2008/2009 ; Il ruolo delle banche dati tecnico scientifiche nell'ambito delle indagini giudiziarie è di primaria importanza, lo testimonia la massiccia implementazione di programmi operativi per la gestione combinata di informazioni individuali – anagrafiche, genetiche, fotografiche e biometriche –, avvenuta nel corso degli ultimi anni per agevolare le operazioni svolte dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria; pertanto, il database può essere definito come un ausilio rilevante per l'esecuzione delle indagini legate alla consultazione dei dati, dal momento che gli elaboratori elettronici assistono le azioni investigative, attraverso una migliore gestione operativa delle notizie personali. L'avvento sulla scena procedimentale di strumenti tecnici siffatti, col carico di garanzie e tutele che recano al loro interno – basti pensare alle recenti decisioni quadro del consiglio d'Europa sulla protezione dei dati personali oggetto di scambio tra gli stati dell' UE –, impone una duplice osservazione; invero il rapporto tra le banche dati e il procedimento penale può essere analizzato sia in modo statico, con particolare riferimento alle regole preposte all'organizzazione del singolo dato all'interno della banca di raccolta, che in proiezione dinamica, cioè a dire, rispetto al possibile utilizzo che l'autorità giudiziaria può fare delle notizie provenienti dagli archivi informatici. Invero, nelle banche dati, le informazioni personali convergono in un sistema strutturato di catalogazione, che funziona alla stregua di un vero e proprio catalizzatore di notizie personali. Tali dispositivi permettono una consultazione rapida dei dati e facilitano la ricerca delle informazioni in essi contenute. A tal proposito, occorre sottolineare come l'acquisizione di una notizia derivante da un database, garantisca, di regola, all'autorità giudiziaria l'utilizzo di un'informazione calibrata sulla base delle norme fissate dal Testo unico sulla privacy del 2003. Preso atto che la banca produttrice di informazioni utilizzabili, per essere considerata come tale, deve rispettare le regole fondamentali stabilite dal Testo unico per il trattamento dei dati personali, occorre interrogarsi sugli effetti che il dato trattato in modo illecito, o frutto di un'attività di raccolta non autorizzata, genera rispetto all'accertamento del fatto reato. In tal senso, si può parlare di "nuove questioni giuridiche" per tutti quei temi legati alla relazione tra le regole stabilite per disciplinare la conservazione dei dati all'interno di archivi elettronici, e il processo penale. In quest'ottica, la tesi analizza la forma dei più importanti database utilizzati dall'autorità giudiziaria, intesi come recettori di informazioni personali, esaminando le implicazioni tecniche – id est i sistemi logistici di archiviazione – dell'organizzazione dei dati. Inoltre, costituisce argomento di studio, la singola informazione personale contenuta negli archivi informatici, con peculiare riferimento alle impronte digitali ed al profilo genetico identificativo. A tal proposito, la ricerca esamina la banca dati del dna – alla luce della recente novella legislativa introdotta dalla legge n. 85 del 2009 – intesa come esempio paradigmatico delle questioni succitate. In particolare si arriva allo studio della singola banca dati – database del dna –, dopo l'enunciazione di una serie di legami e connessioni di carattere generale, relativi a tutti i sistemi informatici di archiviazione dati. Le relazioni analizzate sono quelle con le specifiche tematiche del diritto alla privacy, e le disposizioni transazionali che disciplinano la materia della protezione dei dati personali. A ben vedere, l'analisi del caso specifico, rappresenta di fatto il riflesso pratico di una serie di considerazioni ad ampio raggio – connessi in particolar modo al diritto all'autodeterminazione dei dati personali – comuni a tutte le forme di archiviazione di dati. Infine, la conclusione della ricerca è incentrata sulla definizione del grado di utilizzabilità nel processo penale dell'informazione personale contenuto nei vari database; vale a dire nell'individuazione di un eventuale limite, all'ingresso nel procedimento, dei dati personali contenuti nelle banche dati, alla stregua di elementi impiegabili nelle indagini o utilizzabili come prova nel corso dell'istruzione probatoria. Tali problematiche sono state affrontate al fine di porre in luce quali siano i riflessi sull'aspetto che indubbiamente suscita il maggior interesse per la sua capacità di influenzare la decisione: l'utilizzazione probatoria del dato appreso illecitamente, poiché, a tutt'oggi, l'acquisizione e la successiva utilizzazione del dato illecito non incontra divieti probatori stabiliti ad hoc, dal momento che la legge sulla privacy costituisce un riferimento di carattere amministrativo. In particolare, occorre sottolineare come l' inserimento nella banca dati di una determinata notizia garantisca all'autorità giudiziaria l'utilizzo di un'informazione filtrata, cesellata e calibrata sulla base delle specifiche esigenze che hanno motivato la creazione dello stesso database, come dire che viene canalizzata a disposizione del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, una notizia pronta per essere impiegata senza alcun tipo di limitazione di sorta. Tale ruolo esercitato dalla banca dati, può essere definito come filtro e garanzia rispetto all'utilizzabilità del singolo dato. Nel corso della ricerca ci si è interrogati sulle conseguenze legate al caso in cui l'elemento a disposizione degli inquirenti, sia il frutto di un'attività di raccolta dati illecita o provenga da banche dati non autorizzate, e se un eventuale catalogazione effettuata al di là del confine legale tracciato dalle regole sulla specifica banca dati di raccolta, produca degli effetti patologici in seno al procedimento penale. ; XXII Ciclo ; 1976
Il lavoro di tesi indaga, dal punto di vista delle scienze sociali, un oggetto di studio – l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e la sua attività di regolatore del settore delle comunicazioni in Italia – storicamente (e accademicamente) proprio delle scienze economiche e giuridiche. La letteratura politologica (in verità piuttosto scarsa) in materia di regolazione e autorità amministrative indipendenti, ma soprattutto l'ampio dibattito sociologico su mass media, sfera pubblica e, più di recente, su convergenza, digitale e social media hanno costituito l'apparato teorico di base grazie a cui portare avanti una riflessione originale sull'oggetto di ricerca, ancor di più in quanto strettamente legata a vicende e questioni di stretta attualità e di notevole impatto sullo sviluppo del settore. Un'ampia disamina teorica su sfera pubblica e modelli di governance, nel passaggio dall'universo mediatico tradizionale a quello digitale, ha permesso infatti di inquadrare in maniera netta e decisa le dinamiche e i conflitti principali che animano il settore delle comunicazioni, il suo rapporto con la realtà sociale, economica e politica attuale, ma soprattutto il rapporto con la sfera delle regole che si instaura nel complesso sistema di formazione delle politiche pubbliche in materia (capitoli 1 e 2). Allo stesso modo, con un resoconto documentato delle attuali dinamiche evolutive dei mercati delle comunicazioni (con particolare riferimento al comparto televisivo e dei contenuti digitali), sono state evidenziate le questioni più rilevanti allo stato attuale per chi si volesse impegnare nel delicato compito di regolare questo settore, contemperando regole nazionali e comunitarie, interessi economici e rinnovate esigenze sociali (e politiche) (capitolo 5). Parallelamente, un'analisi approfondita del quadro istituzionale nazionale, e una sintesi delle principali evidenze delle scienze sociali in materia di regolazione e autorità indipendenti, ha permesso di mettere in luce il concetto di co-regolamentazione, la sua utilità e le sue applicazioni nel settore di riferimento (capitoli 3 e 4). L'Autorità, intesa come istituzione, ma soprattutto come attore emergente nelle dinamiche di formazione delle decisioni pubbliche in materia di comunicazioni (e in particolare di televisione e contenuti digitali, con tutte le implicazioni sociali e politiche del caso), è stata infine "scomposta" secondo una schema di analisi multidimensionale, meno rigido delle classificazioni adottate dalla dottrina giuridica e dagli studi economici. L'osservazione delle concrete (e recenti) prassi regolamentare ha invece consentito, in ultima istanza, l'indicazione di un possibile percorso di rinnovamento della missione istituzionale dell'AGCOM, basata sul passaggio da regolatore a promotore di sviluppo ed elemento di stimolo proattivo del settore delle comunicazioni e della nuova economia digitale nazionale (capitolo 6). I 18 mesi di praticantato effettuati da chi scrive presso l'Autorità di Garanzie nelle Comunicazioni mi hanno consentito (oltre che l'accesso ad una mole considerevole di informazioni, documenti e bibliografia utile per la stesura concreta della tesi) di vivere da vicino problematiche, stimoli, spinte e difficoltà quotidiane che caratterizzano la complessa attività del regolatore del settore. Sicuramente l'esperienza di osservatore neutrale ma interessato dei meccanismi decisionali e delle prassi di lavoro dell'Autorità hanno da un lato provocato il profondo "imbarazzo" di chi si avvicina a quel mondo con schemi e griglie di interpretazioni completamente diverse, dall'altro hanno fatto emergere alcune riflessioni su statuti conoscitivi e modalità di confronto con il mondo della comunicazione. L'obiettivo finale di tutto il lavoro di ricerca e di stesura della tesi è stato infatti incominciare a decifrare con le griglie teoriche e di analisi della sociologia un oggetto fino ad oggi sottoposto ad analisi provenienti da altri ambiti conoscitivi come quello giuridico. In tal senso "l'affanno del regolatore" è stato analizzato non dal punto di vista della difficoltà "tecnica" a individuare le norme che regolano lo sviluppo quanto piuttosto nell'essenza stessa del dinamismo dei media, nella loro velocità e soprattutto nella loro connettività. Insomma partire dall'oggetto, e non dalla struttura che lo regola , si è rivelato un "metodo sociologico" che esamina i limiti dell'Authority non in termini di apparato giuridico quanto piuttosto di apparato conoscitivo. Ed è proprio lì che si annida "l'affanno del regolatore".
2013/2014 ; Il tema del dolo eventuale è un tema di confini. Il confine tra il punire e il non punire; o tra cornici edittali molto diverse tra loro. Ciò perché, da sempre, la distinzione tra dolo e colpa ha una rilevanza fondamentale nel diritto penale. Il motivo principale di tale differenziazione è legato al diverso grado di colpevolezza manifestato da chi agisce con dolo e chi lo fa con colpa. Nonostante ciò, con l'avvento della società del rischio, i confini del dolo sono stati dilatati: se, una volta, il campo di elezione di tale istituto era quello dei rapinatori che sparavano ai loro inseguitori, oggi, invece, probabilmente è quello della circolazione stradale. Non solo. Si pensi alle applicazioni all'attività medica o agli infortuni sul lavoro: territori che, una volta, erano colonizzati dalla colpa, hanno finito per essere anch'essi invasi dal dolo, pur nella sua forma eventuale. Questo fenomeno trova la sua origine in esigenze generalpreventive che, però, finiscono per porsi in contrasto proprio con il principio di colpevolezza, prescindendo da una reale indagine sulla volontà. D'altra parte, «La storia del dolo è un continuo attacco alla sua dimensione soggettiva e più genuinamente psicologica», come ci dimostrano figure quali il dolus indirectus, tramite cui non solo il dolo veniva esteso, ma ne veniva anche semplificata la prova. Il dolo eventuale si sviluppa proprio da questo concetto: tuttavia, lo fa allo scopo preciso di recuperare il momento volitivo del dolo, con funzione, quindi, di garanzia. Per quanto riguarda l'oggi, l'indagine non può che partire dal dato normativo, che ci fornisce questo, fondamentale, punto di partenza: il dolo è essenzialmente volontà dell'evento. E ciò deve valere anche per il dolo eventuale. La volontà, ovviamente, non può prescindere da una piena rappresentazione: senza di essa, sarebbe cieca. Inoltre, è un concetto più ampio di intenzione, come ci dimostra l'analisi dei lavori preparatori al Codice. Dati questi presupposti, si deve ricordare che, per molti anni, la tesi prevalente in Italia per distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente è stata quella dell'accettazione del rischio, così come elaborata da Gallo. Riassumendo brevemente il pensiero dell'autore, si avrebbe colpa cosciente quando il soggetto agente, dopo aver previsto l'evento, si risolva ad agire comunque perché convinto che, grazie alla propria abilità, l'evento non si verificherà; diversamente, si avrebbe dolo eventuale quando l'agente, dopo aver previsto l'evento, agisca ugualmente, accettando il rischio della sua verificazione. Alla base dell'elaborazione di tale criterio distintivo vi è l'idea secondo cui agire accettando il rischio di un evento equivale a volerlo; e suo corollario è che il semplice dubbio, non avendo inibito l'evento, viene considerato sufficiente a integrare il dolo. La teoria in esame, però, manifesta diversi punti deboli, specie nella parte in cui si deve affrontare la distinzione tra colpa incosciente e colpa cosciente. Quest'ultima è espressamente disciplinata dall'art. 61, n. 3, c.p., che prevede l'applicazione di una circostanza aggravante nel caso in cui il soggetto abbia «agito nonostante la previsione dell'evento». La lettera della legge sembra dunque richiedere, da parte dell'agente, non la contro-previsione dell'evento, quanto piuttosto una rappresentazione attuale dello stesso al momento della condotta. Ci si chiede, inoltre, se sia compatibile con il principio di colpevolezza punire di più chi si sia risolto ad agire perché convinto, pur erroneamente, che l'evento non si verificherà, rispetto a chi non si sia nemmeno fermato a riflettere sulle possibili conseguenze della propria condotta. Un ulteriore problema dato dalla teoria dell'accettazione del rischio è di carattere processuale, e riguarda l'eccessiva elasticità, se non genericità, della stessa. Tramite l'espressione accettazione del rischio, infatti, la giurisprudenza ha avuto a disposizione uno strumento particolarmente flessibile, con cui ha sempre potuto sostenere la soluzione che appariva più consona al caso concreto, non solo e non tanto in base a valutazioni giuridiche, ma soprattutto di tipo etico-sociale. Le critiche alla teoria hanno iniziato a essere prese seriamente in considerazione solo quando l'ambito di applicazione del dolo eventuale si è esteso ai contesti a rischio lecito di base: questo fenomeno ha portato a una maggiore attenzione verso l'istituto e, grazie al lavoro degli interpreti, ci si è resi conto che la semplice consapevolezza del pericolo non può essere equiparata alla volontà dell'evento. Allo stesso modo, il dubbio non può ancora essere sufficiente a integrare il dolo. La giurisprudenza ‒ dalle Sezioni Unite relative al rapporto tra ricettazione e incauto acquisto, alle più recenti pronunce in tema di circolazione stradale ‒ pur continuando a prestare ossequio (formale?) alla teoria dell'accettazione del rischio, ha quindi iniziato a elaborare nuovi e diversi criteri, spesso combinandoli tra loro. Si va dal bilanciamento di interessi, alla c.d. prima formula di Frank, alla ragionevole speranza. Solo il primo, però, appare veramente utile, in quanto sembra l'unico in grado di esprimere il nucleo fondamentale del dolo: la scelta, in cui viene ponderato non il mero rischio, ma l'evento collaterale, che viene considerato il prezzo che si è disposti a pagare pur di raggiungere il proprio obiettivo. La formula di Frank, invece, fa riferimento a uno stato psichico ipotetico, che vuole indagare cosa sarebbe avvenuto in una situazione diversa da quella che si è concretamente verificata. Ma al diritto penale interessano i fatti per come si sono svolti, non cosa sarebbe avvenuto in una situazione diversa; inoltre, la formula porta in sé il rischio che si scada in un diritto penale d'autore. Tuttavia, se presa sul serio, la formula può essere utile a livello probatorio: essa, infatti, esprime la massima di esperienza secondo cui nessuno vuole un qualcosa che potrebbe costituire la frustrazione immediata e diretta del proprio obiettivo. Il criterio della speranza, poi, appare inaccettabile: il dolo non è desiderio o malanimo, ma volontà in azione; non è bramosia, ma l'attivarsi in vista di uno scopo. Quindi, così come la speranza non può integrare il dolo, allo stesso modo il desiderio che l'evento non si verifichi, in sé, non può escluderlo. Il criterio della speranza è stato utilizzato dalla giurisprudenza soprattutto in relazione a contesti familiari (contagio di HIV del coniuge; impedimento delle trasfusioni da parte dei genitori Testimoni di Geova alla figlia malata): come si vede, lo stesso ha trovato applicazione, essenzialmente, quando una condanna a titolo di dolo appariva eccessiva, alla luce del legame affettivo tra vittima e colpevole. Ciò detto, è anche vero che dalla lettura delle sentenze pronunciate nei casa appena richiamati sembra emergere una certa sovrapposizione tra speranza e mancata rappresentazione. Proprio questo aspetto rende particolarmente interessante uno spunto proposto dalla dottrina, secondo cui si deve fare attenzione a non confondere i due concetti. Infatti, qualora un soggetto sia convinto che un determinato evento non si verificherà, si dovrà concludere che egli versa in uno stato di errore: di conseguenza, l'evento non può essergli imputato a titolo di dolo. Quanto detto, si badi, vale indipendentemente dalla ragionevolezza del convincimento (o della speranza, che dir si voglia): un errore può ben essere dovuto a colpa; e non si devono confondere prevedibilità e previsione. Tuttavia, il parametro della ragionevolezza torna a rilevare a livello processuale, nel senso che non potrà essere sufficiente, per escludere il dolo eventuale, che il soggetto affermi che era convinto che l'evento non si sarebbe verificato, ma sarà necessario che tale convincimento sia coerente con quanto emerso nel corso dell'istruttoria. Come si vede, non si può prescindere da un'indagine sul tema della prova: il dolo eventuale vive nel processo. Ma come si fa a provare uno stato psichico? Non si può che svolgere un'analisi di tipo indiziario, partendo dalle circostanze del caso concreto. Per svolgere tale operazione inferenziale, si dovranno utilizzare delle massime di esperienza, di cui, nel corso del contraddittorio, si dovranno valutare attentamente l'affidabilità e l'adeguatezza rispetto a quella determinata vicenda. Quanto detto vale per tutte le massime di esperienza, e quindi anche per quella sottesa alla formula di Frank, di cui si è detto sopra. Chiarito ciò, si deve notare che, analizzando la giurisprudenza, è possibile ricostruire un elenco degli indicatori più frequentemente utilizzati: l'oggettivo grado di pericolosità della condotta tenuta dall'agente; le modalità dell'azione; la sua durata e il suo eventuale reiterarsi; gli antecedenti e gli eventuali presupposti della condotta, e in particolare l'adozione di cautele; il comportamento tenuto dall'agente successivamente all'evento; le precedenti esperienze e le eventuali conoscenze superiori del soggetto; il movente. L'elenco non può che essere indicativo e incompleto; ma, nonostante ciò, può fornire all'interprete una bussola per individuare il confine tra dolo eventuale e colpa cosciente. Alla luce di quanto detto sinora, è finalmente possibile procedere all'analisi della vicenda ThyssenKrupp, che ha portato alla recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Le sentenze che si sono susseguite in questo processo appaiono particolarmente interessanti, poiché da essa traspaiono, in modo emblematico, tutte le problematiche su cui ci si è soffermati. L'espansione del dolo eventuale al fine di trovare uno strumento di tutela idoneo ad affrontare i rischi della modernità; l'utilizzo del criterio economico, della prima formula di Frank e della ragionevole speranza; il ruolo centrale assegnato al tema delle prova. Questi temi sono stati affrontati con impostazioni parzialmente diverse dalle varie decisioni e, alla fine, le Sezioni Unite hanno optato per la tesi della colpa cosciente. Secondo i giudici di legittimità, la teoria dell'accettazione del rischio, nella sua classica formulazione, deve essere superata, e il dolo eventuale deve essere inteso come una ponderazione di interessi ‒ che ha come presupposto una rappresentazione chiara e precisa dell'evento collaterale ‒ in cui si subordina un determinato bene giuridico a un altro. Inoltre, non potranno in ogni caso dirsi voluti gli eventi in grado di comportare conseguenze negative per l'agente, salvo casi particolari. Insomma, d'ora innanzi, si dovrà abbandonare la formula dell'accettazione del rischio: meglio parlare di "accettazione dell'evento", al fine di meglio sottolineare il nesso psichico tra la volontà e quest'ultimo. La soluzione appare condivisibile, ma il percorso logico seguito dalla motivazione suscita comunque alcune perplessità. Si ritiene, infatti, che, da un lato, le Sezioni Unite non abbiano risposto in modo chiaro al quesito che era stato loro posto, cioè quale possa essere il ruolo della ragionevole speranza; da un altro, la tesi della colpa cosciente avrebbe potuto essere sostenuta, semplicemente, chiarendo che vi erano due indicatori quanto meno ambigui rispetto al dolo, da cui non poteva che emergere un ragionevole dubbio sulla sussistenza di tale stato psichico (la personalità particolarmente attenta e scrupolosa dell'amministratore delegato; le precedenti esperienze "fortunate", che avevano impedito, fino a quella notte di dicembre del 2007, che un disastro si verificasse). Le Sezioni Unite, invece, continuano a far riferimento alla formula di Frank, pur riconoscendole un ruolo processuale, anche se non ci capisce bene quale esso sia: si tratta di uno strumento in base al quale valutare il materiale probatorio raccolto o di un indicatore? E, in questo secondo caso, qual è il suo rapporto con gli altri? La decisione, inoltre, sembra contraddittoria quando, dopo aver affermato che l'imputato era convinto che l'evento non si sarebbe verificato, ritiene sussistente la colpa cosciente. Quest'ultima, infatti, dovrebbe consistere in una previsione attuale, non in una contro-previsione. Le Sezioni Unite, però, decidono di seguire un percorso argomentativo completamente nuovo, dando una diversa conformazione anche a questo istituto: e lo fanno partendo da un presupposto molto chiaro, quello secondo cui quest'ultima non esprimerebbe uno status psichico contiguo al dolo eventuale, ma una forma radicalmente diversa di colpevolezza. Dolo e colpa vengono intesi come in un rapporto non di più a meno, bensì di aliud/aliud. Da ciò, i giudici di legittimità deducono che dolo eventuale e colpa cosciente non si distinguono solo per la volontà, ma già nell'ambito della previsione. Per il dolo questa deve essere "puntuale" e "chiara": solo così la rappresentazione può essere presupposto di una vera e propria scelta. Per la colpa, invece, il concetto di previsione deve essere ricostruito non come possibile presupposto della volontà, ma alla luce del nesso necessario tra violazione della norma cautelare ed evento, poiché è questo il fulcro della colpevolezza colposa. Dunque, la previsione, nel reato colposo, non è altro che la conoscenza della connessione tra norma cautelare ed evento-tipo; ciò che conta, quindi, non è tanto la rappresentazione, ancora astratta, ancora sfumata, dell'evento, quanto la conoscenza di questo possibile nesso. La novità della soluzione non ci può far che constatare che, se a seguito di questo importante arresto giurisprudenziale i contorni del dolo eventuale sembrano più nitidi, per l'esatta individuazione dei confini della colpa cosciente, invece, il cammino sembra essere appena cominciato. Ciò detto, un