Questo studio è il prodotto di una ricerca di dottorato, frutto dell'interscambio intellettuale e culturale tra l'Università degli Studi Roma Tre (Roma/Italia) e l'Universidade Federal de Pernambuco (UFPE - Recife/Brasile). Esso viene destinato al confronto tra due sistemi sociali, nello specifico all'attuazione delle differenti politiche socio-assistenziale realizzate in Brasile e in Italia. I due punti focali di questa indagine sono, dunque, la città di Fortaleza, capoluogo dell'Estado di Ceará (Brasile) e la città di Roma, capitale d'Italia. Questa indagine è stata possibile grazie alla borsa di studio offerta nel 2013 dalla Coordenação de Aperfeiçoamento de Pessoal de Nível Superior (CAPES), organismo del Ministério da Educação (MEC). L'ambito della ricerca riguarda tanto le azioni dello Stato per contrastare la povertà femminile, cioè servizi e programmi, quanto la valutazione fatta dalle donne stesse per individuare e concretizzare altre forme di intervento. La presente indagine ha privilegiato le seguenti tecniche: osservazione partecipante, interviste semi strutturate – rivolte sia a soggetti direttamente coinvolti nel fenomeno studiato che a "osservatori privilegiati" – e raccolta di documenti. La cornice teorica scelta ha fatto particolare riferimento al materialismo storico e al metodo progressivo-regressivo. Le domande centrali sono: Di fronte alle situazioni di disagio, quali sono le risposte delle donne per far fronte ai loro bisogni? Come le donne valutano gli interventi erogati dallo Stato? Tra gli altri obiettivi si aggiungono: - L'identificazione tanto delle manifestazioni di povertà, quanto delle soglie sulle quali erogare gli interventi, statali ed associazionistici, - L'analisi degli attuali servizi, interventi e programmi di contrasto alla povertà femminile. La raccolta dei dati a Roma è stata compiuta nel periodo compreso tra gennaio e giugno 2015. Il rappresentante del Comune è stato l'Assessorato alle Politiche Sociali, Salute, Casa ed Emergenza Abitativa, nello specifico la Sala Operativa Sociale (S.O.S.), sede delle interviste. Altro luogo di raccolta d'informazioni è stata l'Unità Organizzativa dell'Emergenza Sociale e dei Sistemi di Accoglienza del Municipio Roma VII (ex X Municipio), grazie alla disponibilità degli assistenti sociali del Segretariato Sociale. Per quanto riguarda l'associazione delle donne a Roma, si è scelta la Casa delle Donne "Lucha y Siesta". In qualità di "osservatori privilegiati", sono stati intervistati il presidente Nicoletta Teodosi del Collegamento Italiano di Lotta alla Povertà (CILAP) e la ricercatrice Daria Squillante dell'Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), nonché collaboratrice della Casa Internazionale delle Donne. La ricerca sul campo in Brasile è stata condotta nel periodo compreso fra luglio e dicembre 2014, presso la Secretaria Municipal de Trabalho, Desenvolvimento Social e Combate à Fome (SETRA) del Comune di Fortaleza. L'associazione "privata" scelta per la raccolta dati è stata l'Associação Mulheres em Ação (AMA). Oltre alla raccolta di documenti e osservazione partecipante, è stata anche realizzata un'intervista, in qualità "osservatore privilegiato", a Cristiane Faustino attivista del movimento Articulação Brasileira de Mulheres (AMB), che nello Estado di Ceará è rappresentato dal Forum Cearense de Mulheres (FCM). È stato riscontrato che tanto le manifestazioni della povertà quanto le forme per misurarla e alleviarla sono diverse a seconda dei paesi. In particolare, nel contesto italiano, il processo di aumento dei disoccupati e del numero delle persone povere non appare immediatamente seguito dall'erogazione di interventi a livello nazionale, come, ad esempio, il Reddito Minimo di Inserimento. A livello nazionale, gli interventi attuati hanno privilegiato le categorie dei pensionati e dei nuclei familiari. Si possono citare: l'incremento delle pensioni minime, l'introduzione di sgravi fiscali per le famiglie, il bonus fiscale. Si consideri anche il percorso storico sociale nella realizzazione delle politiche dell'assistenza sociale e la specificità del welfare e della società italiana. Per quanto riguarda lo specifico delle prestazioni dei servizi e interventi di contrasto alla povertà messo a disposizione dal Comune di Roma, si può notare l'utilizzazione di un "sistema cittadino di interventi e servizi sociali", diviso principalmente in due ambiti: quello municipale e quello dell'assessorato. Questa distinzione di tipologie è decisamente importante, essendo stata rilevata l'esistenza di una sorta di "divisione di genere" nella ricerca da parte degli utenti tra le due tipologie di servizi: è stata riscontrata infatti una maggiore tendenza a rivolgersi agli interventi e ai servizi municipali da parte delle donne ed una parallela maggiore ricerca dei servizi di emergenza sociale da parte degli uomini immigrati. L'esperienza della Casa della Donne Lucha y Siesta invece dimostra un tentativo di avviare un servizio, indirizzato alle situazioni di emergenza abitativa, orientato a fornire gli strumenti per una autonomizzazione delle donne. In America Latina, si osserva, specialmente negli ultimi anni, una riduzione del numero di persone che versano in condizione di povertà assoluta, sia grazie all'erogazione di Programmi Nazionali di Trasferimento di Reddito, che a una politica economica stabile. Se in Italia esiste una "scissione", tanto normativa quanto di realizzazione e programmazione tra le prestazioni assistenziali e i Servizi Sociali, in Brasile tali interventi assumono una differente "organicità" fra il livello nazionale e locale. Questa particolarità ha raggiunto il suo apice negli ultimi anni, specialmente con la Política Nacional de Assistência Social (PNAS) e il Sistema Único de Assistência Social (SUAS). Per quanto riguarda le azioni statali di contrasto alla povertà, si evidenziano il Benefício de Prestação Continuada (BPC) e il Programa Bolsa Família (PBF). Quest'ultimo è ormai diventato un intervento in grado di raggiungere le fasce più povere della popolazione. Oltre alla sua ampiezza (13 milioni di famiglie – marzo 2013), ne beneficiano principalmente le madri con figli a carico e le persone nere. Però, in generale la loro partecipazione si circoscrive all'accesso al beneficio, tralasciando la frequentazione ai corsi di formazione professionali. Inoltre, alcune ricerche brasiliane evidenziano che, se da un lato vi sono punti positivi in confronto all'empowerment delle donne con il riferito programma, tale "centralità" nella figura femminile potrebbe anche portare a un sovraccarico dei compiti di cura. Comunque, sul piano operativo, i Comuni brasiliani presentano una difficoltà nell'offerta dei servizi. L'esperienza della SETRA a Fortaleza, rivela anche che le situazioni di disagio (come la violenza urbana) rallentano le prestazioni. Ciò che potrebbe segnalare la necessità di rafforzare altre politiche sociali. La cooperativa Associação Mulheres em Ação (AMA) si rivela come uno sforzo delle donne per aumentare il proprio reddito, attraverso l'economia solidale, tramite il confezionamento artigianale di prodotti. Dal punto di vista delle donne, si è riscontrato che le politiche sociali sono lontane dal loro vissuto, in quanto focalizzate principalmente sulle situazioni più gravi e per una ristretta fascia della popolazione aiutata con interventi sussidiari. Tali associazioni, nate come un tentativo di colmare le "lacune" dello Stato, portano anche un'altra concezione di intervento, quella che si concentra nella valorizzazione di spazi di solidarietà e tranquillità. Vengono così predisposti spazi in cui si possa non soltanto appagare un bisogno immediato, ma "ritrovarsi" collettivamente, "riattivarsi" autonomamente. Sono dunque principi e percezioni diverse della società, degli individui e degli interventi. Lo scenario di crisi internazionale sollecita il difficile compito di costruire nuovi modelli di società e di protezione sociale. Se si desidera che esso sia orientato veramente agli individui e alle loro vite, bisognerebbe riconoscere la diversità e la pluralità di ogni società, le esperienze e le iniziative costruite nei diversi contesti. In altre parole, come affermano le donne dell'AMB, bisognerebbe che l'estetica o il disegno della società venisse orientata secondo l'etica di questa nuova forma politica.
La famiglia è un campo di studio a cui è importante dedicare particolare attenzione, sia per l'importanza che ricopre ai fini della comprensione dei processi sociali, sia per i numerosi cambiamenti che stanno avvenendo al suo interno. Fattori di varia natura (culturali, demografici ed economici) stanno portando alla nascita di realtà familiari nuove. In particolar modo, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, sono nati diversi tipi di forme familiari che, da manifestazioni marginali, sono diventate sempre più diffuse e concorrenziali al modello egemonico. Le persone omosessuali si sono inserite in questo processo di cambiamento, contribuendo alla trasformazione del modo di creare, vivere e identificare la famiglia, "sfidando" il modello eterosessuale dominante su uno dei suoi punti più saldi: la complementarietà dei sessi necessaria alla riproduzione e allo svolgimento del ruolo genitoriale. Le famiglie omogenitoriali si configurano come una realtà sociale in crescita a livello europeo. Il dibattito sul riconoscimento legale delle coppie omosessuali è acceso, sono sempre di più i paesi che stanno legiferando in materia di matrimonio, unioni civili, adozione congiunta o stepchild adoption. Altri elementi, come ad esempio lo sviluppo delle tecniche di procreazione assistita, stanno aprendo più possibilità agli omosessuali che manifestano il desiderio di avere figli, perciò le famiglie omogenitoriali possono non nascere più solo dalla rottura di precedenti unioni eterosessuali, ma anche come frutto della precisa scelta di coppia omosessuale di avere figli. La ricerca proposta è stata concepita in ottica comparativa tra due paesi, Italia e Spagna, che hanno una disciplina giuridica differente per quanto riguarda il riconoscimento delle coppie omosessuali e la loro possibilità di accesso alla genitorialità. La Spagna è in questo senso un paese precursore, che da più di dieci anni ha legalizzato il matrimonio egualitario, con possibilità di adozione singola, congiunta e stepchild adoption. L'Italia, al contrario, è una delle grandi eccezioni nel panorama europeo per quanto concerne il totale silenzio in merito al riconoscimento delle coppie di fatto, sia etero che omosessuali; negli anni sono state elaborate diverse proposte di legge (sinora mai promulgate), una delle quali al vaglio del parlamento proprio nel momento in cui si scrive. Il confronto tra questi due paesi permette di comparare situazioni completamente diverse sul piano dei diritti, ma in tessuti sociali tradizionalmente simili per modelli familiari e religiosi. Nello specifico, si vuole analizzare il modo in cui le famiglie omogenitoriali si confrontano con il contesto quotidiano, allo scopo di comprendere in che misura la società è in grado di accoglierle e accettarle e se la presenza o assenza di un riconoscimento formale può incidere sulla capacità di accettazione sociale. Per fare questo si è scelto di dare voce al loro vissuto. Un primo approccio all'oggetto di studio è consistito nell'approfondimento della tematica attraverso l'analisi di fonti secondarie, nello specifico di dati statistici, al fine di capire quanto fosse diffuso il fenomeno all'interno dei due contesti culturali presi in esame. Inoltre, dato che la famiglia, il matrimonio e le modalità di accesso alla genitorialità sono regolamentate dallo Stato, si è pensato che fosse fondamentale realizzare uno studio comparativo dei testi legali italiani e spagnoli in cui tali aspetti fossero definiti e legittimati, senza tralasciare la dimensione europea e gli indirizzi comunitari che orientano gli stati membri. Per la realizzazione della ricerca empirica è stata chiesta collaborazione all'associazionismo specificamente rivolto alla genitorialità omosessuale, gli strumenti utilizzati sono stati l'osservazione partecipante e le storie di vita. Le principali conclusioni tratte sono qui di seguito riportate: la Spagna presenta un maggiore grado di apertura sociale nei confronti del riconoscimento delle coppie omosessuali e dell'omogenitorialità. Questo si riscontra non solo in confronto all'Italia, ma anche rispetto alla media europea. Anche in Spagna si evidenziano carenze istituzionali, specialmente in ambito scolastico ed amministrativo. É centrale il confronto con altre famiglie omogenitoriali, sia durante la fase della formazione della famiglia sia per la socializzazione successiva. In entrambi i paesi si riscontra negli intervistati una tendenziale fiducia in un progressivo processo di normalizzazione, attraverso informazione e visibilità. Sia in Italia che in Spagna i genitori omosessuali manifestano preoccupazione per una possibile mancata accettazione della loro configurazione familiare. Tuttavia, sono pochi gli episodi di rifiuto manifesto, specialmente nei confronti dei figli. La conoscenza diretta sembra facilitare l'accettazione sociale. Il presente lavoro vuole rivolgersi sia ai non addetti ai lavori che ai professionisti di settore, allo scopo di informare su una realtà sociale in crescita ed ispirare la creazione di buone pratiche di intervento e prevenzione di situazioni di disagio.
