne ho analizzato allora le principali espressioni, nutrite dall'amore per la Sicilia e la Sardegna, protagoniste di diversi scritti. La dimensione nostalgica della tensione verso altro non riguarda una possibilità di rivoluzione comunitaria, o se non altro non è concettualizzata in questi termini, bensì come una ricerca di conservazione-sopravvivenza individuale, una mobilitazione estrema e radicale in nome della perfezione umana e non del perfezionamento tecnico. Ciò che la tecnicizzazione con le sue conseguenze ha reso distante e per cui Jünger prova nostalgia è proprio la possibilità di avvicinarsi a questi stessi luoghi "senza spazio né tempo" dove l'invisibile può essere ancora custodito. Tale esercizio si esplica come tensione verso l'invisibile, addestrandosi a far ricorso a uno sguardo che è possibile da una parte definire "antico", perché la capacità di visione di cui Jünger scrive apparteneva a civiltà ormai scomparse come scomparse è essa stessa. Tuttavia questa capacità che era nei popoli antichi non era propriamente dei popoli antichi, quanto piuttosto un modo di vedere originario, al di fuori di un tempo o di un luogo determinato. È lo sguardo del mondo del mito che ho tentato di illustrare a partire dallo scritto Filemone e Bauci. La morte nel mondo mitico e in quello tecnico [Philemon und Baucis. Der Tod in der mytischen und in der technischen Welt, 1972] dove la morte viene scelta come elemento atto a delineare la differenza tra la sua visione nel mondo mitico e in quello tecnico. Lo sguardo del mondo tecnico può essere definito come telescopico. Jünger pubblicò ben cinque raccolte fotografiche in quattro anni, mostrando che i suoi innumerevoli interessi sconfinavano anche nell'ambito della fotografia. Ho cercato di far dialogare la visione obiettiva, oggettiva e telescopica con quella del mondo del mito di Filemone e Bauci. L'occhio fotografico per Jünger è un punto di vista privilegiato per cogliere e rilevare sismograficamente le espressioni degli uomini in un mondo in trasformazione, ma al contempo nel mirino dell'obiettivo il mobile viene fissato e la violenza, il rischio e l'incidente, sono assorbiti in un'ottica di normalizzazione. Nell'epoca della tecnica, nell'istante in cui la macchina fotografica congela il pericolo e il dolore, l'istantanea li rende riproducibili, li cristallizza al di fuori della zona della sensibilità corporea in una patina lucida esterna. Ho ritenuto necessario porre questo sguardo anche a confronto con la visione stereoscopica, quello sguardo che offre una dimensione aggiuntiva alla piatta immagine che uno schermo o i nostri occhi presi singolarmente possono fornirci. Secondo Jünger chi impara ad utilizzare questo sguardo non può più fare a meno di trovare dappertutto delle corrispondenze che superano l'esperienza comune e fanno sgorgare dalla sfera esperienziale un'altra sfera, che conferisce un senso di unità ed armonia non soltanto con tutto il cosmo, lo spazio, ma anche con tutto il tempo. La critica al proprio tempo, stigmatizzato dal marchio della tecnica, si accompagna al desiderio di accedere a un altro tempo e a un altro spazio dove l'invisibile possa essere custodito. La nostalgia di Jünger richiama uno sguardo, una visione, ben diversa da quella obiettiva, oggettiva e calcolante del mondo della tecnica. Se durante la Rivoluzione Conservatrice la nostalgia era uno stato d'animo molto rappresentativo del desiderio di ritorno di o a una Heimat quasi viscerale e interna, legata al senso di comunità di suolo e sangue, dopo il nazismo e l'Olocausto non è da escludere che la nostalgia, in Germania, sia stata invece, attraverso un processo lento e doloroso, espulsa dalla sfera Heimat, intesa in senso rivoluzionar-conservatore, per dirigersi verso un altro luogo, una sorta di zona franca. In conclusione tento di affermare che la nostalgia di Jünger non è semplicemente tensione verso il ricordo del mondo dei padri, del passato con i suoi schemi, valori e tradizioni che la tecnica ha spazzato via, bensì verso il ritorno a un originario, immobile e stabile, materno. Nell'ultimo paragrafo ho tentato di chiarire la differenza tra il ricordo e il ritorno nell'opera di Jünger. Il ritorno appartiene alla dimensione mitica, astorica, dove torna un nucleo identico, immobile, che riesce ad oltrepassare il tempo lineare imprimendo un segno mirabile che colpisce con forza maggiore di quella del ricordo. Jünger afferma che non è necessario né sufficiente evocare la notte dei tempi, una civiltà sepolta o un remoto passato per avvicinarsi a ciò che non muta, a questo centro essenziale7. Gli avamposti scelti da Junger sono i luoghi deputati all'apertura di questo ritorno, percepito come qualcosa che costantemente manca nel deserto della civiltà tecnologica. Questo nucleo originario non è mai raggiungibile, è soltanto avvicinabile, e se da un lato la tecnica ostacola l'esercizio di tali avvicinamenti, Jünger ritiene che esiste per il singolo la possibilità di infrangere i vincoli della tecnica, inserendo le cose in un nuovo ordine di significati. L'interesse che ha orientato la ricerca effettuata cerca di rispondere a due obiettivi fondamentali. Il primo è tentare di offrire un contributo scientifico che possa collocarsi nella letteratura secondaria su Ernst Jünger e ampliarne il relativo dibattito attuale; il secondo è provare a riflettere sulle trasformazioni che la tecnica ha portato a partire dalla Prima Guerra Mondiale, in particolare in Germania, considerata un territorio particolarmente sensibile al disagio della modernità, sulla dimensione emotiva che ha accompagnato il mutamento avvenuto. La nostalgia di Jünger si potrebbe collocare in quella "discrepanza di volumi" che passa tra il progresso e la maturazione, nonché la trasformazione, dello spazio emozionale dell'uomo.
RIASSUNTO La scelta di realizzare un Centro Benessere è stata presa per: - la necessità di focalizzare l'attenzione sull'individuo in quanto parte di una comunità, cercando di costruire un luogo che faccia emergere la primaria importanza del pensare a sé stessi, non come forma di egoismo o egocentrismo, ma come opportunità di conoscersi per poi imparare di nuovo a conoscere gli altri in un confronto sempre costruttivo. Ritengo sia importante abbattere quel muro che stiamo innalzando con mattoni fatti di tecnologia e schermi, reintegrando gli antichi insegnamenti, affrontati con la sociologia, riassunti nel significato di Agorà (dal greco antico ἀγορά = raccogliere, radunare). Nell'antica Grecia con questo termine si indicava la piazza principale della polis (città), creata con la consapevolezza dell'inestimabile valore che hanno gli spazi aperti e quelli comuni nell'aggregazione di individui di diversa età, ceto e pensiero. - la possibilità di costruire un edificio non per un'unica persona o per un nucleo familiare con abitudini simili, ma per cercare un "linguaggio comune" per poter soddisfare esigenze e personalità differenti. Il problema è quindi quello di trovare un modello unico di "abito-edificio" che possa calzare su misura al singolo e che, allo stesso tempo, possa valorizzarlo e distinguerlo dagli altri. Il sito oggetto di intervento si trova nella frazione di Laura, nel Comune di Crespina Lorenzana, in provincia di Pisa. È stato fatto un confronto con altri Centri limitrofi ed abbiamo selezionato questo capannone esistente poiché ospitava già una palestra e accoglieva il bacino di utenza sia del Comune di pertinenza sia dei Comuni limitrofi. L'analisi effettuata ha preso spunto dalla conoscenza, dal principio άρχή (arché), delle strutture per la cura, il trattamento e l'intrattenimento del corpo e della mente, sia per gli edifici esistenti nella storia che nelle altre culture, per poi approfondire quali siano le esigenze del territorio e, in modo specifico, della popolazione. Un altro approfondimento è stato fatto con la letteratura studiando professionisti come Le Corbusier con i suoi 5 punti assiomatici di una nuova architettura e le proporzioni con il Modulor e come Bruno Zevi con le sue 7 invarianti dell'architettura moderna. L'occasione di scrivere questa tesi si ha sia con la riprogettazione di un fabbricato già esistente che con la costruzione di una struttura ex novo su un lotto di terreno ancora libero. Il nuovo edificio nascerà infatti nel lotto in aderenza a quello in oggetto di modifiche. Con l'unione delle due strutture si è realizzato il Centro Benessere denominato "IO", idea nata dalle rispettive forme planimetriche. Il fabbricato esistente, un capannone industriale, ha infatti linee rettilinee ed il perimetro è stilizzabile in un rettangolo, la "I". La struttura nuova è stata invece plasmata da tutti i vincoli, dalle normative esistenti, anche e soprattutto in campo di risparmio energetico e di sicurezza , il risultato finale è stata una superficie esterna circolare ed una copertura a tronco di cono obliquo rovescio, la "O". Considerando cha la minima superficie disperdente, data dal rapporto S/V, è quella della sfera, si è deciso, per ovvie ragioni economiche e di fruizione degli spazi interni, di realizzare un volume cilindrico. La scelta di una copertura a compluvio è stata perfezionata utilizzando l'asse del tronco di cono obliquo, scelta presa sia per la raccolta delle acque sia per fornire una maggiore superficie con una inclinazione favorevole ai raggi del sole per l'istallazione di pannelli fotovoltaici. Tutto ciò è stato pensato per massimizzare la copertura da fonti rinnovabili di acqua ed energia. Con Questo progetto si è inoltre cercato di realizzare un Centro Benessere "a misura d'uomo". Per iniziare a dimensionare il nuovo costruito e capire i limiti di una ristrutturazione per l'edificio esistente sono state analizzate, in via preliminare, tutte le normative sia il Regolamento Urbanistico, il Piano Strutturale, le Norme Tecniche Attuative per l'U.T.O.E 9 di Pian di Laura, la Legge Regionale Toscana e la Normativa di Prevenzione Incendi. L'edificio da riqualificare appartiene alla tipologia edilizia del capannone industriale, così come le altre strutture nella stessa strada Via Karol Wojtyla. Questo perché tutta l'area è stata realizzata in forza di un Piano Insediativo Produttivo (PIP). Approfondendo l'inquadramento territoriale, con lo studio del PIP e delle leggi edilizie e urbanistiche, sono stati fissati i vincoli preesistenti entro cui lavorare. Per realizzare entrambi i poli ho studiato l'antica evoluzione dell'individuo, sia nel confronto con gli altri, per migliorare sé stessi attraverso lo sport, sia nella cura del proprio IO attraverso la cura benefica dell'acqua, cura nata con la costruzione delle prime terme. La struttura è stata così suddivisa in un Aria Secca, a cui viene dedicato l'edificato esistente caratterizzato da una planimetria rettangolare, attualmente è ad uso palestra (I) e in un'Aria Umida a cui viene destinato il nuovo fabbricato a pianta circolare (O). Una volta individuate le funzioni attraverso gli Ambiti Funzionali Omogenei (AFO) si sono stabiliti gli specifici Ambiti Spaziali Omogenei (ASO) da cui abbiamo delineato percorsi sostanzialmente unici o a senso alternato per garantire una più semplice igienizzazione degli spazi e per evitare assembramenti anche nel rispetto delle odierne restrizioni anti-Covid. Tenendo ben salde le Normative di Sicurezza Antincendio e quelle per la fruibilità per le persone diversamente abili si sono stabiliti percorsi orizzontali tali da garantire vie di esodo facilmente identificabili (frecce verdi su pavimento bianco e porte con vetrate di colore diverso per tutta l'altezza del fabbricato) e con larghezza tale da permettere sempre la rotazione della sedia a rotelle a 360° ed il passaggio di 2 persone. Considerando la possibilità del cambio d'uso, essendo una struttura pubblica, il dimensionamento delle vie di esodo è stato effettuato in funzione del massimo affollamento possibile relativamente all'edificio in oggetto. Per l'accesso alle persone diversamente abili al secondo piano esistente è stato introdotto un ascensore antincendio adatto ed usufruibile da tutti. Tra gli spogliatoi comprensivi di servizi non vi è nessuna differenza, sono infatti tutti attrezzati per i diversamente abili, inoltre nessuno scalino e nessuna rampa creano percorsi distinti. Per la realizzazione delle stanze si è scelto di unire diversi concetti insieme, così da sollecitare l'attenzione e la curiosità degli utenti ma soprattutto per farli sentire "a casa". I nuovi volumi sono una combinazione tra: 7 colori dell'arcobaleno e il nero per un totale di 8 cilindri, oltre al colore bianco che servirà per i percorsi. Vere e proprie stanze che possiamo ritrovare usualmente nella nostra casa: Cucina, Pranzo, Salotto, Camera, Bagno, Soffitta, Cantina e Ripostiglio. 5 sensi del corpo umano - Olfatto, Gusto, Vista, Tatto e Udito - oltre all'idea di "Alto", di "Basso" e di "Centro". Ritenendo importante stimolare la curiosità degli Utenti e al contempo riprodurre quella sensazione che si ha la sera quando si rientra nella propria casa, si è deciso di unire queste 3 idee tra loro. ROSSO - OLFATTO - CUCINA, ARANCIONE - GUSTO - PRANZO, GIALLO - VISTA - SALOTTO, VERDE - TATTO - CAMERA, BLU - UDITO - BAGNO, INDACO - BASSO - CANTINA, VIOLA - ALTO - SOFFITTA, NERO - CENTRO - RIPOSTIGLIO, BIANCO - CORRIDOIO. L'involucro realizzato, sia per le pareti opache che nelle parti vetrate come nella nuova copertura è stato verificato in rispetto delle vigenti normative igro-termo energetiche. Sfruttando la costruzione decentrata del nuovo edificato è stato possibile realizzare piscine e spazi all'aperto per l'uso nelle giornate più calde. Si sono infine ipotizzate delle linee guida ed un linguaggio per determinare le "Invarianti dell'Architettura del Benessere". 