tema ulteriore che merita di essere affrontato è quello dell'incompatibilità del dolo eventuale con alcune fattispecie penali: prima fra tutte, il tentativo. Si ritiene, infatti, che non tanto la non equivocità, quanto piuttosto la direzione degli atti sia ontologicamente inconciliabile con il concetto di dolo eventuale. Il perché è presto spiegato: se il tentativo fosse punibile anche a titolo di dolo eventuale, si finirebbe per dilatare eccessivamente l'anticipazione della tutela penale; e il ragionamento potrebbe ripetersi anche per altre fattispecie, come il disastro innominato. Vi sono poi reati che non possono essere puniti a titolo di dolo eventuale per espressa volontà del legislatore: si pensi all'abuso d'ufficio o alla detenzione di materiale pedopornografico, dove l'utilizzo degli avverbi "intenzionalmente" e "consapevolmente" ha proprio la funzione di escludere la rilevanza di tale stato psichico. Da qui si comprende come le diverse forme di dolo possono essere utilizzate dal legislatore per la costruzione della fattispecie tipica: il dolo eventuale, dunque, rileva anche in relazione ai principi di tipicità, frammentarietà e, tramite essi, di offensività. Pur avendo una matrice comune col dolo eventuale, sono poi logicamente incompatibili con lo stesso tutte le fattispecie, lato sensu, preterintenzionali. Queste ultime meritano particolare attenzione, poiché ‒ senza che sia necessario forzare, inopinatamente, il dolo eventuale ‒ possono costituire uno strumento idoneo proprio per affrontare i rischi della modernità. Concludendo con uno sguardo alle proposte di riforma in tema di dolo eventuale, si deve rilevare che queste sono molteplici. Si va dalla possibilità di definire per via legislativa l'istituto, a quella di introdurre nuove forme di responsabilità per sconsideratezza, assimilabili alla recklessness del diritto anglosassone; dall'ipotesi di prevedere fattispecie tipiche ad hoc (come l'omicidio stradale), a quella di intervenire sul sistema delle circostanze per adeguare il trattamento sanzionatorio. Alcune di queste proposte possono portare dei vantaggi, ma nessuna di esse sembra in grado, da sola, di risolvere il vero problema: quello di un preoccupante aumento delle condotte sconsiderate in contesti a rischio consentito. È infatti questa la ragione che ha portato a un'indebita espansione della categoria del dolo eventuale, assieme alle legittime e sempre più pressanti richieste di tutela da parte delle vittime, a cui è corrisposto un atteggiamento eccessivamente rigoroso ma, almeno per certi aspetti, comunque comprensibile da parte della giurisprudenza. Certo, è fisiologico che ad una società sempre più complessa non possa che corrispondere, necessariamente, un aumento delle fattispecie tipiche rilevanti: la storia umana e quella del diritto penale sono, ovviamente, strettamente intrecciate. Ma il fatto è che la risposta a fenomeni di questo tipo non può e non deve essere esclusivamente di tipo penale. Ciò perché le pene, da sole, non sono assolutamente in grado di garantire l'osservanza dei precetti. Anzi, in tema di infortuni sul lavoro vi è chi ha rilevato come proprio il numero eccessivo di contravvenzioni previste dal legislatore abbia complicato il lavoro delle Procure che, alla luce dell'obbligatorietà dell'azione penale, sono costrette a dover seguire, con risorse non sempre adeguate, una miriade di casi (e lo stesso vale per gli organi preposti alla prevenzione) con conseguente perdita di efficacia del sistema. Dunque piuttosto che un aumento (che rischia di restare solo sulla carta) della risposta penale, sarebbe preferibile dare, ai temi proposti dalla modernità, una risposta di tipo integrato. Il diritto penale non può essere lasciato da solo, e il legislatore non può veramente pensare di combattere questi fenomeni con un approccio emergenziale, fatto magari di decreti-legge contenenti norme scritte sull'onda delle emozioni dettate da tristi fatti di cronaca. Come è stato giustamente rilevato, «il terrorismo sanzionatorio non produce alcun effetto deterrente». Una riforma veramente efficace potrebbe essere solo quella volta a investire nell'educazione dei cittadini e nella prevenzione delle condotte pericolose. Ma questo obiettivi non si conseguono solo con delle norme: è necessario investire, sia nella cultura, sia nella predisposizione di organi di controllo, e ciò vale sia sulle strade che nei luoghi di lavoro. «Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo si è di perfezionare l'educazione (…) e non colla incerta del comando, che non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza»; «È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d'ogni buona legislazione». A 250 anni dalla pubblicazione del volume di Beccaria, Dei delitti e delle pene, gli insegnamenti del Maestro appaiono sempre attuali. ; XXVII Ciclo ; 1985
2007/2008 ; L'interesse per il processo de societate, con particolare riguardo alla disciplina dettata in tema di misure cautelari applicabili agli enti, nasce senza dubbio dalla considerazione che il d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231 rappresenta uno dei provvedimenti più rilevanti e più significativi degli ultimi decenni nel panorama normativo italiano, in quanto l'introduzione, per effetto del medesimo, di una diretta responsabilità sanzionatoria dei soggetti collettivi dipendente da reato costituisce una svolta epocale, specie per coloro che ritengono che con esso sia stato definitivamente messo al bando il "costoso" principio societas delinquere (et puniri) non potest. Esigenze di politica criminale, tese ad introdurre risposte sanzionatorie per fronteggiare la sempre più dilagante criminalità d'impresa, da un lato, e sollecitazioni provenienti in ambito comunitario ed internazionale, finalizzate alla armonizzazione delle risposte sanzionatorie degli Stati, dall'altro, hanno indotto il legislatore, delegante prima e delegato poi, a disciplinare la materia, superando i dubbi sull'an della responsabilità. Con riferimento al quomodo della sua formulazione, la l. delega n. 300 del 2000 e il d. lgs n. 231 del 2001 hanno qualificato come amministrativa la forma di responsabilità addebitabile all'impresa e, al contempo, hanno previsto che il suo accertamento avvenga ad opera del giudice penale con le forme del relativo processo. Tale peculiarità – giustificata dalla necessità di coniugare efficienza e garanzie – ha originato la querelle circa la reale natura (amministrativa, penale o mista, tale da dar luogo alla nascita di un tertium genus) della responsabilità introdotta dal d. lgs. n. 231 del 2001. Si è constatato che la vexata quaestio non costituisce esercizio esegetico fine a se stesso, bensì risponde all'esigenza di comprendere quali siano i principi informatori della disciplina, allo scopo di verificarne anche l'ortodossia costituzionale. Ad esempio, stabilire che, al di là della etichetta adottata, si tratti in realtà di responsabilità penale significa, in primo luogo, dover superare - sul piano della dogmatica - i tradizionali ostacoli (innanzitutto il principio della responsabilità penale personale e quello rieducativo della pena ex art. 27 commi 1 e 3 Cost.) al riconoscimento di una siffatta responsabilità in capo alle persone giuridiche. In secondo luogo, vuol dire analizzare e verificare se la costruzione dell'illecito contestabile all'ente e il relativo procedimento di accertamento rispettino i canoni costituzionali propri della citata responsabilità, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale. Sotto quest'ultimo profilo, in particolare, vengono chiamati in causa la garanzia del giudice terzo ed imparziale, il diritto ad una (effettiva) difesa, le regole del giusto processo e, non ultimo, il principio della presunzione di non colpevolezza, intesa sia come regola di trattamento - che vieta l'assimilazione dell'imputato al colpevole - sia come regola di giudizio - che impone all'accusa l'onere della prova della colpevolezza - sia, ancora, come norma fondante il riconoscimento del diritto al silenzio, con il divieto di far discendere dall'esercizio di tale facoltà conseguenze sfavorevoli per l'imputato (e, a maggior ragione, per l'indagato). Evidente che ogni qual volta si palesasse una loro ingiustificata ed irragionevole violazione si prospetterebbe l'incostituzionalità della disciplina. Tuttavia, anche qualora non si volesse giungere a qualificare come propriamente penale la natura della responsabilità in parola, non potrebbero essere revocati in dubbio i principi costituzionali che governano il processo penale, riproponendosi ugualmente la necessità di verificare il loro rigoroso rispetto, pena – ancora – l'illegittimità della disciplina. Tale conclusione, sul piano dell'accertamento processuale dell'illecito, consegue proprio all'opzione processual-penalistica del legislatore. Infatti, l'aver affidato l'accertamento dell'illecito amministrativo degli enti al giudice penale in seno al relativo processo (oltre che l'aver attinto ai meccanismi imputativi e punitivi dell'universo penalistico) rappresenta qualcosa in più, in termini di garanzia, rispetto all'etichetta formale adottata dal legislatore. Poichè la ratio posta a fondamento della scelta del processo penale come luogo di accertamento della responsabilità della persona giuridica risiede proprio nella necessità di assicurare alla medesima standards di garanzie maggiori di quelli offerti in sede di procedimento amministrativo (sul paradigma delineato dalla l. 689 del 1981) e poichè tali garanzie affondano le loro radici nella Costituzione, ne consegue che le previsioni sovraordinate inerenti i diritti e le facoltà dell'imputato nel processo penale sono destinate ad assisterlo sia che questi abbia una natura fisica, sia che abbia natura giuridica, indipendentemente appunto dalla qualifica della natura della responsabilità chiamata in causa. Dunque, più che alimentare la diatriba sulla reale etichetta da attribuire alla responsabilità in esame, si è cercato di verificare la "qualità" dell'impianto garantistico offerto alla societas nel corso del procedimento di accertamento della medesima. Per questa via, si è constatato che la normativa, specie quella relativa alle cautele, appare poco rispettosa della Grundnorm scritta nell'art. 27 comma 2 Cost. da cui dipende il riconoscimento della presunzione di non colpevolezza dell'imputato. In effetti, il legislatore del 2001 pare ricorrere al processo penale, non tanto per perseguire le sue precipue finalità di accertamento dei fatti e di applicazione della pena, quanto piuttosto per realizzare impropri scopi di prevenzione generale e speciale. In altri termini, il processo viene utilizzato come "messaggio", attribuendogli fini di stigmatizzazione, di intimidazione, di prevenzione e di rieducazione che non gli sono propri. Ciò è in particolar modo testimoniato dalle inedite finalità di recupero alla legalità dell'ente-imputato, che impregnano la disciplina relativa alle cautele. Nell'ambito dell'accertamento della responsabilità dell'ente le misure cautelari applicate contra societatem vengono, infatti, piegate ad esigenza di emenda e di rieducazione, servendo a propiziare l'adozione di condotte riparatorie o riorganizzative e non a tutelare esigenze funzionali al processo. La coincidenza tra tipologia delle cautele e la corrispondente morfologia delle sanzioni incide sull'identità funzionale delle prime, che finisce per essere eccessivamente appiattita sul crisma sanzionatorio. Proprio sul versante teleologico, infatti, viene meno l'essenza dell'istituito cautelare (annullando la differenziazione tra cautele e sanzioni), in quanto il periculum in mora è esclusivamente identificato con il rischio di reiterazione dell'illecito: ne scaturisce un intervento cautelare marcatamente orientato verso obiettivi di prevenzione speciale, vale a dire obiettivi di matrice extraprocessuale, certamente più coerenti con un intervento di tipo sanzionatorio. Si riaffacciano pertanto riserve d'ordine costituzionale non dissimili da quelle prospettate riguardo alla omologa previsione codicistica di cui all'art. 274 comma 2 lett. c c.p.p. E', in effetti, intuibile come il fine assegnato alle misure interdittive sottintenda una equivoca fungibilità tra cautele e sanzioni, di dubbia conformità al canone costituzionale di cui all'art. 27 comma 2 Cost. inteso come regola che vieta l'assimilazione dell'imputato al colpevole. In quest'ottica, la disciplina appare fortemente criticabile laddove essa consente che gli indizi di "illecito amministrativo" fungano da presupposto per interventi "educativi" finalizzati al recupero dell'ente alla legalità, lasciando intendere che l'ente sia ritenuto presunto colpevole ovvero – e la prospettiva non è certo più tranquillizzante – che l'accertamento della sua responsabilità sia comunque un fatto secondario rispetto allo scopo sotteso all'intervento cautelare. In questa prospettiva, il tratto marcatamente preventivo del sistema in esame sembra collidere con la ricerca di un giudizio sul merito: prevenzione e condanna sono strumenti distanti se analizzati nell'ottica degli strumenti impiegabili per perseguire l'una o l'altra. La società che intende provare nel processo la sua estraneità all'illecito amministrativo contestato rischia di essere assoggettata alla misura cautelare per il fatto di non essersi adeguata in itinere agli assunti dell'inquirente e il "periculum libertatis" potrebbe addirittura essere rinvenuto nella mancata ammissione dell'addebito mosso, ovvero nel silenzio mantenuto dall'ente sull'ipotesi di illecito formulata nelle indagini preliminari. E' evidente che, sia nell'uno che nell'altro caso, viene minato il fondamento garantistico del divieto di attribuire rilevanza alle scelte difensive ai fini delle esigenze cautelari e viene negato il diritto al silenzio dell'ente, imponendogli impropri obblighi di allegazione e di collaborazione. Di dubbia conformità al principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, questa volta inteso come regola di giudizio che impone all'accusa l'onere di dimostrare - oltre ogni ragionevole dubbio - la colpevolezza dell'imputato, appare altresì la disposizione di cui all'art. 6, relativa alla disciplina del criterio di imputazione soggettiva della responsabilità all'ente quando l'autore del reato presupposto risulti essere un soggetto apicale. Sul piano dell'accertamento processuale, tale previsione si traduce in un'impropria inversione dell'onere della prova. Per raggiungere l'esenzione dalla responsabilità, infatti, spetta all'ente provare – in via concorrente – l'adozione ante delictum di un efficace compliance program, l'inesistenza di lacune o inadempienze nel controllo svolto dall'organo di vigilanza appositamente istituito e l'elusione fraudolenta del modello di organizzazione e di gestione da parte del soggetto apicale. Il carattere concorrente delle condizioni da provare si risolve in una probatio diabolica, che incide sulla regola di giudizio secondo la quale il giudice pronuncia sentenza di esclusione della responsabilità dell'ente anche quando manca o è insufficiente o contraddittoria la prova dell'illecito amministrativo. Essa, infatti, troverà spazio solo laddove risulti dubbio che il reato presupposto sia stato commesso dai vertici nell'interesse o a vantaggio della società, ma quando l'incertezza attenga alle condizioni riportate nell'art. 6, il giudice dovrà pronunciare sentenza di condanna, con buona pace della regola consacrata nell'art. 27 comma 2 Cost. Apprezzamento merita, invece, il peculiare iter applicativo della misura cautelare interdittiva contra societatem. Infatti, con apparente incremento dello standard di garanzie tipiche del paradigma del codice di rito, che pospone l'interrogatorio dell'accusato all'adozione della misura cautelare, il procedimento applicativo delle misure cautelari contra societatem accoglie il modulo del contraddittorio anticipato. In effetti, la delibazione sull'applicabilità della misura interdittiva è iscritta nella cornice di un'udienza, pubblica o camerale, a seconda che la domanda venga presentata rispettivamente nell'ambito di un'udienza già fissata per l'esame del merito – aprendo una parentesi incidentale all'interno di questa – oppure al di fuori. L'innovazione è degna di nota, perché si riconosce nel contraddittorio tra parti contrapposte dinnanzi ad un giudice terzo lo strumento più efficace per garantire una decisione equilibrata, basata non sulla rappresentazione unilaterale dei fatti, ma sulla loro ricostruzione dialettica. La previsione che consente all'ente e al suo difensore di esaminare, presso la cancelleria del giudice, la richiesta del pubblico ministero e «gli elementi sui quali la stessa si fonda» prima della celebrazione dell'udienza garantisce, peraltro, l'effettività del contraddittorio. Non così, invece, la regolamentazione dell'udienza che segue. Infatti, quando l'istanza cautelare è presentata nella fase preliminare, l'udienza che ospita il contraddittorio ricalca il paradigma del procedimento camerale di cui all'art. 127 c.p.p. con scadenze più serrate. Tuttavia, la mancata previsione dell'obbligatoria (contestuale) presenza delle parti, da un lato, e la contrazione dei termini previsti per la fissazione e la celebrazione dell'udienza, dall'altro, incidono negativamente sull'effettività del diritto di difesa e, dunque, sul contraddittorio stesso. Sotto il primo profilo, infatti, è evidente che ridurre la presenza delle parti a mera facoltà sortisce l'effetto di limitare impropriamente il diritto al rinvio dell'udienza nel caso di legittimo impedimento del difensore. Invero, la rigorosa interpretazione della disciplina porta a concludere che l'unico soggetto abilitato a fare valere eventuali impedimenti, con correlativo diritto, sanzionato a pena di nullità, di ottenere il rinvio dell'udienza, è solo l'ente, nella persona del suo legale rappresentante, che abbia chiesto di essere sentito personalmente, ai sensi dell'art. 127 comma 4 c.p.p. Ai fini dell'applicazione della misura cautelare, dunque, la presenza effettiva del difensore rischia di diventare irrilevante. Il dubbio sorge ove solo si consideri che qualora il difensore nominato rappresenti un suo legittimo impedimento per l'udienza camerale già fissata e chieda il rinvio dell'udienza, il giudice potrà disattendere la richiesta e nominare, in sua sostituzione, un difensore d'ufficio a norma dell'art. 97 comma 4 c.p.p., al quale tuttavia non è riconosciuto il diritto di ottenere un termine per la difesa ex art. 108 c.p.p., con evidente danno per la difesa del soggetto collettivo. Anche la contrazione dei termini previsti per la celebrazione dell'udienza appare idonea a comprimere impropriamente l'esercizio del diritto di difesa dell'ente. Invero, la particolare complessità dell'illecito amministrativo impone di garantire all'ente incolpato di disporre del tempo necessario per preparare la sua difesa in ossequio al disposto costituzionale dell'art. 111 Cost. Se si considera, però, che l'ente potrebbe venire a conoscenza del suo status solo con l'avviso di fissazione dell'udienza camerale per la decisione in ordine alla richiesta avanzata dal pubblico ministero, i cinque giorni di preavviso previsti per la celebrazione successiva dell'udienza appaiono davvero pochi per consentire all'ente di nominare un difensore, di costituirsi in cancelleria, di estrarre copia degli elementi depositati a sostegno della domanda cautelare, di esaminare tali atti, di effettuare investigazioni finalizzate alla produzione in udienza di elementi nuovi a favore dell'ente. Si corre, dunque, il rischio di vanificare il contraddittorio e di ridurre l'apporto della difesa a mera discussione del materiale presentato dal pubblico ministero. Infine, si evidenzia che, nella dinamica cautelare, il contraddittorio preventivo assolve ad una duplice e diversificata funzione per la persona giuridica: difensiva o collaborativa. L'ente, infatti, in quella sede può innanzitutto scegliere di difendersi contestando gli elementi addotti dall'accusa, assumendosi – come già evidenziato – il rischio di essere ritenuto soggetto "pericoloso" e, dunque di subire l'applicazione della misura interdittiva. Oppure, laddove essa intenda ottenere la sospensione della misura (ex art. 49), può manifestare, nel confronto con la pubblica accusa e davanti al giudice, la volontà di porre in essere gli adempimenti e le condotte riparatorie di cui all'art. 17. L'istituto da ultimo richiamato si pone in linea con la finalità special-preventiva tipica del d. lgs. n. 231 del 2001 e ha chiara natura premiale: esso tende ad incentivare le condotte di riorganizzazione idonee a ricondurre la politica d'impresa in linea con i canoni della legalità. Il ricorso a tale congegno premiale nella fase incidentale del procedimento di applicazione delle misure cautelari, tuttavia, suscita non pochi dubbi di costituzionalità per incompatibilità con il dettato di cui all'art. 27 comma 2 Cost., ancora una volta inteso come regola che vieta l'assimilazione dell'imputato al colpevole. In effetti, all'ente si chiede di attivarsi per rimuovere le cause dell'illecito prima che questo sia stato accertato con sentenza, anche non definitiva, e al giudice di decidere in ordine all'idoneità delle condotte riparatorie attuate utilizzando gli stessi parametri valutativi predisposti in sede di applicazione della sentenza di condanna. Con la non trascurabile differenza che, in sede cautelare, l'accertamento della responsabilità non è ancora avvenuto e la decisione si fonda su elementi indiziari provvisori ed incompleti. Tutto ciò senza considerare che la condotta di resipiscenza attuata dall'ente al fine di ottenere la sospensione della misura cautelare ha inevitabili riflessi in ordine al conseguente accertamento di merito, risolvendosi in ultima analisi in una rinuncia alla prova da parte della persona giuridica. In effetti, l'attività di ristrutturazione, che l'ente è spinto a realizzare per ottenere la sospensione e la successiva revoca della misura cautelare interdittiva, implica necessariamente il riconoscimento delle carenze organizzative e si trasforma in elemento a supporto della tesi accusatoria. Peraltro, il meccanismo di premialità così individuato si presta al rischio di strumentalizzazioni, laddove la cautela venisse concepita come utile strumento di pressione sull'ente per indurlo ad attuare condotte confessorie di "ravvedimento" post factum, impiego certamente contrario al canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza, con sviamento della funzione tipica dell'istituto cautelare. Le reali prospettive di efficienza del sistema vanno (soprattutto) ascritte alla disponibilità di un apparato di cautele appositamente studiato per il soggetto collettivo sottoposto a processo: tanto che in sette anni di applicazione giurisprudenziale si contano quasi esclusivamente provvedimenti che attengono alle misure cautelari stesse. Esse, tuttavia, entrano in contraddizione con garanzie e principi fondamentali, frutto di una cultura liberal-democratica del processo, ritenuti "acquisiti" ed innegabili in una società che voglia definirsi non solo moderna ma anche civile. ; XXI Ciclo ; 1973