L'abitare è nella natura umana. Gli individui che abitano uno spazio sono coloro che consentono ad una città di esistere. Chi abita un luogo occupa uno spazio fisico e, da sempre, nella storia dell'umanità, gli individui hanno creato case in grado di accoglierli e di proteggerli. La città è un sistema complesso, una molteplicità di eventi tra di loro interconnessi. Per studiare un fenomeno così articolato è consigliabile l'utilizzo di un approccio olistico, in grado di mettere in relazione tutti gli elementi che concorrono a fare di un territorio una struttura stabile. A Roma è emergenza casa: l'elevato costo degli immobili e le difficoltà economiche di molte famiglie, condannano ad abbandonare la città. Le politiche sociali non hanno proposto idonei interventi di sostegno, e le poche misure esistenti sono di tipo assistenziale. Insufficienti a rispondere a tutti gli individui in condizione di disagio ed esclusione. La situazione appena descritta ha stimolato alcuni cittadini a sviluppare forme di resistenza all'espulsione, occupando edifici pubblici e privati a scopo abitativo. Azione, questa, che pur distinguendosi per il carattere illegale, realizza partecipazione, e sviluppa nuove capacità e competenze personali.
La ricerca è stata organizzata in diverse fasi corrispondenti a un progressivo approfondimento dell'oggetto indagato: l'esperienza di alcune donne immigrate che hanno scelto la strada del lavoro autonomo e imprenditoriale. Una prima fase è stata dedicata all'analisi della letteratura su più livelli ripercorrendo in primo luogo il modo in cui sono state studiate le grandi migrazioni internazionali e isolando il tema delle "migrazioni di genere". Inevitabile e necessario è stato lo sguardo alla letteratura internazionale ed europea che ha fornito una prima cornice di riferimento anche riguardo al tema specifico del genere. Rispetto a questo concetto chiave, la letteratura italiana sulle migrazioni ha mostrato un certo ritardo e, soprattutto, la tendenza a far diventare la migrazione femminile un interesse di pochi verso poche specifiche tematiche: il lavoro domestico e di cura e la prostituzione. La volontà di studiare questa area del mercato del lavoro è nata in stretta connessione con l'ipotesi di fondo: può l'autonomia lavorativa, con le relative ambizioni e prospettive di mobilità, aprire la strada a una forma di inclusione sociale più profonda di una formale accettazione e tolleranza? Come si definisce la soggettività di queste donne? L'indagine ha coinvolto dieci donne attive nella città di Roma secondo un criterio di significatività dato non tanto dall'essere un campione statisticamente rappresentativo, quanto dalla possibilità di far emergere dei tratti comuni e differenti nella definizione della loro soggettività di immigrate provenienti da diverse aree geo-culturali. In questo senso l'analisi è stata condotta secondo un approccio qualitativo per mezzo di racconti di vita seguiti poi da un intenso lavoro di carattere interpretativo. Il primo tramite di contatto è stato la Cna World di Roma, gruppo di interesse della Confederazione Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa che si occupa in particolare dell'imprenditoria straniera. È emerso un quadro piuttosto vivace e non privo di contraddizioni sul modo in cui è vissuta la condizione di immigrate. Da un lato è espressa una sincera soddisfazione per quanto si è realizzato in ambito lavorativo, si dichiarano, con altrettanto coinvolgimento, ottimi rapporti con gli italiani e un percorso di inserimento "felice" e "fortunato". Quando però si va a scavare un po' più in profondità queste stesse affermazioni rivelano una realtà complessa e ricca di punti interrogativi. Il luogo di lavoro è lo spazio dove passano la maggior parte del loro tempo, pur con varie sfumature, la socialità appare ristretta a relazioni poco profonde sia con gli autoctoni sia con i loro connazionali con i quali raramente si mantengono legami forti. Il tema della cittadinanza è un terreno scosceso e in qualche modo rivelatore di una realtà che necessita di essere approfondita. Emerge una visione essenzialmente strumentale e strategica in base alla quale si guarda a una generale facilitazione in termini di gestione delle pratiche burocratiche connesse, in primo luogo, al mondo del lavoro e alla tutela dei figli. Sembrerebbe mancare qualsiasi senso di coinvolgimento e attribuzione di un significato di appartenenza dietro all'etichetta "cittadinanza". Appartenenza e inclusione che, pur lontane dal compiersi, sembrano essere ricercate più nella buona riuscita del percorso lavorativo e nella conseguente "approvazione" da parte degli italiani.
Le Forze Armate dei Paesi membri dell'Alleanza atlantica annoverano tra i loro ranghi, sebbene sovente con limitazioni di specialità o di categoria, personale femminile la cui integrazione, in un ambito lavorativo storicamente dominato da cultura e dinamiche mono-genere, è oggetto di questo studio. Dopo oltre un decennio dall'apertura all'arruolamento femminile da parte delle ultime Forze Armate che erano ancora caratterizzate dalla presenza esclusivamente maschile, si ritiene che le fasi della resistenza al cambiamento e della conseguente conflittualità tra generi siano oramai superate e si debba rivolgere l'attenzione verso i fattori che possono ostacolare od agevolare un'equilibrata integrazione di genere. Si è inteso dunque analizzare le politiche di genere che, poste in essere dalla NATO come Organizzazione sovranazionale, si riverberano su quelle attuate dalla NATO come alleanza di nazioni sovrane che, seppur indipendenti nella scelta della tipologia di Forze Armate da perseguire, devono adeguarsi ai requirement internazionali. Questa scelta è però condizionata dalle esigenze operative conseguenti dagli impegni assunti dall'Alleanza che, nel corso della propria storia ultra sessantennale, si è trasformata da mero strumento di difesa militare comune ad attore che affronta la globalità delle tematiche inerenti la sicurezza sul proscenio internazionale. Difatti, la fondazione della NATO prese le mosse dalla necessità dei Paesi europei di bilanciare lo strapotere numerico delle Forze Armate sovietiche che incutevano la paura di un'incombente invasione dei territori occidentali. Tale minaccia poteva essere scongiurata solo facendo ricorso ad un patto di mutuo soccorso con l'altra superpotenza all'epoca presente sullo scacchiere geostrategico mondiale – gli Stati Uniti d'America – e creando un'Organizzazione per la difesa comune. Le modalità con cui questo scopo è stato perseguito hanno conosciuto varie fasi di trasformazione, testimoniate dai diversi Concetti Strategici che sono oggetto – nel primo capitolo della ricerca – di un'analisi storico-politica.Il ricorso ad un approccio semantico e filologico nello studio dei prefati documenti, è significativo della multidisciplinarità cui si ispira questa ricerca che spazia dalla geopolitica alla geostrategia, dalla storia alla sociologia, attraverso l'analisi di documenti e la raccolta – di stampo giornalistico – di opinioni e testimonianze. Nel corso dei decenni, le Forze Armate che individuavano nelle armi nucleari e nella costante deterrenza il fattore di equilibrio per evitare che la Terza Guerra Mondiale abbandonasse il suo aggettivo di Fredda e fosse combattuta sui campi di battaglia, si trasformarono in strumenti più flessibili capaci di fornire peso alle risposte politico-diplomatiche per la risoluzione delle crisi. Questa nuova e necessaria flessibilità operativa ha richiesto anche all'interno degli strumenti militari una dimensione che non fosse esclusivamente votata al combattimento ma anche rivolta ad altre aree di conoscenza professionale che prefiguravano l'impiego di nuove professionalità. In tal senso le donne in uniforme hanno cominciato a ritagliarsi uno spazio sempre crescente nell'ambito delle Organizzazioni militari, affrancandosi dai ruoli esclusivamente di supporto in cui erano state relegate per anni anche perché quegli stessi ruoli cominciavano ad assumere un'importanza fino all'epoca sconosciuta. Questo processo è stato naturalmente reso possibile da differenti concause anche non direttamente afferenti al settore di studio come, ad esempio, l'emancipazione sociale raggiunta dalle donne in alcune nazioni che ha tracciato la strada per consentire l'impiego femminile in svariati contesti lavorativi. Con la fine della contrapposizione dei blocchi Est-Ovest a causa dell'implosione del sistema politico economico sovietico, sembrava essere giunto il momento di scrivere l'epitaffio dell'Alleanza che, come una società disciolta per conseguimento dell'oggetto sociale, non doveva più garantire la sicurezza comune che rappresentava l'essenza della propria esistenza. Il corso della Storia ha però voluto che proprio il termine della Guerra Fredda, ed il conseguente passaggio ad un mondo unipolare dominato dall'egemonia statunitense, delineasse nuovi scenari in cui la NATO si sarebbe rivelata non solo utile ma addirittura indispensabile. Infatti, lo smembramento e la trasformazione degli apparati militari –in quella parte di globo fino allora controllata dall'Unione Sovietica – provocò un aumento dell'instabilità e la moltiplicazione delle possibili minacce. Lo scongelamento delle relazioni internazionali con molti dei Paesi prima gravitanti nell'orbita sovietica, e la contemporanea diminuzione del potere politico della Russia rispetto a quello della disciolta Unione, consentì un interventismo fino allora impedito dal precario equilibrio bipolare. La risposta fornita da altre Organizzazioni Internazionali – quale l'intervento delle Nazioni Unite in Somalia – si rivelò inadeguata e la NATO, unica ad avere uno strumento militare integrato, assunse il ruolo di appaltatore monopolista della sicurezza globale attraverso le Crisis Response Operations che cominciarono con l'intervento in Bosnia Herzegovina. Nell'ambito del secondo capitolo si analizzano quei fattori che hanno concorso a delineare uno scenario favorevole all'integrazione femminile nelle Forze Armate. Nel corso degli anni la complessità delle Operazioni condotte dalla NATO – avvalendosi di solito di un mandato delle Nazioni Unite o appellandosi al principio d'ingerenza umanitaria – è andata crescendo in maniera esponenziale fino a raggiungere il suo picco con l'intervento militare in Afghanistan; grazie alle mutate esigenze operative le donne divenivano un fattore indispensabile per la riuscita delle Operazioni ed il loro ruolo era internazionalmente accreditato dall'adozione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite 1325. Per la prima volta, infatti, le donne non erano solo oggetto passivo di protezione ma erano chiamate ad assumere un ruolo attivo nei processi di ricostruzione sociale nelle zone di intervento delle Organizzazioni Internazionali.La Risoluzione auspicava un numero crescente di donne coinvolte nelle fasi di ricostruzione – tra queste erano comprese le donne in uniforme che agivano sotto l'egida della NATO – in grado di imprimere un concreto gender mainstreaming alle stesse. Le relazioni per niente idilliache tra ONU e NATO che erano andate avanti per decenni tra la diffidenza reciproca, si rasserenarono per necessità o per virtù fino a far divenire l'Alleanza uno degli Organismi più attivi nell'implementazione del disposto della Risoluzione 1325. Le donne militari traggono dunque vantaggio da un momento storico particolarmente favorevole alla loro integrazione e che discende da fattori contingenti di natura sociale, politica, militare ed economica stratificatisi nel corso degli anni. Lo status quo dell'integrazione, descritto nel terzo capitolo, evidenzia le variegate realtà delle Forze Armate dell'Alleanza che si diversificano a seconda dell'incidenza dei suddetti fattori, fino a delineare quattro tipologie di leadership con riferimento alle politiche di genere. Nel corso della ricerca, specificatamente nel corso del quarto capitolo, si sono altresì individuati quegli aspetti che rappresentano, di