1. Studio Preliminare - Territorio, Letteratura e Normativa 2. Energia - Forma Involucro 3. Ambiti Funzionali e Spaziali - Stanze 4. Percorsi Riconoscibili e Distanze Minime - Corridoi 5. Sicurezza Antincendio e Strutturale - Materiali 6. Fruibilità senza distinzioni - Struttura Nuova ad Unico Piano 7. Benessere della Struttura 8. Rapporto Interno ed Esterno – Luce ed Ombra Questo è stato almeno il mio ordine prioritario per progettare questo Centro Benessere. Se per una singola abitazione è necessario raccogliere i vincoli e le preferenze dei committenti che la andranno ad abitare allora l'obiettivo che questa Tesi ha cercato di centrare è stato quello di far sentire a casa propria ogni utente che fa ingresso nel Centro Benessere "IO". Almeno le Strutture Architettoniche dovrebbero farci sentire "Ugualmente Diversi" SUMMARY The choice to make a wellness center was carried out for: - The need to focus attention on the individual as part of a community, trying to build a place that brings out the primary importance of thinking of oneself, not as a form of selfishness or egocentrism, but as an opportunity to get to know each other Learn again to learn about others in an always construction comparison. I believe it is important to break down that wall that we are raising with bricks made of technology and screens, remembering the ancient teachings, addressed with sociology, summarized in the meaning of Agorà (from ancient Greek ἀγορά = collect, gather). In ancient Greece with this term the main square of the polis (city) was indicated, created with the awareness of the anestimable value that have open spaces and those common for the aggregation of individuals of different age, class and thought. - The possibility of building a building not for a single person or a family unit with similar habits, but to look for a "common language" in order to satisfy different needs and personalities. The problem is therefore to find a unique model of "building-building" that can fit into size to the individual and that at the same time, can enhance it and distinguish it from the others. The site under intervention is located in the hamlet of Laura, in the municipality of Crespina Lorenzana, in the province of Pisa. A comparison has been made with other neighboring centers and this existing shed was selected as it already housed a gym and welcomed the catchment area both of the municipality of relevance and neighboring municipalities. The analysis carried out has taken inspiration from the knowledge, from the principle άρχή (arché), the structures for the care, treatment and entertainment of the body and mind, both for the buildings existing in history and in other cultures, and then deepen What are the needs of the territory and, specifically, of the population. Another in-depth study was made with literature studying professionals such as Corbusier with its 5 axiomatic points of a new architecture and proportions with the Modulor and as Bruno Zevi with its 7 invariants of modern architecture. Writing this thesis was the opportunity to be redeemed an existing building that the design of a construction of an ex-novo structure on a lot of land still free. The new building will be born in the lot in adherence to that in the object of changes. With the union of the two structures the wellness center called "IO" was created, an idea born from the respective planimetric forms. The existing building, an industrial warehouse, has in fact straight lines and the perimeter is stiluable in a rectangle, the "I". The new structure was instead shaped by all constraints, existing regulations, also and above all in the field of energy saving and security. The final result was a circular external surface and a trunk cover of oblique reverse cone, the "o". Considering the minimum dispersing area, given by the S / V report, it is that of the sphere, it was decided, for obvious economic reasons and of the use of the interior spaces, to carry out a cylindrical volume. The choice of a complyed cover was perfected using the axis of the oblique cone trunk, choice socket both for the collection of water and to provide a greater surface with a tilt in favor of the sun's rays for the installation of photovoltaic panels. All this was designed to maximize roof from renewable water and energy sources. With this project we also tried to create a wellness center "to a human scale". To start sizing the new built and understanding the limits of a restructuring for the existing building have been analyzed, all the regulations are the urban regulation, the Structural Plan, the technical implementing rules for Utoe 9 by Pian di Laura, the regional Tuscan law and fire prevention legislation. The building to be redeveloped belongs to the building type of the industrial warehouse, as well as the other structures on the same street Via Karol Wojtyla. This is because the whole area has been carried out under a production settlement (PIP). Deepening the territorial framework, with the study of PIP and building and urban laws, pre-existing constraints have been set within which to work. To achieve both poles, I studied the ancient evolution of the individual, both in confrontation with others, to improve themselves through sports, both in the care of his ego through the beneficial care of water, cured with the construction of the Prime Terme. The structure was thus divided into a dry air, to which the existing building is dedicated characterized by a rectangular plan, is currently for gym (I) and in a wet air to which the new circular plant is destined (O). Once the functions are identified through the homogeneous functional areas (AFO) the specific homogeneous spatial areas (ASO) has been established from which we have outlined substantially unique or alternate routes to ensure easier sanitation of spaces and to avoid assemblies even in compliance with the Today anti-covid restrictions. Keeping fire safety regulations firmly and those for usability for disabled persons have established horizontal paths such as to guarantee easily identifiable exodus routes (green arrows on white floor and doors with different stained glass windows throughout the height of Manufactured) and with width to always allow rotation of the 360 ° wheelchair and passage of 2 people. Considering the possibility of the change of use, being a public structure, the dimensioning of the exodus routes was carried out according to the maximum possible crowding relative to the building in question. For access to people with disabilities at the second existing floor a suitable fire lift was introduced and usable by all. There are no difference between the changing rooms, there are no difference, they are all equipped for the disabled people, moreover no step and no ramp create distinct paths. For the realization of the rooms it was chosen to combine different concepts together, so as to urge the attention of users but above all to make them feel "at home". The new volumes are a combination of: - 7 colors of the rainbow and black for a total of 8 cylinders, in addition to the white color that will serve for the paths. - Real rooms that can usually find in our house: kitchen, lunch, living room, bedroom, bathroom, attic, cellar and storage room. - 5 senses of the human body - smell, taste, sight, touch and hearing - in addition to the idea of "high", of "low" and "center". Retentioning important to stimulate users' curiosity and at the same time reproduce that feeling that you have in the evening when you return to your home, you decided to join these 3 ideas between them. Red - Smell - Kitchen, Orange - Taste - Lunch, Yellow - View - Living room, Green - Tacto - Room, Blue - Hearing - Bathroom, Indigo - Low - Cellar, Viola - High - Attic, Black - Center - Closet, White - Corridor. The casing made, both for the opaque walls and in the glazed parts as in the new coverage has been verified in compliance with the current Igro-thermo energy regulations. Taking advantage of the decentralized construction of the new built it was possible to make swimming pools and outdoor spaces for use on the hottest days. Finally, guidelines and language were hypothesized to determine the "invariants of wellness architecture". 1. Preliminary study - territory, literature and regulations 2. Energy - wrap shape 3. Functional and spatial areas - Rooms 4. Recognizable paths and minimum distances - corridors 5. Fire protection and structural safety - materials 6. Usability without distinctions - new structure with single floor 7. Wellness of the structure 8. Internal and external relationship - light and shadow This was at least my priority order to design this wellness center. If for a single house it is necessary to collect the constraints and preferences of the clients who will then live the goal that this thesis was to make each user feel at home that enters the wellness center "I". At least architectural structures should make us feel "Equally Different".
La presente ricerca si è proposta di evidenziare le strategie di integrazione ovvero le pratiche di cittadinanza adottate in favore di un particolare segmento dei fenomeni migratori internazionali attuali: quello dei minori stranieri che soli varcano le frontiere del nostro paese alla ricerca di generiche migliori condizioni di vita. La conoscenza del loro patrimonio culturale e l'analisi delle procedure di accoglienza e di integrazione adottate nelle società di accoglienza, rappresentano una sfida stimolante nella prospettiva della disciplina antropologica, da sempre considerata la scienza 'dell'altro' e della 'differenza culturale' (Callari Galli, 2005). In generale, l'importanza di tale studio è resa evidente certamente dai numeri sempre più consistenti di minori stranieri non accompagnati presenti nel nostro paese, ma ancor più dalla necessità di ridefinire le strategie dell'integrazione sociale complessive se non si vuole alimentare quella che già dagli anni 70 è stata definita da alcuni criminologi come una "una bomba sociale a scoppio ritardato" (Bovenkerk 1973, cit. in Barbagli 2002, p. 31); tanto è la posta in gioco. Sebbene la letteratura sulle seconde generazioni e in particolare quella sui minori stranieri non accompagnati sia ormai cospicua tanto in Italia quanto a livello internazionale, mancano ancora monografie antropologiche su singole nazionalità immigrate soprattutto che siano capaci di accedere, investigare ed indagare il controverso universo emozionale dei minori. La presente ricerca nasce dall'esigenza di colmare questo gap esperienziale assumendo come protagonisti una frangia specifica della categoria minorile: i giovani di origine marocchina che si innescano su uno specifico segmento delle attuali tratte migratorie transnazionali, l'asse Khourigba – Roma. In accordo con le recenti acquisizioni degli studi antropologici (Persichetti, 2003; Riccio; 2007; Capello, 2008) si è ritenuto inoltre opportuno procedere con uno studio multisituato capace di ricomprendere al suo interno i due aspetti del binomio migratorio: il contesto di partenza e quello di arrivo dei giovani migranti. "Prima di diventare un immigrato, il migrante è sempre innanzitutto un emigrato" scrive il sociologo algerino Abdelmalek Sayad (2002) intendendo con tale affermazione che emigrazione ed immigrazione sono due facce della stessa realtà. Uno studio dei fenomeni migratori cioè dimentico delle condizioni di origine si condanna ad offrire degli stessi solo una versione parziale e connotata etnocentricamente. L'etnografia, iniziata nel 2006 e terminata nel 2008, è stata quindi integrata da due viaggi in Marocco con l'intenzione appunto di cogliere quella parte di vissuto fatto anche di suoni, colori, immagini altrimenti non "accessibile" e non "trasmissibile" nel solo contesto di accoglienza. Chiaramente si è fatto largo uso di metodologie qualitative (osservazione partecipante, focus group, interviste in profondità) in quanto maggiormente adatte ad indagare in profondità le complesse dinamiche caratterizzanti i vissuti esperienziali; a cogliere le sfumature di contesto e di restituire per queste stesse ragioni un quadro vivo e frastagliato fuori da logiche pre- costituite. La restituzione delle testimonianze raccolte - grazie a un capillare lavoro di conoscenza della realtà romana dell'immigrazione e a un 'patto' etnografico molto forte intrattenuto con i giovani testimoni nonché con gli operatori che in molte occasioni se ne fanno carico - fa risaltare gli aspetti non solo politico-culturali della questione, ma anche l'intreccio di emotività e fragilità che si cela al centro della loro condizione di minori non accompagnati. La particolare condizione di vulnerabilità di cui sono vittima deriva certamente da una condizione giuridica fortemente "incerta", ma anche dal doppio ruolo sociale che il minore straniero non accompagnato assume su di sé: come "minore" è soggetto di un tradizionale percorso pedagogico, come "straniero" è un pericolo per l'ordine pubblico. La tutela "naturale" viene in questo modo costantemente infranta o finisce per dissolversi in uno spazio che non può essere indirizzato o controllato su logiche o prassi proprie dell'ordine nazionale. Soggetto "anomalo" e "sovversivo"quindi, il minore straniero non accompagnato, spesso relegato negli ambiti bui e marginali delle metropoli odierne, con la sua stessa presenza pone seri interrogativi rispetto alla capacità della nostre società di accoglienza di produrre coesione sociale e di riformulare le regole del gioco di un sistema che sia realmente inclusivo delle parti. Adolescenti (e) immigrati la cui vita si svolge su rotte transnazionali. Il loro percorso è intessuto di piccole casualità - incontri, parole, piccoli gesti - che ne determinano l'intrigo. Sono storie fatte di alternanza di successi e sbandamenti, integrazione e devianza, intreccio di trame che si snodano sul confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Minori al "bivio", dunque, qualcuno dice, "tra integrazione e rimpatrio". Questi giovani, figli di una diaspora migratoria che ha tessuto legami sociali internazionali in vari continenti, tendono a pensarsi come cittadini del mondo e possono immaginare il loro futuro in Italia, nel paese d'origine, così come in un altro luogo, conoscono la fatica dell'adattamento, e stanno imparando a gestirlo; sanno che la loro "differenza", le loro conoscenze di un'altra lingua, cultura e religione, il loro aspetto, le loro esperienze non sempre facili di socializzazione, potranno rivelarsi un limite o una risorsa. E' questa nuova consapevolezza che si sta faticosamente facendo strada oggi tra le coscienze a far sperare oggi in un destino per loro diverso da quello vissuto dai loro coetanei delle banlieues francesi o delle inner cities britanniche, dove l'essere cresciuti in quartieri in cui problemi sociali e esistenziali simili tendono a sovrapporsi, ha portato molti giovani a sentirsi collettivamente parte di una generazione tradita e sacrificata, maturando così rancore sociale e desiderio di imporsi, attraverso un'identità fiera o desiderosa di ricreare una sua purezza. La scommessa di una integrazione sociale riuscita per i giovani stranieri cresciuti nel nostro paese, ma ancora più per i minori stranieri non accompagnati, si gioca essenzialmente quindi nelle reti dell'assistenza sociale e quindi nella scuola. Tale scelta pur essendo molto lontana dal conseguimento degli obiettivi economici, e quindi dall'ottemperamento del mandato migratorio, consente di rivendicare principi e ragioni di "somiglianza – uguaglianza" con i compagni di scuola autoctoni; confronto prima pressoché impossibile data la clandestinità cui sono di sovente costretti i minori stranieri non accompagnati e la peculiarità del tipo di lavoro svolto dai marocchini, quello ambulante, per sua natura itinerante e fortemente stigmatizzato dall'opinione comune. Nonostante le evidenti lacerazioni che questa scelta comporta in termini di: rottura con vecchi schemi di comportamento; ridefinizione dei ruoli all'interno della famiglia, nell'ambito societario di arrivo, così come in quello di appartenenza; riapporpiazione della propria identità, questa strada sembra a tutt'oggi l'unica in grado di preservare questi giovani migranti o di stornarli dal destino di devianza e marginalità che spesso si apre loro come scelta obbligata. La ricerca consta di due parti: la prima rende conto della letteratura in materia di seconde generazioni e la seconda restituisce i risultati dell'etnografia. In particolare il primo capitolo affronta i termini generali della questione con l'intenzione di chiarire i diversi misunderstanding che costellano il dibattito in materia di immigrazione attraverso una lettura critica della letteratura nazionale e internazionale. Il secondo e il terzo capitolo si occupano rispettivamente della normativa europea e italiana. Quanto al primo contesto sono evidenziate le diverse pratiche adottate in materia di ingresso dei minori stranieri non accompagnati all'interno dei confini di alcuni Paesi membri di vecchia e nuova immigrazione (Francia, Inghilterra, Germania, Belgio e Spagna) e posti in luce i gaps presenti così come le falle del sistema; quanto al contesto italiano, si mettono in rilievo le criticità