2007/2008 ; Lo studio dei procedimenti speciali nel sistema della responsabilità amministrativa derivante da reato, introdotta nell'ordinamento italiano con il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ha preso le mosse dalla scelta operata dal legislatore di prediligere il processo penale quale paradigma di accertamento dell'illecito dell'ente. Si è anzitutto evidenziato, anche attraverso il raffronto con altre esperienze, europee ed extra europee, che l'assegnazione al giudice penale della decisione su una res iudicanda amministrativa rappresenta una soluzione fortemente innovativa, tant'è che nessun parallelismo potrebbe instaurarsi tra tale cognizione e l'accertamento amministrativo richiesto dalla legge di depenalizzazione e modifiche del sistema penale (art. 24 l. 24 novembre 1981, n. 698). Lasciando a latere la questione della natura della responsabilità dell'ente – se si tratti, cioè, al di là dell'etichetta, di responsabilità amministrativa, penale o di altro genere – e precisato che l'importazione del modello processuale penale implica l'estensione alla persona giuridica dell'impianto garantistico offerto alla persona fisica, sono state passate in rassegna le cause di tale originale combinazione. A parte la valenza politica che l'attrazione dell'illecito della societas all'interno del processo penale reca con sé in termini di riprovevolezza del crimine d'impresa, è l'esistenza di un reato, primo tassello del mosaico raffigurante la complessa fattispecie dell'illecito amministrativo, a legittimare la devoluzione della vicenda dell'ente alla giurisdizione penale anziché all'autorità amministrativa, unitamente a ragioni di garanzia ed efficienza. Proprio in relazione a questi ultimi parametri emerge la pertinenza della previsione di giudizi speciali nel rito de societate; scelta, che avrebbe nondimeno potuto essere ostracizzata, data la mancata attenzione del legislatore delegante verso questa materia e in presenza dell'indicazione che ancorava la riduzione della sanzione amministrativa a situazioni di particolare tenuità del fatto (art. 11 comma 1 lett. g l. n. 300 del 2000) ovvero all'adozione da parte dell'ente di comportamenti di reintegrazione dell'offesa (art. 11 comma 1 lett. n l. n. 300 del 2000). Sul versante dell'efficienza, è nota la genetica finalizzazione dei riti speciali alla celere definizione dei carichi giudiziari, obiettivo imposto dal canone costituzionale della ragionevole durata dei processi (art. 111 comma 2 Cost.). Tale esigenza deflativa viene avvertita anche nel processo all'ente poiché il modello di accertamento confezionato per l'illecito dell'ente ricalca quello previsto per il reato, impostato cioè sulla classica successione fatta di indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento, di talché presenta le stesse ricadute che l'acquisizione della prova in contraddittorio comporta sui tempi processuali. Inoltre, occorre sottolineare che la scelta di procedere contestualmente per il reato nei confronti della persona fisica e per l'illecito nei riguardi della persona giuridica (art. 38 comma 1), seppur giustificata dal presupposto di pregiudizialità esistente tra illecito penale e illecito amministrativo, duplica l'attività processuale con conseguenti rallentamenti sul funzionamento della macchina giudiziaria. Si è, quindi, appuntato che, se alla base dell'inserimento dei riti speciali nel processo all'ente vi sono giustificazioni di economia processuale, nessuna valida ragione, a fronte dell'esigenza di coerenza sistematica, può sussistere nel ritenere inammissibili il giudizio immediato e il giudizio direttissimo, i quali non figurano nel decreto giacché il legislatore non ha ritenuto di dover dettare un'apposita disciplina. A ciò si aggiunga che l'efficienza processuale si salda con l'effettività della sanzione, obiettivo caldeggiato dal legislatore delegante (art. 11 comma 1 lett. f l. n. 300 del 2000), in cui risultano assorbiti scopi di prevenzione generale e speciale; quest'ultimo, peraltro, risulta predominante nel sistema della responsabilità amministrativa da reato, in cui tanto le sanzioni quanto, e impropriamente, il processo partecipano della finalità di recupero dell'ente alla legalità. In relazione all'aspetto garantistico, si è sottolineato come sia la legge a suggerire che anche all'ente vengano assicurati i benefici derivanti da scelte processuali alternative, laddove prevede il riconoscimento al soggetto collettivo degli stessi diritti e delle medesime facoltà spettanti all'imputato (art. 35); vantaggi, da reputare compatibili con la natura astratta del presunto responsabile amministrativo. Vero è che la praticabilità di soluzioni alternative all'ordinario iter processuale, tanto nel procedimento relativo al reato quanto in quello riguardante l'illecito amministrativo, determina la separazione delle regiudicande, fenomeno che ha comportato la trattazione delle conseguenze che tale divaricazione produce sul simultaneus processus (art. 38). In particolare, si è parlato dell'incompatibilità del giudice della responsabilità amministrativa a decidere in ordine al reato della persona fisica, e viceversa; si è, poi, affrontato il tema dell'acquisizione della sentenza irrevocabile emessa nei confronti dell'ente o dell'imputato, nel procedimento dell'altro (art. 238-bis c.p.p.), con la precisazione che esula da tale meccanismo acquisitivo la sentenza di patteggiamento, sia essa applicativa della pena all'imputato o della sanzione all'ente, poiché carente sotto il profilo dell'accertamento di responsabilità e, quindi, inidonea ad influire sulla decisione da assumere nell'altro procedimento. A seguire, sempre gravitando sul tema della circolazione probatoria, si è visto come sia recuperabile nel processo all'ente, seppur con qualche aggiustamento, la norma di cui all'art. 238 c.p.p.; infine, l'attenzione si è focalizzata sulle regole che governano l'assunzione delle dichiarazioni dell'imputato del reato presupposto e del legale rappresentante dell'ente nel separato procedimento a carico, rispettivamente, del soggetto collettivo e della persona fisica; compito, questo, che ha messo in luce il problema della qualificazione penalistica del rapporto sussistente tra reato e illecito amministrativo. La seconda parte del lavoro è dedicata alla trattazione dei singoli procedimenti speciali, la cui disciplina è stata ricostruita tenendo presente gli aspetti peculiari di ciascun rito e rinviando – in subordine – alle disposizioni del codice di rito penale nonché alle relative norme di attuazione e coordinamento, in quanto compatibili (art. 34), al fine di colmare lacune e superare incongruenze. In sostanza, questo particolare approccio metodologico ha richiesto di stabilire, di volta in volta, quali norme codicistiche possano essere trasferite nel microsistema del processo agli enti. Tanto precisato, vale qui riportare le problematiche più significative emerse dall'analisi della materia che, a ben vedere, si concentrano soprattutto attorno ai riti deflativi del dibattimento, vale a dire il giudizio abbreviato (art. 62), l'applicazione della sanzione su richiesta delle parti (art. 63) e il procedimento per decreto (art. 64). Partendo dal primo, è il presupposto speciale negativo del rito, consistente nella preclusione al suo accesso quando per l'illecito amministrativo sia prevista l'applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva (art. 16), il punto su cui si sono addensate le maggiori perplessità. Seppure nobile è apparso il tentativo del legislatore di contemperare esigenze efficientistiche con obiettivi di specialprevenzione, non si è taciuta, per un verso, la disparità di trattamento in tal modo creata tra ente e imputato, per il quale non vigono limiti di ammissione al rito speciale in vista del tipo di pena da applicare; per altro verso, non sono mancate riserve circa l'ampia discrezionalità che deriva dal sistema di applicazione delle sanzioni interdittive perpetue, congegnato, ad eccezione del caso dell'impresa illecita (art. 16 comma 3), su una valutazione prognostica di irrecuperabilità dell'ente alla legalità, di intuibile precocità se agganciata al momento processuale deputato alla valutazione di ammissibilità del rito speciale. Altra questione degna di nota attiene alla possibilità per il soggetto collettivo dichiarato contumace, cioè a dire non costituitosi in giudizio secondo le formalità prescritte dall'art. 39 d. lgs. n. 231 del 2001, di richiedere il rito abbreviato. Di fronte a opinioni dottrinali divergenti, si è ritenuto di proporre una soluzione positiva, agganciandola alla previsione normativa che estende all'ente lo status processuale dell'imputato (art. 35); si è, infatti, osservato come rispetto a questa precisa indicazione non meritino accoglimento interpretazioni che considerano l'atto formale di costituzione (art. 39) presupposto necessario affinché l'ente possa esercitare il proprio diritto di difesa. Se, infatti, tale adempimento si profila doveroso per il compimento di atti che implicano la presenza dell'ente, naturalmente nella persona del suo legale rappresentante, resta superfluo per tutti quegli atti che tale materializzazione non richiedono. Ciò ha permesso di ritenere legittimato ad avanzare richiesta di giudizio abbreviato, come pure quella di patteggiamento, anche il difensore dell'ente, non costituitosi, purché munito di procura speciale. Si aggiunga, inoltre, che la scissione tra costituzione e diritto di difesa è, parimenti, alla base della ritenuta ammissibilità dell'opposizione al decreto di applicazione della sanzione pecuniaria dell'ente che abbia deciso di non partecipare attivamente al processo. Occorre, per inciso, sottolineare come la questione esposta si profili incerta anche a livello giurisprudenziale; non può quindi che auspicarsi un intervento chiarificatore che tenga nella giusta considerazione le esigenze di garanzia e di difesa dell'ente. Ulteriore aspetto che si è ritenuto di approfondire concerne il ruolo della parte civile nel rito abbreviato instaurato nei confronti dell'ente. Preso atto che l'ammissibilità della pretesa civilistica nel procedimento di accertamento dell'illecito amministrativo conosce orientamenti difformi e, appurato che la soluzione negativa pare essere quella maggiormente convincente, si è voluto nondimeno precisare che laddove dovesse ammettersi la costituzione di parte civile contra societatem, al danneggiato da illecito amministrativo verrebbe riconosciuta la classica alternativa tra accettazione del rito – con il consueto limite in tema di diritto alla prova e l'efficacia extrapenale della sentenza di esclusione della responsabilità per insussistenza dell'illecito (art. 66) – e il trasferimento della domanda risarcitoria in sede civile. Passando all'istituto dell'applicazione della sanzione su richiesta delle parti (art. 63), si è innanzitutto proceduto ad esaminare i presupposti speciali del rito che si schiudono in tre diverse, e alternative, condizioni oggettive di accesso. Tra queste, non sono mancate riserve, per l'ampia discrezionalità implicata, circa il presupposto che àncora la praticabilità dell'accordo sulla sanzione alla "definibilità", con patteggiamento, del procedimento per l'accertamento della responsabilità penale dell'autore del reato. In altri termini, al fine di valutare l'ammissibilità della richiesta dell'ente, il giudice dell'illecito amministrativo deve, fittiziamente sostituendosi a quello del reato, stabilire in via preliminare se la vicenda dell'imputato persona fisica si presti ad essere definita attraverso il concordato sulla pena. Tale momento non è, peraltro, l'unico a presentare connotati di discrezionalità, dovendosi tenere presente che essa ricorre anche in riferimento al limite all'accesso al rito, derivante dal fatto che si faccia luogo in concreto all'irrogazione di una sanzione interdittiva in via definitiva; decisione che viene rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Rilevante è apparsa, anche per l'interesse che ha suscitato nella prassi, la questione relativa all'applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto dell'illecito da reato in sede di sentenza patteggiata. Si è ritenuto di fornire sul punto risposta positiva, alla luce del carattere indefettibile ed obbligatorio accordato a tale misura ablatoria dalla norma di cui all'art. 19, laddove il giudizio si concluda con sentenza di condanna. Tale riferimento, peraltro, non è stato ritenuto decisivo a supportare un approdo di segno opposto; senza entrare nella complessa tematica dell'identità della sentenza di patteggiamento, si è voluto ricordare il recente approccio esegetico delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., sez. un., 29 novembre 2005, Diop Oumar, in Cass. pen., 2006, p. 2769 ss.) secondo cui la clausola di equiparazione (art. 445 comma 1-bis c.p.p.) deve essere letta nel senso di ritenere la sentenza di patteggiamento siccome produttiva dei consueti effetti della condanna, salve le deroghe previste dalla legge. Pertanto, sulla scorta di tale assunto, si è sostenuto che se si fosse voluto escludere la confisca dalla decisione patteggiata lo si sarebbe dovuto esplicitare, restando il silenzio sintomatico della parificazione ad una pronuncia di condanna. Seguendo questa impostazione, si è ritenuta poco convincente l'ipotesi che sia incompatibile con il rito in esame l'applicazione della sanzione della pubblicazione della sentenza, solo per il fatto che essa venga riferita ad una pronuncia di condanna (art. 18). Tale misura stigmatizzante non rientrerebbe, infatti, tra le pene accessorie che, ex art. 445 comma 1 c.p.p., il patteggiamento preclude, poiché la classificazione tra pene principali e pene accessorie, cui la citata norma allude, risulta sconosciuta al sistema sanzionatorio delineato per le persone giuridiche. D'altro canto, proprio la peculiarità dello strumentario sanzionatorio ha richiesto di vagliare, di volta in volta, la compatibilità con il patteggiamento relativo all'ente dei premi che tradizionalmente afferiscono a questa alternativa processuale. Quanto al decreto di applicazione della sanzione pecuniaria, tra le varie problematiche affrontate, quella su cui si sono concentrati i maggiori dubbi interpretativi concerne la confisca. Esclusa, nel processo all'ente, l'operatività della norma secondo cui il giudice che pronuncia decreto penale di condanna dispone la confisca cosiddetta obbligatoria (art. 460 comma 2 c.p.p.), poiché essa è ivi misura di sicurezza, categoria non prevista nel sottosistema di riferimento, ci si è chiesti se trovi o meno applicazione la confisca sanzione (art. 19). Taluna dottrina ha ritenuto di fornire una risposta negativa, sostenendo che se venisse disposta si andrebbe incontro ad una soluzione affetta da illogicità, poiché, da un lato, la confisca è sanzione che deve sempre essere disposta, dall'altro, il decreto può pronunciarsi se deve essere irrogata unicamente la sanzione pecuniaria. Si è nondimeno, proposto un differente ragionamento, che porta, per contro, alla soluzione positiva. In prospettiva sistematica e meno agganciata al dato formale, si potrebbe ritenere che il limite della sanzione pecuniaria, quale presupposto del rito, non può intendersi come deroga alla norma che stabilisce l'indefettibilità della confisca in presenza di una sentenza di condanna; espressione suscettiva di lettura estensiva, così da ricomprendere anche il decreto che, in effetti, ha natura di sostanziale condanna. Al contrario, proprio il carattere imperativo della sanzione in oggetto risulterebbe dato utile ad interpretare il limite della sanzione pecuniaria siccome preclusivo della sanzione interdittiva e, a fortiori, di quella della pubblicazione della sentenza che ad essa accede. Così postulando, si verrebbe a ricostruire un parallelo, per un verso, con la logica codicistica che, con il presupposto della pena pecuniaria, intende escludere dall'ambito operativo del procedimento monitorio la pena detentiva e, per altro verso, con l'istituto dell'applicazione della sanzione all'ente che, come visto supra, pure è stato ritenuto compatibile con la confisca. Altra questione degna di essere segnalata afferisce all'operatività dell'effetto sospensivo (art. 463 c.p.p.) ed estensivo (art. 464 comma 5 c.p.p.) dell'opposizione nel processo cumulativo, quello cioè instaurato contemporaneamente per l'accertamento tanto della responsabilità amministrativa dell'ente quanto di quella penale della persona fisica, qualora, pronunciato decreto di condanna a carico di entrambi, solo uno di essi faccia opposizione. Premesso che la produzione dei suindicati effetti risulta ancorata alla situazione della commissione del medesimo reato da parte di più soggetti, la risposta dipende dal tipo di lettura che si vuole prediligere nel decifrare il rapporto sussistente tra reato e illecito amministrativo. Pertanto, ove si ritenga che la responsabilità dell'ente configuri un'ipotesi di concorso di persone nel reato, nessun ostacolo potrebbe esserci a che l'esecuzione del decreto opposto dall'ente, o dall'imputato, venga sospesa nei confronti del non opponente, con il conseguente verificarsi dell'effetto estensivo della pronuncia di proscioglimento. Viceversa, se si esclude il vincolo concorsuale poiché trattasi di illeciti diversi, il richiamato meccanismo non potrebbe funzionare, a meno che non si voglia adattare il dato letterale della norma codicistica attraverso una lettura estensiva che valorizzi il rapporto di pregiudizialità esistente tra i due illeciti, penale e amministrativo. Tale impostazione avrebbe il pregio di evitare che il rimedio della revisione – istituto che nel processo agli enti tende a favorire un'esigenza di omogeneità dei giudicati quando non sia stato possibile procedere unitariamente all'accertamento del reato e dell'illecito amministrativo che ne deriva (art. 73) – diventi strumento ordinario per risolvere l'eventualità del conflitto tra la pronuncia emessa nei riguardi dell'ente e quella relativa alla persona fisica. La terza parte del lavoro nasce dalla presa d'atto che i riti premiali non rappresentano le uniche occasioni difensive vantaggiose in termini di sollievo sanzionatorio. Si è così proceduto ad analizzare gli istituti processuali che, improntati alla logica specialpreventiva di neutralizzazione del rischio di commissione di futuri reati, propiziano l'attuazione da parte dell'ente delle condotte riparatorie previste dall'art. 17, vale a dire il risarcimento integrale del danno, l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato – ovvero un efficace impegno in tal senso –, la predisposizione di modelli organizzativi idonei a prevenire il rischio di commissione di reati all'interno dell'impresa e, infine, la messa a disposizione del profitto conseguito ai fini della confisca. La realizzazione di tali comportanti, suscettivi se allo stadio di semplice "promessa di attuazione" di provocare la sospensione della misura cautelare interdittiva (art. 49) oppure la sospensione del processo (art. 65), consentono alla persona giuridica incolpata di sfuggire dall'applicazione della sanzione interdittiva e di ottenere una riduzione della sanzione pecuniaria, in caso di condanna. Certo, un simile congegno, che sollecita l'ente ad attivarsi durante il processo per rimuovere le conseguenze dell'illecito amministrativo, prima di approdare ad un accertamento di responsabilità anche non definitivo, è anomalia che mal si concilia con il canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2 Cost.), la cui operatività non incontra, nonostante qualche perplessità manifestata al riguardo, limiti dovuti alla natura astratta della persona giuridica. Proprio il ruolo centrale assegnato all'impegno riparatorio onde neutralizzare gli effetti dei soli strumenti interdittivi (nell'immediato, se applicati in funzione cautelare, ex art. 9 e 45 comma 1, e in vista di futura condanna), con conseguente superfluità di tale impegno ove si prospetti l'applicazione della sola sanzione pecuniaria, nonché l'inversione dell'onere della prova che grava sull'ente (art. 6) – il quale deve provare l'insieme dei fatti impeditivi descritti in tale disposizione per andare esente da responsabilità – ha permesso di mettere in risalto la congenialità dei riti alternativi al sistema processuale pensato per gli enti; adattabilità, peraltro, favorita anche dalla peculiare disciplina della prescrizione dell'illecito amministrativo ex art. 22. Il congegno ivi formulato, di fatto improntato alla potenziale imprescrittibilità dell'illecito – poiché la contestazione dell'illecito interrompe la prescrizione, la quale «non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio» (comma 3) – fa sì che le garanzie processuali non possano essere strumentalizzate dal responsabile amministrativo al fine di differire la decisione finale onde sfruttare l'epilogo favorevole della prescrizione dell'illecito. Questa situazione, da sempre censurata dalla dottrina nel processo alla persona fisica siccome fonte di inefficienza processuale e ragione della scarsa capacità deflazionistica dei riti speciali, si presenta, nel contesto dell'accertamento della responsabilità amministrativa, come fattore incentivante la definizione del procedimento tramite percorsi semplificati. Siffatta congenialità, tuttavia, non è sfuggita ad un approccio critico, segnatamente laddove le difficoltà connesse alla dimostrazione di innocenza indurrebbero l'ente ad affrettare i tempi di un processo in cui la contestazione dell'addebito diventa sintomatica di una presunzione di illegalità dell'impresa. In altri termini, la presenza dei riti alternativi nel processo agli enti sembrerebbe superare le premesse logiche del relativo inserimento, cioè a dire esigenze di economia processuale e riconoscimento all'ente delle stesse opportunità difensive spettanti alla persona fisica in virtù dell'equiparazione voluta dall'art. 35 con l'imputato, per risolversi in occasioni di giustizia sommaria. E ciò striderebbe con le ragioni stesse della scelta del processo penale come sede di accertamento dell'illecito amministrativo; preferenza che si giustifica in quanto all'ente vengano riconosciute le fondamentali garanzie del diritto di difesa e della presunzione di non colpevolezza. ; XXI Ciclo ; 1978
The person belongs to an event that outlines the form of an instant here, now; where the metamorphosis of places and stories de-personalizes the place into an elsewhere and time fluidifies into an indeterminacy of ages and an ou-topical history, making the person linked to the finding of himself in what American poetry has identified as a haunted sky, I-divided, emphasis of command: the perception becomes, redemptively, generational palingenesis, unity of archetypal presence, but also inspiration to a collective call of disenchantment, to rediscover the traces of a pastoral sense of mystical awakening, possible in community catechesis of historical witness and belonging to a place declined to the present, where also memory, anthropological protection and ontological guarantee of the past, is a safeguard clause of the present. The author of this contribution (Bari, 1965) teaches in the Department of Political Science of the University of Bari, Philosophy of Peace and Legal Philosophies and Religions of the Middle and Far East. Since 2015 he has begun a way of poetic research, also bringing to lessons in his courses such itineraries and transits, characterizing the philosophical, epic, theological fields, and thus resuming the Italian tradition of the poem, which has allowed the author an expression at the same time of research and meditation, in order to combine narration and reflection, criticism and hermeneutics. ; La persona appartiene ad un evento che delinea la forma di un istante qui, ora; dove la metamorfosi dei luoghi e delle storie de-personalizza il luogo in un altrove e il tempo si fluidifica in una indeterminatezza di epoche e una storia ou-topica, rendendo la persona legata al ritrovamento di se stessa in quello che la poesia americana ha identificato come un cielo infestato, io-diviso, enfasi di comando: la percezione diventa, redentivamente, palingenesi generazionale, uni-tà di presenza archetipica, ma anche ispirazione ad un richiamo collettivo di disincanto, per riscoprire le tracce di un senso pastorale di risveglio mistico, possibile nella catechesi comunitaria di testimonianza storica e di appartenenza ad un luogo declinato al presente, dove anche la memoria, protezione antropologica e garanzia ontologica del passato, è clausola di salvaguardia del presente. L'autore di questo contributo (Bari, 1965) insegna nel Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università di Bari, Filosofia della pace e Filosofie giuridiche e religioni del Medio ed Estremo Oriente. Dal 2015 ha iniziato un percorso di ricerca poetica, portando anche a lezione nei suoi corsi tali itinerari e transiti, caratterizzanti l'ambito filosofico, epico, teologico, e riprendendo così la tradizione italiana del poema, che ha permesso all'autore un'espressione al tempo stesso di ricerca e meditazione, per coniugare narrazione e riflessione, critica ed ermeneutica.