contro, un freno al processo integrativo e che sono stati individuati nelle manchevoli politiche necessarie a garantire, in primo luogo, una sufficiente presenza e, in seguito, un ruolo adeguato delle donne nelle Forze Armate. Le politiche di recruitment e retention applicate dalla maggior parte dei Paesi membri sono sovente tese alla pedissequa applicazione della normativa generica e non all'adattamento della stessa alla particolarità della professione militare. Inoltre, proprio ciò che abbiamo indicato con il termine "militarità" si configura come fattore che limita l'attrattiva della professione a causa della prerogativa di totale abnegazione – in termini di mobilità, sacrifici personali e famigliari – richiesta a chi indossa l'uniforme. Tale specificità è stata suffragata dai dati concernenti la presenza di personale civile femminile nei dicasteri della Difesa nazionali e nella stessa NATO.Nonostante i notevoli progressi compiuti dalle Forze Armate nell'inclusione femminile, l'ancora insufficiente percentuale di donne ed il loro impiego secondo politiche che non ne favoriscono la progressione di carriera, impedisce il formarsi di una leadership femminile che possa apportare nuove e differenti dinamiche all'interno degli apparati militari. Le donne militari si ritrovano invece a subire un inevitabile processo di omologazione, con un conseguente principio di mascolinizzazione di genere che non permette il raggiungimento di un'integrazione che, per essere soddisfacente, presuppone cifre professionali e comportamentali proprie e specifiche. La mera presenza femminile ed il replicare senza innovare una professione che è da sempre ad appannaggio maschile, con la conseguenza di ottenere risultati spesso considerati inferiori, non sottendono ad un'integrazione di successo. Tali considerazioni sono state corroborate anche dai risultati dell'indagine sociologica – condotta su un campione di cinquecento militari uomini e donne e di omologhi colleghi civili – dai quali emerge che l'assenza di riferimenti omogenere e la limitata applicazione dei fattori agevolanti non favoriscono il processo di integrazione delle donne in uniforme. La situazione presenta dunque una duplice connotazione: da un lato il processo di integrazione è oramai al suo stadio finale giacché l'accesso alla professione e l'accettazione verso la componente femminile hanno raggiunto valori soddisfacenti, dall'altro vi è la necessità di completare il processo attraverso azioni che si sviluppino lungo quattro direttrici. Impedire la mascolinizzazione di genere, garantire pari dignità d'impiego, costruire una cultura della professione, adottare politiche agevolanti, sono i pilastri per raggiungere un'integrazione piena e completa. Il lungo processo storico che ha portato all'attuale situazione – che rappresenta un'eccezionale congiuntura di fattori favorevoli – potrebbe nei prossimi anni essere sprecato qualora le autorità politiche e militari non dovessero compiere l'ultimo e decisivo passo verso la definizione di un ruolo delle donne in uniforme che sia consono alle professionalità espresse ed ai sacrifici compiuti.
1. Arte, Storia, Memoria. Halbwachs e la memoria collettiva. Arte e Storia formano la memoria come fatto pubblico; e la memoria è costitutiva di qualsiasi comunità che voglia essere tale; essa è un fattore decisivo per l'identità della comunità (Toscano, 2008, p. 15). Questo passaggio di Mario Aldo Toscano ci rende subito consapevoli dei primi elementi da considerare: arte, storia, memoria. L'intreccio tra questi fattori è determinante e scaturisce da un processo non sempre pacifico o pacificato: I Beni Culturali non sono né pace né armonia: sono manifestazioni dell'avanzata faticosa di una frazione di umanità per gli itinerari impervi del mondo. Essi sono un riassunto delle dimensioni più ordinarie e più straordinarie, di eterni contrasti, di lotte tra valori (Ivi, p. 38). Il Bene Culturale è quindi il prodotto complesso di negoziazioni ma anche di imposizioni spesso conflittuali. Che la memoria possa diventare oggetto conflittuale ce lo spiega già Maurice Halbwachs, quando sostiene che la memoria collettiva "si accorda con i pensieri dominanti della società" (Halbwachs, 1987, p. 21). Se appare forzata, nella prospettiva halbwachsiana, l'idea che il ricordo individuale esista soltanto perché appoggiato su uno strato di memorie condivise da più persone e non vi sia spazio per una prospettiva psicologica del soggetto singolo, è altrettanto interessante il fatto per cui, in questa lettura basicamente durkheimiana, il ruolo dell'insieme societario sia determinante e vincolante per il soggetto. La memoria diviene quindi un'istituzione e come tale deve essere affrontata come problema delle forme istituzionalizzate che l'immagine del passato assume nella coscienza dei gruppi, e dei modi e le forme di questa istituzionalizzazione. Nessun gruppo potrebbe riprodursi nella propria identità senza produrre e conservare un'immagine del passato consolidata, almeno per alcune delle sue linee ritenute fondamentali e valide dall'insieme dei membri. Affinché però ciò avvenga, la memoria si costituisce di ricostruzioni parziali e selettive del passato. L'idea chiave di Halbwachs è dunque che ricordare sia attualizzare la memoria di un gruppo. L'immagine del passato che il ricordo attualizza non è tuttavia qualcosa di dato una volta per tutte: se il passato si "conserva", si conserva nella vita degli uomini, nelle forme oggettive della loro esistenza e nelle forme di coscienza che a queste corrispondono. Ricordare è un'azione che avviene nel presente, e dal presente dipende. La ricostruzione del passato dipende agli interessi, ai modi di pensare e ai bisogni ideali della società presente. Tuttavia (…) l'immagine del passato che ogni società si rappresenta è, in ogni epoca determinata, qualcosa che si accorda con i pensieri dominanti della società stessa. I contenuti della memoria collettiva costituiscono dunque un insieme denso e mobile, che (…) costantemente è modificato, del passato è sempre un fenomeno dinamico. Ora, questa dinamica non esclude il conflitto. (…) L'idea forse più fruttuosa che si può ricavare da Halbwachs è proprio quella che il passato, oggetto di ricostruzioni successive e suscettibili di modifica, sia una sorta di posta in gioco fra interessi e gruppi contrapposti. (…) La memoria collettiva rappresentata dalla coscienza comune di queste società riflette effettivamente il risultato di uno scontro nel quale sono decisivi i rapporti di potere fra i gruppi diversi dei quali la società globale è composta (Halbwachs, 1987, p. 28). 2. Gruppi in conflitto: la posta in gioco. Memoria vs oblio. Ora la questione si sposta dunque sui gruppi che spostano l'equilibrio della "posta in gioco", come l'ha definita poco sopra Paolo Jedlowski. Il controllo di ciò che in qualche modo deve diventare memoria è allora elemento decisivo per chi si sfida nell'arena dei significati simbolici e contemporaneamente politici. Allo stesso modo, da contraltare, oltre a ciò che deve diventare memoria si affianca ciò che deve essere escluso dalla memoria, in un processo selettivo sia positivo che negativo. Un oggetto, un avvenimento, un artefatto, un luogo, possono essere elevati qualcosa da ricordare come essere cancellati con impeto e velocità. Gli esempi sono disparati e forse anche, apparentemente, contraddittori. Si può ricordare una vittoria militare, come la vittoria di Stalingrado per le forze sovietiche ed in generale antinaziste. Al contempo si può ricordare anche una sconfitta, come monito per non ripetere errori commessi e guardare ad un futuro migliore: i giapponesi ogni anno fanno tesoro delle esperienze di Hiroshima e Nagasaki. Si può però anche ricordare una sconfitta per creare un mito: i serbi trovano nel massacro di Kosovo Polje il loro mito fondativo. Si può creare un monumento ad hoc anche lontano dal luogo fisico in cui è avvenuto il fatto. Allo stesso modo è possibile distruggere un qualcosa del gruppo avverso: a Mostar i croati hanno bombardato lo Stari Most, testimonianza del passaggio ottomano in Bosnia e simbolo della città erzegovese. 3. "Le nuove guerre" e il ruolo dell'etnia Il contesto delle "nuove guerre" (Kaldor, 1999), è quindi terreno di coltura per questo tipo di conflitti, manifestatisi soprattutto successivamente alla caduta del Muro di Berlino. Attori deputati a poter dichiarare guerra nei confronti di attori di pari grado. Lo scenario disegnato da Kaldor è decentralizzato e disordinato a causa della fine dell'era dei blocchi contrapposti. Contemporaneamente lo stato nazione non solo è meno forte fuori dei propri confini, ma anche internamente ha subito e sta subendo un processo di progressiva erosione dei propri poteri coercitivi e di prevenzione delle minacce interne. Secondo alcuni autori, tra cui W. Pfaff (1993), la fine del mondo diviso in blocchi ha fatto sì che finissero i conflitti tra stati e nascessero quelli tra gruppi divisi da identità e modelli di vita inconciliabili. Le divisioni di oggi in azione sarebbero però decisamente più violente di quelle espresse nella prima modernità in quanto le identità astratte e laiche della cittadinanza statale tendono ad essere sostituite da altre di natura culturale, religiosa ed etnica tra le quali è più difficoltoso il compromesso (Maniscalco, 2008), dando vita ad un ambiente neo-barbarico. Va qui ricordato anche Huntington (1997), con la sua teoria dello scontro delle civiltà, "secondo la quale i conflitti successivi alla guerra fredda si spiegano in termini di divergenze culturali piuttosto che ideologiche o economiche; più che particolari stati, esse tendono ad interessare coalizioni di stati omogenei tra loro rispetto alle 'civilizzazioni' di appartenenza" (Maniscalco, 2008, p. 29). Secondo Kaldor siamo quindi in presenza di conflitti intrastatali che però differiscono dalle guerre civili dell'epoca pre-1989. Le differenze si riscontrano negli scopi, nei metodi di combattimento (guerriglia per eliminare l'altro), per la tipologia delle unità di combattenti (privatizzazione dei corpi) e nei metodi di finanziamento (ottenuto con attività malavitose). Questi conflitti vengono infatti combattuti sulla base di etichette etniche, in cui una nuova politica dell'identità, fondata su un comunitarismo esclusivo, annulla le politiche inclusive statali. L'etnia, in questo rinnovato quadro, diviene quindi l'attore principale intorno al quale poter sviluppare il gruppo di riferimento nei conflitti intrastatali. Questi conflitti, come ricordato, si basano su etichette che vengono affibbiate da un gruppo all'altro: si diviene gruppo per creazione autonoma o per esclusione da un determinato contesto. La lingua (in moltissimi casi si dovrebbe parlare di dialetti), la religione, il clan, i tratti somatici, una storia condivisa, sono gli elementi che fanno sì che il gruppo tracci un confine in-out netto e non valicabile. L'esclusione, più che l'inclusione, è il fattore che determina l'appartenenza. 