che gli apparati giuridici presentano rispetto a una realtà concreta del fenomeno caratterizzata, come è ovvio, da straordinaria fluttuanza e informalità. Il quarto capitolo è stato dedicato alla scuola in quanto considerata la vera fucina del cambiamento sociale per la sua capacità di rappresentare l'occasione primaria di formazione linguistica, di costruzione di reti interne al Paese di accoglienza, di apprendimento di concetti e modalità didattiche ad esso omogenee; un paragrafo a parte è stato riservato all'inserimento lavorativo essendo questo il principale movente della migrazione di questi giovani. Infine il quinto capitolo si è prefisso di indagare il contesto di provenienza dei minori intervistati, il Marocco, ricostruendo l'eredità del passato coloniale, le scelte economiche del Marocco Indipendente, i fattori di push and pull dietro i flussi migratori di ieri e di oggi. Il quadro finale ha permesso di sondare la salute del sistema. Riconoscere diritto di parola e di ascolto dell'infanzia e dell'adolescenza ha significato fare un passo importante in avanti nella comprensione della loro soggettività, consentendo di fare emergere tutti quegli aspetti di conformità, progressivo adattamento ovvero di riottosità rispetto tanto alla propria comunità di appartenenza quanto alla società di arrivo. Considerare i minori come "soggetti di diritto" ha significato in altre parole ripensare sotto un altro punto di vista l'organizzazione e le strutture profonde che quella società regolano con il merito di porre in luce aspetti e problemi inediti, frizioni interne al gruppo normalmente sfuggevoli e molto riposte ed elementi di scarto rispetto a un modello omogeneo e granitico di una data cultura. Occorre sobriamente riconoscere che non si danno più né immigrati né emigrati, ma "pari" cittadini (o spiranti tali) che tessono relazioni effettivamente ed affettivamente collegate in un unico destino interdipendente. La consapevolezza di questo richiede competenza, intelligenza, impegno e determinazione nelle scelte operative da intraprendere; l'altra faccia della medaglia è solo devianza ed emarginazione. ; The following research is aimed to underline the strategies of integration and the practices of citizenship utilized in favor of a particular segment of the actual international migratory phenomenon: the one about foreign minors who alone pass the borders of our country to search for better conditions of life. The knowledge of their cultural background and the analysis of the procedures of the ways in which one is welcomed and the integration adopted by the receiving countries represent a stimulating challenge from the anthropological perspective, always considered the science of "cultural differences" (Callari Galli, 2005). The importance of this study is obviously given forth by the increasing numbers of "separated" minors in our country, but moreover by the necessity to re-define the strategies of social integration tout court if we don't want to feed what has, since 1970, been defined by some criminologists as a real "time bomb" (Bovenkerk 1973, cit. in Barbagli 2002, p. 31). Although nowadays both of the international and Italian literature, about the second generation and in particular those that talk of separated minors are conspicuous, we are still missing anthropological monographs on single nationalities of immigrants able to access, investigate and inquire into the complex emotional world of these minors. The following research was born from the necessity to fill in this experiential gap assuming as its subject a specific part of the category of minors: youth of Moroccan origin that are situated on a particular segment of the transnational migratory trades, the axis Khourigba- Rome. According to the recent anthropological acquisition (Persichetti, 2003; Riccio; 2007; Capello, 2008) it became appropriate to proceed with a multi-situated study able to embrace both of the aspects of the migrants lives: the context of origin and the context of arrival of the young migrants. "Before becoming an immigrant, the migrant is always an emigrant" wrote the Algerian sociologist Abdelmalek Sayad (2002), intending by this affirmation that immigration and emigration are both faces of the same reality. A study of the migrant phenomenon that forgets or leaves behind the condition of origin of immigrants people is condemned to offer only a partial and ethnocentric version of this phenomenon. The ethnography, started in 2006 and finished in 2008, has been integrated by two journeys in Morocco with the purpose to investigate those part of lives – made principally also by sounds, colors and images - not "accessible" and "communicable" in the receiving countries. Clearly the research has required a large use of qualitative methodologies (participant observation, focus group, interview in depth, etc) because of their characteristic to be more adapted to investigate the complex dynamics typical of the lived experience; to catch the shades of content and to give back, for these same reasons, a lively and unusual picture out of rules and schemes prior established. The feedback from the gathered stories – by a meticulous work which consisted in the knowledge of the Roman immigrants reality and a strong ethnographical "pact" with the minors on one hand and the social operators on the other – has brought to light not only the political and cultural aspects of the phenomenon, but moreover the tangle of sensitiveness and fragility hidden behind their condition of separated minors. The particular condition of vulnerability of which they are victims firstly came from an "uncertain" juridical condition, but more so by the double rule that the separated minor assumes on himself: as a "minor" he is subject to a traditional pedagogic approach and as a "stranger" he is considered dangerous to the public order. The natural guardianship which they should enjoy is continuously breached and threatened and dissolves in vague promises and empty rituals. Separated minors are "anomalous" and "subversive" subjects who too often are relegated to the dark and marginal spheres of the actual metropolis. Furthermore, their own presence, even if it is made invisible by the viewpoint of the system, impose serious and urgent questions to contemporary society; in respect of our capacity to produce social cohesion and re-formulate the rules of a game which has to be really inclusive in all its parts. It compromises the global issues of our society. Adolescents (and) immigrants who are living their lives on transnational routes. Their course is woven together by many little causalities - encounters, words and simple gestures that determine its outcome. These are stories made up of alternations of successes and disbandment, integration and deviance, a tangle of plots that lie on the border of what is licit and what is not. Minors on a "crossroad", some say, between "integration and repatriation". These young, son of numerous migratory diasporas that have banded together into international social links in many continents, tend to think themselves as citizens of the world and are able to imagine their future in Italy, in their own country or everywhere. They have lived the fatigue of adaptation and are learning to manage it. They know that their "difference" - the knowledge of another tongue, culture, religion, their physical appearance, their experiences of socialization, not always so simple and immediate - can be either a limit or a resource. Is this new consciousness - that nowadays is hardly rousing our consciences - to leave us the hope in a different destiny from that lived by their residing in the French banlieues or in Britain's inner cities. These communities, where to be brought up in districts in which social and existential problems tend to overlap, has brought many young persons to feel part of a generation betrayed and sacrificed and to foster social resentment and wishes of revenge through an identity that is proud and intent on recreating its original purity. The bet of a successful social integration for the young people growing up in our country, but moreover for the separated minors, is played on the circuits of social assistance and then on the capacity of school to create cohesion as an agency of socialization. This choice, though it is really far away from the fulfillment of their economic objectives and then from the attainment of the migratory cause, allows them to claim principles and reasons of " similarity – equality" with their coetaneous friends of school. This is a kind of comparison that was impossible before because of the irregular condition to which separated minors are often obliged and the peculiar characteristics of the type of job done by Moroccan people, usually pitchmen, from its nature an itinerant job hardly stigmatized by common opinion. Although the evident lacerations that this choice implies in terms of breaking old schemes of behaviours; redefinition of rules in the family, in the society of arrival (as well as in the society of origin); re-appropriation of one's own identity; this road appears uniquely to be able to preserve these young migrants from the solitude of a destiny otherwise made up of deviance and marginality. The research consists of two parts: the first one proposes a general framework about second generation literature and the second one provides the results of the ethnography. In particular, the first chapter copes with these questions in general terms with the intent to clarify the different misunderstandings in the debate about immigration, through a critical reading of national and international literature. The second and third chapters talk respectively of the European laws concerning separated minors and the Italian ones. In regard to the first context, it underlines the different practices adopted about the entry of separated minors in the territories of several old and new European immigration countries (such as France, Britain, Germany, Belgium and Spain) and point out the gaps and problems of these systems. As regards the Italian context, instead, emphasize is put on the critical points of the actual juridical systems in respect to a reality of the phenomenon characterized, as obviously it is, by remarkable unbalance and changeability. The fourth chapter has been dedicated to the school because it is considered the real forge of the social changing in its capacity to represent the primary occasion of: linguistic training, constructing of intern links in the receiving countries, learning of concepts and didactic modalities homogenous to it. A specific paragraph has been reserved to the introduction to the working environment because it is the main reason of the migration of these young people. The fifth chapter is aimed to investigate the context of provenience of minors interviewed, the Moroccan Country, reconstructing the heredity of the colonial past, the economic choices of the Independent Morocco, and the factors of push and pull behind the migratory flows of yesterday and today. The final picture is used to verify the health of the system. Recognizing the right of "speech" and "listening" to infancy and adolescence has meant to make an important step forward in the knowledge of their individuality, making arise all aspects of conformity and progressive adaptation or, on the contrary, their rebelliousness to their own culture as well as to the receiving society. In other worlds, considering minors "subjects of right" has meant rethinking the organization and obscure structures that manage the same societies in which they live, with the merit to point out aspects and elements of forsaking respect to a homogenous and given model of a culture. Nowadays more than ever it is necessary to admit that there are no more immigrants or emigrants, but "equal" citizens (or aspirant ones) who weave together elements of every type in a unique interdependent destiny. The consciousness of this claim calls for competence, intelligence, dedication and determination in the choice to engage; the rest is made by deviance, frustration, marginalization. ; Dottorato di ricerca in Tutela e Promozione dei Diritti dell'Infanzia (XXII ciclo)
Il tema della Responsabilità Sociale d'Impresa (RSI) è recentemente tornato ad essere di grande attualità. A partire dalla fine degli anni Novanta, si è assistito infatti ad un proliferare di iniziative e strumenti destinati alla sensibilizzazione delle imprese e al sostegno delle loro buone pratiche; in ambito dottrinale si è ricominciato a scrivere e a discutere sull'argomento, molto spesso anche con un approccio pragmatico, mirato in particolare alla trattazione del tema della rendicontazione sociale e della gestione aziendale della responsabilità sociale. Analizzando la letteratura di riferimento, tuttavia, si scopre come molti problemi fossero già emersi e molte riflessioni fossero già state fatte sul tema, fin dalle prime pubblicazioni degli anni Sessanta e Settanta. In particolare, da una preliminare analisi degli studi anglosassoni sulla Corporate Social Responsibility si è notata un'ampia varietà di approcci, dei quali, però, alcuni si sono rivelati più adatti a costituire l'impostazione teorica di fondo della responsabilità sociale in ottica economico-aziendale. Si allude in particolare tre filoni teorici che, pur essendo concettualmente e formalmente distinti si connotano per avere un approccio strategico e manageriale alla responsabilità sociale d'impresa. Nel primo capitolo, pertanto, si è ritenuto di dover costruire la base teorica di riferimento della RSI in ottica strategica riassumendo i tratti salienti delle seguenti teorie: la Corporate Social Responsiveness la Corporate Social Performance la Stakeholder Theory Il più profondo dibattito sulla RSI divide i sostenitori della stessa da coloro che categoricamente la rifiutano; la scelta di trattare il filone di studi strategici sulla RSI è dovuta alla convinzione di poter superare questa prima antitesi con la dimostrazione dell'attinenza del tema alle problematiche economico aziendali, ovvero dell'attinenza della responsabilità sociale agli aspetti di gestione dell'impresa. L'idea di fondo è pertanto quella di riconoscere alla RSI una valenza strategica, e di poter annoverare le strategie sociali tra le altre strategie a livello aziendale, attribuendo alla gestione delle relazioni con gli stakeholder un ruolo che pervade tutti gli aspetti dell'operatività dell'azienda; non si tratta, pertanto, di incorporare forzatamente nella gestione dell'impresa una serie di valori, di principi e di obiettivi che non le sono propri, ma di scoprire come una consapevole impostazione dei rapporti con l'ambiente di riferimento possa costituire per l'impresa un vantaggio competitivo e possa contribuire, attraverso una gestione di qualità, al raggiungimento della fondamentale finalità dell'impresa di perdurare in condizioni di equilibrio economico. A questo punto, la considerazione della rilevanza della Responsabilità Sociale d'Impresa appare, a nostro avviso, se non auspicabile quanto meno condivisibile. Il concetto che meglio si adatta a questo approccio è quello di Corporate Social Responsiveness, ovvero di "sensitività", di "rispondenza" sociale: l'impresa che vuole gestire i rapporti con il suo ambiente di riferimento deve sviluppare questa sensibilità a cogliere le istanze che da esso provengono e a mediare i suoi imprescindibili obiettivi con le aspettative degli