2011/2012 ; L'obiettivo della tesi è di verificare quali siano le reali conseguenze economiche e sociali del fenomeno della pirateria marittima. Come è noto, da alcuni anni, l'attenzione di organizzazioni internazionali e nazionali si è appuntata sulla pirateria marittima, vista come una minaccia in grado di causare enormi danni economici e di sistema trasporto marittimo mondiale. Non si potrebbe altrimenti comprender il motivo per cui da alcuni anni, enormi spese sono state affrontate per contrastare tale minaccia. Ma sono tali spese giustificate? Sono la pirateria e il terrorismo marittimo, due minacce reali capaci di influire in modo determinante sul sistema commerciale mondiale? È quanto questa tesi ha cercato di appurare. È stato quindi esaminato il fenomeno nel suo sviluppo temporale; infatti il primo capitolo è stato dedicato alla storia ed evoluzione della pirateria. Al di là del semplice resoconto storico degli avvenimenti, si sono cercate di approfondire la ragioni e cause che ne hanno originato la nascita e lo sviluppo nei differenti contesti mondiali. Nata parallelamente al commercio marittimo, non si è tuttavia legata solo ed esclusivamente a questo come attività predatoria criminale, risultando anche un metodo che oggi chiameremmo di guerra asimmetrica sul mare. E' in Grecia,nel periodo successivo a quello di Omero che nasce la parola "peirates" per definire coloro che praticavanono questo tipo di attività predatoria, termine che ha costituito la base etimologica nelle varie lingue occidentali per indicare chi si dedica a tale attività, anche se all'epoca la sua accezione non era certamente spregiativa e denigratoria come l'attuale. Con l'epoca della Repubblica e dell'Impero di Roma, si cominciano a delineare quegli elementi che tendono a porre il pirata al di fuori di un contesto legale di guerra e a non porlo quindi sotto i vincoli che comunque la delimitano. Già da quest'epoca si comincia a rilevare come i fattori sociali, quali la povertà e l'indigenza, uniti alla capacità di andare per mare e di sfruttare la morfologia del terreno e le situazioni climatiche favorissero l'insorgere del fenomeno; così come si ebbe la possibilità di rilevare che, oltre una soglia di tolleranza, essa poteva cominciare a creare problemi economici e sociali; il saccheggio di numerose navi che trasportavano il grano per Roma, poteva causare una penuria di cibo con conseguenti moti e rivolte. La pirateria, che è fondamentalmente un'attività predatoria, costituisce uno strumento di guerra, anche economica, oltre che criminale, e in questo contesto è stato spesso usato dalla caduta dell'impero romano in avanti. La formazione dei regni pirateschi berberi nel Mediterraneo e la loro ricchezza, sono legati proprio all'attività piratesca, che veniva peraltro sfruttata come metodo di lotta fra le potenze cristiane e musulmane nel Mediterraneo; analogo strumento sarà usato, in particolare dalla Gran Bretagna nei confronti della Spagna, inaugurando quella che vien chiamata l'epoca d'oro della pirateria e che vede la nascita ufficiale della pirateria legalizzata, il "privateering", ossia quella svolta con l'autorizzazione e sotto l'egida della corona regnante che ne traeva dei vantaggi economici notevoli. Nè il fenomeno era presente nel solo mondo occidentale, in quanto anche nel mondo conosciuto orientale era presente, e in maniera notevole; al pari di quello occidentale numerosi sono stati i regni nati proprio da tale attività e che con tale attività hanno prosperato. Sempre a metà fra legalità e criminalità, man mano che si consolidavano i concetti della libera navigazione delle acque e del libero commercio,la pirateria cominciava a essere vista come un rischio e non più una opportunità, con uno sviluppo anche degli studi giuridici che ne delineavano l'aspetto criminale e la ponevano al di fuori di qualsiasi contesto di protezione legale affidando quindi a qualsiasi nazione il compito di combatterla. È da rilevare che nella sua forma legalizzata di privateering, la pirateria è sopravvissuta sino al 1856, allorquando fu abolita per trattato dalle potenze occidentali dell'epoca, e se vogliamo sino ai giorni nostri nella sua forma di guerra irregolare con le navi corsare tedesche durante la seconda guerra mondiale. Si è poi passati, nel successivo capitolo ad analizzare la pirateria nelle tre aree del mondo in cui si sviluppa il 75% di tale attività; l'Africa dell'Est e dell' Ovest e il Sud Est asiatico, con una particolare attenzione sui dati che costituiscono la base della nostra conoscenza del fenomeno della pirateria, dati che risultano molto incompleti e frammentari, considerata la volontarietà nel fornirli e i riflessi economici associati al fornire tali numeri. Piraterie dagli aspetti diversi che, in particolare lungo le coste Est dell'Africa, sollevano numerosi interrogativi se, storicamente, l'area della Somalia, da cui proviene quella che viene percepita come la maggiore minaccia al commercio marittimo, e di conseguenza all'economia mondiale, è stata indenne da tale attività. E infatti la pirateria somala, di gran lunga quella che si attaglia maggiormente al concetto giuridico di pirateria moderna così come delineato a seguito di un accordo internazionale del 1982 in quanto svolgentesi al di fuori delle acque territoriali e quindi nelle acque internazionali, è finalizzata, in maniera esclusiva, al pagamento di un riscatto monetario., al contrario di quella lungo le opposte sponde africane, quelle della costa Ovest, dove essa assume un carattere molto più predatorio e concentrato sulla nuova ricchezza di tale parte dell'Africa, in particolare della Nigeria: il petrolio. Nell'Asia del sud est, la pirateria, che potremmo definire endemica, e che ha un ruolo sociale molto diverso da quello occidentale, ha essenzialmente un ruolo predatorio in cui occasionalità e organizzazione si mischiano, e in cui anche il terrorismo, legato a fattori storici e di identificazione nazionale oltre che religiosi, trova una sua collocazione attraverso sovrapposizioni che spesso non consentono di individuare anche legalmente, oltre che ideologicamente, dove cominci l'attività di terrorismo e dove quella di pirateria. In Asia il contesto geografico, caratterizzato da isole, arcipelaghi , strettoie e punti di obbligato passaggio marittimo, hanno influito e modellato l'attività della pirateria, in quanto proprio attraverso tali acque transita una notevolissima e importante porzione del commercio mondiale, anche di materie energetiche. Nel terzo capitolo sono stati delineati gli aspetti giuridici che hanno consentito nel tempo, di arrivare alla definizione come oggi conosciuta di pirateria e di terrorismo marittimo, due concetti diversi giuridicamente e che hanno dovuto trovare diverse e successive vie giuridiche considerata la sensibilità dell'argomento che si ripercuote di fatto sule sovranità nazionali. Si è trattato altresì delle Armed robberies, ossia di quegli atti di pirateria che si svolgono all'interno delle acque territoriali e che quindi, pur ricalcando nella sostanza l'attività di pirateria che si svolge nelle acque internazionali, giuridicamente se ne distingue, e non poco, essendo affidata alla esclusiva competenza nazionale. Il quarto capitolo si è concentrato sugli attori della pirateria che rimangono, dopo aver esaminato i pirati, ossia gli imprenditori e i marinai e di come l''attività di pirateria influisca su di loro. È in questo capitolo che si evidenzia come la percezione della minaccia sia elevata e sicuramente non proporzionata alla minaccia stessa, causa la sempre maggiore interdipendenza fra i vari sistemi economici, la nuova catena di distribuzione logistica mondiale che tende ad abolire le ridondanze e ridurre i costi e di come la percezione abbia influito sulla realtà laddove si sono addebitate alla pirateria situazioni economiche che avevano altre spiegazioni, come lo spostamento di una parte del traffico commerciale marittimo su nuove rotte che vanno a coprire nuovi fabbisogni e necessità mondiali. Nell'ultimo capitolo è stata esaminata l'attività di contrasto posta in essere , sia a livello militare che politico, laddove si è evidenziato come spesso tale attività ingente e economicamente onerosa, soggiaccia spesso a interessi nazionali più che collettivi e di come l'attività raramente venga affrontata su un piano interconnesso e olistico. Nelle conclusioni si è dedicata qualche parola al nuovo fenomeno criminale mondiale, spesso sottostimato in quanto non conosciuto e relegato nella cosiddetta area degli esperti; quello informatico. L'obiettivo, come detto, è stato di fornire un quadro della pirateria a livello mondiale, suddiviso per aree, cercando di evidenziare le cause che hanno portato al sorgere della stessa ma sopratutto allo sviluppo. Lo sviluppo o decrescita improvvisa di una località può strettamente dipendere da questo fenomeno, come dimostra la situazione africana, dove lo sviluppo di numerosi porti, è derivato dalle attività di pirateria interessanti porti viciniori o investimenti enormi sono messi a rischio dalla possibilità che tali attività continuino, come potrebbe accadere per il nuovo porto di Lamu in Kenia, ove si riversano gli interessi di numerose nazioni di quella parte dell'Africa. ; XXIV Ciclo ; 1952
2008/2009 ; 1. Il mercato finanziario ed il risparmio costituiscono valori costituzionalmente significativi, data l'importanza che rivestono per il tessuto economico e finanziario di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata, come quella contemporanea, sempre più caratterizzata da un processo di finanziarizzazione della ricchezza. L'assetto normativo e regolamentare, che deve presiedere al funzionamento del mercato ed alla gestione del risparmio, è storicamente caratterizzato dal tentativo di ricercare un equilibrio tra due opposte esigenze: da una parte, quella di evitare il rischio di un'ipertrofia normativa e di un conseguente eccessivo soffocamento del mercato; dall'altra, quella di offrire ai risparmiatori un livello di protezione qualitativamente sufficiente per preservare la fiducia che gli stessi ripongono nell'integrità e nel corretto funzionamento del mercato stesso. Muovendo dalla consapevolezza che l'attività di intermediazione finanziaria deve essere promossa e valorizzata perché essenziale allo sviluppo di una moderna economia di mercato ma che, per la sua intrinseca fragilità e connaturata rischiosità, non può essere integralmente lasciata alla mercé delle dinamiche di quest'ultimo, necessitando invece di un intervento di eteroregolamentazione finalizzato alla protezione di interessi individuali e collettivi previamente selezionati. 2. A partire dagli anni novanta l'ordinamento dei mercati finanziari è stato interessato dal succedersi di vari interventi normativi, da ultimo quelli operati con le leggi n. 62 e n. 262 del 2005. Nel complesso, si è trattato di una produzione normativa tumultuosa e disorganica, sovente emanata sull'onda dell'emergenza per reagire ai ripetuti fenomeni di "abuso del risparmio e dei risparmiatori" che hanno duramente colpito la finanza italiana ed internazionale nell'ultimo decennio (si pensi, solo per citarne alcune, alle vicende Enron, Cirio, Parmalat, Giacomelli, Lehman Brothers ecc.). In questo frenetico ed estemporaneo procedere normativo, un ruolo di primo piano è stato svolto dal diritto penale, per la tendenza, ormai radicata, del legislatore nazionale di affidare la tutela del risparmio alla presunta forza deterrente della sanzione penale, spesso usata in chiave espressiva o simbolica, in una sorta di delega permanente conferita allo strumento penalistico a fungere da principale, se non spesso esclusivo, rimedio alla crisi del sistema finanziario ed ai fenomeni di dispersione della ricchezza. Si tratta, all'evidenza, di una visione miope e destinata all'insuccesso, prova ne siano i ripetuti tentativi di riforma occorsi nell'ultimo ventennio, dettati più dall'improvvisazione che da una logica di razionalità sistematica, tutti nel segno di un infittimento del corpo normativo e di una revisione al rialzo dei limiti edittali e tutti clamorosamente e prevedibilmente incapaci di impedire il verificarsi di casi di vero e proprio saccheggio e distruzione del risparmio gestito. La situazione è resa ancor più grave dal fatto che i tanti - troppi - fatti di dispersione della ricchezza dei risparmiatori non possono più essere considerati come scandali finanziari isolati, come semplici big apples, rappresentando, invece, l'espressione ed il risultato di una crisi di sistema che colpisce le fondamenta dell'ordinamento e della struttura finanziaria internazionale. Facendo apparire quanto mai illusoria l'idea di reagire affidandosi alle virtù salvifiche del mercato terapeuta di se stesso ed erronea la soluzione di continuare nel solco di un irrigidimento estemporaneo della normativa penalistica e della relativa cornice sanzionatoria, senza che ciò venga accompagnato da una diagnosi attenta ed analitica dei mali del sistema e da una ricognizione altrettanto puntuale dei rimedi da adottare. Quale, allora, la via d'uscita? 3. Quella di avviare, nell'immediato, un importante processo di riforma dell'ordinamento finanziario, facendolo precedere da una riflessione di fondo sul tipo di mercato finanziario che si intende prediligere: un mercato dove prevale, in termini assoluti e senza mediazioni, la necessità di una difesa del singolo risparmiatore, che si realizza garantendo un mercato contraddistinto da una tendenziale parità di condizioni tra gli investitori e da una tutela indistinta e piena delle funzioni di vigilanza, la quale verrebbe assicurata sanzionando le violazioni e le inosservanze a canoni positivi spesso solo formali od organizzatori? Oppure, un mercato inteso prioritariamente come luogo di libero scambio di informazioni e di capitali, che ha in sé e che vive e si nutre della speculazione, salvaguardandone nel contempo la fiducia, la trasparenza e l'integrità mediante la repressione di (e solo di) quei comportamenti di abuso che esauriscono il loro contenuto in una dimensione esclusivamente speculativa? L'attuale diritto del mercato finanziario risulta sostanzialmente conformato al primo dei due modelli sopra indicati: le regole sono spesso il frutto di interventi estemporanei e disorganici, dettate più dall'improvvisazione che da una logica di sistema, in ogni caso formalmente (ma con scarsa effettività pratica) finalizzate a reprimere - spesso stabilendo pene severe e con un uso frequente della strumentazione penalistica - quei comportamenti ritenuti lesivi della parità di condizioni tra gli investitori o di mera trasgressione a prescrizioni di natura prettamente formale ed organizzatoria. La realtà è dunque quella di un corpo normativo che, spesso in nome di un'eguaglianza fra gli investitori o di una simbolica ed eticheggiante difesa del risparmiatore, fa un uso massiccio della sanzione penale per reprimere comportamenti che, il più delle volte, si esauriscono in mere violazioni formali e di canoni organizzativi, esercitando una scarsa efficacia preventiva, com'è dimostrato dalla frequenza con cui si sono verificati, solo a guardare gli ultimi anni, scandali finanziari con gravi danni per i risparmiatori. E tutto questo viene realizzato avvalendosi (e piegando) il diritto penale ad un uso spesso simbolico, eticheggiante, puramente organizzatorio. 4. Si ritiene, invece, quanto mai necessario procedere verso un sistema normativo idoneo a perseguire il fine ultimo di ogni realtà giuridica posta a protezione del mercato finanziario: coniugare efficacemente l'esigenza che il Paese benefici di un mercato libero, non ingessato, capace di attrarre i capitali e gli investimenti a sostegno del circuito produttivo, con la necessità, altrettanto fondamentale, che di quel mercato venga garantito il buon funzionamento, la trasparenza dell'informazione che in esso circola e dunque, in ultima istanza, la fiducia dei risparmiatori. Allontanando ogni istanza egualitaristica ed accettando la speculazione come condizione di esistenza del mercato stesso. Inquadrato l'obiettivo - dovendosi ritenere ormai abbandonata l'idea del mercato quale esclusivo terapeuta di se stesso e presidio migliore della stabilità finanziaria - il suo conseguimento richiede un serio e ponderato processo di ristrutturazione delle regole del gioco poste a presidio del buon funzionamento e dell'integrità del mercato, muovendo lungo alcune direttrici di fondo. 5. Una prima linea guida è nel senso di un definitivo abbandono della strada dell'ipertrofia penalistica, lastricata di norme dalla scarsa effettività pratica e che spesso si esauriscono nel punire mere disfunzionalità organizzative, dando vita ad illeciti di pura disobbedienza in nome di un'idea di funzionalizzazione dell'attività d'impresa. Vi è, dunque, la contingente necessità di porre termine ad una stagione, durata oltre un ventennio, che ha visto la giustizia penale svolgere un ruolo di supplenza rispetto alle lacune dell'ordinamento societario, della giustizia civile, del modello di vigilanza sull'operato degli intermediari, alimentando sovente delle tensioni rispetto ai principi cardine del diritto penale - in primis quelli di frammentarietà, tassatività ed offensività. L'opera di rifacimento delle regole del gioco deve dunque tendere, anzitutto, a restituire al sistema penale degli intermediari finanziari i crismi dell'effettività dei precetti e della coerenza con i principi generali del diritto penale e, da ultimo, la capacità di concorrere efficacemente alla diffusione e al mantenimento di un nucleo condiviso e fondante di valori in materia di gestione del risparmio collettivo. Vanno dunque superati i tradizionali limiti che oggi affliggono il diritto penale del mercato finanziario: l'antisistematicità, vale a dire le disarmonie e le ingiustificate differenze di contenuto e sanzionatorie intercorrenti tra fattispecie relative a settori diversi del mercato finanziario, mediante la creazione di figure di reato omogenee e tendenzialmente comuni ai vari segmenti del risparmio gestito; la tensione con i principi di necessità e sussidiarietà della pena: la sanzione penale dovrebbe essere l'extrema ratio, l'ultima spiaggia cui ricorrere, mentre nel nostro Paese da tempo sembra che sia anche l'unica spiaggia su cui si gioca la difesa del risparmio e degli interessi ad esso strumentali; il basso livello di osservanza dei canoni di tassatività ed offensività, a causa della formulazione spesso vaga ed indefinita delle fattispecie incriminatrici, anche a causa di continui rinvii a qualificazioni extrapenali, e della tendenza ad arretrare la linea di tutela disancorandola da elementi di concreta lesività e costruendola più su finalità di promozione etica che su interessi giuridici aventi i crismi della materialità e dell'afferrabilità, propri dell'oggetto giuridico nella sua c.d. concezione realistica. Ciò che, però, condiziona a monte la riforma del sistema penale finanziario - e con essa la scelta di selezionare i comportamenti da reprimere penalmente – è l'interrogativo su quali siano o, meglio, dovrebbero essere gli interessi giuridici oggetto di tutela nel diritto penale finanziario. 5.1. Analizzando la fattispecie dell'insider trading, erroneamente considerata l'architrave portante del diritto penale degli intermediari finanziari, sono state esaminate le diverse correnti di pensiero che hanno trovato origine attorno al problema dell'individuazione degli interessi giuridici, meritevoli di tutela, nei quali si declina il bene o valore superiore e costituzionalmente rilevante del "risparmio": dall'istanza egualitaristica della parità conoscitiva tra gli investitori al dovere di riservatezza facente capo agli esponenti aziendali delle società emittenti; dalla tutela della trasparenza informativa all'opinione, oggi prevalente, che identifica l'interesse tutelato - forse in parte confondendolo con la ratio puniendi - riassumendolo nella formula nota, ma vaga ed indeterminata, del "buon funzionamento, dell'integrità e dell'efficienza del mercato". E' fuor di dubbio che l'eguaglianza informativa, la trasparenza, la liquidità, la stabilità degli intermediari, l'efficienza ed il buon funzionamento del mercato finanziario rappresentano valori ed ideali da perseguire e difendere, ma essi si sostanziano in obiettivi etico-moralistici ed in valori macroeconomici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena e quindi assurgere al rango di effettivi beni giuridici di una fattispecie di reato. A patto, dunque, di non voler aderire alla tesi che qualifica la norma penale sull'i.t., al pari anche di altre norme del diritto penale finanziario, come "norme manifesto" - che stabiliscono divieti al solo fine di convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito e trasparente, assolvendo dunque ad una funzione di promozione etica del mercato, invero estranea al diritto penale -, non resta che ricercare aliunde il bene protetto da assurgere ad oggettività giuridica del sottosistema del diritto penale degli intermediari finanziari. 5.2. Un primo elemento su cui costruire le fondamenta di un valido percorso argomentativo è l'osservazione secondo cui il mercato finanziario, alla stessa stregua di altri interessi o valori di ampio respiro quali l'economia o il territorio o l'ambiente, non è oggetto di tutela ma oggetto di disciplina. L'affermazione sta a significare che il mercato finanziario è un luogo nel quale convergono interessi di varia natura, individuali e collettivi, tra loro talora convergenti, talaltra contrastanti: gli interessi delle imprese, dei piccoli risparmiatori, degli operatori od investitori professionali, ma anche l'interesse collettivo alla tutela del risparmio che rappresenta una risorsa indispensabile per lo sviluppo del Paese. La struttura funzionale del mercato, per definizione basata sullo scambio ed avente come sua componente ineliminabile il fattore "rischio" e la correlativa dimensione speculativa, non è in grado a priori di regolare la coesistenza, il bilanciamento o la prevalenza dei vari interessi che vi si rappresentano. Di qui, la necessità che il legislatore stabilisca delle regole volte a disciplinare il funzionamento del mercato sotto vari profili: accessibilità degli operatori ed intermediari, negoziabilità dei prodotti, organizzazione delle contrattazioni, circolazione dei flussi informativi ecc… Ecco, allora, che se il mercato è oggetto di una disciplina che ne regolamenta l'uso ed il funzionamento, dettando delle regole del gioco, il diritto penale del mercato finanziario altro non è che la sanzione della violazione delle "regole del gioco". 