4. I Beni Culturali nelle "nuove guerre": gli spazi interstiziali, sospesi e marginali. I Beni Culturali assumono un ruolo determinante all'interno dei conflitti sopra descritti, per vari motivi tra loro collegati. Anzitutto, il bene culturale, come abbiamo detto all'inizio, è traccia della memoria del gruppo etnico ed anzi viene accettato, creato, ricreato, protetto dal gruppo stesso proprio per dare delle basi comuni a tutti gli appartenenti della formazione sociale. Il bene culturale è testimonianza del passato, emblema dell'esistenza/persistenza presente e segno di continuità protesa al futuro. Può provenire dal passato, come nel caso dello Stari Most (1555) che riconduce direttamente al passaggio ottomano nell'area. Oppure può essere creato nel presente per ricordare il passato (antico o recente) e proiettarlo nel futuro. Rimanendo nell'ex-Jugoslavia possiamo pensare alla Torre di Gazimestan, un luogo spoglio e dal basso significato artistico e architettonico, ma situato nella Piana dei Merli laddove i serbi furono sconfitti dagli ottomani nel 1389, data da cui i serbi fanno partire la fondazione delle proprie radici comuni. L'intreccio Arte-Storia-Memoria si esplica quindi in un rapporto triangolare e paritetico, in cui i tre elementi si danno forza l'uno con l'altro. La Storia può essere selezionata per meglio indirizzare la Memoria nel senso halbwachsiano. L'Arte può diventare il campo di applicazione visiva ed emotiva del triangolo suddetto. L'opera artistica però è situata in luoghi ben precisi, sia momentanei (mostre) sia stabili (opere monumentali) e questi luoghi sono configurabili quindi come spazi determinati, riconoscibili e soprattutto riconosciuti dai gruppi chiamati al loro utilizzo. In questo caso siamo di fronte a quelli che qui definiamo come "spazi intensivi". Prima però di arrivare agli spazi intensivi, necessitiamo di riflettere sulle altre categorie dello spazio. Il problema dello spazio è stato quindi oggetto, da parte della letteratura sociologica, di intense elaborazioni e revisioni. Già Simmel, nel suo Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, sottolineava sin da subito la natura multiforme dello spazio, in quanto unione di elementi psichici e di intuizioni dell'anima: Nell'esigenza di funzioni specificatamente psichiche per le particolari configurazioni storiche dello spazio si riflette il fatto che lo spazio è soltanto un'attività dell'anima, è soltanto il modo umano di collegare in visioni unitarie affezioni sensibili in sé slegate (Simmel, 1998, p. 524). Siamo allora di fronte ad una realtà composta da tanti "spazi particolari" che, come ci dice Emanuele Rossi (2006), "potremmo definire come spazi sospesi, i quali, pur differenziandosi nella loro strutturazione (…) e nelle loro finalità, si presentano sociologicamente interessanti soprattutto per ciò che contengono, per le forme di relazione e di convivenza che sono in grado di ospitare, di produrre o semplicemente di annullare" (p. 9). Per fare ciò "abbiamo bisogno quindi di re-imparare ad osservare e ad interpretare lo spazio, di riconoscere allo spazio e alle diverse forme che di volta in volta è in grado di assumere, la funzione di strumento di lettura privilegiato di tutte le cose, vero e proprio deposito a cui è necessario attingere per comprendere in modo qualitativo il gioco incessante delle passioni, degli entusiasmi, degli antagonismi, così come dei tormenti e delle sofferenze che da sempre caratterizzano gli esseri umani; ma per far ciò bisogna saper di nuovo lasciare spazio all'immaginazione e soprattutto non ridurre gli spazi a semplici rapporti geometrici (.)" (Ivi, p. 15). E' solo in questo modo che è possibile quindi scoprire, mediante "una speciale lente sociologica, individuata nel concetto di sospensione" (Ivi, p. 9), alcuni di questi "spazi particolari", in cui è possibile sospendere il normale corso degli eventi. Siamo quindi in grado di determinare diverse declinazioni di questi "spazi sospesi": "spazi interstiziali", "di margine", "di consumo". Qui ci interesseremo in particolar modo dei primi due, per il loro diretto collegamento con l'idea di "spazio intensivo". Il concetto di "interstizio", esaminato da Gasparini (2002), è di difficile e complessa collocazione ed anzi lo stesso autore dubita che si possa parlare di vero e proprio concetto. È altrettanto vero però che l'interstizio riesce "ad illuminare una serie di fenomeni specifici della vita quotidiana", divenendo "il tramite, la cerniera, la porta, il ponte o il guado che consente il passaggio verso altri sistemi organici di significati". Già Simmel (1998) aveva però evidenziato, sempre nel suo Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, lo "stare fra" (p. 523) come funzione sociologica. Lo spazio infatti è una "forma priva di qualsiasi efficacia che, però, proprio in quella naturale situazione dello stare fra, può svolgere quella fondamentale funzione di elemento necessario alla configurazione di tutte le cose, rendendo in tal modo effettivamente possibile lo strutturarsi di qualsiasi forma di interazione" (Rossi, 2006, p. 56). Il vivere in comune quindi si sostanzia all'interno di uno spazio comune e condiviso che viene continuamente svuotato e riempito dalle interazioni che si susseguono di volta in volta. È lo spazio interstiziale quindi quello in cui si creano le relazioni, un "terreno di incontro" tra individui e/o gruppi comunicanti. Un altro contributo interessante che riguarda lo "stare tra" è offerto da Henry Pross, che si è cimentato nell'elaborazione del concetto di "spazi intermedi". Per questo autore infatti qualunque forma spaziale è prodotta dal potere, che ne determina le configurazioni, i confini ed i limiti. Anche la costruzione di elementi fisici spaziali (palazzi, strade, accessi) sono una forma del potere vivente, ma accanto agli ordini che si susseguono in termini di spazio (superiore e inferiore) e di tempo (…) sono individuabili gli spazi e i tempi della transizione. Edifici, accessi, limiti sono le manifestazioni quotidiane di differenti ordini; ci sono però corridoi, angoli, differenze di altezze e di profondità, fuori dal controllo: per questo si configurano come spazi intermedi che procurano un senso di liberazione e di riparo dalla pressione dei tempi sociali (Pacelli, 2010, p.188). Anche in Pross è quindi possibile ravvisare quello "stare tra" simmeliano, come luogo di eventi sociologici reciproci continuamente in atto e che quindi senza sosta si creano, ricreano e rinnovano in un'arena sempre aperta ad una perpetua negoziazione di socialità o di socievolezza, per citare ancora Simmel. Tuttavia questo continuo muoversi tra "morire e divenire, e divenire e morire" fa sì che questi spazi intermedi, nonché quelli interstiziali, siano quindi contenitori ad "intermittenza", i quali vivono dell'intensità temporanea delle relazioni che vi insistono all'interno, quando coloro i quali li percorrono e vi sostano decidono di instaurare dei rapporti di socialità con gli altri. Sono spazi quindi senza storia e senza futuro, lontani dal "luogo antropologico" di Augè (1993), eppure capaci di accogliere la costruzione di nuovi simboli e di rituali che lì vengono messi in atto e permangono per poco tempo. Queste occasioni di breve intensità fanno sì che però vi si verifichino degli accumuli energetici, diventando, come intuì Simmel, dei "centri di rotazione" (1998, pp. 540-1) intorno ai quali "si sviluppano relazioni con forte carica emotiva" (Rossi, 2006, p. 64). In altri termini, siamo in presenza di uno spazio non identitario, a relazionalità forte soltanto in alcuni momenti e su cui non si radicano forme fisse data la continua transizione di soggetti che vi transitano all'interno. Un'altra tipologia di spazio di forte interesse è quella rappresentata dagli "spazi di margine". Per andare a trovare queste forme spaziali bisogna anzitutto risalire ai luoghi che ogni giorno sperimentiamo nelle nostre esistenze. Bauman (2006, p. 116) osserva come nelle nostre società contemporanee lo spazio sociale tende a formarsi prevalentemente sulla base di ciò che egli definisce proteofobia, ovvero la paura della diversità. Questa paura fa sì che all'interno delle nostre "mappe mentali" si vengano a creare dei "buchi" creati volontariamente al fine di distinguere ciò che attraversiamo necessariamente e ciò che altrettanto volontariamente escludiamo in un tentativo di razionalizzare e di dare maggiore importanza ai luoghi che viviamo ed in cui transitiamo, ci situiamo e ci relazioniamo quotidianamente. Il margine è quindi un qualcosa che è nello stesso momento all'interno ma anche all'esterno dell'ambiente percepito: interno per ubicazione ma esterno per quanto riguarda l'interezza delle relazioni sociali. Siamo quindi in presenza di uno spazio che viene inteso come un luogo di difesa, che serve per preservare e sottolineare la specificità del proprio ambiente: un modo per porre un "altro da sé", per sospendere alcune questioni scottanti ed infine per dare una collocazione a quelle "società a fianco" che risultano un qualcosa da nascondere alla vista. Ed è proprio in questi margini che coloro i quali vi sono confinati possono ricreare zone di sociazione, sfruttando quell'oscurità di cui gli spazi di margine sono creati proprio dall'ambiente "di maggioranza" circostante. Nell'"effervescenza sociale" (Rossi, 2006, p. 90) esistente dentro ai margini risiede l'interesse verso questi nuovi centri di creazione di simboli e di senso. In conclusione, gli spazi interstiziali e di margine risultano quindi essere delle forme sospese, non ben definite, volatili. Proprio per questa loro condizione di transitorietà sono però attraversati da momenti ad altissima intensità relazionale ed emozionale che ne determinano l'importanza per i suoi "abitanti". Nonostante la loro posizione defilata gli "spazi particolari" rimangono sempre in contatto con lo spazio principale, proprio perché sono prodotti da questo o perché sono popolati da coloro i quali in esso non devono risiedere o al massimo possono sostarvi/transitarvi per pochi, innocui, attimi. 5. Una nuova categoria concettuale: lo "spazio intensivo" Lo spazio intensivo si configura come una forma spaziale che sicuramente trae alcuni elementi dagli spazi descritti precedentemente, ma al contempo ne scarta alcuni fattori per accoglierne altri. Lo spazio intensivo è la "residenza" del bene culturale attorno al quale i gruppi si riuniscono, caricando di emotività e di senso il luogo/bene prescelto. Anzitutto, come ci ricorda Maurice Halbwachs (1987, pp. 135- 42), c'è una piena identificazione del gruppo con il luogo ed anzi la "fisicità" del bene culturale descrive, arricchisce e dà sostanza al luogo stesso. Luogo e bene culturale agiscono simultaneamente, dato che l'uno non può esistere senza l'altro. Il bene culturale diviene tale proprio perché è situato e sussiste in un dato luogo, che può essere, ad esempio, teatro di rivendicazioni territoriali (come nel caso della Torre di Gazimestan nella Piana dei Merli in Serbia). Il luogo invece diventa rilevante, unico e "degno" di riconoscibilità proprio per la presenza del bene culturale. Tuttavia, non basta la presenza del bene culturale per dotare di intensività lo spazio. Altri fattori diventano determinanti. Anzitutto, rispetto agli spazi interstiziali e a quelli di margine, lo spazio intensivo è anch'esso uno spazio "sospeso", laddove la ritualità che vi insiste è frutto di momenti di richiamo politico/religioso collettivo. In confronto allo spazio interstiziale, lo spazio intensivo ne condivide la condizione di "stare fra": spesso infatti lo spazio intensivo sta fra due gruppi in conflitto ed anzi segna il confine di uno rispetto all'altro. Può essere un confine sia fisico (quando ad esempio viene ricoperto d'importanza il limite dello stato) o simbolico/religioso, quando per esempio prendiamo come punto di analisi un luogo di culto, in cui accede solo chi condivide la medesima fede. È inoltre un terreno d'incontri, tra gruppi diversi ma molto più spesso tra appartenenti ad uno stesso gruppo. Di certo al suo interno possiamo trovare quella intermittenza interazionale che fa sì che lo spazio intensivo "viva" in determinati momenti: le celebrazioni, le ricorrenze, gli anniversari, una funzione religiosa. Al pari degli "spazi intermedi", lo spazio intensivo può fungere da temporanea via dalle strutture del potere, anche se è una funzione diretta del potere. All'interno dello spazio intensivo infatti il forte coinvolgimento emozionale fa sì che si vada oltre ai sentimenti tipicamente nazionalisti o di identificazione con lo spazio medesimo. Quando si fa pratica di qualche rito o cerimonia (religiosa e/o civile) all'interno dello spazio intensivo, si trascende la dimensione puramente politica o religiosa per anelare ad un obiettivo per l'appunto trascendentale, immanente. L'appello per esempio di un leader nazionalista diventa destino di un popolo, la terrena funzione religiosa invece si trasforma in appuntamento con l'infinito. Di certo, come abbiamo visto in