stakeholder; per fare ciò l'impresa deve approntare al suo interno una serie di processi di gestione, di strumenti che le permettano di instaurare un proficuo dialogo con l'ambiente esterno. Come si può facilmente notare, il concetto è ben lontano dall'originario significato di responsabilità sociale come obbligazione, come dovere morale dell'impresa di rispettare valori la cui individuazione è, a questo livello - così generico - difficilmente attuabile. Se l'impresa è chiamata a rispettare dei principi di fondo, è importante che questi scaturiscano dal concreto interagire con i suoi interlocutori: ecco allora che la Stakeholder Theory costituisce in termini descrittivi, normativi e strumentali la matrice teorica di riferimento, individuando quali sono i soggetti verso cui l'impresa è responsabile. La teoria degli stakeholder ha contribuito a definire una nuova visione dell'impresa, da "scatola nera" di trasformazione di input in output a centro di molteplici relazioni con tutti coloro che, per dirla con Freeman, "influenzano o sono influenzati dal raggiungimento degli obiettivi di un'organizzazione-impresa". L'impresa necessita di risorse per lo svolgimento dell'attività, e di ottenere consenso e legittimazione al suo agire; in mancanza di ciò finisce con il compromettere la sua stessa capacità di creare valore economico. La responsabilità sociale d'impresa, pertanto, non è semplicemente un vincolo all'equilibrio economico: è un arricchimento della finalità dell'impresa che, se correttamente percepito può trasformarsi anche in vantaggio competitivo. Il passaggio successivo diviene pertanto quello di incorporare la RSI in tutta la gestione aziendale, dalle strategie fino all'attività operativa, dalla pianificazione alla misurazione e rappresentazione dei risultati raggiunti. L'incorporazione degli obiettivi sociali nell'impresa comporta necessariamente un diverso approccio alla misurazione della performance: i modelli di Corporate Social Performance si sono occupati di ciò fin dagli anni Ottanta, evidenziando innanzitutto la pervasività della responsabilità sociale, che si può rappresentare e misurare a livello di principi, di processi e di risultati concreti. Il filone della Corporate Social Performance riesce pertanto a conciliare l'approccio di responsabilità sociale basato sui valori e quello che, più pragmaticamente, mette in luce l'esigenza per l'impresa di dotarsi di processi e di strumenti per gestirla in ottica strategica. Se principi, processi e risultati sono ugualmente rilevanti, allora l'impresa deve ricorrere a diversi strumenti, di volta in volta finalizzati a: valutare la coerenza dei principi di RSI con la mission e le strategie, esplicitare le fasi dei processi e le attività da porre in essere per implementare la RSI, misurare e rendicontare la performance sociale, ovvero il grado di attuazione delle politiche sociali nell'ambito delle relazioni con gli stakeholder. Le strategie sociali comprendono pertanto gli obiettivi relazionali dell'azienda con i suoi stakeholder, e la misurazione delle performance diviene i tal senso uno dei momenti del più ampio processo di pianificazione e controllo delle strategie stesse. Ecco allora che la letteratura di riferimento nell'ambito della Corporate Social Responsibility si intreccia con gli studi che si sono occupati di dare un contenuto alle strategie sociali d'impresa e di classificarle sulla base di molteplici aspetti, quali ad esempio il diverso grado di reattività dell'impresa alle sollecitazioni del suo ambiente di riferimento, le categorie di stakeholder a cui le strategie si rivolgono e la tipologia di scambi di cui si compone la relazione con essi, la tipologia di problematiche sociali da monitorare e il tipo di organizzazione aziendale che si dimostra più adatta a ciò, o, infine, le strategie di influenza che gli stakeholder possono porre in essere per ottenere soddisfazione delle loro attese nei confronti dell'impresa. Dopo aver ribadito la rilevanza strategica della RSI e aver espresso i possibili contenuti sociali incorporabili negli obiettivi dell'impresa, si è ritenuto di dover trattare le modalità e gli strumenti di implementazione delle strategie sociali stesse. Il secondo capitolo è pertanto dedicato all'analisi di alcuni strumenti proposti nell'ambito della responsabilità sociale d'impresa, organizzati secondo l'approccio teorico della Corporate Social Performance (CSP). Partendo dall'osservazione della varietà di modelli e strumenti di riferimento, si è ritenuto infatti di procedere con una proposta di tassonomia che vede distinti: dichiarazioni di principi e di valori; standard di processo per la gestione della RSI; standard di rendicontazione, sia in termini di processi che di contenuti. La tassonomia ricalca la tripartizione principi-processi-risultati che caratterizza la CSP e inoltre corrisponde a grandi linee ad altre proposte di classificazione degli strumenti di RSI recentemente formulate in dottrina. Le dichiarazioni di principi e di valori sono quei documenti, quali ad esempio il Global Compact ONU, le linee guida OCSE per le imprese multinazionali, le convenzioni ILO, che contengono alcuni principi fondamentali sul rispetto dei diritti umani, dell'ambiente, dei diritti dei lavoratori, sulla lotta alla corruzione - per citarne solo alcuni - a cui le imprese sono chiamate ad aderire. Tali dichiarazioni di principi, oltre alla valenza intrinseca di sensibilizzazione delle imprese e di promozione delle buone prassi, possono dare utili suggerimenti sulla costruzione di strumenti interni aziendali quali la carta dei valori o il codice etico, o sull'incorporazione di obiettivi sociali nella mission. Questi strumenti interni aziendali caratterizzano quel livello di implementazione della RSI che nel capitolo 4 è stato ripreso e definito come "strategico", proprio perché di competenza del vertice aziendale e finalizzato alla creazione e diffusione nell'azienda di un'autentica cultura della responsabilità sociale. La seconda categoria di strumenti accoglie invece i cosiddetti "standard di gestione", che sostanzialmente svolgono la medesima funzione dei sistemi di gestione della qualità: trattasi infatti di una serie di norme, anche di tipo organizzativo e procedurale, il cui rispetto può comportare per l'impresa un riconoscimento esterno, una sorta di certificazione di qualità sociale. Nell'ambito di tale categoria se ne sono presentati due in particolare: la norma SA 8000 e il modello Q-RES. La norma SA 8000 è sostanzialmente uno strumento mono-stakeholder, trattando esclusivamente del rapporto con i lavoratori dipendenti; di fatto, però, assume rilevanza per il meccanismo, in essa contenuto, di ottenimento della certificazione sociale, che richiede la definizione e implementazione di un sistema di gestione. Il sistema di gestione SA 8000 sottolinea la necessità per l'impresa di dotarsi di una politica della responsabilità sociale, di sistemi di pianificazione, implementazione e controllo della stessa, e di un adeguato piano di rilevazione e comunicazione delle attività sociali poste in essere. Il modello Q-RES stimola l'azienda a gestire la responsabilità sociale come un processo, che partendo dalla visione etica e passando attraverso alcuni strumenti di attuazione e controllo, giunge alla rendicontazione sociale e alla verifica esterna. I diversi strumenti di Q-RES si ricompongono nell'unitario processo, finalizzato al raggiungimento dell'eccellenza nella gestione della RSI. La considerazione della RSI come processo porta con sé anche la positiva conseguenza di far emergere il vero ruolo della rendicontazione sociale: il bilancio sociale non viene più visto pertanto come fine in sé, ma diviene un mezzo, uno strumento informativo sulla gestione aziendale e uno strumento di comunicazione con gli stakeholder. Tra i modelli che si occupano dei processi di rendicontazione, inseriti nella terza categoria di strumenti, spiccano il modello AA 1000 e il modello della Copenhagen Charter. Il modello AA 1000 esprime le fondamentali fasi di cui si compone il processo: pianificazione, rilevazione, controllo e rendicontazione; ciascuna fase è integrata nel più ampio contesto dei processi di gestione aziendale e si caratterizza per opportune modalità di coinvolgimento degli stakeholder, in termini di fissazione degli obiettivi, di raccolta delle informazioni e di espressione di un giudizio sui risultati aziendali e sulla qualità del reporting sociale. Il modello della Copenhagen Charter, invece, sottolinea la rilevanza strategica della rendicontazione sociale; un costante dialogo con gli stakeholder permette di accorciare i circuiti di risposta dell'azienda agli eventi esterni, senza attendere che tali accadimenti siano rilevati dagli strumenti contabili tradizionali, nel momento in cui determinano conseguenze in termini di risultati economico-finanziari. In quest'ottica, pertanto, i contenuti della rendicontazione sociale devono essere rivisti, per accogliere al loro interno la misurazione delle performance sociali; il controllo delle strategie sociali, infatti, richiede parametri ad hoc, utilizzabili sia per finalità interne di gestione, che per scopi di comunicazione e relazione con gli stakeholder. Nel panorama degli standard di contenuto della rendicontazione sociale non è tuttavia molto diffuso l'utilizzo di indicatori di performance: tra i pochi esempi in tal senso si sono riscontrati il modello GRI e il Social Statement del progetto CSR-SC del Ministero del Welfare italiano; in entrambi i casi è stato analizzato il contenuto del modello, soprattutto con riferimento agli indicatori sociali proposti. Ciascuna azienda può, evidentemente, ipotizzare una propria lista di indicatori rilevanti, sulla base delle caratteristiche specifiche dell'operatività aziendale e dei propri stakeholder; tuttavia, nell'ambito della rendicontazione sociale, si ritiene di dover ribadire l'importanza di un livello minimo di standardizzazione degli indicatori. In assenza di uniformità sulle denominazioni e sui contenuti degli indicatori, il report sociale fallisce il suo fondamentale scopo di permettere agli stakeholder di esprimere un giudizio effettivo sulla responsabilità sociale dell'impresa, non rendendo possibile il confronto delle sue performance nel tempo e nello spazio. La ricerca degli indicatori sociali si è pertanto spostata dagli standard di riferimento alla prassi di rendicontazione: nel terzo capitolo della tesi si sono riportati gli esiti di una ricerca empirica effettuata sui report sociali delle società quotate italiane. La finalità della ricerca è stata quella di presentare un'elencazione di possibili indicatori di performance sociale, attraverso la raccolta e sistematizzazione di tutti quelli riscontrati nei bilanci sociali e di sostenibilità analizzati. La ricerca dei bilanci sociali è stata effettuata su internet; sono stati visitati i siti di tutte le società quotate italiane (277 società al 1 dicembre 2005), dai quali si sono riscontrati solamente 32 casi di bilanci sociali e di sostenibilità . Dalla lettura dei bilanci è stato possibile estrapolare gli indicatori sociali utilizzati da ciascuna società nel report; con il termine di indicatori sociali si sono intese, in questa sede, tutte quelle informazioni quantitative (monetarie e non, espresse in numero e in percentuale) inserite nel report a complemento delle informazioni discorsive, anche sotto forma di tabelle e grafici. Nella fase successiva, gli indicatori raccolti per ciascuna società sono stati resi uniformi, quanto a denominazioni e contenuto, e sono stati inseriti in alcune tabelle di sintesi, dalle quali è stato possibile estrapolare la frequenza con cui tali indicatori sono presenti nei diversi bilanci analizzati. Nelle tabelle di sintesi gli indicatori sono stati organizzati sulla base delle categorie, corrispondenti ai diversi stakeholder di riferimento, e all'interno delle categorie sono stati suddivisi per aspetto, ovvero per tipologia di problematica sociale (ad esempio, nella categoria delle risorse umane, gli aspetti possono essere la formazione, la salute e sicurezza, la remunerazione ecc.). L'analisi empirica ha evidenziato lo scarso livello di standardizzazione che caratterizza la prassi di rendicontazione sociale in Italia; gli indicatori utilizzati dalle società quotate italiane sono moltissimi, ma spesso dietro a denominazioni diverse si nascondono identici contenuti o misurazioni di performance analoghe, che tuttavia difficilmente esprimono tutto il loro potenziale informativo, nel momento in cui non sono chiaramente comprensibili e soprattutto confrontabili. Il processo di omogeneizzazione degli indicatori è stato pertanto piuttosto laborioso, ma ha comunque portato all'ottenimento del prodotto atteso: un elenco di indicatori di performance sociale che si prestano non solo ad essere inseriti nella rendicontazione sociale, ma anche ad essere utilizzati come strumenti di misurazione e controllo della responsabilità sociale dell'impresa. Nel quarto capitolo sono state infatti riprese le problematiche di implementazione delle strategie sociali, non più dal solo punto di vista dei modelli e degli strumenti utilizzabili in tal senso dalle imprese, ma con specifico riferimento ai processi di pianificazione e controllo. Il processo di pianificazione e controllo della RSI parte dalla mission aziendale, attraverso l'inserimento in essa del fondamentale obiettivo di equilibrio relazionale con gli stakeholder. Dalla mission discendono le strategie sociali, che si possono scomporre in politiche sociali verso le diverse categorie di stakeholder (ad esempio, politica dei dividendi verso gli azionisti, politica di pari opportunità nei confronti del personale). Le politiche sociali a loro volta si declinano in obiettivi sociali specifici, il cui raggiungimento può essere misurato e monitorato attraverso opportuni parametri, ovvero indicatori di performance sociale. L'individuazione degli specifici obiettivi, ovvero degli aspetti rilevanti nella relazione dell'impresa con le diverse categorie di stakeholder, ha permesso di effettuare una scrematura degli indicatori di performance rilevati nel terzo capitolo, selezionando quelli che appaiono più significativi rispetto agli obiettivi posti. Tali indicatori sono stati inseriti nell'ambito di un sistema di misurazione delle performance, che a sua volta è scaturito dalla fusione di alcune proposte dottrinali nell'ambito della Corporate Social Performance e degli studi di pianificazione e controllo strategico. Il set di indicatori proposto, tuttavia, non ha alcuna pretesa di esaustività, né tanto meno di risoluzione della complessa problematica della misurazione delle performance sociali, ma ci permette di fare alcune osservazioni conclusive: nel momento in cui si riconosce la rilevanza strategica per l'impresa del rapporto con gli stakeholder, nasce l'esigenza di un processo di gestione consapevole della responsabilità sociale; tale processo deve necessariamente avvalersi di strumenti ad hoc, tra i quali spiccano in particolare gli strumenti relazionali quali il bilancio sociale e il bilancio di sostenibilità; poiché non si può gestire ciò che non si conosce, anche gli strumenti di misurazione e reporting interno devono focalizzarsi sugli oggetti specifici del rapporto impresa-stakeholder; infine, la responsabilità sociale deve pervadere tutta l'organizzazione, dai vertici fino ai livelli più operativi; questo significa che anche i sistemi di valutazione e incentivazione devono essere ripensati in termini di obiettivi sociali attribuibili alle funzioni aziendali e ai singoli manager. La misurazione delle performance sociali ai diversi livelli dell'organizzazione potrebbe in particolare suggerire la costruzione di una balanced scorecard sociale; si ritiene che la proposta di un set di indicatori possa essere un primo passo in questa direzione. Infine, con riferimento alla rendicontazione agli stakeholder, e quindi verso l'esterno dell'impresa, si ritiene che gli indicatori di performance possano arricchire gli standard di contenuto esistenti, contribuendo in tal senso a diffondere una cultura del bilancio sociale come strumento di vera comunicazione, non solo di pura immagine. ; The thesis deal with the implementation of corporate social responsibility in planning and control processes. After a review of the main theories concerning the corporate social responsibility and the social strategy of the firm, the social reporting process is treated, with reference to main international and national standards of sustainability management and reporting (e.g. GRI, GBS). The empirical research presented in chapter three is aimed at showing the large variety of social and environmental indicators used in social reporting by a sample of big Italian firms: the sample is formed by all Italian listed companies with a social, environmental or sustainability report published in their website. The last chapter contains the conclusion on the empirical research, and a proposal of management process in terms of social responsibility implementation; in particular an hypothetical set of performance indicators is presented as a mean to measure, report and control the social responsibility of firms.