5.3. Il secondo passaggio del ragionamento, consequenziale al primo, consiste allora nel comprendere quali regole del gioco, tra le tante che compongono la disciplina positiva del mercato finanziario, possano o necessitano di essere presidiate anche da una sanzione penale e quali, invece, possano e debbano beneficiare solo di tutele extrapenali per l'impossibilità di rinvenire delle oggettività giuridiche ad esse sottostanti, meritevoli di ricevere una copertura penalistica. Risulta a questo punto evidente che l'unico criterio capace di fondare validamente una selezione di tal fatta è rappresentato dall'esistenza di un interesse giuridico meritevole di tutela penale, vale a dire di un bene che abbia un contenuto valoristico autonomo e che non si confonda nei valori generali ed etici più volti menzionati, né tanto meno nello scopo della norma, e che presenti quelle caratteristiche di afferrabilità e consolidamento sociale tali da poterne apprezzare la fondazione materiale. 5.4. Ad avviso di alcuni commentatori ed anche di chi scrive, l'interesse giuridico che qualifica (o che dovrebbe qualificare) l'intero settore del diritto penale degli intermediari finanziari, rappresentandone il vero fulcro normativo, è dato dalla relazione tra la tutela dell'interesse ad una corretta allocazione del risparmio e la tutela delle funzioni delle autorità di vigilanza. Più precisamente: la funzione di vigilanza e di controllo del mercato, svolta da varie autorità nei diversi segmenti ma concettualmente riconducibile ad unità, è l'elemento specializzante e coessenziale del diritto penale finanziario. Ciò posto, l'intervento di penalizzazione è legittimo solo laddove la tutela delle funzioni di vigilanza è strumentale all'osservanza di quelle regole del gioco poste a protezione delle esigenze nelle quali si estrinseca la tutela del risparmio e dei valori ad esso connessi e consequenziali: l'interesse privatistico del risparmiatore ad una corretta allocazione del risparmio e l'interesse pubblico alla stabilità e protezione del mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo che ne possano compromettere la funzione di insostituibile fattore di produzione e sviluppo quali, ad esempio ed in primis, il riciclaggio di danaro di provenienza illecita. L'epicentro del diritto punitivo degli intermediari finanziari è pertanto rappresentato dalle funzioni di vigilanza e dalla tutela delle stesse. Vi è dunque una relazione strettissima tra le disfunzioni della vigilanza e l'instabilità del mercato, a conferma che la tutela del risparmio filtra e passa attraverso la tutela della vigilanza. Il risparmio, dunque, anche quando non viene direttamente ed immediatamente raggiunto dall'offesa racchiusa nel fatto incriminato, costituisce pur sempre la "fonte di legittimazione sostanziale" dell'avanzamento dell'intervento penale verso le "strutture" e le "funzioni" della vigilanza. La tutela del valore costituzionale del risparmio permette, dunque, al modello di anticipazione della tutela sul piano delle funzioni di vigilanza di superare indenne il giudizio di bilanciamento: posto a confronto con il risparmio, il principio di offensività deve cedere le posizioni necessarie per realizzare una tutela del primo che sia razionale ed efficace. Si ritiene pertanto non azzardato affermare che la tutela delle funzioni di vigilanza rappresenta o, meglio, dovrebbe rappresentare, l'oggetto giuridico dell'intero micro-sistema del diritto penale finanziario. Salvo poi far assumere alla stessa un sostrato materiale più concreto ed una più evidente afferrabilità sociale laddove essa è destinata ad operare, vuoi nella tutela dell'interesse privatistico alla corretta e conforme allocazione del risparmio, vuoi nella tutela dell'interesse pubblicistico alla difesa del mercato da fenomeni di criminalità organizzata o, comunque, da pratiche manipolatorie che ne distorcono i meccanismi di funzionamento. Un'impostazione, quella sopra esposta, estranea agli schemi del diritto penale classico, per cui l'oggetto giuridico è sempre identificato in beni socialmente riconosciuti e coincidenti con interessi individuali della persona. Si tratta, tuttavia, di un'opzione valida sotto il profilo sistematico ed assiologico, atteso che il diritto penale moderno è da tempo attraversato da un processo di smaterializzazione dell'oggetto giuridico e dalla contemporanea utilizzazione della strumentazione penalistica per la tutela della funzionalità dei meccanismi di intervento dello Stato e della pubblica amministrazione in diversi campi, per lo più in quelli condizionati dall'evoluzione tecnologica e degli assetti sociali e caratterizzati dalla presenza di interessi adespoti e collettivi: la salute, l'ambiente, senza dubbio l'economia, la finanza ed il risparmio. E' indubbio, da un lato, che la tutela (anche penale) delle funzioni di vigilanza è condizione indispensabile ed irrinunciabile per assicurare una protezione efficace del mercato finanziario e del risparmio e, dall'altro, che le tradizionali forme di tutela del patrimonio si rivelano, all'evidenza, insufficienti allo scopo. Ma, d'altro canto, è parimenti vero che non è accettabile quella fuga dalla concezione realistica del bene giuridico (e dalla sua insopprimibile funzione di limite al legislatore), che si è ormai sovente verificata ogni qualvolta sono state coniate delle figure di reato nelle quali si punisce la mera inosservanza di norme di organizzazione e non di fatti socialmente dannosi, scambiando gli oggetti di tutela penale con le rationes di tutela, il tutto in nome di esigenze di controllo efficientista del sistema. E' innegabile che il diritto penale svolge un ruolo di coesione e di credibilità dell'ordinamento giuridico nel suo complesso e che di esso si tende spesso a fare un uso c.d. "interventista" e "simbolico", caricandolo di un compito di profilassi della società e di una funzione di rassicurazione sull'efficienza e moralità del sistema normato. Questo è accaduto anche e soprattutto nel campo dei reati economici ed in materia di tutela del risparmio e del mercato. In sé, quella di assumere ad oggetto di tutela penale un'attività o funzione giuridicamente autorizzata - nella fattispecie la funzione di vigilanza - è una scelta necessitata, se si vuole assegnare una protezione efficace a beni di interesse collettivo, ma al tempo stesso compatibile con i canoni del diritto penale, a patto che si tratti di attività giuridicamente regolate dietro la cui lesione o messa in pericolo sia possibile cogliere ed afferrare la dimensione sociale e materiale dell'interesse tutelato e la concretizzazione dell'offesa ad esso arrecata. Declinando l'assunto, in tanto la tutela penale delle funzioni di vigilanza del mercato è compatibile con la concezione realistica del bene giuridico solo in quanto la sfera repressiva riguardi esclusivamente comportamenti che siano materialmente afferrabili e di cui si possa cogliere la dannosità sociale: ciò che, ad avviso di chi scrive, si verifica allorché la violazione delle regole del gioco si traduca in una situazione di danno o di pericolo per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione del risparmio e per l'interesse pubblico alla protezione del mercato da fattori esterni di pregiudizio. In difetto di queste condizioni, l'intervento penale si espone al rischio di creare illeciti di pura trasgressione, di tutelare non vittime ma meri obiettivi di organizzazione od istanze socio-politiche di eticità ed efficienza del sistema, addivenendo, per questa strada, alla costruzione di un assetto normativo compatibile con una concezione c.d. metodologica del bene giuridico, vanificando così le garanzie formali e sostanziali proprie della concezione realistica ed affidando alla norma penale una funzione meramente sanzionatoria, destinata, non a punire comportamenti di danno o di pericolo, bensì a rafforzare, col deterrente penale, una disciplina preventiva e di organizzazione già strutturata dal diritto privato o dal diritto amministrativo. 5.5. Tanto premesso, occorre ritornare alla questione posta, osisa quella di identificare, alla luce dell'oggettività giuridica sopra configurata, quali "regole del gioco", facenti parte della disciplina del mercato finanziario, debbano essere presidiate da una sanzione penale. In questo senso può aiutare la suddivisione operata dal Padovani tra regole poste a garanzia della neutralità del mercato finanziario e regole poste a tutela della identità del medesimo: il primo gruppo di regole è costituito da presidi organizzativi e da tecniche operative volte a delimitare il perimetro del gioco, affinché il mercato si ponga come strumento neutrale rispetto a tutti gli attori interessati e determini, per questi, pari opportunità e condizione di partenza (si pensi alle regole che disciplinano l'accesso degli intermediari a certi ambiti di operatività, alle autorizzazioni alla prestazione di certi servizi o, ancora, alle norme che prescrivono limiti nella gestione degli investimenti, a quelle che sanzionano il mancato o non corretto invio delle segnalazioni di vigilanza ecc); il secondo gruppo di regole è funzionale ad assicurare l'identità del gioco stesso, ossia a garantire che questo non sia truccato, cioè a dire contaminato da forme e comportamenti di abuso che possono determinare un'indiscriminata ed ingiustificata distribuzione del rischio tra gli operatori (vi rientrano il comportamento penalmente sanzionato di chi manipola il mercato diffondendo notizie false su determinati strumenti finanziari, il fenomeno del riciclaggio nel mercato di danaro di provenienza illecita, per molti Autori anche la condotta di insider trading). L'opinione largamente dominante tra gli studiosi del diritto penale è quella per cui ambedue i gruppi di regole sopra menzionati meritano di essere assistiti da un presidio penale. Ciò, anzitutto, sotto il profilo della proporzione in quanto, se è pur vero che queste regole realizzano, per lo più, una tutela anticipata rispetto alla possibile produzione dell'evento lesivo, è anche vero che esse dispiegano la loro utilità proprio nel pervenire ad una neutralizzazione tempestiva dei possibili effetti dannosi e pregiudizievoli di una determinata condotta. Secondariamente, il giudizio di favor trova poi conferma anche sul fronte della sussidiarietà od extrema ratio, in considerazione della mancanza di valide alternative sanzionatorie, adducendo la necessità di una tutela preventiva e forte a difesa del buon funzionamento, dell'efficienza e dell'integrità del mercato, che solo il deterrente penalistico è in grado di offrire. 5.6. Si ritiene di discostarsi in parte dalla soluzione generalmente condivisa e di proporre una riforma del diritto penale finanziario che, muovendo da una ricostruzione dell'oggettività giuridica e recuperando una dimensione rafforzata dei canoni di proporzione, sussidiarietà e tassatività, pervenga ad un assetto regolamentare ispirato alle seguenti linee guida: - il ricorso alla sanzione penale solo come presidio alla violazione delle regole poste a tutela della c.d. identità del gioco, preferendo mezzi sanzionatori alternativi con riferimento all'inosservanza delle regole poste a tutela della c.d. neutralità del mercato; per queste ultime, infatti, la sanzione penale è sproporzionata e priva di una reale efficacia deterrente, venendo a configurarsi illeciti penali di stampo meramente organizzatorio, che si sostanziano in una tutela eccessivamente anticipata rispetto alla possibile lesione dell'interesse privatistico alla corretta allocazione del risparmio. E' indubbio che l'accertamento della violazione di queste regole dipende dal corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti agli organi di controllo e vigilanza, di tal guisa che, con la sanzione criminale, si vuole che anche la possibilità di accertamento risulti anticipata rispetto ad ogni eventuale futuro evento lesivo. Ma, così ragionando, si arriva a piegare lo strumento penale ad una funzione, per così dire, sostitutiva della tempestività dell'esercizio delle funzioni di vigilanza: altrimenti detta, si rafforza la (supposta) funzione specialpreventiva della pena per compensare le lacune ed i ritardi di un sistema di vigilanza sull'operato degli intermediari. Siffatto modus operandi si rivela, prima di tutto, inutile perché non perviene ad alcun risultato sul terreno della prevenzione, che richiede per contro di rivedere il modello di vigilanza prefigurando meccanismi di costante dialogo tra gli organismi di controllo e i soggetti vigilati, così da favorire una sorta di accompagnamento dei secondi ad opera dei primi, condizione indefettibile per garantire la neutralità del mercato finanziario rispetto agli interessi in gioco, Dall'altro, si dimostra in contrasto con i principi di offensività, proporzionalità e sussidiarietà, atteso che si tratta di fattispecie formali od organizzatorie rispetto alle quali non è dato rintracciare un oggetto giuridico consolidato ed afferrabile e che, in più, esprimono un grado di lesività tale da giustificare il ricorso alla meno severa e più duttile sanzione amministrativa. - l'introduzione di una nuova fattispecie di infedeltà patrimoniale, la cui mancanza nel vigente ordinamento è il riflesso di un evidente stato di contraddizione, incoerenza e lacunosità dell'attuale assetto del sistema penale finanziario, posto che oggi si sanzionano, con pene anche gravi, comportamenti che violano mere regole di organizzazione spesso prive di un'effettiva carica offensiva, oppure si promuovono crociate verso fenomeni la cui lesività è tutta da dimostrare (il riferimento è all'insider trading), nel mentre manca una fattispecie ad hoc idonea ad incriminare quella variegata e complessa serie di comportamenti con cui, sempre più diffusamente, gli emittenti o gli intermediari/gestori realizzano vere e proprie forme di abuso a danno dei risparmiatori. Si è detto che il nucleo centrale della tutela penale del mercato finanziario è rappresentato, oltre che dall'interesse pubblicistico di difendere il mercato da fenomeni criminali provenienti da fattori esterni, dall'interesse del singolo risparmiatore/investitore ad un'allocazione e gestione del proprio risparmio fedele al mandato fiduciario conferito, alle disposizioni di legge e ai principi di prudenza, stabilità ed integrità patrimoniale e buona fede. Non potendo applicare lo statuto penale della pubblica amministrazione alle banche, e tanto meno ad altri intermediari, non resterebbe che ricondurre quei comportamenti ai paradigmi della truffa ex art. 640 c.p. e dell'appropriazione indebita ex art. 646 c.p., con tutti i limiti che ne derivano, trattandosi di figure generaliste e spesso inadatte a dare copertura a fatti molto specifici e dal complesso tecnicismo. S'impone, a questo punto, la necessità, già espressa dal Pedrazzi, di introdurre nell'ordinamento la figura autonoma del reato di infedeltà patrimoniale, capace di reprimere, non solo quei comportamenti nei quali è evidente l'appropriazione di un vantaggio patrimoniale a danno di un terzo, ma anche quelle condotte caratterizzate da una connotazione in termini di rischio eccessivo od anomalo dell'operazione perfezionata, oltre i limiti del mandato fiduciario ovvero per gestione infedele o in conflitto di interessi. - la configurazione di una soluzione ad hoc per il fenomeno dell'insider trading che, nonostante si possa ascrivere al gruppo di regole poste a presidio della c.d. identità del mercato, si ritiene necessiti di essere depenalizzato in difetto di un solido fondamento socio-economico sottostante all'attuale divieto, prevedendo, per converso, l'adozione di presidi infrasocietari nell'ambito del rapporto privatistico insider/emittente. 6. Al di là delle divisioni che emergono dal dibattito sull'individuazione dell'interesse giuridico protetto dalla fattispecie di incriminazione dell'insider trading, si registra un generale favor per l'opzione penale, sostenendo che il rango dell'interesse da proteggere e la gravità dell'offesa giustificano l'impiego dello strumento penalistico alla luce dei due criteri che devono guidare la scelta della sanzione penale: la proporzionalità e la sussidiarietà. 6.1. Si ritiene di dissentire dall'opinione comune, prima di tutto per la mancanza del connotato della dannosità sociale del fenomeno, capisaldo del garantismo illuminista che esprime l'istanza per cui la legge penale deve punire solo quei comportamenti che effettivamente turbino le condizioni di una pacifica coesistenza e che siano avvertiti dalla collettività come generatori di danni ad interessi significativi e meritevoli di protezione. Anche se ad avviso dei più è dato registrare, oggi, un consenso sociale sulla repressione della pratica de qua, si ritiene quanto meno legittimo porre in dubbio che il fenomeno dell'insider trading sia davvero sentito come socialmente dannoso dalla generalità dei consociati. Basti porre mente al fatto che la diffusione della pratica dell'i.t. nei mercati finanziari non sembra avere affatto minato la fiducia degli investitori, se si guarda all'evoluzione che ha caratterizzato i mercati azionari nell'ultimo ventennio. Si è, invece, dell'opinione che la società avverta fortemente la necessità di colmare il vuoto di tutela che esiste avverso quelle forme di indebita sottrazione e sperpero della ricchezza risparmiata, poste in essere da intermediari ed operatori che agiscono secondo logiche poco trasparenti e permeate da situazioni di conflitto di interesse, mentre non appare per nulla diffusa nell'opinione pubblica la convinzione circa l'immoralità della pratica di insider trading, di cui spesso non si conosce neppure il significato. 6.2. Ritornando sulla vexata quaestio della ricerca del bene giuridico offeso dall'i.t., si è detto che l'opinione dominante fra gli interpreti, sostenuta dai Considerando del legislatore comunitario e dalle dichiarazioni di intenti di quello nazionale, è nel senso di qualificare l'insider trading alla stregua di un reato plurioffensivo, lesivo di interessi generali dell'economia quali la fiducia degli investitori, il buon funzionamento e l'efficienza del mercato, la trasparenza, la potenziale parità di condizioni tra gli investitori ecc… I commentatori si dividono dando prevalenza ora all'uno ora all'altro dei valori testé menzionati, ma le loro posizioni convergono nel ritenere che l'interesse da difendere non vada ricercato nella sfera privatistica della società emittente o del privato controparte dell'insider, quanto in un interesse generale e collettivo, adespota, riferibile alla regolarità del mercato mobiliare nel suo insieme, declinata talora in termini di efficienza, liquidità e buon funzionamento, talaltra in termini di parità di condizioni, ovvero ancora adducendo la lealtà e l'eticità delle contrattazioni e l'immagine di un mercato pulito e trasparente quale stimolo agli investimenti. La sussistenza di un interesse generale di ampia e significativa portata e di rilievo costituzionale, unitamente alla riconosciuta inefficacia delle sanzioni extrapenali, conduce dunque la maggioranza degli interpreti a ritenere che la scelta repressiva dell'i.t. è coerente con i canoni di proporzione e sussidiarietà: se in forza dell'art. 47 Cost., la Repubblica incoraggia il risparmio, l'insider trading lo scoraggia, frustrando l'aspettativa dei risparmiatori ad un comportamento leale e trasparente degli operatori. 6.3. La tesi sopra esposta, nonostante incontri il sostegno del pensiero dominante tra gli interpreti e della volontà della maggior parte dei legislatori europei e non, risulta per una serie di argomentazioni poco convincente ed in parte anche incoerente con il sistema. In primo luogo, occorre ricordare che il fondamento economico del divieto di i.t. è tutt'altro che dimostrato. L'analisi delle diverse scuole di pensiero, riportata nel capitolo che precede, rende alquanto evidente la mancanza di un chiaro fondamento politico e socio-economico del divieto o della liceità dell'insider trading. La legislazione penale sull'i.t. sembra quasi assumere un connotato di autoreferenzialità e di status symbol: punisce il fenomeno perché rappresenta una pratica costante e diffusa nei mercati finanziari, perché è sanzionata nella maggior parte dei paesi, perché così facendo il legislatore è messo nelle condizioni di reagire ai ripetuti scandali finanziari e lanciare un messaggio forte sulla pulizia e moralità del mercato, veicolate attraverso le etichette del buon funzionamento, della trasparenza e dell'efficienza del mercato stesso. Certo è che si tratta di espressioni generiche e tautologiche che non possono rappresentare la motivazione sociale ed economica della scelta punitiva. Un punto fermo dell'indagine è quello per cui l'informazione rappresenta una componente essenziale per l'efficienza del mercato: maggiore è la quantità e la qualità dell'informazione disponibile, più il mercato si caratterizza per una facile convertibilità dei titoli negoziati, e più le quotazioni di questi ultimi ne rapprentano il reale valore intrinseco, sicché il giudizio di ammissione o di riprovevolezza del comportamento dell'insider dipende dalla verifica se lo sfruttamento di notizie riservate contribuisce o meno all'efficienza del mercato, se accresce o pregiudica l'efficienza informativa del mercato. Sul punto non vi sono chiare evidenze scientifiche sul fatto che l'uso di informazioni riservate pregiudichi la trasparenza del mercato, impedendogli di perseguire l'efficienza informativa. Un secondo motivo di riflessione è che la scelta di reprimere il fenomeno dell'i.t. non può addivenire al risultato di ingessare il mercato privandolo del contributo essenziale dato, alla propria efficienza informativa, dall'attività di ricerca, studio ed analisi. Se, come si ritiene, si deve privilegiare una concezione del mercato come luogo la cui funzione principale è quella di elaborare e produrre informazioni che si riflettano sul meccanismo di determinazione dei prezzi per favorire, in ultima istanza, l'investimento del risparmio nel capitale delle imprese, ne consegue che va incoraggiato il lavoro degli analisti che producono e divulgano informazioni, anche consentendo loro di sfruttare economicamente dette informazioni perché altrimenti verrebbe a mancare lo stimolo alla ricerca, all'analisi ed alla diffusione delle stesse. L'attività di produzione, diffusione e sfruttamento delle informazioni va difesa ed incentivata rappresentando l'ossatura del mercato finanziario, che deve pertanto rifuggire da ogni mozione di livellamento informativo e di concorrenza perfetta tra gli investitori propria del market egualitarism, riconoscendo invece che la speculazione - intesa come ricerca di un profitto eccedente quello medio di mercato - è la caratteristica saliente ed ineliminabile di ogni sistema finanziario basato su un'economia di scambio. 