Simmel, lo spazio intensivo è un "centro di rotazione", dato l'alto investimento emozionale che su questo fanno gli appartenenti ai gruppi. Oltre a ciò, lo spazio intensivo può essere paragonato anche agli spazi di margine. Al pari di questi infatti lo spazio intensivo può crearsi come ghettizzazione di una minoranza all'interno di un luogo che diviene poi il nucleo di rivendicazioni della minoranza stessa. La differenza principale dello spazio intensivo rispetto agli altri "spazi particolari" risiede nel contrasto tra fissità ed intermittenza. Mentre gli spazi di margine e interstiziale rimangono comunque delle zone di transito senza una storia, un passato o un futuro, lo spazio intensivo, nonostante la transitorietà dei suoi eventi, è sempre presente. È uno sfondo che può essere riattivato socialmente, politicamente o religiosamente in ogni istante. È uno spazio in cui la narrazione riparte sempre dal punto in cui era stata interrotta e all'interno del quale la stessa narrazione non viene continuamente rinegoziata ma parte da punti fissi nella memoria e nella storia del gruppo. Possiamo parlare quindi di una "intermittenza stabile", dove "stabile" può essere declinato in due modi: anzitutto perché è un'intermittenza che si ripete ad intervalli di tempi regolari (dodici mesi per gli anniversari civili, sette giorni per la maggior parte delle funzioni religiose); in secondo luogo perché vi è una stabilità ripetitiva e certa dei contenuti non negoziabili che vengono ogni volta riscoperti, riaffermati e, se possibile, ancora più arricchiti nella loro funzione simbolica e distintiva. Si tratta quindi di spazi in cui la storia, il mito, il rito, il simbolo, hanno un alto impatto e sono costitutivi dello spazio stesso. Siamo in un campo molto vicino a quello che conosciamo come "luogo antropologico". Marc Augè (1993) ha proposto per primo questo concetto. Il "luogo antropologico è simultaneamente principio di senso per coloro che l'abitano e per colui che l'osserva". Il luogo antropologico diventa così una parte importante nell'elaborazione delle identità personali e nelle relazioni tra membri del medesimo gruppo, dato che coloro che vi "nascono all'interno (…) hanno la possibilità di sviluppare con questo un rapporto esclusivo" (Rossi, 2006, p.101) in cui le stesse relazioni reciproche interne diventano circoscritte e realizzabili solo da chi vive quel luogo. Allo stesso tempo il luogo antropologico possiede anche un carattere storico proprio perché la dimensione relazionale ed esclusiva è inoltre ripetitiva e costituisce una garanzia di stabilità ai membri appartenenti. Queste qualità, unite al fatto che per la memoria il luogo essendo l'elemento sensibilmente più visibile, dispiega abitualmente una forma associativa più forte che non il tempo (…), proprio lo spazio si collega (.) inscindibilmente (…) nella memoria e (.) il luogo continua a rimanere il centro di rotazione intorno al quale il ritorno avviluppa gli individui in una correlazione ora diventata ideale (Simmel, 1998, p.540). Questa unione di luogo antropologico e "centro di rotazione" a forte carica emotiva fa sì che lo spazio diventi quindi "intensivo" nel senso delle relazioni che vanno ad inserirsi all'interno di quest'ultimo. 6. Conclusioni La situazione così descritta è quindi immediatamente ricollegabile all'importanza che i beni culturali rivestono all'interno dei nuovi conflitti del Ventunesimo secolo. Il ruolo determinante che questi luoghi "intensivi" hanno nell'unire il gruppo etnico di riferimento, riprendendo Smith (1984), sotto i punti di vista dei miti, delle storie e dei simboli condivisi, rende immediatamente determinante la posizione delle dispute attorno ai beni culturali. Tali beni possono essere quindi visti, come detto all'inizio, alla stregua di un "riassunto delle dimensioni più ordinarie e più straordinarie, di eterni contrasti, di lotte tra valori" (Toscano, 2008, p. 31). Non si può trascendere da essi ed anzi il gruppo etnico ne richiede l'esistenza, come riserve di memoria e di coesione univoca. Proprio però per questo ruolo determinante e così tanto identificante, è possibile, allo stesso tempo, rovesciare questa natura "polemizzante" per renderla invece dialogante: l'avvicinamento tra culture e gruppi diversi può avvenire solamente riconoscendo ed apprezzando l'unicità dell'altro. È per questo motivo quindi che, attorno al bene culturale, si sviluppa una duplice energia che gli attori sul campo devono saper ben indirizzare.
Il presente lavoro di ricerca intende analizzare, attraverso gli approcci del transnazionalismo e dei diaspora studies, le famiglie palestinesi che vivono in Italia ed in Svezia. L'analisi è stata condotta nelle comunità di Uppsala, Stoccolma e Göteborg per la Svezia, mentre in Italia le comunità studiate sono state Pavia, Roma e Napoli. Un primo livello di indagine ha riguardato le ragioni che hanno spinto i palestinesi a scegliere questi due Paesi europei. Il nucleo della ricerca ha riguardato il ruolo della famiglia palestinese quale luogo di riproduzione di valori, norme e tradizioni acquisite, nelle forme e secondo modalità tradizionali, anche nei contesti di accoglienza esteri. Il lavoro di ricerca ha permesso di analizzare le due comunità proposte e indagarne le modalità, ove presenti, di azione e organizzazione transnazionale. L'utilizzo degli studi sulle diaspore ha consentito, invece, di metterne in evidenza, anche mediante una metodologia qualitativa, le differenze, sia con riferimento alle ragioni della loro formazione, sia relativamente alle loro motivazioni e obiettivi. A partire da questa premessa si sono formulate due diverse tipologie distinte di palestinesi presenti nei due contesti. In Svezia, è presente un palestinese "profugo o rifugiato" che si è stabilito con l'obiettivo originario di sopravvivere. Nel suo progetto di vita è viva la speranza di tornare, una volta raggiunto un benessere considerato soddisfacente per lui e per la sua famiglia, nella terra natia, anche se si tratta di "zone in bilico" ovvero campi profughi, dove la vita è scandita da difficoltà quotidiane. In Italia possiamo definire, invece, la tipologia di palestinese presente come propria di un'élite di giovani giunti con lo scopo di laurearsi, professionalizzarsi e ambire ad un futuro migliore. Ciò ai fini di apportare dei vantaggi concreti anche alla famiglia di origine rimasta a vivere in una condizione di disagio nel Paese di nascita, con la quale essi, tuttavia, hanno mantenuto continui contatti, nonostante la permanenza all'estero per alcuni anche trentennale. Attraverso l'indagine sul campo si sono individuati tre idealtipi di famiglia presenti in entrambi i Paesi: a) Nostalgica–ortodossa si caratterizza per la composizione di entrambi i coniugi di origine palestinese. La speranza di poter ritornare una volta risolto il conflitto, o una volta conclusa la carriera lavorativa, nella propria terra di origine è predominante in questa tipologia di famiglia. La paura che i propri figli possano perdere una parte della identità palestinese è fortemente presente in questo idealtipo, perciò ogni anno la famiglia organizza periodi di permanenza di almeno un mese, nel proprio Paese di origine. b) Ibrida–mista, composta da un membro di origine italiana o straniera. Il genitore palestinese è legato alla terra natia, anche se incluso nella società d'accoglienza, vivendo ed elaborando un sentimento di una "doppia presenza". I figli si sentono un ibrido; da una parte c'è un forte legame con il Paese in cui sono nati, vivono e hanno instaurato i propri rapporti, dall'altra parte si sentono collegati, soprattutto a livello emotivo, alle origini del genitore che si porta dietro un vissuto drammatico che hanno inevitabilmente acquisito attraverso la continua celebrazione, commemorazione della storia della diaspora palestinese. c) Disembedded, alcuni di loro hanno contratto un primo matrimonio con una donna del luogo in cui si sono stabiliti, e successivamente aver ottenuto il divorzio si sono risposati con una donna araba o palestinese. L'elemento caratterizzante non è la ricomposizione del nucleo familiare, bensì, tipico in questo idealtipo, il loro sentirsi oramai lontani dall'idea di volersi trasferire nel proprio Paese di origine sino ad immaginare il loro futuro e quello dei propri figli nel Paese di accoglienza. Il loro coinvolgimento all'interno delle comunità è marginale, poco rilevante, soprattutto nelle varie forme dell'attivismo tipiche di questa comunità diasporica. La ricerca è divisa in sei capitoli; il primo capitolo è impostato sul quadro teorico di riferimento per l'analisi proposta, approfondendo lo studio sulle varie teorie attinenti al transnazionalismo che sono state illustrate da specialisti in materia e focalizzando l'attenzione sui molteplici approcci sulla diaspora e i suoi relativi teorici. Nel secondo capitolo vengono ripercorsi da un punto di vista storico gli eventi prodromici al conflitto israelo-palestinese. L'analisi, partendo dalla teoria sionista, prende in considerazione i rapporti tra gli esponenti del movimento e il Mandato britannico, la tragedia della Shoah fino alla dichiarazione dello Stato di Israele e la conseguente Nakba, l'espulsione dei palestinesi dalle proprie terre; viene poi esaminata l'evoluzione dei drammatici rapporti tra israeliani e palestinesi. Il terzo capitolo è dedicato allo studio sulle famiglie, si analizzano le teorie sociologiche elaborate dagli autori classici e sviluppate poi successivamente anche all'interno del dibattito contemporaneo. Lo sguardo è stato rivolto alla famiglia migrante e, nel caso specifico, alle caratteristiche interne alla famiglia palestinese in diaspora in Europa. Nel quarto capitolo si affronta l'analisi dettagliata delle famiglie che vivono in Svezia, come si relazionano all'interno del contesto in cui risiedono, il rapporto con la rete amicale in loco. Un'osservazione privilegiata è rivolta alle ambizioni dei migranti per il futuro all'interno della coppia e soprattutto una particolare attenzione è stata dedicata alle prospettive del futuro dei loro figli, i quali vivono proiettati in una dimensione duplice; divisi tra il desiderio di ritornare nei luoghi di origine e dall'altro la volontà di costruirsi una propria vita in un qualsiasi altro posto nel mondo. Nel quinto capitolo si affronta l'analisi della comunità palestinese in Italia, approfondendo le ragioni che hanno spinto questa comunità ad approdare in Italia ed il ruolo che svolgono all'interno del Paese, visto la professionalità raggiunta e il forte senso di inclusione all'interno della propria città. Si affronta il rapporto tra la prima e la seconda generazione ed il relativo network con la madrepatria che risulta in continua comunicazione tra i due contesti, società d'accoglienza e società di provenienza. Nel sesto capitolo, infine, si descrive la metodologia avvalsa ai fini della raccolta dei dati, di tipo qualitativo. Le tecniche utilizzate sono state le interviste semi-strutturate con risposta aperta, raccolta di storie di vita, partecipazione attiva all'interno delle comunità prese in analisi. Nel caso della Svezia è stato condotto, in lingua araba, anche un focus group, con le famiglie ed i rispettivi figli. Quest'occasione ha permesso di raccogliere i sentimenti e le emozioni, successive all'esperienza dei ragazzi, i quali erano rientrati da pochi giorni dal loro primo viaggio in Palestina. In Italia, invece, la maggior parte delle interviste sono state condotte con i capi famiglia, utilizzando entrambe le lingue; arabo ed italiano, sia nella propria abitazione che in ambienti pubblici. In conclusione, la tesi si è avvalsa delle interviste, per poter dimostrare come la comunità presente in Italia si senta inclusa nel nostro Paese, senza però rinunciare o dimenticare la madrepatria, mentre la comunità palestinese in Svezia è rimasta legata ad una immagine di transizione tra i due Paesi; in questo caso, la voglia di rientrare nel proprio Paese, anche se in campi profughi, è predominante.