La presente ricerca ha avuto ad oggetto l'analisi della criminalità culturale di matrice immigratoria nel contesto europeo contemporaneo. Tradizionalmente con il termine reato culturalmente orientato o motivato si intende quel comportamento realizzato dal membro di una cultura minoritaria che è considerato reato dall'ordinamento giuridico della cultura dominante, ma che viene accettato, condonato, o addirittura incoraggiato all'interno del gruppo culturale del soggetto agente. Dedicare la ricerca esclusivamente alla criminalità culturale di matrice immigratoria significa restringere il campo dell'analisi ai reati culturali commessi da immigrati, escludendo i reati culturali commessi da minoranze autoctone. Esulano, tra l'altro, dall'analisi i reati riconducibili all'immigrazione clandestina e le forme di terrorismo transnazionale di matrice ideologica. Il particolare tipo di reato culturale di cui si è occupata la presente ricerca può dunque essere definito come il comportamento che l'immigrato pone in essere in quanto normale, approvato, o incoraggiato dalla propria cultura e che, invece, è considerato reato nello Stato di residenza. Alla nozione di reato culturale e di cultural defence, nonché alla delimitazione dell'ambito di indagine è dedicato il primo capitolo della tesi, nell'ambito del quale vengono spiegate le difficoltà che si incontrano nel definire il concetto di cultura e di pratica culturale. La ricerca è volta a valutare la possibile rilevanza penale da riconoscere al condizionamento esercitato sul reo dall'appartenenza a una determinata cultura, ossia al c.d. fattore culturale. La definizione di reato culturale è tale da comprendere situazioni molto diverse tra loro, rispetto alle quali è necessario trovare un equilibrio tra tutela dei diritti fondamentali e diritto – o, meglio, diritti – alla specificità. Vengono alla mente pratiche riconducibili alle tradizioni di determinati gruppi etnici, quali la mutilazione degli organi genitali femminili, lo stupro che precede il matrimonio, l'impiego di minori nell'accattonaggio, o i matrimoni poligamici. Con ogni evidenza, si tratta di comportamenti che – ammesso e non concesso che siano (ancora) legittimamente praticati nei Paesi di provenienza dell'immigrato – rappresentano un problema nel momento in cui vengono posti in essere in uno Stato ospitante che ne riconosce la rilevanza penale. I flussi migratori che negli anni hanno accompagnato il processo di integrazione europea ed internazionale hanno messo in contatto persone portatrici di tradizioni culturali estremamente distanti tra loro, facendo della c.d. criminalità culturale uno dei temi più complessi, discussi e controversi del panorama giuridico contemporaneo. Dal punto di vista comunitario, tra l'altro, la nascita dell'area Schengen e il progressivo enlargement europeo hanno incrementato il fenomeno migratorio, imponendo anche a Paesi che non avevano vissuto in passato esperienze immigratorie di confrontarsi con le sfide del multiculturalismo. Spesso si pensa all'immigrazione e alla società multiculturale come una sfida per il diritto penale statale. L'area penale è, infatti, la più resistente alla sottrazione della sovranità che il processo di integrazione europea ed internazionale comporta perché rappresenta uno degli ambiti in cui maggiormente si riflette l'identità costituzionale degli Stati. La norma penale è una delle più alte manifestazioni dei valori prevalenti in una determinata area culturale. Da un lato, questo significa che l'ordinamento nazionale si riserva gelosamente la potestà di decidere quali comportamenti costituiscono reato all'interno del proprio territorio. Dall'altro lato, proprio per questo suo essere espressione della cultura di appartenenza di un determinato soggetto, la norma penale fa parte del bagaglio del migrante: l'individuo percepisce come reato ciò che per la propria cultura è reato e potrebbe non comprendere, e magari neanche percepire, le fattispecie vigenti nel territorio in cui emigra. Sullo sfondo dei reati culturali vi è una forma di conflitto culturale tra Paese ospitante e individuo ospite, che porta con sé la necessità di stabilire come devono essere giudicate le condotte poste in essere da chi appartiene a culture diverse da quella ritenuta dominante. Nell'ambito della ricerca che ha portato alla presente tesi è stato analizzato il trattamento dei culturally motivated crimes con particolare riferimento al sistema italiano e a quello del Regno Unito. L'Italia, alla quale è dedicato il secondo capitolo della tesi, storicamente è stata il punto di partenza dei migranti; soltanto nell'ultimo trentennio è divenuta una meta per gli immigrati e si è dovuta confrontare con la criminalità culturale di matrice immigratoria. Il modello italiano di gestione della diversità culturale, oltre ad essere particolarmente giovane, è considerato di stampo assimilazionista. La legislazione italiana non chiarisce la rilevanza penale da attribuire al fattore culturale, né tantomeno codifica una qualche forma di cultural defence. La strategia che, soprattutto negli ultimi anni, il nostro legislatore penale sembra portare avanti è quella di introdurre alcuni singoli reati culturalmente orientati, spesso con interventi caratterizzati da una decisa reazione sanzionatoria. In questo senso dal punto di vista legislativo vengono in particolare in rilievo due recenti interventi normativi: la legge n. 7 del 2006, con la quale è stato introdotto il delitto di mutilazioni genitali femminili e la legge n. 94 del 2009, con la quale è stato innalzata a delitto la contravvenzione di impiego dei minori nell'accattonaggio. Dal punto di vista giurisprudenziale in Italia si registra una mancanza di coerenza nelle decisioni che hanno ad oggetto i reati culturali. Per quanto attiene il sistema italiano vengono inoltre analizzate le sentenze pronunciate da tribunali esteri nell'ambito di procedimenti che hanno riguardato italiani accusati di reati culturalmente motivati. Si tratta di un'ottica molto interessante perché permette di superare l'atteggiamento paternalista mascherato da tolleranza che spesso accompagna il tema della diversità culturale. Il Regno Unito è stato scelto come secondo modello di riferimento e gli viene dedicato il terzo capitolo della tesi. Oltre ad aver vissuto un'esperienza immigratoria precedente rispetto all'Italia, la Gran Bretagna nel contesto europeo è considerata portatrice del modello c.d. multiculturalista di gestione della diversità culturale, che si contrappone al modello c.d. assimilazionista, al quale è invece riconducibile il sistema italiano. L'approccio multiculturalista è ispirato da una logica di uguaglianza sostanziale e tradizionalmente si caratterizza per il riconoscimento delle diversità culturali e l'elaborazione di politiche volte alla loro tutela. Nel Regno Unito l'appartenenza a una determinata minoranza culturale giustifica un diverso trattamento giuridico: si pensi al Road Traffic Act e all'Employment Act, che esonerano gli indiani sikh dall'uso del casco nei cantieri di lavoro e in moto, consentendo loro di indossare il tradizionale turbante. Espressione del multiculturalismo all'inglese sono anche gli Sharia Councils, pseudo-Corti formate da membri autorevoli della comunità islamica alle quali può rivolgersi la popolazione britannica musulmana affinché determinate controversie vengano risolte in applicazione della shari'a, la legge islamica. Lo studio degli Sharia Councils è stato una parte fondamentale del percorso di ricerca, svolto anche grazie alla partecipazione all'attività del Council di Londra. Questi organismi operano nell'alveo dell'Arbitration Act e sono oggi al centro di un fervente dibattito per due principali motivi. Prima di tutto nel Regno Unito si discute molto di parallel legal systems, ossia della possibilità di istituire per soggetti culturalmente diversi degli ordinamenti paralleli. Alcuni Autori ritengono che gli Sharia Councils esercitino una vera e propria competenza di carattere giurisdizionale. Assumendo questa tesi - invero minoritaria - il multiculturalismo all'inglese raggiungerebbe il cuore dell'ordinamento, all'interno del quale creerebbe una vera e propria spaccatura: ogni cittadino avrebbe la "sua" legge e il "suo" tribunale. Un altro problema fondamentale è quello dell'esercizio da parte dei Councils di una competenza di carattere penale: l'accusa rivolta a queste istituzioni è, infatti, quella di essersi arrogate una competenza in tema di violenza domestica forzando le maglie delle decisioni in tema di divorzio. Accanto all'analisi dedicata al sistema italiano e a quello inglese, per la ricerca si sono rivelate fondamentali anche le esperienze di Francia, Stati Uniti e Canada. Il sistema francese è considerato nel panorama europeo il principale modello assimilazionista: a questo proposito si parla di processo di francesizzazione degli immigrati, o anche cittadinizzazione senza integrazione. Gli Stati Uniti, spesso considerati la società multiculturale per eccellenza, sono la patria del dibattito sulla cultural defence, la strategia difensiva fondata sul fattore culturale come causa di giustificazione o come causa di diminuzione della pena. Il Canada, infine, è il portatore nel contesto internazionale del modello multiculturalista inglese: il multiculturalismo è espressamente previsto come principio nella Carta dei diritti e delle libertà, a partire dall'inizio degli anni novanta è stato reintrodotto per gli Inuit il circle sentencing, grazie al quale le decisioni, anche in materia penale, vengono adottate da una sorta di collegio composto dal giudice e da membri delle comunità interessate. Tra l'altro, è stata la Corte costituzionale canadese a formalizzare per la prima volta il c.d. test culturale, negli anni novanta. L'analisi del modello italiano, giovane e di stampo assimilazionista, e di quello multiculturalista inglese consente, anche grazie ai continui riferimenti ai sistemi adottati negli Stati Uniti, in Canada e in Francia, di assumere un punto di vista più generale sul trattamento dei reati culturali. I processi che riguardano vicende di criminalità culturale testimoniano spesso una difficoltà di integrazione degli immigrati che non è solo culturale, ma prima di tutto sociale. Sotto questo punto di vista ciò che accade nelle aule dei tribunali diventa il metro di valutazione della politica legislativa statale in tema di immigrazione. Obiettivo della ricerca è stato quello di identificare gli strumenti per gestire la criminalità culturale, individuando le strade che si possono concretamente percorrere per superare le tensioni tra società multiculturale e sistema penale, alla ricerca di un equilibrio tra tutela dei diritti fondamentali e diritti alla diversità che non metta in discussione principi cardine dell'ordinamento penale quali quello di eguaglianza e quello di proporzionalità della pena. Preso atto della complessità del problema, la prima conclusione cui si giunge all'esito della ricerca è l'impossibilità di conferire una rilevanza penale generale al fattore culturale. Non è possibile introdurre nella parte generale del Codice penale una causa di giustificazione culturale, così come non è possibile codificare una circostanza attraverso la quale dare un rilievo sanzionatorio predefinito e generale alla componente culturale che porta il reo a delinquere. Più volte tra le pagine del lavoro si sottolinea che rientrano nella nozione di reato culturale condotte che non sono neanche lontanamente paragonabili dal punto di vista del disvalore sociale che le connota e rispetto alle quali non è possibile fare un discorso di carattere generale. Così come non è possibile lavorare sulla parte generale del Codice penale, anche la scelta di introdurre fattispecie di reato create ad hoc per incriminare specifiche pratiche culturali non è condivisibile. Ed infatti, da un lato identificare e tipizzare una pratica culturale è spesso realmente difficile – e nel codice penale non c'è spazio per l'indeterminatezza – e dall'altro le esperienze italiana e inglese rivelano che l'operazione è alquanto inutile. A livello legislativo l'unica strada valutabile sembra essere quella di prevedere delle specifiche cause di non punibilità che permettano di dare una rilevanza – in maniera controllata – al fattore culturale in determinate ipotesi. Questa opzione consente di prendere in considerazione determinate pratiche culturali e di cucire su di esse la non punibilità, senza che questo implichi una scelta ordinamentale di carattere generale. Sembra, tuttavia, che sia una strada difficilmente praticabile: tra l'altro, un tema delicato come quello della criminalità culturale potrebbe non trovare facilmente una maggioranza parlamentare tale da consentire di legiferare e, comunque, ciò potrebbe avvenire in tempi decisamente lunghi. Ebbene, allo stato la chiave della questione è nel trattamento delle singole e concrete vicende di criminalità culturale e, dunque, nel ruolo del giudice. Anche in questo caso sorgono dei problemi: basti pensare che nel momento in cui il legislatore penale si astiene dal prevedere in via generale una forma di cultural defence, il fattore culturale potrebbe anche essere preso in considerazione contra reum, ad esempio a fini deterrenti, per chiarire inequivocabilmente l'intollerabilità di un determinato comportamento, o per prevenire una vendetta da parte del gruppo di appartenenza culturale della vittima. Il dato è preoccupante perché, come sottolineano gli Autori che si occupano di criminalità culturale, in presenza di un reato culturalmente orientato o motivato il grado di rimproverabilità dell'autore si attenua in conseguenza di una minore esigibilità della conformazione al precetto penale. Per arginare il rischio che il fattore culturale