6.4. Resta, sullo sfondo, l'unico possibile profilo di criticità che si ritiene possa anche esaurire un'eventuale ragione incriminatrice: è giusto riconoscere il diritto di sfruttare economicamente le price sensitive anche a coloro che non hanno contribuito alla loro produzione ed analisi, ma che ne sono venuti a conoscenza in modo occasionale ed estemporaneo, in virtù della carica societaria ricoperta all'interno della società emittente? La logica, prima che il diritto, ci porta ad affermare che il possessore di informazioni privilegiate ha il diritto di utilizzarle se, per ottenerle, ha sopportato un costo di produzione tanto da esserne divenuto proprietario (è il caso degli analisti finanziari), mentre i managers e gli altri insiders aziendali non possono considerarsi acquirenti dell'informazione essendone entrati in possesso in modo del tutto casuale ed in virtù della sola carica ricoperta. Di qui la conclusione per cui l'obiettivo di una regolamentazione anti insider trading (a livello non solo penale) deve essere il contenimento e il contrasto di quelle forme di speculazione abusiva originate dall'approfittamento di una situazione di superiorità informativa, che ricorrono nel solo caso in cui l'informazione riservata sia stata acquisita senza sostenere alcun costo e solo attraverso un collegamento privilegiato con la società emittente. Resta tuttavia l'interrogativo di fondo se lo strumento, per così dire di contenimento e di contrasto a pratiche di siffatta natura, debba essere rappresentato dalla sanzione penale. Il quesito merita una risposta negativa, per una ragione prima fra tutte: l'impiego della strumentazione penalistica deve escludersi ogni qual volta il divieto non presenti un chiaro ed evidente fondamento economico e faccia difetto l'esistenza di un determinato ed afferrabile oggetto giuridico. Non solo, infatti, il divieto di i.t. non è sorretto da una lucida motivazione economica, anche per la debole confutazione che si è fatta degli argomenti che sostengono gli effetti benefici dell'i.t. sul mercato, ma nella fattispecie incriminatrice non è dato neppure rintracciare un bene giuridico materialmente afferrabile e socialmente consolidato. Non è un caso che, nelle intenzioni del legislatore, il divieto di i.t. miri a sanzionare il comportamento ritenuto immorale di chi lo tiene (unfairness), allo scopo di rassicurare gli investitori sulla eticità e correttezza delle contrattazioni di borsa ed incoraggiarli così ad operare. Salvo poi chiamare in causa, nel tentativo di conferire un'oggettività giuridica ad una scelta incriminatrice decisa a priori prescindendo da essa e per obiettivi che attengono al piano dell'etica e della moralità, interessi generali connessi al buon funzionamento ed all'efficienza del mercato, alla sua trasparenza, alla parità di condizioni tra gli investitori che, pur rappresentando valori positivi da promuovere e da difendere, restano pur sempre obiettivi etico-moralistici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena. 6.5. Ritornando all'impostazione concettuale da cui siamo partiti, si è detto, in chiave riformatrice, che la struttura del sistema penale degli intermediari finanziari dovrebbe essere rappresentata dalla tutela delle funzioni di vigilanza, limitando tuttavia il ricorso alla sanzione penale ai casi in cui detta tutela è prodromica a difendere, o l'interesse del risparmiatore ad una corretta allocazione delle risorse patrimoniali affidate in gestione, o l'interesse pubblico a proteggere il mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo ed alterazione. Il fenomeno dell'i.t. non si pone in relazione di danno o di pericolo con nessuno dei due interessi succitati. Non con l'interesse pubblicistico atteso che, a differenza del riciclaggio e dell'aggiotaggio, dell'i.t. non è stata affatto provata la sua dannosità per il mercato, se non adducendo motivazioni di ordine etico e morale che tuttavia, quando rappresentano il solo fondamento del divieto, piegano il diritto penale ad una funzione simbolica, pedagogica ed eticheggiante, estranea alla cornice costituzionale dell'ordinamento. Tanto che la vigente norma penale di incriminazione dell'i.t. è stata qualificata da alcuni esponenti della dottrina come una "norma manifesto", che vieta perché deve convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito, trasparente, è un luogo in cui le contrattazioni avvengono lealmente. Si dirà di più. Con la riforma del 2005 il legislatore, se per un verso si è spinto fino a prevedere una sanzione draconiana per il fatto di i.t., per altro verso è pervenuto alla decisione di depenalizzare i fatti di i.t. compiuti dai c.d. insiders secondari. Ma se l'obiettivo di fondo è quello di difendere l'integrità, l'efficienza e il buon funzionamento del mercato finanziario e la fiducia dei risparmiatori, perché depenalizzare dei fatti comunque muniti - se ci si pone nell'ottica, non condivisa da chi scrive, del legislatore - di quelle potenzialità aggressive tali da meritare comunque una risposta sanzionatoria penale? La depenalizzazione di siffatta forma di insider trading (c.d. tippee e tuyautage trading) è infatti sufficiente ad ingenerare il dubbio su quale sia l'oggetto giuridico che il legislatore intende tutelare: va sempre ravvisato nella trasparenza, nell'efficienza e nel corretto funzionamento del mercato finanziario e nella fiducia degli investitori sull'integrità del medesimo (ma se così fosse, non si coglie il perché della non punibilità di chi, assunte informazioni privilegiate da soggetti qualificati, le diffonde e le usa a proprio profitto: condotta, questa, al pari delle altre, capace di pregiudicare il bene ultimo della trasparenza e integrità del mercato), oppure - più modestamente - la volontà legislativa è quella di punire chi è tenuto a doveri fiduciari di riservatezza per la posizione ed il ruolo qualificato rivestito all'interno (o nei confronti) della società emittente? Si ritiene meritevole di accoglimento la seconda ipotesi. La parziale abolitio criminis realizzata sul previgente art. 180 D.lgs. n. 58/1998 ha comportato un parziale mutamento dell'interesse tutelato dalla fattispecie in esame, perché, riducendo l'ambito di rilevanza penale della fattispecie - ossia abolendo l'ipotesi del c.d. tippee trading -, ha ridisegnato i contenuti dell'interesse tutelato, identificandolo più nella lesione di un interesse privatistico rappresentato dall'inosservanza di un dovere fiduciario tra l'insider e la società emittente, piuttosto che nella difesa di un interesse pubblicistico - in ogni caso a parere di chi scrive poco afferrabile - costituito dall'integrità dei mercati e dalla fiducia degli investitori, istituzionali e non. Ma se così è, ci sembra del tutto sproporzionato, oltre che in spregio al canone di sussidiarietà, il ricorso alla sanzione penale. 6.6. Del pari, non sembra condivisibile l'assunto secondo cui l'i.t. rappresenterebbe unaa minaccia per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione dei propri investimenti, giustificando il ricorso alla sanzione penale in ragione della lesione che il fenomeno de quo arrecherebbe al patrimonio conoscitivo dell'investitore. Il mercato finanziario è senza dubbio un luogo giuridico che va regolamentato e dove l'informazione esercita un ruolo fondamentale. L'efficienza allocativa del mercato presuppone la sua efficienza informativa. Quest'ultima richiede che gli investitori possano poter contare sulla massima quantità possibile di informazioni, che queste vengano diffuse e fatte circolare nella maggiore quantità e con la maggiore tempestività possibili. Il mercato finanziario è profondamente influenzato dalle informazioni e dal sentiment sui più svariati temi macro e micro economici, relativi al sistema Paese come alla singola società emittente, capaci di incidere ed impattare sull'andamento borsistico di un determinato titolo. E questo perché l'investimento nel mercato finanziario è sostanzialmente speculazione e - per citare Keynes nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta - "la speculazione è la capacità di scoprire cosa l'opinione media ritiene che l'opinione media sia". I canali attraverso i quali l'informazione viene reperita, elaborata, creata, analizzata e poi diffusa, sono tanti e diversi, la loro efficacia è legata a così tante variabili - costi di investimento sostenuti per l'attività di ricerca e studio, capacità di analisi ecc. - che il configurarsi di situazioni di vantaggio o svantaggio informativo è condizione fisiologica propria del mercato e della sua dimensione speculativa e competitiva, tanto da rifiutare ogni logica propria della teoria del c.d. market egualitarism. Nel caso dell'insider trading, come detto, la sola nota di criticità che può legittimare un intervento sanzionatorio è data dall'ipotesi in cui il vantaggio informativo viene conseguito sfruttando, abusando della posizione fiduciaria rivestita in seno alla società emittente e, quindi, senza sostenere i costi correlati all'acquisizione o alla produzione dell'informazione. In tale ipotesi, l'asimmetria informativa non è il risultato dell'opera di ricerca di un analista, ma di una forma vera e propria di abuso funzionale ad una successiva speculazione, non compensata da un investimento iniziale. Appare pertanto corretta la distinzione tra informazioni ottenute sostenendo costi di investimento ed informazioni conseguite a costo zero in virtù di una rendita di posizione: le prime devono essere sottratte all'obbligo di disclosure; per le seconde è corretto stabilire un divieto di utilizzo perchè, se utilizzate e sfruttate, realizzerebbero una ripartizione dei costi economicamente inefficiente, favorendo lo speculatore, a discapito di chi l'informazione l'ha prodotta. Ora, se non si può non convenire sul fatto che le informazioni del secondo tipo non possano essere utilizzate e che dunque debbano essere eliminate o neutralizzate le asimmetrie informative che non sono espressione di un'attività di ricerca e di investimento, si è per contro scettici sull'utilità del ricorso alla sanzione penale per perseguire tale obiettivo. Un punto fermo del percorso logico-argomentativo che si intende sviluppare è il seguente: scevri dalle enunciazioni di principio a sfondo etico-moralistico, il solo ed unico schema economico cui poter ricondurre il divieto di i.t. è quello dell'asimmetria informativa e degli effetti che la stessa - nell'ipotesi in cui sia il risultato di una speculazione abusiva e non di un investimento - può produrre sul piano allocativo e distributivo delle risorse. Gli effetti distorsivi generabili da un dislivello informativo, frutto di una condotta di abuso di posizione, sono sostanzialmente due. Da una parte, quello che porta i risparmiatori/investitori a richiedere un rendimento più elevato a fronte di un rischio che aumenta oltre la normale alea dell'investimento, appunto in ragione della presenza di un fattore estraneo allo stesso rappresentato dall'esistenza di una superiorità informativa, dall'agire di operatori insider. Dall'altra, quello per cui la pratica di insider trading è un modo per estrarre benefici privati sfruttando informazioni di proprietà della società emittente, fenomeno tanto più negativamente impattante sull'immagine del mercato quanto più questo sia composto da società proprie di un capitalismo familiare con meccanismi di governance sbilanciati a favore degli azionisti di controllo. Di qui, la considerazione per cui troppo insider potrebbe nuocere al mercato ed il conseguente auspicio che il fenomeno venga regolato al fine di contenere o neutralizzare i due effetti negativi che ne possono derivare. Poiché entrambi i succitati effetti vedono come danneggiato finale la società emittente, la quale è la sola proprietaria delle informazioni price sensitive, ecco allora che la questione relativa alla regolamentazione dell'insider trading diventa una questione di regolamentare l'uso dei diritti di proprietà sull'informazione. L'assunto poggia su due presupposti meritevoli di adeguata verificazione. 6.7. Il primo è che l'informazione è un bene economico, idoneo ad essere sfruttato economicamente da chi ne è proprietario. Non possiamo certo trascurare l'antico ed ancora non sopito dibattito sulla natura giuridica del bene "informazione", in particolare se questa sia qualificabile come bene privato o come pubblico. Secondo una prima teoria, l'informazione è un bene pubblico che non può essere oggetto di proprietà privata, configurandosi come un bene indivisibile e non escludibile: l'indivisibilità sarebbe legata al fatto che ogni individuo può utilizzare l'informazione senza sostenere alcun costo aggiuntivo; la non escludibilità discederebbe dalla difficoltà di circoscrivere la cerchia dei soggetti che se ne possono appropriare, ovvero dalla difficoltà di apporre vincoli di riservatezza. Sul versante opposto si schierano quegli economisti che sostengono la divisibilità e l'escludibilità dell'informazione, ritenendo che l'accesso al bene può essere circoscritto e che, pertanto, è possibile appropriarsi a pagamento dei suoi vantaggi, acquisendone così la titolarità prima che l'informazione diventi pubblica. E' chiaro che il riconoscimento al bene informazione di una natura pubblica o privata si riflette sulla definizione dell'assetto regolamentare che ne deve disciplinare la produzione, l'uso e la divulgazione. Se aderissimo alla tesi liberista - per cui l'informazione è un bene che può essere fatto oggetto di proprietà privata -, addiverremo a respingere qualsivoglia intervento esterno di regolamentazione dei meccanismi di produzione e circolazione dei flussi informativi, che i sostenitori di questa tesi ritengono controproducenti perché aventi l'effetto di scoraggiare la produzione di nuove informazioni, riducendo in tal modo il contributo dell'informazione al miglioramento della capacità segnaletica dei prezzi. Se, per contro, riconoscessimo all'informazione la qualifica di bene pubblico, si dovrebbe ammettere un impianto regolamentare ispirato alla logica del market egualitarism, caratterizzato da obblighi di disclosure e dal divieto di insider trading in capo agli operatori. Una posizione intermedia è quella per cui l'informazione è un bene privato che, tuttavia, genera delle esternalità, degli effetti aventi ricadute su soggetti esterni e sul mercato in generale, assommando in sé - il riferimento è nello specifico all'informazione societaria - esigenze di riservatezza (proprie del soggetto proprietario che quelle informazioni ha creato e prodotto) ed obblighi di trasparenza verso il mercato a tutela della comunità di investitori. Di qui la necessità di predisporre un sistema di regole che possa contemperare questi due termini del contendere. Con il risultato, innanzitutto, di ammettere che chi crea e produce l'informazione risulti anche assegnatario esclusivo del diritto di sfruttarne economicamente il contenuto (un diritto che non può essere negato, pena l'inefficiente allocazione delle risorse ed il conseguente scoraggiamento dell'attività di analisi e ricerca, condicio sine qua non per un mercato finanziario efficiente e trasparente). Prevedendo, in secondo luogo, un sistema di tutele per il proprietario dell'informazione e per il mercato in generale, avverso quelle possibili esternalità negative derivanti da comportamenti di terzi che, abusando della posizione rivestita, facciano un uso scorretto dell'informazione price sensitive. 6.8. Quanto al secondo presupposto, si è sostenuto che i diritti di uso e sfruttamento delle informazioni devono essere assegnati a chi quelle informazioni le ha create attraverso un'attività di ricerca ed analisi ovvero, nel caso di informazioni già esistenti in seno alla società emittente, a questa stessa. Non si può d'altronde negare che gli effetti negativi dell'i.t., poco sopra delineati, vanno ad impattare proprio sulla società emittente in termini di deprezzamento del pricing del relativo titolo quotato, che, proprio perché sospettato di essere oggetto di operazioni insider, vedrà gli investitori disposti ad acquistarlo solo a fronte di un premio aggiuntivo (implicitamente espresso nella disponibilità ad acquistare a prezzi che scontino l'effetto insider). L'informazione, però, a differenza degli altri beni che vengono prodotti e consumati, viene scoperta, e quindi diffusa, tramite la trasmissione o divulgazione al mercato, la quale, tuttavia, se da un lato incrementa il livello informativo del mercato e dunque la sua efficienza, dall'altro riduce le opportunità di profitto per chi ha creato quell'informazione. In altri termini: la divulgazione del bene-informazione è, al tempo stesso, fattore di trasparenza ed efficienza allocativa del mercato e disincentivo alla produzione delle informazioni, perché riduce in capo a chi le ha prodotte la possibilità di estrarne profitto. Da questo tratto peculiare dell'informazione nasce una sorta di conflitto, di trade off tra produzione ed uso dell'informazione: la regolamentazione di questo trade off, si ritiene, debba rappresentare l'obiettivo esclusivo di una normativa anti-insider. Un obiettivo che si ritiene debba essere perseguito per mezzo di un sistema regolamentare fondato su alcuni punti chiave: i diritti di proprietà sul bene informazione devono essere assegnati alla società emittente ovvero a chi, sostenendo costi di investimento e di ricerca, ha creato e prodotto l'informazione; una ridefinizione della normativa sulla trasparenza societaria, che sappia più efficacemente coniugare l'esigenza dell'emittente di tutelare istanze di riservatezza e l'interesse del mercato alla divulgazione delle informazioni; obbligare le società emittenti a dotarsi al proprio interno di processi operativi finalizzati alla mappatura delle informazioni e alla disciplina sull'uso, sulla trasferibilità e sulla divulgazione delle medesime, acconsentendo che il diritto allo sfruttamento economico di esse venga trasferito esclusivamente a managers e dipendenti della società e non a soggetti terzi, perché questo impedirebbe di esercitare un controllo sull'uso del flusso informativo e sulla profittabilità dell'attività (autorizzata) di insider. Quanto, infine, all'aspetto repressivo, si ritiene che qualsivoglia forma di sfruttamento non autorizzato di informazioni societarie, ovvero con modalità difformi dal sistema adottato di compliance aziendale, dovrebbe esporre l'autore della violazione a sanzioni di tipo civilistico a tutela della società e dei suoi azionisti ma anche del mercato in generale, abbandonando in questo modo lo strumento penalistico. Si ritiene, a tale riguardo, che il diritto degli investitori ad operare in un mercato integro possa trovare adeguata ed efficiente tutela, non nella sanzione penale - per i limiti e le tensioni che la caratterizzano - , quanto piuttosto in rimedi privatistici esperibili nei confronti dell'insider dalla società emittente, tanto nell'interesse proprio e dei suoi azionisti (per il danno che il comportamento insider reca all'immagine della società e per l'impatto sull'andamento del titolo in termini di liquidità, pricing e percezione di una sua maggiore rischiosità), quanto anche nell'interesse del mercato e dei risparmiatori quale ente esponenziale che più rappresenta l'interesse diffuso alla stabilità del mercato, alla sua efficienza (intesa primariamente come remunerazione delle sole informazioni privilegiate ottenute sostenendo un costo di investimento e non per mero abuso di posizione) e al fairness (per la funzione di rassicurare gli investitori sulla trasparenza ed il buon funzionamento del mercato). Facendo peraltro coesistere sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza, sia nei confronti delle società emittenti e degli esponenti aziendali per inosservanza dei sistemi interni di compliance disciplinanti la produzione e l'uso delle informazioni sensibili, sia nei confronti degli autori di condotte di tipping e tuyautage. In conclusione, muovendo dall'assunto secondo cui lo scopo di una disciplina sull'insider trading deve essere identificato nella prevenzione e nel contrasto di quelle forme di abuso di situazioni di vantaggio informativo, e comprovata l'ineffettività e difformità costituzionale della via penale, non resta che accogliere la soluzione che impone, in primis, di revisionare i meccanismi societari di produzione, uso e divulgazione delle informazioni price sensitive, in nome di una maggiore trasparenza sulla titolarità del diritto di sfruttamento delle stesse e di una maggiore responsabilizzazione degli amministratori, agendo sul piano della corporate governance e sui programmi di compliance aziendale. In secundis, combinando un enforcement fatto di sanzioni e rimedi civilistici (nei termini meglio specificati nel prosieguo) esperibili dall'emittente nei confronti dei soggetti insiders, nonché di sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza contro l'emittente (per la mancata inosservanza dei programmi di compliance sull'uso delle informazioni societarie) e gli insiders societari e non, all'esito di un'attività di indagine e di controllo che si auspica possa essere rafforzata e resa più incisiva. Nella convinzione che la pratica di i.t. lede in modo diretto la società emittente deprezzandone il titolo e gli investitori che su quel titolo operano e che potrebbero risultare danneggiati dal dislivello informativo, di talché l'unico rimedio efficiente per il contenimento di siffatta pratica è quello di prevedere, a carico dell'insider autore della condotta di abuso, un costo aggiuntivo (dato ad es. ma non solo dalla restituzione del profitto conseguito sfruttando la notizia riservata) tale da rendere l'abuso, se scoperto, economicamente inutile o addirittura svantaggioso. Nella convinzione che la maggiore responsabilizzazione di chi riveste posizioni di vertice all'interno delle società emittenti, congiuntamente all'adozione di un sistema di autodisciplina che renda trasparente l'uso delle informazioni rilevanti e l'assegnazione dei vantaggi insiti nel loro sfruttamento, costituisca il maggior antidoto all'opacità ed all'inefficienza del mercato. 