La ricostruzione dello "stato dell'arte" circa gli studi sulla partecipazione femminile alla violenza politica e al terrorismo – studi realizzati negli ultimi quindici anni e nell'ambito dei cosiddetti Terrorism Studies – ha consentito di riscontrare l'improduttività degli approcci globali e/o comparativi al fenomeno e di constatare che la agency e l'autonomia decisionale delle donne può emergere soltanto procedendo "caso per caso", tenendo presente le caratteristiche e le dinamiche del gruppo preso in esame, nonché la cultura e l'ideologia di riferimento, dal momento che queste ultime esercitano una notevole influenza sia sulle modalità e le strategie retoriche di reclutamento impiegate sia sullo spazio (d'azione e di decisione) che le donne avranno modo di conquistare all'interno dell'organizzazione. È proprio alla luce di queste osservazioni che la presente ricerca si è concentrata sul fenomeno specifico della militanza femminile nell'estrema sinistra italiana e ha individuato come caso di studio – in quanto organizzazione più longeva e con il maggior numero di militanti donne – le Brigate Rosse. L'ipotesi orientativa che ha dato avvio alla ricerca è che esista una «specificità delle donne» (Della Porta 1988) nella partecipazione ad organizzazioni politiche clandestine che richiedono un livello di militanza totalizzante e il fine ultimo è stato quello di esplorare le implicazioni derivanti dall'essere donna e «rivoluzionario di professione»; comprendere in che misura e in che modo questa scelta abbia condizionato il processo di soggettivazione, l'identità e, in generale, la vita di queste donne non soltanto nel corso della militanza, ma anche a conclusione di un'esperienza sicuramente difficile da "assimilare" come parte integrante della propria esistenza. La ricerca si è configurata come ricerca qualitativa, dal momento che ha indagato soprattutto i vissuti, i racconti, le riflessioni e le biografie delle ex militanti di estrema sinistra. È stato, di conseguenza, scelto l'approccio biografico il quale, pur avendo «come base di avvio il vissuto personale» (Cipriani 1995, p. 335) persegue un obiettivo finale che resta sempre «di carattere prettamente sociologico, cioè relativo ad una conoscenza dell'individuo essenzialmente come soggetto sociale» (Cipriani 1995, p.335). Lo studio si è collocato all'interno della prospettiva gender sensitive che si caratterizza per la «specifica attenzione al genere prima, durante e dopo la raccolta e l'analisi di informazioni e dati» (Decataldo, Ruspini 2014, p. 25) e rifiuta di guardare alle donne «in modo indiretto, ossia come completamento dei fenomeni studiati "al maschile"» (Decataldo, Ruspini 2014, p.31). Inoltre, concentrandosi sul processo di soggettivazione di donne che hanno vissuto in prima persona l'esperienza della militanza all'interno delle Brigate Rosse – ha privilegiato un livello di analisi "micro". Sono stati, tuttavia, presi in considerazione anche gli altri due livelli dell'analisi sociologica: il livello "macro", quindi il contesto storico e l'ambiente socio-culturale nel quale si è concretizzata la socializzazione politica delle nostre protagoniste e l'organizzazione ha operato, nonché le precondizioni per lo sviluppo della violenza politica; il livello "meso", quindi le caratteristiche strutturali dell'organizzazione politica clandestina, le dinamiche interne ad essa e le interazioni fra militanti. Il processo di soggettivazione è stato concepito come processo in azione nel duplice senso di processo in continuo divenire – che pertanto non può essere circoscritto al solo periodo di militanza e/o clandestinità – e di processo che si espleta sul piano della pratica dell'azione e della autodeterminazione. La ricerca, pertanto, ha esplorato sia le fasi precedenti sia quelle successive all'esperienza rivoluzionaria. A tal fine, si è avvalsa di interviste in profondità – realizzate con la tecnica delle storie di vita – con donne ex militanti delle Brigate Rosse e dei cosiddetti "Nuclei Clandestini di Resistenza". Altrettanto importanti sono stati: i colloqui informali con una quinta donna anche lei ex militante delle Br; le testimonianze raccolte durante gli anni Ottanta e Novanta da studiosi che si sono occupati del terrorismo italiano di sinistra degli anni Settanta (Quazza 1988; Novelli-Tranfaglia 1988; Guicciardi 1988; Jamieson 1989; Zavoli 1992; De Cataldo -Valentini 1996); le fonti provenienti dall'archivio documentario (denominato DOTE) attualmente conservato 2 presso l'Istituto Parri di Bologna; il documentario Do you remember revolution" (Bianconi 1997); alcune lettere scritte da una ex militante durante il suo periodo di detenzione nel carcere di Rebibbia (1998); le numerose biografie scritte da ex militanti (uomini e donne) dell'estrema sinistra italiana. Il materiale biografico raccolto è stato sottoposto a un'analisi ermeneutica integrata con un'analisi comprensiva (Kaufmann 1996; Bertaux 1998) e, focalizzando l'attenzione sui frammenti pertinenti e significativi all'interno di ciascun racconto, sono stati individuati i nuclei tematici affrontati più di frequente e sviluppati più approfonditamente dalle ex brigatiste. A partire da questi ultimi, sono state delineate otto dimensioni d'analisi che hanno rappresentato le coordinate delle interpretazioni e delle osservazioni finali e che sono state presentate immaginando di tracciare, attraverso esse, il percorso di soggettivazione delle ex rivoluzionarie. Tale percorso è iniziato con la percezione di una «situazione esplosiva» (Faranda, documentario Bianconi 1997) in cui «non si parlava altro che di rivoluzione» (Balzerani, documentario Bianconi 1997) e «c'era una domanda di potere e di trasformazione» (Intervista a G.) tale da rendere inevitabile l'emergere di un «dibattito sull'uso della lotta armata» (Balzerani, documentario Bianconi 1997) e sulla necessità della violenza politica. Attraverso la seconda dimensione d'analisi si è cercato di far luce sulle «riflessioni personali e collettive» (Russo, archivio DOTE, p.15) che hanno indotto queste donne a compiere la scelta di entrare a far parte delle Brigate Rosse e le implicazioni derivanti da una vita vissuta in clandestinità. Con la terza dimensione d'analisi è stata esplorata la vita quotidiana dell'organizzazione, descritta dalle ex brigatiste come un «partito armato» (Intervista a C.) in cui «c'era una disciplina necessaria» (Intervista a G.) e «le donne sparavano come gli uomini» (Balzerani, documentario Bianconi 1997). L'analisi del significato attribuito dalle ex brigatiste all'omicidio politico ha consentito di fare chiarezza sul loro rapporto con le armi – la cui presenza nella vita quotidiana assolveva principalmente a una funzione difensiva – e sul «rapporto di assoluta astrazione con la morte» (Russo, archivio DOTE, p.62 ). La quinta dimensione d'analisi ha fatto emergere la difficile, se non addirittura impossibile, conciliazione tra la scelta della rivoluzione e quella della maternità, considerando sia le testimonianze di coloro che hanno vissuto «la scelta di avere figli come scelta di vita» (Russo, archivio DOTE, p.56) sia le testimonianze di ex brigatiste che, pur vivendola come «un peso, un'amputazione» (Intervista a G.), hanno compiuto la scelta di non avere figli né durante la militanza né dopo semplicemente perché «se tu fai la guerriglia non fai figli!» (Intervista a G.). La sesta dimensione d'analisi ha fatto luce sulla conclusione dell'esperienza della militanza e sul periodo di detenzione, indagando sul rapporto delle nostre ex brigatiste con questa istituzione totale di cui «rimane il segno profondo […] che comunque ti connota in maniera molto precisa rispetto agli altri» lasciandoti «una quota di emarginazione che uno continuerà comunque a portarsi dietro» (Balzerani, documentario Bianconi 1997). Attraverso la settima dimensione, l'analisi si è soffermata sul modo in cui le ex militanti hanno affrontato il ritorno in società, costruito (o ricostruito) amicizie, legami familiari e sentimentali e ha fatto emergere le difficoltà derivanti dalla «sfida di tenere almeno un filo che leghi l'esperienza passata a questo presente» (Ronconi, documentario Bianconi 1997). Infine, l'ottava dimensione d'analisi ha fatto emergere l'importanza del racconto della propria storia, evidenziando come la narrazione di sé, anche rispetto alla vicenda della lotta armata, si sia rivelata uno strumento fondamentale nel percorso di recupero della propria soggettività e della propria identità femminile che, nel caso delle nostre protagoniste, si è struttura ed espressa tanto nella dimensione politica della militanza e della sovversione quanto nella dimensione della crisi vissuta in seguito alla sconfitta subita e alla perdita drastica di riferimenti politici, ideologici e sociali.