venga preso in considerazione per aggravare il giudizio di responsabilità del reo è dunque indispensabile sensibilizzare i giudici e munirli degli strumenti adatti per gestire la diversità culturale. In tale ottica la ricerca presenta l'analisi di alcuni strumenti che vengono utilizzati nei Paesi analizzati e dai quali è possibile prendere spunto: vengono così in rilievo l'Equal Treatment Bench Book inglese, il circle sentencing canadese, e la possibilità, sul modello francese, di integrare l'organo chiamato a giudicare un reato culturale. Di queste strade quella concretamente più praticabile è l'Equal Treatment Bench Book, un vademecum destinato agli operatori giudiziari nell'ambito del quale si rinvengono linee guida per la gestione pratica delle diversità culturali. Si tratta di un prodotto non immediatamente importabile, poiché non sarebbe sufficiente tradurlo per applicarlo, ad esempio, in Italia. È dunque necessario che i singoli Paesi adottino il proprio Bench Book; in quest'ottica la ricerca presenta alcune indicazioni da prendere in considerazione sia per quanto attiene chi potrebbe essere chiamato a scrivere il vademecum, sia per quanto attiene il contenuto del documento. In conclusione va richiamata una riflessione di carattere più generale: il modo corretto di affrontare la criminalità culturale di matrice immigratoria si basa sulla consapevolezza che prevenire è meglio che reprimere. Sicuramente, l'attenzione al ruolo del giudice e agli strumenti di concreta gestione della diversità culturale sono molto importanti, ma lo sono ancor di più le politiche per l'integrazione della società multiculturale, nella quale si assiste a un processo di scambio e di fusione culturale che si rivela il momento privilegiato per determinare l'equilibrio tra valori indiscutibili e diritti alla diversità. ; The research focuses on culturally motivated crimes related to migratory flows in the European area. A cultural offence is defined as an act by a member of a minority culture, which is considered an offence by the legal system of the dominant culture; that same act is nevertheless, within the cultural group of the offender, condoned, accepted as normal behaviour and approved or even endorsed and promoted in the given situation. The specific focus on immigration means that the research does not analyse crimes committed by native minorities. Moreover, crimes related to illegal immigration and transnational terrorism are not part of the dissertation. Thus, the specific type of cultural offences analysed in the research can be defined as the immigrant's behaviours that is normal, approved or promoted in his/her culture, but is considered offences in the State where he/she lives. The first chapter of the thesis is devoted to defining the notion of cultural crimes and cultural defence, and to outline the research analysis. This chapter acknowledges the difficulties encountered in defining the concepts of culture and cultural custom. The purpose of the research is to evaluate to what extent the fact that the defendant based his/her actions on a cultural norm can be taken into account in determining his/her responsibility within the criminal legal system of the country where the action takes place. Many different behaviours can be linked to cultural crimes and in all these circumstances there is the need to find a balance between fundamental rights protected by the domestic legal system and the specificity rights of minority groups. Consider the case of female genital mutilations, rape before wedding, or polygamy. These acts – even if they are (still) permitted in the country of the immigrant – may be considered offences in the country where the immigrant lives. Due to the immigration phenomenon related to the process of European and international integration, people coming from really different cultural backgrounds live together and nowadays the cultural crime rate has become one of the most problematic and debated legal issues. Furthermore with the gradual European enlargement more and more countries have had to face with problems related to multiculturalism. Immigration and multicultural society are often considered as a challenge for the criminal law, which is one of the more resistant areas of the whole legal system and opposes the process of European and international integration. This happens because the criminal law mirrors the essential nature of a country through the choice of the acts that are considered offences in the national territory. This choice is deeply influenced by the cultural background of the country and the criminal law is part of the cultural baggage of the immigrant. When people immigrate they bring with themselves the awareness that a behaviour is considered an offence in their country and they may not know or understand what is considered an offence in the country where they decide to live. Culturally motivated crimes stem from a conflict between the immigrant and the legal system of the country where he/she decides to live, between a cultural norm and a legal standard. With this regard, Van Broeck noted that the cultural offence has to be caused directly by the fact that the minority group the offender is a member of uses a different set of moral norms when dealing with the situation in which the offender was placed when he committed the offence: the conflict of divergent legal cultures has to be the direct cause of the offence. The research analyses how legislator and judges deal with cultural offences in Italy (Chapter II) and in the United Kingdom (Chapter III). For a long time Italy has been the starting point for immigrants and only in the last thirty years it has become their destination. For this reason the problem of determining the relevance of the cultural factor on the structure of an offence is more recent in Italy than in the United Kingdom, where the multicultural society is the result of the long story of the colonialism and the Commonwealth of Nations. Furthermore, the Italian system of handling cultural diversity is basically considered an example of assimilationism while the English one is considered an example of multiculturalism. This means that in the United Kingdom, more than in Italy, the legislation aims at preserving minority customs. In addition to the analysis of the Italian and the English systems, also the experience of France, of the United States and of Canada has been essential for the research. In the European context the French system is considered the best example of assimilationism. The law banning the wearing of a niqab or full-face veil in public is the clearest instance of this approach to different cultures which is usually regarded as gallicization of immigrants. The United States, often considered the multicultural society par excellence, are the birthplace of the debate about the cultural defence. In the international context Canada is considered an example of a multicultural system: multiculturalism is mentioned in the Canadian Charter of Rights and Freedoms of 1982 and since the 90's the circle sentencing can be used to solve disputes in the Inuit group with the participation of members of the community in addition to the judges. Furthermore, in the same period the Canadian court formalized for the first time the distinctive cultural test. The comparison between the Italian and the English systems in handling cultural differences deriving from immigration and all the references to the American, Canadian and French systems allow the research to adopt a more general point of view in analysing cultural crimes. Trials concerning culturally motivated crimes often give evidence of a difficulty in immigrants' integration; an issue that is not only a cultural problem, but primarily a social dilemma. From this point of view what happens in courtrooms becomes a device to evaluate a state immigration policy. The purpose of the research is to identify useful tools to manage cultural offences, finding a balance between victims' fundamental rights and the cultural specificity of a minority group. The first conclusion reached in the dissertation regards the impossibility to provide a general relevance to the cultural factor in the criminal system, so that it is not possible to introduce a cultural defence. Many different behaviours can be considered cultural offences and it is not possible to treat as homogeneous a broad range of acts. At the same time, also the introduction of type of offences to criminalize a specific cultural practice is not the right way to solve the problem of the cultural factor in the structure of the offence. First of all there would be many problems in identifying a cultural practice, because it is really hard to recognize which behaviour can be related to the cultural background of the minority group of the defendant. Moreover, as can be noticed when problems concerning the criminalization of the female genital mutilation in Italy and the United Kingdom are analysed, this way seems almost useless. A good option is to adopt methods which do not impose a penalty to the defendant, taking into account his/her cultural background in certain circumstances. This can be done using the absolute discharge of the English legal system or the category of the cause di non punibilità of the Italian one. In this case the chance not to impose a penalty to an immigrant defendant can be achieved without any consequence on the nature of offence of the behaviour in the legal system of the country where he/she decides to live. In a similar way in the Italian system it could be difficult to find the parliamentary majority to approve a legislation introducing the specific causa di non punibilità. Thus, the more practicable solution concerns the judges' activity. In this case, there is the need to avoid that the cultural factor is used contra reum worsening, for instance, the penalty. This modus operandi would not be fair because in the case of actions determined by a cultural norm commonly accepted by a minority group, the degree of reproach of these behaviours should be alleviated. In order to avoid that the cultural factor could be taken into account contra reum the first thing to do is to sensitize judges to the problems of the criminal law in a multicultural society. With this regard, the research analyses some tools used in the analised systems: in particular, the English Equal Treatment Bench Book, the Canadian system of the circle sentencing and the possibility, as in the French legislation, to integrate the judging body with lay judges in trials concerning cultural offences. The most workable solution is the Equal Treatment Bench Book, a guide for judges, magistrates, and all other judicial office-holders to handle cultural differences in trials. This English vademecum is not immediately importable in other European countries. In fact, it is not enough to translate it to solve the problem of sensitizing judges in so different legal systems. Thus, it is necessary to adopt a document like the English Bench Book in every country where immigration puts cultural offences on the agenda. From this point of view the research gives some hints about the drawing up of this vademecum. In conclusion it is possible to affirm that the correct way to approach cultural offences committed by immigrants is to understand that prevention is better than cure. Surely, it is important to pay attention to the role of judges and to the tools they can use in handling criminal offences. It is even truer that all the policies for the integration of the multicultural society are the most important instrument to determine the balance between fundamental rights and specificity rights of minority groups, that is also the key to handle cultural crimes.
Il pesante condizionamento imposto allo studio della storia degli ultimi 20 anni del I secolo dal "revisionismo" d'età traianea ha per molto tempo reso assai difficoltoso comprendere gli equilibri e le dinamiche politiche che caratterizzarono il regno di Domiziano e quello di Nerva. Ancor oggi, molti pregiudizi permangono, e se la figura e l'operato dell'ultimo flavio sono parzialmente stati rivalutati da più di mezzo secolo di storiografia, resiste piuttosto tenacemente la vulgata di una sostanziale discontinuità politica tra il regno del figlio di Vespasiano e il principato di Nerva, spesso ancora interpretato nell'ottica piuttosto ideologica di un progresso verso il raggiungimento del virtuoso equilibrio tra imperatore e Senato, che si realizzerà pienamente sotto l'Optimus Princeps e i suoi successori. Il presente lavoro naturalmente cerca di porsi come ennesimo contributo alla demolizione di un'impostazione ormai clamorosamente sconfessata dai fatti. E' anzi proprio in ragione della manifesta continuità politica e amministrativa tra le due esperienze che ho voluto allargare il campo d'indagine relativo alla lotta per il potere in età domizianea anche al biennio di Nerva. Se quest'ultimo rappresenta l'occasione di emersione di conflitti e alleanze altrimenti difficilmente individuabili in una fase di cui R. Syme lamentava la pressoché assoluta inintelligibilità, allo stesso tempo tali fenomeni trovano le loro radici proprio in età flavia. Il medesimo processo osmotico si ravvisa nella stretta interrelazione tra gli esordi della dinastia fondata da Vespasiano e l'età neroniana. Dall'analisi di entrambe queste "propaggini" storiche emergono importanti informazioni sulla composizione di gruppi, e sull'estrazione di personaggi che animarono la politica imperiale per circa un trentennio, e che gettarono le basi per l'affermazione della dinastia antonina. A rischio di privilegiare un'ottica teleologica, va sottolineato che i principati di Domiziano e Nerva sono accomunati proprio dal fatto di aver costituito le fasi di incubazione e di emersione del network su cui si sarebbe retto il potere imperiale per più di un secolo. Come abbiamo visto, è probabile che l'evoluzione e l'estensione delle sue ramificazioni e della sua influenza abbiano determinato conseguenze importanti sull'andamento delle vicende politiche di quegli anni, e inciso in maniera spesso decisiva su alcuni passaggi chiave. La crisi dinastica che sembra caratterizzare l'intero corso del principato domizianeo, viene risolta in via definitiva solo con l'adozione di Traiano, a conclusione della reggenza di Nerva. Il personale politico che gestisce il brusco passaggio del settembre 96, è lo stesso che poco più di un anno dopo vedrà nell'adozione del consolare di Italica il coronamento dei propri sforzi. Non è escluso, poi, che dietro ai due rapidi avvicendamenti ai vertici del governo imperiale si possa ravvisare una continuità di strategie, come immaginò, qualche anno fa, R. Syme , attraverso una suggestiva analogia tra l'alacre attività diplomatica degli alleati di Traiano e le trame del prefetto del pretorio Aemilius Laetus, poco meno di un secolo dopo: quest'ultimo, regista della congiura contro Commodo, fu abile a nominare rapidamente un candidato plausibile e popolare, non inviso al Senato, Pertinace (allora Praefectus Urbi), mentre, nello stesso tempo, il suo candidato reale, Settimio Severo, veniva assegnato a un comando chiave, quello della Pannonia; forte del supporto decisivo delle legioni danubiane, il generale africano conquistò poi il potere. E' forte la tentazione di individuare simili sviluppi per il biennio 96 – 98. Infine, le correnti di opposizione filosofica al dispotismo di Domiziano, che avevano