7. Occorre poi prendere contezza del fatto che qualsivoglia progetto di riforma dell'ordinamento finanziario e di revisione degli strumenti di tutela del risparmiatore che si intenderà mettere in cantiere, non porterà i risultati attesi, se non sarà accompagnato da quel plesso di riforme dei vari apparati tangenti e complementari all'organizzazione del mercato finanziario: la riforma dell'amministrazione della giustizia per assicurare, anche istituendo una magistratura specializzata, tempi rapidi nell'accertamento degli illeciti e nell'irrogazione delle sanzioni; nuove regole in materia di informazione societaria al fine di migliorare la trasparenza informativa; l'introduzione di sistemi di governance più chiari ed indipendenti, capaci di presidiare e risolvere le tante, troppe, situazioni di conflitto di interesse di cui oggi è intrisa la catena dell'intermediazione finanziaria e che rappresentano, ad un tempo, la molla dell'agire economico nel mercato capitalistico e la principale causa di disgregazione e polverizzazione di ricchezza; regole chiare sulla circolazione dei prodotti finanziari; un ridisegno generale dei sistemi di controllo, vigilanza e di revisione contabile all'interno delle società di intermediazione del risparmio; da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, un intervento correttivo della disciplina del c.d. falso in bilancio, che rappresenta a tutti gli effetti un presidio a tutela del risparmiatore. Senza queste riforme complementari, anche una buona legge di riforma del mercato finanziario non coglierebbe appieno il risultato sperato. E' chiaro, infatti, che il mercato, come pure il suo grado di efficienza e trasparenza, sono il risultato della convergenza di una pluralità di fattori, esogeni ed endogeni, che agiscono su piani diversi ed incidono su differenti meccanismi di funzionamento del mercato stesso, cercando il non facile equilibrio tra i valori in gioco. 8. La ri-configurazione di un nuovo assetto di regolamentazione del mercato finanziario è condizione necessaria ma non sufficiente per alimentare un processo di prevenzione generale e di orientamento dei modelli comportamentali, che possano rappresentare un efficace argine al dilagare dei fenomeni di market abuse e di market failure. Serve, in parallelo, anche un processo di revirement culturale che porti ad una sorta di rifondazione etica della business comunity, nella consapevolezza che anche il migliore sistema normativo non ha presa sulla realtà effettuale, se questa non è a priori innervata da un insieme di regole etiche generalmente condivise. Il contesto attuale mostra un mercato finanziario caratterizzato dall'assenza di regole di condotta e di principi tali da costituire un governo etico, prima che giuridico, al lavoro dei suoi operatori. La grande ondata di deregolamentazione finanziaria che si è avuta nell'ultimo decennio ha favorito il dilagare dei conflitti di interesse in cui si trovano ad operare gli intermediari finanziari. Si pensi, per fare qualche esempio tra i tanti, al caso delle banche che hanno collocato ai propri clienti titoli tossici presenti nel loro portafoglio, al fine di dismetterli evitando perdite già prevedibili al momento del collocamento; agli effetti perversi del sistema degli incentivi ai vari operatori presenti nella catena dell'intermediazione finanziaria, che hanno favorito la diffusione di pratiche ad elevato rischio pur di conseguire l'obiettivo di lauti compensi; senza dimenticare il caso delle società di rating che hanno senza dubbio concorso a favorire l'occultamento di situazioni di difficoltà, attribuendo giudizi "a tripla A" a società che di lì a poco sarebbero state dichiarate fallite. La cultura di illegalità diffusa e di abuso di cui oggi è permeato il sistema del risparmio gestito va contrastata, non con norme cariche di una minaccia sanzionatoria severissima ma con bassa probabilità di trovare un'effettiva ed efficace applicazione, bensì con una revisione normativa ad ampio spettro, funzionale ad assicurare maggiore trasparenza nei meccanismi di corporate governance, razionalizzazione e rafforzamento del sistema dei controlli interni ed esterni alle società. Una considerazione è d'obbligo: la causa prima dei tanti, troppi, dissesti finanziari che hanno provocato nell'ultimo ventennio una dispersione gigantesca di ricchezza collettiva è da individuare nei conflitti di interesse di cui è profondamente permeato l'ordinamento societario, finanziario ed istituzionale, tanto da far affermare, all'illustre Guido Rossi, che "il risparmio di massa galleggia letteralmente sui conflitti di interesse e la sua salvaguardia dipende, anzitutto, dalla corretta impostazione di tali conflitti, la cui esistenza è peraltro fisiologica all'agire economico". Occorre pertanto ripartire dal male oscuro dell'ordinamento finanziario, lavorando ad una revisione dei meccanismi di corporate governance, dei processi decisionali interni alle società, troppo spesso affidati ad amministratori che agiscono alla stregua di monarchi assoluti, al di sopra ed a prescindere da ogni forma di controllo. Nel procedere in quest'opera di riscrittura delle regole del gioco, è corretto immaginare che il primo intervento del diritto nell'ambito economico e dell'impresa debba avvenire sul piano della prevenzione, avvalendosi degli strumenti propri del diritto civile, del diritto amministrativo e dell'autoregolamentazione. Arrivando, per questa strada, alla configurazione di un diritto penale minimo ma efficace e severo, nel sanzionare quei comportamenti ritenuti immediatamente offensivi di quegli interessi meritevoli di protezione, perché in diretta e stretta relazione con la tutela della funzione di vigilanza, epicentro del complesso normativo a difesa del risparmio. ; XXI Ciclo ; 1972
The essay studies the construction of the concept of jurist in Emilio Betti as an organic representative of society. He is not a political representative, with or without mandate constraint, nor a legal representative, who transfers interests and relates them. The organic representative is a longa manus, an authoritative extension of the best of society. Its authority, disregarding political power, can reconcile the interests at stake, say the law with the sentence, rebalancing social imbalances, which can also be caused by the laws themselves. The function of social rebalancing combined with equity understood not only as formal but substantial justice makes Betti's theoretical tension a methodological tool possible for all the sciences of knowledge and also for the associated life in the footsteps of Aristotle's Nicomachean Ethichs, Politics and Rhetoric. The decision-making choice of the jurist emerges as one of the most relevant legal issues of our time, that of due process. Its necessary solution, both on the level of the legislation of each state, and on the level of all the individual narratives of each procedural event, can find solid references in Betti's Romanesque studies, starting from those on the seven Kings of Rome, up to those on the Roman praetor. It makes possible to distinguish the gnoseological and thoughtful decision-making of the jurist from that which puts an end to the state of exception of the politician theorized by Carl Schmitt. And it also makes allows to distinguish a logic based on a broad ethical and cultural vision of society, from a logic emptied of deontology and based only on syllogistic argumentation, in which the means can replaces the end. ; L'articolo studia la costruzione concettuale del giurista in Emilio Betti come un rappresentante organico della società. Non è un rappresentante politico, con o senza vincolo di mandato, né un rappresentante legale, che trasferisce interessi e li relaziona. Il rappresentante organico è una longa manus, un'estensione autorevole del meglio della società. La sua autorevolezza, disinteressandosi del potere politico, può contemperare gli interessi in gioco, dire il diritto con la sentenza, riequilibrando gli squilibri sociali, provocati anche dalle stesse leggi. La funzione di riequilibrio sociale, capace di coniugarsi con l'equità, nella potenzialità di quest'ultima di porsi non solo come giustizia formale, ma sostanziale, è ciò che rende capace la tensione teoretica bettiana di divenire strumento metodologico possibile per tutte le scienze del sapere, ma anche per la vita associata, sulle orme dell'Etica nicomachea, della Politica e della Retorica di Aristotele. La scelta decisionale del giurista emerge come una delle più rilevanti questioni giuridiche del nostro tempo, quella del giusto processo. La sua soluzione necessaria, sia sul piano della legislazione di ciascuno stato, sia sul piano di tutte le singole narrazioni di ciascuna vicenda processuale, può trovare riferimenti solidi negli studi romanistici di Betti, a partire da quelli sui Sette Re di Roma, fino a giungere a quelli sul Pretore romano. Permette di distinguere il decisionismo gnoseologico e ponderato del giurista da quello che mette fine allo stato d'eccezione del politico, teorizzato da Carl Schmitt. E permette anche di distinguere una logica fondata su una visione etica e culturale ampia della società, da una logica svuotata di deontologia e fondata soltanto sull'argomentazione sillogistica, nella quale il mezzo può sostituire il fine.
Uno dei problemi maggiori nello studio degli effetti dei cambiamenti climatici sulle popolazioni umane è senza dubbio il carattere fortemente multidisciplinare, che richiede un'analisi del fenomeno che incroci competenze e conoscenze che appartengono a diversi campi del sapere, come le scienze ambientali, per quanto riguarda i fattori scatenanti e le scienze sociali e giuridiche, per quanto riguarda le sue conseguenze. Alla luce di questi motivi il tema dei profughi climatici rappresenta un campo di ricerca interessante e ricco di molti spunti di riflessione, ma allo stesso tempo un'analisi complessa e non priva di una molteplicità di problemi epistemologici. Le principali difficoltà risiedono nella scarsità di documentazione e di letteratura sull'argomento. Nonostante non manchino gli studi ed i documenti prodotti dalle principali organizzazioni internazionali che si occupano di ambiente e migrazioni internazionali in tutte le forme e varianti, il mondo scientifico, e in modo particolare quello italiano, non sembra aver ancora preso seriamente in considerazione il tema delle migrazioni internazionali causate dal mutamento delle condizioni climatiche, sia per cause naturali che per il degrado dell'ambiente prodotto dall'inquinamento e da un uso distorto delle risorse terrestri. La complessità estrema del fenomeno pone una serie di interrogativi riguardo all'individuazione dei soggetti che possono essere ricondotti alla categoria suddetta e in merito alla possibilità di riconoscere una qualche forma di tutela giuridica internazionale a questa categoria di persone, per le quali, sul piano strettamente giuridico è ancora improprio l'utilizzo del termine 'rifugiati' per identificarli. Ad aumentare le difficoltà già elencate vi è poi la scarsa attenzione dimostrata sull'argomento dai paesi economicamente sviluppati in genere, ed in particolare i principali inquinatori, e la sempre crescente difficoltà da parte dell'occidente a rispondere ai problemi generati dai movimenti forzati di massa. Il mancato riconoscimento internazionale dei profughi climatici complica ulteriormente la questione. La Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati prevede che possa richiedere lo status di rifugiato chiunque si trovi "nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato" definizione che non lascia spazio alle cause ambientali come fattore di spinta degli spostamenti di popolazione. Il termine 'rifugiato ambientale', accettato orami a livello internazionale nel linguaggio comune, appare quindi improprio alla luce di questa considerazione e all'interno della comunità scientifica mondiale non è stato ancora sciolto il nodo di una definizione più propria soprattutto per la difficoltà di stabilire un legame diretto tra fattori ambientali e diversi casi di migrazioni internazionali massive. D'altra parte il termine "refugee" ha antica origine e diffusa circolazione: il fatto che dal 1951 implichi uno status non crea monopoli linguistici. Si può convenzionalmente accettare il suo utilizzo disciplinare critico e il suo utilizzo istituzionale limitato allo status connesso. Il suo significato resta sinonimo di "displaced", migrante forzato o costretto, con le sole specificazioni istituzionali dell'aver superato il confine e delle costrizioni previste dalla Convenzione nel 1951. L'aggettivo "environmental" non aiuta la definizione delle migrazioni e soprattutto non aiuta a chiarire la loro dimensione forzata. Rifugiato si, ma non "ambientale". La difficoltà forse sta proprio nel sostantivo, ambiente, che ha troppi usi e sinonimi nell'insostenibile sviluppo in cui siamo immersi. Le ricerche multidisciplinari sul fenomeno migratorio devono molto rivalutare la dimensione "ambientale" delle migrazioni. Le espressioni "environmental refugee" o "environmental migrants" o "environmental displaced people" possono essere utilizzate per sottolineare o distinguere la spinta a migrare connessa alle varie forme di inquinamento e di degrado ambientale, per le quali il riconoscimento scientifico della costrizione non è certo e il margine di libera scelta dei momenti e delle modalità è parzialmente maggiore. L'espressione "displaced people" diventa quella descrittiva di ogni migrazione forzata, qualunque sia lo Stato entro cui avviene o quanti e quali che siano gli Stati interessati. L'aggettivo "environmental" può invece risultare ridondante o superfluo, non classifica; meglio chiarire quale contesto geografico o climatico e quale specifica contestuale ragione socio ambientale. Serve uno strumento legale ONU dedicato al riconoscimento, alla prevenzione mirata, alla protezione e all'assistenza di profughi climatici. Sulla via del riconoscimento internazionale dei rifugiati climatici si frappone inoltre il timore di compromettere la sensibilità che già è stata acquisita nei confronti dei rifugiati tradizionali e il timore da parte di governi ed istituzioni di trovarsi in difficoltà nel mettere in atto misure di protezione e di reinserimento dei rifugiati provenienti da zone degradate e dovendo provvedere al loro sostentamento economico. Già nel 1999, con la pubblicazione del libro Environmental Exodus: An Emergent Crisis in the Global Arena , Norman Myers, professore di economia ambientale e consulente per le Nazioni Unite, metteva il luce le difficoltà incontrate dalla comunità scientifica mondiale sulla via di una definizione sia del fenomeno, sia del livello di tutela giuridica internazionale che dovrebbe essere riservata a questa categoria di persone. In particolare, per quanto riguarda la definizione, egli pone l'accento sulla necessità di soffermarsi sulla differenza tra " persone in condizioni modeste ma tollerabili in patria che cercano altrove la possibilità di una vita in condizioni economiche migliori" e quelle persone che migrano perché sono "spinte da fattori di base del degrado ambientale" condizione che appare come la caratteristica principale per definire il concetto di rifugiato ambientale. Sono stati proposti numerosi termini alternativi per classificare i rifugiati ambientali, tra cui "persone sfollate per motivi ambientali" e "emigranti costretti da motivi ambientali", che pur essendo precisi risultano assai meno efficaci e, in effetti, sono quasi ridondanti. Altri suggerimenti spaziano da "eco-migranti" e "eco-evacuati" a "eco-vittime"; però i primi due termini non connotano l'idea di migrazione coatta, mentre l'ultimo non suggerisce affatto l'emigrazione. Ad ogni modo queste persone, comunque le si voglia designare, sono un'ampia componente fra tutti gli altri rifugiati e, entro la prossima metà del secolo, potrebbero addirittura superare di varie volte il numero degli altri rifugiati. Myers propone quindi la seguente definizione: "I rifugiati ambientali sono persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta". Questi fattori comprendono siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo e altre forme di degrado del suolo; deficit di risorse come, ad esempio, quelle idriche; declino di habitat urbani a causa di massiccio sovraccarico dei sistemi; problemi emergenti quali il cambiamento climatico, specialmente il riscaldamento globale; disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni, e anche terremoti, con impatti aggravati da errati o mancati interventi dell'uomo. Possono concorrere fattori aggiuntivi che inaspriscono i problemi ambientali e che spesso, in parte, derivano da problemi ambientali: crescita demografica, povertà diffusa, fame e malattie pandemiche. Altri fattori ancora comprendono carenze delle politiche di sviluppo e dei sistemi di governo che 'marginalizzano' le persone in senso economico, politico, sociale e legale. In determinate circostanze, alcuni fattori possono fungere da 'scatenanti immediati' della migrazione, per esempio colossali incidenti industriali e costruzioni di dighe smisurate. Molti di questi fattori possono agire in concomitanza, spesso con effetti cumulativi. Di fronte ai problemi ambientali, le persone coinvolte ritengono di non avere alternative alla ricerca di sostentamento altrove, sia all'interno del loro paese che in altri paesi, sia su base semipermanente che su base permanente. Non c'è alcun motivo di pensare che chi fugge da condizioni di privazione estrema in conseguenza di collassi ambientali su vasta scala abbia una più attenuata percezione della propria marginalità sociale e una disperazione minore rispetto a chi fugge da oppressioni politiche o religiose. Non sta forse anch'egli cercando la stessa forma di sicurezza nel senso più definitivo del termine, ossia una sicurezza in grado di farlo sentire nuovamente accettato dalla società, in qualche luogo? Per decenni la scena è stata dominata dalle categorie di rifugiati che definiamo "convenzionali", ma ora è giunto il momento di abbandonare formule e definizioni che si rivelano troppo restrittive. Di fronte ai mutamenti che avvengono nel mondo reale non dovrebbero cambiare allo stesso modo anche le nostre categorizzazioni? Alla fine di questo primo approccio a ciò che si connota come un vero e proprio esodo ambientale, siamo già in grado di formulare una considerazione fondamentale: è necessario agire sui sintomi, prima che il problema inizi a causare effetti collaterali cui sarà tremendamente più difficile porre rimedio. Di diversa opinione appare invece il rapporto sul tema pubblicato dall' Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che sottolinea l'importanza di non utilizzare il termine rifugiati per indicare categorie di persone diverse da quelle previste nella Convenzione di Ginevra. A livello italiano, si è parlato del fenomeno in relazione della mancata tutela giuridica di coloro che sono costretti ad emigrare per questo genere di cause e possono essere quindi oggetto di provvedimenti di espulsione, e nel caso dell'Italia del possibile trattenimento nei Centri di Identificazione ed Espulsione che precedono il rimpatrio. E' certo che storicamente vi è sempre stata una qualche correlazione tra cambiamenti climatici, disastri naturali, modificazioni del clima e flussi migratori, ma molti sono convinti che il deterioramento dell'ambiente prodotto dal cambiamento climatico porrà negli anni a venire il tema del 'rifugiato' climatico al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica e degli organismi internazionali. Questo è un elemento di novità che in relazione alla rapidità con la quale si sta evolvendo il processo di cambiamento climatico, rende un fenomeno millenario ricco di spunti di ricerca, di riflessione e di azione mirata. Le vittime delle conseguenze del surriscaldamento sono una categoria di migranti ancora sconosciuta ai più, priva di uno statuto ufficiale, ma destinata a crescere rapidamente. E a pagarne lo scotto ancora una volta sono i paesi più poveri ed in primis le zone costiere e le isole del Sud-est asiatico, in particolare il Bangladesh come vedremo, così come le aree in via di desertificazione dell'Africa sub sahariana. Senza più casa, costretti ad abbandonare la propria terra perché a rischio o perché modificata nella struttura e composizione, stravolta dai processi di desertificazione, stress idrico o innalzamento del livello del mare, e in attesa di futuro incerto fatto di piani di trasferimento e re-insediamento. La nuova ferita apertasi sulla pelle di questo millennio allarma e fa discutere, per poi scivolare nuovamente nel dimenticatoio mediatico, assecondato da un'opinione pubblica oramai sempre più immune al dramma del disastro. Si vuole quindi invitare alla presa di coscienza e alla riflessione non solo sul disastro ecologico irrefrenabile ma anche sulle conseguenze che lo stesso sta provocando e quindi su possibili riconoscimenti e nuove possibilità di sopravvivenza per queste persone al fine di permettere loro una vita sicura e dignitosa.