Assumendo le organizzazioni, e più in generale la sfera occupazionale, come un'arena per eccellenza dei processi di costruzione, mantenimento od erosione delle differenze tra uomini e donne, l'indagine empirica sul campo relativamente al Corpo forestale dello Stato si è mossa, con un orientamento prevalentemente esplorativo, a partire da due obiettivi conoscitivi generali: analizzare le dinamiche organizzative in un'ottica di genere e far emergere i rapporti di genere, intesi anche come rapporti di potere. Ne è derivata la scelta di coinvolgere nella ricerca sia le donne che gli uomini dell'organizzazione, considerando il "genere" come categoria euristica relazionale, che può permettere di comprendere in che modo alle donne vengano attribuite caratteristiche femminili e agli uomini maschili, in che modo le persone si posizionino in contesti di potere asimmetrico e in che modo, perciò, un'organizzazione abbia generato rapporti, gerarchie, attribuzione di ruoli, attività ed ambiti d'azione di uomini e donne. Quella conclusa è stata un'indagine esplorativa ed estensiva, condotta mediante auto-somministrazione, senza affiancamento, di un questionario caratterizzato da un elevato grado di strutturazione, composto quasi interamente da domande chiuse (e assunte come esaustive), da una semichiusa (perché considerata non esaustiva ed integrata dall'alternativa di risposta "altro") e da tre domande aperte. La logica entro cui si è svolta la ricerca non è stata semplicemente descrittiva: il largo impiego di tavole di contingenza e l'introduzione frequente di terze variabili nell'analisi dei dati rivela obiettivi di carattere, quantomeno, interpretativo delle covariazioni emerse, anche nell'ottica di fornire ipotesi plausibili di spiegazione delle relazioni. Il campione, benché auto-selezionato è stato giudicato significativo rispetto all'universo di riferi-mento sia in termini di ampiezza che di accuratezza. Infine, all'adozione di un concetto relazionale di "genere", è seguito il tentativo di declinare gli obiettivi conoscitivi in un disegno gender-sensitive, che non realizza semplicemente (come faceva la ricerca gender-oriented) un'analisi della condizione femminile esclusivamente in termini di differenza rispetto a quella maschile, ma punta ad una prospettiva che condiziona tutto il percorso di operativizzazione. In un'ottica esplorativa, l'utilizzo di strumenti quantitativi si è confermato di una certa utilità nel fotografare la situazione di genere di un'organizzazione, nell'indagare il fenomeno della segregazione in un numero ristretto di lavori/mansioni e livelli organizzativi, nel chiarire se tra uomini e donne, a parità di inquadramento, vi sia un'equa distribuzione dei compiti (sex-typing orizzontale) e se venga assegnato un diverso peso a lavoratori e lavoratrici con compiti identici. E anzitutto si è chiarito che in un contesto kanterianamente asimmetrico, quale è quello dell'organizzazione indagata, la bassa proporzione di donne non è l'unico fattore ad incidere rispetto alla connotazione delle stesse come tokens. Certo, fino a quando le donne rimarranno un'entità numerica esigua continueranno non solo ad essere percepite come donne piuttosto che colleghe, ma anche ad auto-percepirsi come tali, perpetuando dinamiche auto-segregative e rafforzando l'identità di genere (la rappresentazione delle donne come appartenenti al genere "opposto") a scapito di quella professionale. La loro collocazione, cioè, in ruoli marginali e di scarsa visibilità può costituire una sorta di rifugio (in aree organizzative meno centrali, dove minore è la pressione sociale all'adattamento alla struttura maschile) che preserva dalla pressione a conformarsi a modelli in cui difficilmente si riconoscono, ma che, d'altra parte, contribuisce a generare un circolo vizioso per cui più forte è l'autodifesa, minore è la possibilità di modificare la struttura e la percezione altrui del proprio ruolo nell'organizzazione. Insomma, secondo il kanteriano approccio strutturalista e "numerico" al tema delle minoranze, non riuscendo a fare "massa critica" le donne non produrrebbero nessun cambiamento "al femminile" all'interno dell'organizzazione ed il reciproco adattamento (dell'organizzazione alle donne e delle donne all'organizzazione) si risolverebbe in assimilazione culturale piuttosto che in reale integrazione. Emerge pienamente una contraddizione tra quadro normativo e funzionamenti organizzativi: al di là delle mere enunciazioni di principio sul riconoscimento delle donne come membri di diritto delle organizzazioni in cui lavorano, esse, di fatto, entrano in una "cultura organizzativa" che costituisce il vero punto di cerniera (o di scontro) tra variabili formali/razionali e variabili sociali/relazionali. Ma la componente quantitativa della presenza femminile è strettamente legata a quella qualitativa. È plausibile, cioè, che l'ingresso crescente di donne in settori e attività che in precedenza le vedevano escluse possa produrre, tra l'altro, una riduzione della segregazione, ma oltre all'entità della presenza femminile, ad apparire altrettanto rilevante è la "qualità" della stessa. La possibilità di esercitare autorità nello svolgimento delle proprie funzioni organizzative, oltre ad aumentare la soddisfazione personale sul lavoro, consente di innalzare il proprio livello di visibilità, accresce le chances di segnalare le proprie abilità e quindi di conseguire gratificazioni e riconoscimenti di vario genere. D'altra parte, la disuguaglianza fra i generi nelle possibilità di esercizio dell'autorità riduce seriamente il grado in cui le donne riescono a usufruire di queste opportunità. Si è riscontrata, inoltre, la presenza di quell'ulteriore forma di segregazione definibile come intra-occupazionale (relativa cioè alla collocazione lavorativa e ai compiti assegnati), la quale, unitamente alle altre, spinge ad interrogarsi sullo stadio in cui collocare il processo di integrazione delle donne nel cruciale passaggio tra "adattamento" e "integrazione". All'intersezione fra strutture (e squilibri) di potere vigenti nelle organizzazioni e differenziazione di genere vi è il fenomeno delle molestie sessuali, questione strettamente legata a quella dell'integrazione di genere, che taglia trasversalmente ogni fase dell'integrazione intesa (diacronicamente) come processo, nonché ogni grado dell'integrazione ove la si concepisca (sincronicamente) come risultato del processo stesso. Stando al modello proposto da Farina, la fase dell'adattamento al mondo maschile è superabile solo attraverso il rafforzamento di status e potere femminile. Ma allo stato attuale pare confermata, nell'organizzazione indagata, l'ipotesi formulata da Ammendola (2007) con specifico riferimento al contesto italiano delle organizzazioni in uniforme: il passaggio dall'adattamento all'integrazione di genere pare, in effetti, ancora incipiente.
Il presente studio parte dalla constatazione, largamente condivisa in letteratura, che le popolazioni rom siano entrate anche nel terzo millennio rinchiuse in un cerchio della marginalità da cui è assai difficile uscire. Un circuito perverso fatto di povertà, emarginazione, rassegnazione e fatalismo, di mancanza di speranza nel cambiamento, di dipendenza dal sostegno altrui, di un senso di inferiorità latente. In particolare, la ricerca ha tentato di indagare l'ipotesi dell'esistenza di una relazione tra la scarsa scolarizzazione e la condizione di esclusione dalla vita sociale, economica e politica in cui le comunità rom sembrano persistere, nonostante gli indubbi sforzi attuati dall'Unione Europea e dai singoli Stati membri. Dalla condizione di marginalità e stigmatizzazione (economica, abitativa, scolastica, sanitaria, ecc…) prende le mosse infatti una confusione identitaria operata dalla comunità maggioritaria (gagé) in riferimento alle comunità rom (i rom non si vogliono scolarizzare, non vogliono migliorare la loro condizione, ecc.). E mentre la maggioranza classifica e reifica l'identità delle comunità rom, queste ultime, impegnate nella lotta per la sopravvivenza quotidiana, restano ai margini della discussione, ignorandola e subendola. L'analfabetismo generalizzato ha impedito loro nel passato, come nel presente, di partecipare attivamente alla loro definizione identitaria e tale esclusione non è rimasta senza conseguenze. Infatti, come molti autori hanno giustamente sostenuto, lo scarso potere di partecipare al discorso ha condotto le comunità rom lungo la stretta via della rivendicazione su base etnica. Le comunità rom hanno, in altri termini, accettato su di sé, loro malgrado, l'idea di un gruppo etnico in estinzione e da preservare dall'incontro-scontro con la civiltà maggioritaria. Le conseguenze di tale accettazione e reificazione identitaria sono scritte in secoli di marginalità, povertà e sofferenza. Dalla mappatura dei progetti di scolarizzazione dei rom e dalle interviste emerge tuttavia un quadro composito in cui risultano chiari gli ostacoli e i pregiudizi da superare affinché si avvii un nuovo approccio alla scolarizzazione dei rom che veda in questi ultimi gli unici protagonisti accreditati a spezzare, con gli strumenti forniti dall'istruzione, il cerchio della marginalità, scrivendo nel contempo la propria storia ed il proprio presente.
La ricerca intende contribuire all'approfondimento della relazione tra religione e capitale sociale. Tale tentativo verrà condotto con riferimento al contesto italiano. Il capitale sociale è una risorsa preziosa per favorire l'inclusione sociale ed il benessere degli individui. Tuttavia, attualmente lo stato sociale si trova in una crisi irreversibile: ciò ha costretto i Paesi occidentali avanzati ad interrogarsi su alternative a supporto degli investimenti statali per favorire l'inclusione sociale dei propri cittadini. In questo scenario, il capitale sociale è diventato negli ultimi anni un oggetto di interesse, in un momento di necessario abbandono dell'idea tradizionale di welfare. Questo argomento è rilevante nel dibattito intorno al servizio sociale poiché è urgente, se si deve aggiornare il paradigma dello stato sociale, che il servizio sociale possa riflettere sul cambiamento in atto e raccordare le sue politiche di conseguenza. Il capitale sociale, inteso come dotazione di un territorio dove è elevata la partecipazione e l'impegno dei cittadini teso al bene comune, in Italia è scarso rispetto ad altri Paesi occidentali. Gli studiosi si domandano tuttora cosa può alimentare la sua creazione e la sua riproduzione. Dalla religione potrebbe venire una parte della risposta a questo interrogativo e, poiché in Italia la tuttora rilevante diffusione della religione cattolica dimostra anche una non trascurabile vitalità, può essere importante capire se, e in quale grado, la religione è in relazione con il capitale sociale. In letteratura scientifica la relazione tra religione e capitale sociale è stata trattata da diversi studi, sebbene non così diffusamente come ci si potrebbe attendere. Tuttavia, le conclusioni cui sono giunti gran parte degli studiosi risultano non univoche. Questa ricerca si propone, servendosi degli strumenti teorici ed operativi della più recente sociologia della religione, di studiare la relazione di questa con il capitale sociale, adottando la distinzione tra domanda ed offerta religiosa e, con riferimento al caso della domanda, non trascurando la sua multidimensionalità. Una vasta letteratura ha mostrato l'utilità di isolare cinque dimensioni che tendono decisamente a non covariare. Così impostata, l'analisi della relazione tra capitale sociale e religione è stata condotta utilizzando dati relativi alle province italiane. Il capitale sociale è stato operazionalizzato seguendo la proposta via via perfezionata da R. Cartocci. Per la domanda religiosa, sono state prese in considerazione due dimensioni, l'identificazione e la partecipazione mentre, per l'offerta religiosa, sono stati selezionati una serie di indicatori. Seguendo la letteratura, il metodo statistico adottato è stato quello della analisi bivariata tra i singoli indicatori di fenomeni religiosi e l'indice di capitale sociale. I risultati mostrano che tra l'offerta e la domanda religiosa, e le due dimensioni di essa considerate, esistono relazioni di diversa intensità e differente direzione con il capitale sociale. I risultati ottenuti, per un verso confortano la nostra scelta di trattare in modo più analitico il fenomeno religioso anche quando s'intende studiare la relazione con il capitale sociale e, per altro verso, forniscono indicazioni circa almeno alcune delle componenti religiose che con il capitale sociale mostrano relazioni di un segno e di quello opposto.