riacquisito vigore negli ultimi anni dell'età flavia, ebbero un ruolo non trascurabile nei conflitti che dilaniarono il Senato nel corso del principato di Nerva, arrivando anche a presentare un proprio candidato alla successione: se il biennio nerviano risulta argomento così articolato e complesso, e apparentemente contraddittorio, ciò si deve in parte anche all'interferenza, nella lotta per l'imperium, di questo "terzo polo". Sulla base di queste premesse, è chiaro che l'interpretazione della storia politica del regno di Domiziano non possa fare a meno di quella che ne è, a tutti gli effetti, un'appendice, ma che, per la sua natura di momento storico non soggetto a una forza egemone, e, di conseguenza, non completamente banalizzato da un "pensiero unico", offre spiragli e "corsie alternative" all'indagine. Uno degli effetti più sgradevoli, benché necessari, della vulgata antidomizianea trasmessa dalla tradizione ai moderni consiste proprio nella naturale reazione che questa suscitò nei ricercatori che si dedicarono al principato dell'ultimo flavio. In pratica, ancora in tempi recenti, la finalità principale di molte ricerche è stata quella di rivalutare l'operato di Domiziano, confutando, punto per punto, l'opera consapevole di denigrazione postuma messa in atto da intellettuali e storiografi dell'antichità. Ciò ha prodotto indubitabilmente degli effetti positivi, riequilibrando il giudizio storico su Domiziano, e sottolineando la sostanziale continuità di pratiche e di scelte strategiche, in ambito politico e amministrativo, con i sovrani successivi. Contemporaneamente, nel tentativo di render giustizia a una figura storica oggetto di una secolare campagna di diffamazione, tale impostazione ha, in taluni casi, ecceduto in senso opposto, non riuscendo a riconoscere le ragioni di un fatto che resta comunque incontestabile, ovvero la sua caduta, o addirittura trasformando Domiziano stesso in una vittima del conservatorismo senatoriale . Mi sono dunque chiesto quale (o quali) fattore potesse aver contribuito in maniera sensibile alla rovina dell'ultimo flavio; in età moderna non sono mancate le suggestioni in questo senso: dall'ormai esausto e meccanico schema del conflitto tra tirannide liberticida e senato, all'intervento di una componente di matrice giudaica; dalle reazioni delle classi elevate alla rapacitas di Domiziano, all'opposizione ai tentativi di riforma in senso dirigista ed efficientista dell'amministrazione e del governo dell'Impero. Ciascuna di queste proposte manca però di un adeguato supporto documentario, oppure tende a generalizzare un fenomeno di cui restano scarsi indizi, che non autorizzano l'elaborazione di teorie sistematiche . Piuttosto negletto dalla ricerca moderna, perlomeno in relazione all'ultimo flavio, mi è parso invece un aspetto, che abitualmente riveste una certa importanza nella biografia di ogni imperatore, ovvero quello rappresentato dalla questione dinastica e dalle prospettive di successione. Certo, manca a un'indagine di questo genere l'essenziale supporto di un'opera storica dello spessore e dell'intelligenza politica degli Annales, che ha fornito un contributo essenziale alla comprensione delle altrimenti inesplicabili dinamiche di corte del principato giulio – claudio. Eppure, indizi dell'attenzione e delle aspettative che Domiziano e la sua corte nutrivano verso la nascita di un erede maschio, e di una successione in domo, non mancano: non soltanto nelle evidenze numismatiche ed epigrafiche d'inizio regno, ma anche nelle oscillazioni della relazione con la moglie Domitia Longina, e nei riflessi che tali oscillazioni ebbero sull'armonia e sulla stabilità dei rapporti tra il flavio e la classe dirigente. Non è impossibile che sia stato proprio questo elemento ad avvelenare il clima politico sin dagli esordi. Era d'altronde un fatto assolutamente noto che i Flavi fossero votati al principio ereditario: Vespasiano doveva almeno in parte ai suoi due figli l'opzione in suo favore quale candidato alla porpora espressa da Licinius Mucianus e dagli altri componenti delle Partes Flavianae; egli stesso si trovò poi a fronteggiare, se dobbiamo credere alle fonti, un numero considerevole di congiure proprio a causa della risolutezza con la quale perseguiva la successio in domo. Il padre di Domiziano però, cresciuto e formatosi politicamente negli ambienti della corte giulio – claudia, e in particolare (almeno per qualche tempo) all'interno dell'influente circolo di Antonia Minore, ne ereditava la concezione di principato senza possedere gli stessi requisiti di nobiltà. Questa particolare condizione, oltre alle ben note conseguenze sul piano della condotta istituzionale (che si traduceva nel tentativo di legittimazione attraverso il monopolio delle magistrature più importanti), produsse un effetto secondario, al momento forse inevitabile, visto a posteriori, rovinoso. La necessità di ridurre al minimo i rischi di usurpazione, amplificati dalla relativa modestia sociale dei propri antenati, spinse i Flavi a limitare l'estensione e la ramificazione del proprio network familiare , proprio al fine di evitare che un matrimonio legittimasse le aspirazioni di un capax imperii. La dimensione e la gravità dell'errore emerge dal confronto con la politica dinastica di Augusto, il quale però poteva vantare la discendenza da una delle famiglie più nobili della Roma repubblicana: sin dal principio, il fondatore dell'Impero aveva proceduto alla più ampia cooptazione di gentes patrizie (reintegrando anche i discendenti del suo storico rivale, Marco Antonio), avvicinandole il più possibile, attraverso alleanze matrimoniali, alla Domus Augusta, al duplice scopo di garantire la ricomposizione politica, e di alimentare il ricambio generazionale. La stessa attitudine alla ricomposizione del ceto dirigente caratterizzò gli esordi della dinastia flavia, ma ne influenzò solo in minima parte la politica matrimoniale. Le conseguenze di questa impostazione emersero durante il principato di Domiziano. Questi, non solo dovette affrontare le difficoltà legate all'assenza di discendenti maschi, ma, in un certo senso, contribuì ad accentuarle, facendo giustiziare l'intera linea maschile del ramo familiare discendente dallo zio Flavius Sabinus. E' intuitivo come ciò, a un certo punto del regno, potesse autorizzare legittime aspirazioni da parte di chi, pur non essendo imparentato coi Flavi, vantava nobili origini. Ad aggravare questa situazione, contribuì un secondo fattore di considerevole rilevanza, ovvero l'imponente dote di relazioni "eccellenti" e influenti (nonché di pericolose prossimità con insigni esponenti dell'opposizione stoica), che Domitia Longina ereditò dal padre Domitius Corbulo, e che non mancò di condizionare sistematicamente gli equilibri interni alla corte e interferire nelle strategie di orientamento dinastico dell'imperatore. Abbiamo visto come il matrimonio tra Domiziano e Domitia Longina avesse suggellato un'alleanza politica, che aveva portato all'affermazione delle Partes Flavianae, alla conquista del potere per Vespasiano e i suoi figli, e garantito considerevoli vantaggi in termini d'immagine, di governabilità, e di durata della nuova compagine. Essa però imponeva probabilmente anche seri condizionamenti all'arbitrio dei regnanti: uno di essi poteva essere proprio il rispetto, a tutti i costi, del vincolo nuziale stesso, e del suo fine precipuo, ovvero la nascita di un erede maschio, nel quale confluissero le linee dinastiche di entrambe le famiglie (Flavi e Domitii), insieme alle rispettive clientele. Proprio il "fallimento" di tali aspettative, almeno in due casi (il primo, con la morte di Flavius Caesar, all'inizio del regno; il secondo, meno documentato, intorno all'anno 90, in seguito a un aborto di Longina), scatenò altrettante crisi; la prima di esse, che vide probabilmente la contrapposizione a corte di un "partito" di Domitia Longina e di un'opzione interna alla casata flavia (che individuava in Iulia la sposa ideale per l'imperatore e che spingeva per l'unificazione della linea dinastica), e che si risolse con la reintegrazione dell'Augusta, suggerisce una duplice riflessione: innanzitutto essa rappresenta un ottimo esempio di come il processo di revisione storica successivo alla morte del tiranno abbia avuto gioco facile a determinare un appiattimento della dialettica politica interna alla corte domizianea a una dimensione frivola e scandalistica, indispensabile per offrire materia prima alla vituperatio, anche, crediamo, grazie alle peculiari caratteristiche della comunicazione in una corte imperiale, per sua natura indiretta, ambigua e inintelligibile ai più, facilmente equivocabile col banale pettegolezzo; tuttavia, va comunque constatato che le dicerie che fornirono l'alimento all'opera di diffamazione dell'ultimo flavio scaturirono dal contesto della corte domizianea, e colà trovano la loro ragion d'essere e le loro motivazioni occulte. Su di essi si costruì poi il processo di revisione storica successivo, ma ciò non toglie nulla al fatto che esistessero già (in forma diversa probabilmente) durante il principato di Domiziano. Non è dunque, a mio giudizio, un esercizio completamente inutile lo sforzo esegetico compiuto su certo genere di fonti: i rumores riportati, in sostanza, testimoniano l'esistenza di un piano occulto, probabile scenario di un conflitto tra forze contrastanti, miranti ciascuna a esercitare pressione sul princeps e a condizionarne le scelte. Questo ci conduce al secondo punto: la vittoria diplomatica conseguita da Domitia Longina con la sua reintegrazione, e i fatti che l'accompagnarono, rivelano il peso e l'influenza degli alleati dell'Augusta; tra essi, emergono T. Aurelius Fulvus e Q. Iulius Cordinus Rutilius Gallicus, luogotenenti del padre di Longina in Oriente, componenti, assieme a Sex. Iulius Frontinus, di quel "gruppo corbuloniano", che si fece garante dell'alleanza che generò le Partes Flavianae; e L. Iulius Ursus, all'epoca ancora prefetto del pretorio e probabile adfinis della dinastia regnante. Questo sodalizio, formato da uomini di provata esperienza, appartenenti alla generazione precedente a quella di Domiziano, e che quindi non dovevano la loro ascesa sociale al princeps, rappresenterà (con la sola eccezione di Rutilius Gallicus, morto probabilmente nel 91) il nerbo della diplomazia politica che gestirà il duplice avvicendamento ai vertici del governo imperiale tra il 96 e il 97. E' significativo notare, a questo proposito, che l'imponente network di amicitiae e di relazioni familiari al vertice del quale questi personaggi si trovavano e che, come abbiamo visto, gravitava attorno ad alcune familiae novae emergenti di origine per lo più provinciale (ispano – narbonense, dovremmo dire), ovvero gli Aelii, gli Ulpii, gli Annii, i Calvisii Rusones, e i ricchissimi Curvii fratres, aveva visto rinsaldare i suoi nodi, per il tramite di eclatanti alleanze matrimoniali, ben prima della caduta di Domiziano. Ciò implica che, al momento della seconda fase di crisi dinastica del principato, successiva al 90, questa rete di relazioni doveva già essere attiva, e poteva dunque aver influito sul processo di deterioramento dei rapporti tra il princeps e la classe dirigente. La probabile emarginazione di Domitia Longina infatti, all'indomani del fallimentare esito della maternità cui fa cenno Marziale , alienò definitivamente a Domiziano l'appoggio del cospicuo blocco di potere che spalleggiava l'Augusta; l'isolamento dinastico dell'imperatore è peraltro confermato indirettamente dall'analisi della lista dei consolari che congiurarono contro di lui e che furono quindi giustiziati : dei 14 condannati a morte, di cui 13 consolari, 8 erano sicuramente patrizi. Quindi capaces imperii, secondo l'abituale metro di valutazione degli antichi. Lo erano in misura maggiore dal momento che, all'interno di questo gruppo, almeno 6 personaggi potevano vantare relazioni di parentela o di stretta amicizia con i Flavi (Flavius Sabinus, Arrecinus Clemens, M'. Acilius Glabrio, Aelius Lamia, Flavius Clemens, C. Vettulenus Civica Cerialis), uno, ovvero Salvius Otho, era nipote di un ex imperatore, e l'ultimo, Salvidienus Orfitus, era imparentato con l'imperatrice. E' ragionevole supporre che la maggior parte di costoro sia stata coinvolta all'interno di piani cospiratori allo scopo di garantire una credibile candidatura alla porpora. Inoltre, fatta eccezione per Arrecinus Clemens e Flavius Sabinus, ed escludendo i due eversori militari, tutte le altre vittime delle rappresaglie domizianee si concentrano dopo il 90/91 d.C. A mio avviso, ancora una volta il comune denominatore della maggior parte di queste calamitates potrebbe farsi risalire al problema della successione. La presenza di tanti capaces imperii non si spiega in altro modo se non alla luce della ridotta disponibilità di plausibili successori all'interno della casata flavia; e un sovrano senza successori era esposto a un costante rischio di cospirazioni. Alla luce di questi elementi è assai agevole comprendere la chiosa di Svetonio alla notizia della esecuzione dell'ultimo adfinis, e potenziale erede, di Domiziano, ovvero Flavius Clemens, giustiziato nel 95 dopo aver appena deposto i fasces : quo maxime facto (scil. Domitianus) maturavit sibi exitium. A questo punto è forte la tentazione di individuare una stretta relazione tra il progressivo estinguersi delle opzioni dinastiche di Domiziano e la ricomparsa sulla ribalta dell'alta politica, all'indomani della morte del despota, e dopo qualche anno di salutare ritiro, di Sex. Iulius Frontinus, Iulius Ursus, Domitius Tullus, T. Aurelius Fulvus. Questi politici navigati, esperti diplomatici, influenti uomini di potere, erano attratti dalla prospettiva di inserire il network di interessi che rappresentavano nel vuoto lasciato dai Flavi. Non è anzi escluso che essi abbiano cercato di accelerare la caduta di Domiziano , o comunque che non abbiano ostacolato la creazione di una fronda antitirannica, di una coalizione di forze attorno ai circoli di opposizione e, soprattutto, attorno a Domitia Longina, l'imperatrice ripudiata, erede della dote morale del padre, Domitius Corbulo, martire egli stesso del dispotismo. Emerge ancora una volta la centralità dell'Augusta, come soggetto politico di considerevole influenza, e, almeno nella fase finale del principato domizianeo, come punto di riferimento dell'opposizione al marito. Una certa tradizione letteraria, da Dione a Procopio, e una considerevole serie di documenti epigrafici e archeologici, conferma l'ottima reputazione, se non addirittura la venerazione di cui godette la donna dopo la morte di Domiziano, sorprendenti ove si pensi che quest'ultimo fu oggetto della più implacabile abolitio memoriae che la storia imperiale ricordi . La fine di Domiziano, al pari di quella di Nerone, fu dunque il risultato di una convergenza di interessi e soggetti molto differenti tra loro, temporaneamente coalizzati dall'obiettivo della rimozione di un nemico comune. Non casualmente, H. Castritius ha associato il ruolo di Domitia Longina, quale catalizzatore del dissenso, a quello della figura e poi della memoria di Ottavia . La composita alleanza tra epigoni dei martiri stoici, elementi del patriziato, componenti del gruppo corbuloniano, ebbe breve durata: sin dal principio, la reggenza di Nerva è caratterizzata da una estesa conflittualità all'interno del Senato e della classe dirigente. Il princeps è peraltro in una posizione di estrema debolezza: il suo ruolo di garante