Ogni giorno siamo investiti da notizie di donne uccise dal proprio partner o da un ex. La cronaca ci informa di separazioni che si concludono con un femminicidio. Sappiamo molto sulle donne che grazie ai centri anti violenza riescono ad uscire dalla spirale della violenza, ma degli autori, degli uomini maltrattanti cosa sappiamo? Questa ricerca pilota vuole analizzare e trovare ragionevoli fattori sociali comuni negli uomini maltrattanti, analizzare, attraverso una verifica empirica, vissuti, motivazioni modi del dominio. Le violenze operate, letali e non letali, sono utilizzate per dominare la donna e avere un potere su di lei. Il nostro obiettivo è approfondire un tema, quello degli uomini maltrattanti ancora poco indagato.
La tesi intende presentare i risultati di una ricerca sull'integrazione socio-sanitaria nella regione Lazio. L'integrazione tra sociale e sanitario è tema su cui da oltre 40 anni si confronta la comunità scientifica e si sono susseguiti numerosi interventi normativi ma che rimane sostanzialmente irrisolto, segnato da una traduzione operativa in cui permangono incertezze e contraddizioni. Al di là delle enunciazioni legislative e degli impegni programmatici, infatti, l'effettivo raccordo tra gli attori impegnati nel processo di integrazione resta un obiettivo ancora da conseguire. Per riflettere sulla questione dell'integrazione socio-sanitaria e sull'evidente scarto tra il dettato normativo e la prassi operativa la ricerca si è mossa su un doppio binario. Da una parte ha approfondito il quadro teorico e normativo di riferimento tenendo presenti soprattutto i diversi orientamenti della letteratura in materia e le indicazioni contenute nel P.S.N. 1998-2000. Dall'altra ha inteso mettere a fuoco la trama concreta con cui l'integrazione socio-sanitaria si realizza in uno specifico contesto territoriale, cercando di tracciare il profilo che oggi riveste nella regione Lazio. Con particolare riferimento alla realtà laziale, l'analisi si è indirizzata verso il confronto tra la rappresentazione dell'integrazione socio-sanitaria così come emerge negli atti regolamentari che presiedono al suo funzionamento territoriale e l'assetto organizzativo che realmente le sue attività conoscono nei tre momenti del percorso che il cittadino/utente svolge all'interno dei servizi, sociali e sanitari: l'accesso, inteso come primo momento in cui il cittadino viene in contatto con i servizi socio-sanitari; la valutazione e presa in carico, ovvero il processo attraverso il quale viene analizzato il bisogno ed assunta la decisione se – e come – rispondervi; l'intervento/trattamento, momento centrale dell'operatività dei servizi sociali e sanitari. Il lavoro di ricerca ha consentito di approfondire le seguenti questioni: la coerenza dell'impianto normativo regionale rispetto al quadro nazionale e agli sviluppi del dibattito scientifico e professionale; l'esistenza o meno di una effettiva corrispondenza tra il quadro normativo regionale in materia di integrazione socio-sanitaria e le prassi operative realizzate sui territori;i punti di forza e le criticità dell'attuale modello di integrazione, sia a carattere generale sia nei suindicati momenti del percorso dell'utente all'interno dei servizi; la valutazione che i protagonisti del processo danno della sua efficienza e della sua efficacia; le condizioni che si segnalano come favorevoli o sfavorevoli per lo sviluppo di una cultura dell'integrazione. La ricerca – condotta tra giugno 2009 e novembre 2010 – si è avvalsa di una metodologia di tipo quantitativo (questionario con domande strutturate) a cui si è accompagnato un approfondimento a carattere qualitativo (focus group con testimoni privilegiati). L'indagine ha coinvolto i principali attori impegnati nell'integrazione socio-sanitaria: 55 referenti di distretto edun campione di assistenti sociali nel percorso quantitativo e 2 gruppi di professionisti di specifiche aree distrettuali, appartenenti ad A.S.L. ed enti locali nell'approfondimento qualitativo. La tesi si articola in due parti; la prima, costituita dai primi 3 capitoli, ripercorre le tappe della ricerca teorico-concettuale. Il capitolo 1, dopo una iniziale definizione terminologica, ripercorre in senso storico l'evoluzione delle normative nazionali che, dalla Costituzione repubblicana ai giorni nostri, hanno predisposto le condizioni, introdotto al tema, descritto e regolamentato l'integrazione tra ambiti sociale e sanitario, parallelamente alle riflessioni degli esperti. Il capitolo si conclude con una sintesi di quelli che si possono considerare, ad oggi, gli elementi concettuali dell'integrazione sociosanitaria. Il capitolo 2 rappresenta un'apparente "pausa" dal tema dell'integrazione poiché contiene una sintetica analisi delle diverse linee di pensiero delle tre possibili prospettive di analisi della normativa relativa all'integrazione: la prospettiva economica, quella organizzativa e quella personalistica. Il capitolo 3 utilizza le prospettive presentate nel cap. precedente per rileggere le normative, cercando di cogliere in ciascuna di esse gli specifici riferimenti attribuibili alle diverse prospettive; si conclude con una sintesi, attraverso la quale comprendere globalmente in quali direzioni si sono mosse le diverse normative nel periodo considerato. La seconda parte della tesi riguarda specificamente l'integrazione socio-sanitaria nella regione Lazio, indagata attraverso la ricerca empirica. Si apre con un capitolo, il 4, che presenta una prima introduzione alla realtà regionale, attraverso un sintetico excursus delle normative dagli anni '70 ad oggi, seguito da un'analisi dei principali atti in tema di programmazione ed organizzazione dei servizi sociali e sanitari. Il capitolo si conclude con una presentazione dei tratti principali dell'assetto territoriale e demografico delle 12 A.S.L. regionali, e dei relativi distretti. Con il capitolo 5 si entra nel vivo della ricerca empirica, analizzandone le risultanze a carattere generale, legate all'interesse degli attori istituzionali coinvolti, alle modalità di collaborazione e di co-progettazione, ai professionisti coinvolti ed alle tipologie di bisogni cui globalmente si rivolge, nello specifico caso del Lazio, l'integrazione. Il capitolo 6 cerca invece di tratteggiare un quadro della realizzazione dell'integrazione osservandola da un punto di vista particolare, quello del percorso dell'utente all'interno dei servizi; l'analisi prende in considerazione tre momenti di tale percorso ritenuti particolarmente significativi: l'accesso, la valutazione e presa in carico e gli interventi, quest'ultimi esaminati attraverso l'approfondimento di buone prassi, scelte dagli intervistati. Il percorso empirico della ricerca si conclude con il capitolo 7, che presenta alcuni elementi a carattere valutativo sull'integrazione nella regione, indagati presso tre differenti tipologie di attori: i referenti distrettuali, gli assistenti sociali, ed alcuni testimoni privilegiati, ovvero gruppi di operatori che lavorano in esperienze di tipo integrato.
Il fenomeno dell'adozione è stato cambiato profondamente negli ultimi anni. Il flusso migratorio di bambini adottabili stranieri provenienti dai Paesi periferici in direzione dei Paesi Europei ha visto un importante declino. Questo ha fatto sì che i genitori adottivi (in prima linea), ma anche gli operatori e gli esperti del tema dell'adozione, si ponessero il problema di indagare il contesto in cui si trovano i bambini in situazione di disagio all'interno di ogni Paese. Negli ultimi vent'anni, l'Italia, la Francia e la Spagna sono i principali Paesi Europei d'accoglienza dei bambini che immigrano a seguito dell'adozione internazionale. Sono bambini provenienti dai Paesi dell'Est Europeo, dai Paesi Sudamericani, dai Paesi Africani e dall'Asia. La pratica dell'adozione è sempre stata presente in tutte le società e culture come una risposta al desiderio di una coppia sterile ad avere un figlio. Dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939 - 1945) avviene un profondo cambiamento di questa pratica, si inizia a concepire l'adozione come un diritto dei bambini senza famiglia. Furono le esperienze di adozioni internazionali e interrazziali che si sono verificati alla fine del conflitto bellico a rompere con il modello tradizionale di adozione. Contemporaneamente s'inizia a ripensare a livello mondiale il ruolo dei bambini all'interno della famiglia. Da quel momento, si osserva che il bambino inizia ad essere il "centro" dell'adozione e non più la coppia. L'adozione internazionale si è sviluppata ed è diventata una realtà in Europa, principalmente dagli anni '60. Attraverso "mediatori" (avvocati, religiosi missionari, ecc.) le famiglie europee riuscivano ad avere contatto con le famiglie o istituti che mettevano a disposizione i bambini nei paesi del Sud o dell'Est del mondo (questi ultimi, principalmente, dopo la caduta del muro di Berlino). Con la crescita della «richiesta» di bambini è aumentata anche la tratta e la vendita di questi ultimi. Cercando di trovare una soluzione giuridica al "mercato" che si era creato a livello internazionale è stata emanata la Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, firmata all'Aja nel 1993. Da questo momento, i Paesi di origine e di accoglienza dei bambini che hanno firmato e ratificato la convenzione, devono seguire delle precise procedure e riconoscere le adozioni realizzate nei Paesi firmatari. L'oggetto della Tesi è l'analisi comparativa delle politiche per l'adozione nei tre principali Paesi di accoglienza Europei. Si propone di analizzare le politiche di promozione all'adozione a livello nazionale e internazionale. Dalla preparazione dei futuri genitori all'abbinamento con i minorenni, senza tralasciare le politiche di sostegno alle famiglie nel post-adozione. L'obiettivo della ricerca è stato perseguito mediante un approccio metodologico dialettico di tipo deduttivo-induttivo. Nella fase deduttiva ci si è concentrati sull'analisi critica della letteratura, nazionale ed internazionale, in materia delle politiche di promozione all'adozione nei tre Paesi studiati. Nella fase induttiva, si è sviluppata la ricerca di campo. La dottoranda attraverso delle interviste semi-strutturate si è rivolta agli operatori ed agli "osservatori privilegiati" per approfondire il fenomeno oggetto d'indagine, nei tre paesi studiati. È stata svolta un'analisi qualitativa delle Politiche di adozione internazionale rivolte alle famiglie adottive europee.
Ripercorrendo le diverse genealogie della biblioteca pubblica nelle società occidentali, i suoi ideali fondativi e gli obiettivi, la ricerca mette in evidenza il ruolo di questa istituzione nell'età contemporanea. Alla luce dei cambiamenti dovuti ai fenomeni migratori, il lavoro si interroga sulle politiche di integrazione, di come questo concetto sia emerso nelle agende politiche in Europa, in particolare in Italia e in Germania, fino ad analizzare gli aspetti di quella che viene definita "integrazione civica". Da qui si indaga la risposta da parte dei servizi bibliotecari, in particolare delle città di Roma e Amburgo per quanto riguarda l'accoglienza di migranti e stranieri. Dall'analisi condotta emerge il ruolo della biblioteca come strumento transnazionale di supporto ai processi di integrazione, istituzione importante nel complesso dei servizi alla persona, luogo di incontro di scambio, necessario per la costruzione democratica di un orizzonte pacifico di convivenza.