istituzionale, frutto di un faticoso compromesso, lo condanna ad un'equidistanza molto facilmente assimilabile all'isolamento; d'altronde la precarietà del suo mandato, la sua condizione di reggitore dell'Impero ad interim, era talmente palese da indurlo addirittura a pronunciarsi su di essa . In verità Nerva era un uomo piuttosto compromesso con Domiziano, e questo non mancò di essergli rinfacciato . Un sovrano tanto delegittimato non può che far presupporre che alle sue spalle infuri la battaglia per la successione. In tal senso, uno degli scopi di questo lavoro è consistito nell'individuare tracce o indizi di una continuità di strategie da parte del medesimo gruppo di potere in occasione dei due avvicendamenti ai vertici del governo imperiale tra il settembre 96 e l'ottobre 97. Ben poco è possibile dedurre dagli scarni resoconti delle fonti circa l'assassinio di Domiziano (né avremmo mai sperato di ricavare da essi molto più che banali aneddoti); assai più significativa l'invadente presenza dei futuri artefici dell'adozione di Traiano in ogni iniziativa del neoinsediato governo di Nerva: Sex. Iulius Frontinus divenne curator aquarum nel 97, e contemporaneamente, insieme a L. Iulius Ursus, presiedette la commissione finanziaria istituita dall'anziano princeps. La notizia è tanto più sorprendente ove si consideri che tale attivismo faceva da contraltare alla totale inerzia politica durante gli ultimi anni di regno di Domiziano. T. Aurelius Fulvus, se ancora vivo, doveva avere sovrinteso alla Praefectura Urbi nei giorni del complotto contro l'ultimo flavio, e molto probabilmente deteneva ancora la carica. Ritengo poi che i consolati iterum del 98 siano in buona parte stati decisi da Nerva: se così fosse, il grande onore tributato a Frontinus, Ursus, e Domitius Tullus, si spiegherebbe a fatica se non in relazione a meriti particolari nell'insediamento al potere del senatore di Narni, e in tutto ciò che lo precedette. Infine, nell'eventualità, molto probabile, a giudizio di molti, che Traiano fosse stato assegnato alla Germania Superiore nell'autunno del 96, si avrebbe un'importante conferma del fatto che i suoi alleati, sin dall'inizio del principato di Nerva si avvantaggiassero di una considerevole supremazia strategica sui possibili concorrenti. Questo naturalmente non poteva spiegarsi che con un primato in termini di potere, influenza, ricchezza. Il cosiddetto "circolo di Traiano" rappresentava, come abbiamo visto, il vertice di una rete di relazioni e interessi imponente; essa sarà la base della futura dinastia antonina. Artefici o meno della caduta di Domiziano, saranno i componenti più anziani di questo network, ben insediati a capo delle catene di comando del principato di Nerva, a sovrintendere al passaggio di consegne tra l'anziano princeps e il legato della Germania Superiore, operando i necessari avvicendamenti in alcuni officia strategici del Reno, e, per un altro verso, vigilando nella capitale , affinché tutto procedesse secondo i piani. Componeva questa task force diplomatica, oltre ai già citati Frontinus, Ursus, T. Aurelius Fulvus, Cn. Domitius Tullus, anche, con tutta probabilità, L. Licinius Sura, del quale si sono cercate di mettere in luce in particolare le virtù "civili": amante della mondanità, infaticabile tessitore di relazioni, fine politico, il braccio destro di Traiano sembra assai più facilmente assimilabile a un Mecenate che a un Agrippa. Per questa ragione, ritengo che il suo decisivo contributo al senatore di Italica debba essere collocato nel contesto di febbrile attivismo diplomatico che ebbe come scenario Roma, e non la provincia . A trarre profitto da questa operazione sarebbero poi stati i membri più giovani di questo blocco di potere, appartenenti alla generazione di Traiano (e di Domiziano), o di poco più anziani: Q. Glitius Atilius Agricola, Q. Sosius Senecio, L. Iulius Ursus Servianus, Sex. Attius Suburanus, A. Cornelius Palma Frontonianus, per citare i più importanti. Naturalmente, questa operazione di "insediamento" al potere non avvenne senza contrasti. Il principale ostacolo all'affermazione di Traiano e dei suoi alleati, era costituito dai politici più legati al passato regime, la cui influenza si era conservata pressoché intatta: lo dimostra ad esempio il fatto che la scelta del successore di Domiziano fosse ricaduta su Nerva, uomo dalle evidenti inclinazioni filodomizianee. Il presidio dei vertici del governo imperiale rappresentava un presupposto fondamentale per esercitare il patronato e attivare canali di promozione e di cooptazione clientelare: era evidente che tale posizione di privilegio non poteva essere amichevolmente condivisa. Inoltre, la factio filodomizianea poteva contare sulla rivalutazione della memoria dell'imperatore ucciso, aspetto che sin dall'inizio incontrò il favore dei soldati, legionari e pretoriani. Coerente con tali premesse, la candidatura di un vir militaris, di un uomo che aveva condiviso, sul campo, trionfi e rovesci di Domiziano, conosciuto e rispettato dalle truppe, ovvero M. Cornelius Nigrinus Curiatius Maternus. Come ha ben evidenziato K.H. Schwarte , è in questo "bipolarismo" di fondo che trova la sua ragion d'essere l'offensiva, politica e giudiziaria, contro delatori veri o presunti di Domiziano e uomini compromessi con il passato regime; tra i protagonisti di questa campagna lo stesso Plinio, e, ovviamente, i componenti delle correnti di opposizione alla tirannia di ritorno dall'esilio (Iunius Mauricus in primis). Risulta chiaro, dunque, come i processi politici e gli attacchi agli uomini compromessi con il regime domizianeo durante il regno di Nerva avessero una mera utilità politica: quella cioè di legittimare un "passaggio di consegne", una "successione" altrimenti priva di fondamento giuridico o dinastico; questo è tanto più vero ove si consideri che tale istanza veniva avanzata in diretta e contemporanea concorrenza con un'altra rivendicazione, a suo modo uguale e contraria: quella cui si accennava in precedenza, assai ben descritta dallo Schwarte, fatta propria dai politici e dai viri militares più legati e più compromessi con il passato domizianeo. Ambedue gli schieramenti, in breve, sostenevano una propria "candidatura" al sommo potere. In tale prospettiva, sia detto per inciso, va dunque forse interpretata la successiva campagna "revisionista", che ebbe in Plinio il suo primo interprete e che determinò una consistente mistificazione della realtà storica di quel biennio: essa ebbe origine proprio dalla necessità politica contingente alla lotta per la successione, nacque nella sua forma proprio come rivendicazione politica della legittimità di una candidatura su un'altra, non fu il risultato meccanico di una rilettura inventata di sana pianta post eventum; e peraltro l'elaborazione di una versione addomesticata degli avvenimenti rappresentava una necessità avvertita anche da quanti avevano sostenuto il candidato sbagliato, o si erano mantenuti neutrali; tutti accomunati dall'unica esigenza di dimenticare in fretta e rimanere comunque sul carro dei vincitori. Tali considerazioni mi consentono una breve, ma essenziale, divagazione: è in questo contesto di conflitto politico che va collocata l'emarginazione, o la rimozione, di alcuni personaggi, sin troppo compromessi con il passato regime. L'analisi prosopografica di politici e viri militares vicini a Domiziano ha messo in evidenza, per alcuni di essi, questa circostanza . Ciò naturalmente non presuppone in alcun modo una generale strategia di ricambio nel governo dell'Impero; il principio di continuità amministrativa e di personale tra i regni di Domiziano e Traiano proposto da Waters rimane ancora validissimo. Ciò premesso, affermare che l'avvicendamento ai vertici dell'establishment, avvenuto a cavallo del regno di Nerva, non abbia prodotto delle vittime (in senso metaforico, s'intende), significa misconoscere le più basilari regole del realismo politico. K. Ströbel ha opportunamente parlato, a questo proposito, di "Entdomitianisierung", con esplicito riferimento a ben noti, e analoghi, fenomeni moderni: porre il problema della maggiore o minore compromissione con il tiranno in termini prosopografici non ha alcun senso, dal momento che risulterà evidente che, in tale prospettiva, tutti risultano compromessi, in quanto tutti debitori all'imperatore della propria ascesa sociale. Secondo le "regole d'avanzamento" universalmente accettate, ciascun senatore era in grado di comprendere, in linea di massima, fino a dove avrebbe potuto arrivare; e in generale l'intervento del princeps era rivolto a promuovere degli avanzamenti, assai di rado ad ostacolarli. In questo senso, molti dei componenti della classe politica che si affermerà con Traiano, a partire dall'imperatore, potevano tranquillamente dire di non aver goduto del particolare favore di Domiziano; medesime rivendicazioni potevano venire dai diplomatici di lungo corso, rimasti ai margini dell'alta politica negli ultimi anni di regno del figlio di Vespasiano. Peraltro, il confronto tra la composizione del consilium principis d'età domizianea con quello di Traiano, dimostra che una certa discontinuità (dipendente, va riconosciuto, anche da cause naturali) in effetti vi fu. Tornando all'analisi delle vicende dell'anno 97, si è poi evidenziata l'esistenza di un "terzo polo", oltre a quelli testé descritti. Esso prende le mosse dai circoli d'opposizione filosofica, che, negli anni della svolta autoritaria di Domiziano, avevano riacquisito vigore, e che, dopo l'assassinio del despota, vivevano in senato un'ultima stagione di grande attivismo politico e di accresciuta popolarità; l'offensiva politica e giudiziaria contro gli uomini più compromessi con il passato regime, non fece che amplificarne ulteriormente le ambizioni. L'esito piuttosto insoddisfacente dei processi, e, allo stesso tempo, la percezione della finalità strategica di quest'operazione (la candidatura di un uomo meno compromesso con Domiziano), determinarono probabilmente la deriva "estremistica" di questo soggetto, che provò ad approfittare della debolezza di Nerva: questa, a mio giudizio, la sostanza politica della congiura di Calpurnius Crassus Frugi. E' questo un episodio abitualmente trascurato dagli studiosi, in quanto considerato marginale; recenti studi hanno però dimostrato che esso fu tutt'altro che sottovalutato da Traiano: la durezza delle sanzioni a carico del ribelle, stabilite a correzione della precedente, lieve pena, imposta da Nerva, è rivelatrice dell'entità della minaccia percepita dai nuovi signori di Roma. Prima di concludere, va infine chiarito un ultimo punto. La confutazione della tradizionale immagine dell'Optimus Princeps come vir militaris determina importanti conseguenze anche nella ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla sua adozione. Egli non può più essere considerato, con buona pace di R. Syme , come il naturale candidato dei comandi provinciali, l'espressione di un pacifico compromesso fra capi militari, l'adozione del quale placò di conseguenza ogni tumulto e sventò qualsiasi rischio di sollevazione. L'ascesa alla statio principis di Traiano dovette dunque essere assai più complicata e irta di ostacoli di quanto le fonti contemporanee ce la presentino; soprattutto, la storia di quei mesi deve essere interpretata rivalutando la dialettica dei rapporti di forza tra le aspirazioni dei legati provinciali, le istanze dei legionari, e la regia occulta delle diplomazie senatoriali attive nell'Urbe . In definitiva, il blocco di potere a sostegno di Traiano si avvaleva di una certa supremazia, in termini politici e strategici. Eppure non era egemone. La scarsa reputazione di Traiano presso le legioni; i malumori dei soldati, piuttosto facilmente riscontrabili in Mesia e sul Reno, probabili in Pannonia; i rumores provenienti da Oriente; le pericolose oscillazioni di Nerva verso la factio filodomizianea; la presenza di preoccupanti fattori di interferenza nella lotta per la successione, come la congiura di Calpurnius Crassus Frugi, che aveva anche pericolosamente evidenziato la debolezza di Nerva; tutti questi elementi convinsero gli alleati di Traiano che la posizione strategicamente favorevole di quest'ultimo poteva non essere più sufficiente. In questa logica, una forzatura, che mettesse una volta per tutte fine ad ogni dubbio, poteva essere una soluzione contemplabile. Ma un azzardo del genere poteva essere prerogativa solo di chi conservava il controllo del "gioco", e poteva permettersi di correre un rischio "calcolato". La sollevazione dei Pretoriani, sobillati da Casperius Aelianus, va letta, a mio giudizio, in quest'ottica: ovvero come una provocazione diretta a forzare Nerva all'adozione di Traiano. Un'interpretazione del genere, peraltro, delinea un quadro politico più coerente delle ipotesi finora proposte; chiarisce i dubbi circa la condotta successiva di Casperius Aelianus, di Nerva e di Traiano; motiva la freddezza dell'adottato verso l'adottante. In conclusione, quindi, la cosiddetta adozione, secondo questa del tutto ipotetica ricostruzione, sarebbe una vera e propria usurpazione "mascherata", messa in atto da un gruppo di potere ramificato e forte (i cui elementi più in vista si trovavano tutti a Roma in quel periodo), contrapposto a interessi non convergenti coi propri, ma non abbastanza importanti da scatenare una guerra civile, una volta vistisi minacciati: si potrebbe dire che la strategia dei diplomatici alleati di Traiano avesse messo in scacco tutti gli altri possibili concorrenti; ma una volta constatato poi il rischio che la situazione sfuggisse di mano, essi avevano finito con l'optare per una forzatura, che poteva avere senso solo a condizione di un controllo quasi totale della situazione. L'atto iniziale della dinastia antonina, che ha suggerito ad alcuni moderni l'enfatica definizione di "Adoptivkaiser", fu dunque, nella migliore delle ipotesi, una forma subdola di coercizione. Se tale ipotesi fosse attendibile, cadrebbe anche l'ultimo pilastro di una costruzione che ha ben poco di storico e molto di ideologico. Nella lunga storia dell'Impero romano, l'unico criterio di successione dotato di una qualche legittimità, e rispettato dalle forze che via via si contendevano il potere, fu quello dinastico. Domiziano pagò, a dispetto di ogni infingimento retorico o ideologico sul dispotismo, una fallimentare politica dinastica; i successori di Nerva, pur privi di eredi diretti, si trasmisero tutti il potere in ossequio alla consanguineità ; Marco Aurelio, unico ad avere figli, nominò disinvoltamente, seppur in condizioni di emergenza, il proprio figlio Commodo quale successore. Il nuovo gruppo dirigente che si raccolse attorno ai principes antonini, si dimostrò ben consapevole di questa imprescindibile condizione, e formò una rete compatta e estesa di relazioni e alleanze familiari, tale da garantire la successione all'interno di essa, fenomeno che è in parte fattore fisiologico di condotta delle famiglie romane, ma che poi diverrà anche una strategia consapevole da parte del potere (si pensi al complicato sistema di adozioni incrociate imposto da Adriano ad Antonino Pio), così come a suo tempo aveva cercato di fare Augusto, e che invece mancò completamente nei piani di successione dei Flavi. Ad essi d'altronde era ben nota l'unica, possibile alternativa, ovvero la conquista violenta del potere. Questa, sin dall'inizio, era stata la reale natura del principato: come ebbe a scrivere R. Syme , in fondo, "il principato nacque dall'usurpazione".