Il tema di questa ricerca è la ricostruzione della rete di relazioni stabilite in Italia da Theodor Mommsen tra il 1844 e il 1870 con studiosi e istituzioni attraverso la corrispondenza che lo storico tedesco intrattenne con coloro che, direttamente o indirettamente, collaborarono con lui nella realizzazione del Corpus Inscriptionum Latinarum. Il 1844 è l'anno della prima venuta nella penisola del giovane Mommsen, che aveva appena conseguito il dottorato presso l'Università di Kiel, l'ateneo dove si era anche laureato. Cittadino danese, in quanto nato a Garding, una cittadina dello Schlesig- Holstein allora appartenente alla Danimarca, Mommsen era titolare di un Reisestipendium biennale assegnatogli dal governo su raccomandazione dell'università di Kiel, per completare la sua raccolta di fonti giuridiche romane. Il mio scopo ufficiale è la nuova edizione dei monumenta legalia di Haubold con testo riveduto e ampio commento; lei vede che i confini del mio piano sono abbastanza ristretti e quindi praticabili e che mi rimane tempo a sufficienza [.]. Genova, Firenze, Roma e Napoli sono i punti in cui senz'altro mi condurrà il mio piano di viaggio; oltre al mio preciso scopo, penso di fare qualche interessante bottino epigrafico. In questo, conto particolarmente sul suo amichevole aiuto; lei non pianterà in asso il suo allievo nell'epigrafia. La mia intenzione è di rivolgermi anzitutto all'Accademia di Berlino, che certamente appoggerà il mio progetto, se lei lo raccomanda. Così scriveva Mommsen al suo maestro e mentore Otto Jahn, appena ricevuta la notizia che la sua domanda di sovvenzione per un viaggio di studio in Italia era stata accolta: parole che esprimono senza ombra di dubbio le intenzioni e i progetti – sia immediati sia a più lungo raggio – del giovane giurista, niente affatto desideroso di dedicarsi alle professioni legali, bensì propenso a intraprendere la ricerca storica ed epigrafica e, come si vedrà, la carriera universitaria. Tuttavia, benché al momento di iniziare quello che sarà il 'primo' viaggio nella penisola Mommsen nutrisse già verso l'Italia e l'antichità romana interessi molto forti, questi ancora non erano precisamente delineati. Mommsen giunge in Italia alla fine del novembre 1844, dopo un soggiorno di due mesi in Francia, con tappe a Parigi – dove soggiorna oltre un mese –, Lione, Montpellier, Nîmes, Marsiglia; da qui il 23 novembre si imbarca per Genova. Dopo alcuni giorni di permanenza in Liguria, attraverso la Toscana, giunge negli ultimi giorni dell'anno a Roma, dove, grazie all'appoggio dell'Istituto di Corrispondenza Archeologica e alla collaborazione di Wilhelm Henzen, farà base per tutta la durata del soggiorno che si concluderà alla fine del maggio 1847, con frequenti e lunghi trasferimenti in altre regioni, prevalentemente a Napoli e nell'area meridionale. Fino a quel momento gli interessi di Mommsen si erano orientati per lo più allo studio delle istituzioni romane e avevano portato alla pubblicazione di due opere, il De collegiis et sodaliciis Romanorum e il Die romischen Tribus in administrativer Beziehung, che lo avevano fatto conoscere presso gli specialisti italiani – soprattutto la prima, scritta in latino, la lingua della «repubblica delle lettere». Si è visto quali fossero i reali progetti di vita del neodottorato giurista: tuttavia, benché la raccolta di iscrizioni latine rientrasse nelle sue prospettive di studio, gli giunse inaspettata, mentre era in Italia, la proposta di divenire coordinatore del progetto di un corpus epigrafico inizialmente promosso dal filologo danese Olaus Christian Kellermann. Il progetto languiva dopo la morte di Kellermann, avvenuta il 1° settembre del 1837 a Roma, ed era fallito anche l'analogo e pressoché contemporaneo progetto francese. Allo stesso tempo viene inoltre prospettato a Mommsen di assumere la cattedra di materie giuridiche a Lipsia. Entrambe le proposte – alle quali non poteva che rispondere positivamente – nell'immediato spiazzano il giovane e ambizioso ricercatore e imprimono alla sua vita un indirizzo diverso dal previsto. A quel punto, i cambiamenti intervenuti rispetto al piano iniziale agiscono da moltiplicatori dell'interesse di Mommsen per la filologia e per le fonti epigrafiche e dal soggiorno italiano nascono, oltre agli interventi e alle periodiche rassegne per il bollettino dell'Istituto di Corrispondenza Archeologica, tra cui le Iscrizioni messapiche, gli Oskische Studien e gli studi pubblicati dopo il rientro in Germania, in particolare le Inscriptiones Regni Neapolitani Latinae. Secondo la testimonianza del suo allievo Christian Schüler, Mommsen, nel giorno del suo sessantesimo compleanno, avrebbe detto di quel suo viaggio: «Der Jurist ging nach Italien – der Historiker kam zurück». Una battuta efficace, senza dubbio, ma forse eccessivamente tranchant: dopo la morte di Mommsen, non pochi tra quanti ne hanno tracciato la biografia hanno messo in luce il peso determinante della sua formazione giuridica nello studio dell'antichità romana e nelle stesse indagini epigrafiche. Dalla permanenza in Italia, come è evidente, è derivata la messa a fuoco dell'area napoletana come microcosmo rappresentativo di tutte le questioni che attengono in realtà alla nascita della moderna disciplina archeologica e al contempo alla capacità delle istituzioni – culturali, universitarie – di gestirsi, di organizzare gli studi e di confrontarsi con le proprie e più profonde radici culturali: tutte questioni rese tanto più cruciali dalle condizioni politiche dell'Italia, in parte paragonabili a quelle della Germania preunitaria. Le questioni erano tutte in nuce già nei primi contatti di Mommsen con i corrispondenti italiani e si manifestarono con particolare evidenza con gli studiosi dell'area napoletana. La carriera universitaria a Lipsia subì una battuta d'arresto nel 1851, anno in cui Mommsen fu costretto a dimettersi per essersi compromesso con la partecipazione ai moti del '48; tra il 1854 e il 1856 venne portata a termine, insieme con altri importanti studi di filologia, la Römische Geschichte e, soprattutto, l'impegno per il Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) assunse una crescente e assoluta preminenza nell'attività – e, si potrebbe dire a buon diritto, nella vita – di Mommsen. Il termine ad quem del periodo fatto oggetto della mia ricerca, il 1870, momento cruciale nella storia politica europea perché segna l'unificazione politica della Germania e il compimento dell'unità italiana con l'annessione di Roma, è significativo anche per Mommsen, per i suoi interessi e i suoi rapporti con l'Italia stessa, poiché a partire da quel momento si avviarono profonde trasformazioni nella politica culturale dei due paesi e si definirono le sorti future delle "due patrie". In Italia a completamento dell'unificazione tornano sul tappeto i nodi critici dell'organizzazione degli studi e, si può dire, degli stessi fondamenti della identità nazionale. Sono efficaci le parole che Mommsen rivolge a Gian Carlo Conestabile Della Staffa in una lettera del 1873, indicando tra le «piaghe d'Italia», non ultimo quel quotidiano deperimento degli studii classici ed archeologici che pur per voi sono anche patrii, e quanto questo deperimento impoverisce l'intelligenza della vostra nazione, creata larga e grande, come chi togliesse all'uomo maturo i ricordi della casa paterna e della bella sua gioventù. Ed io che conosco l'Italia da trent'anni e che l'amo come era e come è con tutti i suoi difetti, non posso nascondermi che, se sotto quasi tutti gli altri rapporti vi vedo un bel progresso, gli studii classici fanno un'eccezione assai triste e che nell'Italia del 1873, nell'Italia felicemente risorta noi altri poveri pedanti pur cerchiamo invano, non già l'Italia del 1843, ma bensì l'Italia dell'Avellino, del Furlanetto, del Cavedoni, del Borghesi. Il percorso inizia dal punto di approdo, cioè dal 1870, e prosegue, à rebours, con due capitoli che abbracciano il primo gli anni 1844-1847, il secondo il decennio successivo, cioè il periodo che corre tra la prima venuta in Italia di Mommsen e la data di pubblicazione dell'ultimo volume della prima edizione italiana della Storia romana: si tratta di un arco di tempo finora poco considerato dagli studi che hanno messo a fuoco soprattutto il Mommsen compilatore del CIL e molto meno l'autore della Römische Geschichte. In realtà è proprio in questo periodo che ha inizio l'ultradecennale legame dello studioso tedesco con l'Italia e la nascita di quella rete con i sodali italiani che avrebbe reso possibile la costruzione del CIL. Si tratta di rapporti che ebbero origine da una conoscenza diretta fatta durante il primo e i successivi viaggi e si consolidarono poi attraverso un fitto scambio epistolare finalizzato al reperimento delle fonti per il CIL. Successivamente ai capitoli riguardanti i rapporti con i corrispondenti italiani tra il 1844 e il 1857, l'indagine si concentra sul periodo 1847-1857, denso di eventi politici che, come si è accennato, influiranno decisivamente sulla vita di Mommsen: si intensificano, in questi anni i rapporti con l'Italia, estendendosi dalle regioni meridionali – oggetto delle ricerche che avevano portato alla pubblicazione delle Inscriptiones Regni Neapolitani Latinae – alle regioni del nord-est a dominazione austriaca. Infine, la parte relativa agli anni 1857-1870 approfondirà, attraverso i percorsi paralleli della costruzione del CIL e dell'unificazione italiana, le relazioni di Mommsen con il contesto istituzionale italiano. In questo periodo Mommsen si immerge, totalmente e letteralmente, nel lavoro per il CIL e, in conseguenza di questo, nell'Italia e nelle sue istituzioni a cavallo dell'unificazione politica. L'esperienza risente inevitabilmente del contesto politico-amministrativo con il quale lo studioso e i suoi corrispondenti e amici devono confrontarsi per condurre a termine la loro impresa ed è in questa fase che si inaugura uno stretto confronto con gli uomini delle istituzioni, i quali prendono a riconoscere in Mommsen uno dei loro interlocutori di maggior peso. È importante sottolineare il fatto che Mommsen ha sempre nutrito forti interessi per la vita politica, fin da quando la partecipazione alla mobilitazione del 1848 gli era costata la perdita della cattedra di cui era titolare a Lipsia. Successivamente aveva fatto parte, schierandosi con l'ala progressista liberale, sia del Parlamento prussiano tra il 1863 e il 1879 sia del Reichstag dal 1881 al 1884. Eppure, nel 1870, l'esponente illustre del partito liberal-progressista e fiero oppositore di Bismarck si schiera toto corde con la politica nazionalista della Prussia, divenuta capofila dell'unificazione tedesca: un orientamento sostenuto in alcuni interventi pubblicati sui giornali italiani che ebbero un'eco potente in tutta Europa e provocarono forti reazioni sia nelle fila degli intellettuali francesi (famose quelle di Numa Fustel de Coulanges ed Ernest Renan, tra gli altri) sia nel dibattito pubblico in Italia, anche perché veicolate dalla stampa di tutti gli schieramenti politici. Mommsen era stato osservatore costante e partecipe della situazione politica italiana e aveva seguito il processo di unificazione con profonda empatia, sia per le analogie con la situazione tedesca, sia per le aspettative da lui nutrite di una "rigenerazione" degli studi classici e delle istituzioni culturali grazie alle trasformazioni indotte dall'unità politica e dalla nascita dello uno stato liberale. Il lavoro ha l'obiettivo di illustrare le forme di collaborazione attuata da Mommsen in Italia per la realizzazione del grande progetto cooperativo del CIL principalmente attraverso le corrispondenze inviate a Mommsen dagli studiosi italiani. La ricerca, perciò, ha preso le mosse dal censimento dei mittenti italiani di Mommsen ed è proseguito con la consultazione delle relative lettere presenti nel Nachlass Mommsen della Staatsbibliothek di Berlino. Oltre alle 'carte Mommsen' (corrispondenza, diario di viaggio in Italia e altro) presenti nella Staatsbibliothek, la ricostruzione del contesto non ha potuto non tenere in conto la documentazione presente nell'archivio del Corpus Inscriptionum Latinarum conservato presso l'Akademie der Wissenschften di Berlino, responsabile del grande repertorio, tuttora in corso di pubblicazione. Alle vicende del Nachlass dal momento in cui furono depositate dagli eredi presso le istituzioni bibliotecarie della Berlino imperiale di inizio Novecento, all'attuale sistemazione nella capitale della Germania unificata e alle trasformazioni subite dal CIL e dall'Accademia delle Scienze dopo la seconda guerra mondiale è dedicato uno specifico capitolo del lavoro, nella consapevolezza che in ogni ricerca non solo vanno accuratamente considerate le "fonti della storia", ma che anche la "storia delle fonti" svolge un suo specifico e cruciale ruolo. La ricerca si concentra sui mittenti italiani di Mommsen, e su come una cerchia di intellettuali e di responsabili delle istituzioni, che si amplia progressivamente negli anni per effetto della sempre più intensa attività di Mommsen nella raccolta delle testimonianze epigrafiche, risponda alle sollecitazioni dello studioso e rappresenti uno spaccato del dibattito culturale e, al tempo stesso, delle difficoltà e contraddizioni che le classi dirigenti italiane si trovarono ad affrontare sul terreno dell'organizzazione degli studi. La raccolta delle lettere inviate da Mommsen ai suoi collaboratori italiani è da tempo al centro di uno specifico progetto che ha dato luce a una estesa pubblicazione curata da Marco Buonocore, le Lettere di Theodor Mommsen agli italiani: la mia ricerca, si parva licet, integra in parte il quadro degli scambi epistolari di Mommsen con una specifica attenzione dedicata alle lettere inviate a Mommsen dai suoi corrispondenti italiani, che sono state finora meno valorizzate, con poche eccezioni, quale il carteggio di Pasquale Villari, che si collocano tuttavia in gran parte nell'ultimo trentennio del XIX secolo, quando, nell'Italia unita, lo studioso tedesco era famoso e particolarmente stimato dal mondo della cultura e delle istituzioni italiane. Molto meno considerate, invece, le relazioni che Mommsen fresco di laurea (ma già ambizioso e consapevole dell'impegno della propria ricerca) intraprende con un'Italia ancora in fieri, alla quale si accosta con un misto di ammirazione per le antiche vestigia e l'immenso patrimonio archeologico e di malcelato terrore per le condizioni di arretratezza della 'prigione esperia', come la definisce nel suo diario di viaggio. La prima tessitura di queste relazioni e l'accoglienza di Mommsen da parte degli italiani viene soprattutto sottolineata dalla mia ricerca, che si concentra non tanto sui dettagli "epigrafici" della collaborazione prestata a Mommsen dagli italiani quanto piuttosto sul terreno dal quale si svilupparono tali rapporti, fortemente condizionati, sotto il profilo istituzionale, dalla divisione della penisola e dalle dinamiche politico- amministrative interne agli stati preunitari. Indubbiamente, fin dal primo soggiorno si radica in Mommsen quell'attaccamento all'Italia che, negli anni successivi, si sarebbe espresso nel rimpianto di non essersi potuto trasferire stabilmente nella sua patria elettiva e nel riconoscere negli italiani quei tratti di gentilezza e di tolleranza, che ancora sottolineava a Pasquale Villari con lettera del 30 gennaio 1903, viceversa del tutto assenti nel popolo tedesco. Molte delle sue lettere costituiscono un vero e proprio spaccato della società di specifiche aree geografiche italiane; sono fonte preziosa per determinare – con ricchezza di particolari del tutto sconosciuti – la storia culturale, il dibattito scientifico, il tessuto sociale ed umano della nostra Italia di secondo Ottocento; ci consentono di calarci con sensibilità e rispetto nelle pieghe della storia locale, dialogando con i fatti, antichi e recenti, di modellare una scandita e precisa ricostruzione storico-culturale. Uno strumento, quindi, assai utile per tracciare a tutto tondo la sua presenza in Italia, il suo interesse verso l'Italia, le sue priorità scientifiche che scaturivano dallo studio delle irripetibili bellezze storiche e artistiche che il suolo nazionale generosamente gli concedeva; e, di converso, esso ci dà l'opportunità a tutti noi di seguire con maggiori dettagli quelle personalità italiane che caratterizzarono, ciascuno con il proprio spessore, il dibattito culturale della seconda metà dell'Ottocento. Condividevano – Mommsen e gli italiani – gli stessi interessi di studio, le stesse aspettative politiche, lo stesso 'linguaggio'? Fino a che punto – uomini e istituzioni –furono coinvolti dai progetti di Mommsen? E fino a che punto l'attività di Mommsen nel Corpus Inscriptionum Latinarum e nei Monumenta Germaniae Historica può rappresentare una cartina di tornasole delle trasformazioni in atto nel cuore dell'Ottocento in un paese che si apprestava, tra fughe in avanti e pesanti arretramenti, a raggiungere la propria unità politica? Questi gli interrogativi sottesi alla ricerca, che hanno orientato le mie scelte nella vastissima area delle fonti epistolari mommseniane.
L'indagine sulla legislazione penale dell'ambiente è svolta in una prospettiva sistemica, allo scopo di verificare i margini di tenuta dei principi fondamentali del diritto penale e delle categorie strutturali dell'illecito in un settore rappresentativo della moderna società del rischio. Il diritto penale dell'ambiente sembra muoversi in rotta di collisione con le solidità delle tradizionali garanzie penalistiche, al punto da suggerire soluzioni o di ritorno al diritto penale cd. classico o radicalmente abolizioniste. Lo studio sviluppa invece una strada alternativa, dalla selezione di una nozione di bene ambiente penalmente tutelabile per verificare alla previsione delle sue possibili ricadute sulla tecnica di tipizzazione delle fattispecie, al fine di verificare in che termini e in che limiti il diritto penale può adattare i propri tradizionali strumenti alla tutela del "nuovo" bene. L'indagine propone una nozione di ambiente, che assume come punto di partenza la "consumabilità" e "deteriorabilità" delle sue componenti materiali, pur non trascurando l'indefettibile relazione funzionale tra il bene stesso e l'uomo (c.d. nozione "ecocentrico-moderata", che si contrappone alla tradizionale concezione antropocentrica di ambiente). Il nucleo di offesa così ricostruibile viene individuato nella idoneità della condotta punita a contribuire ad un'alterazione significativa delle condizioni fisiche, chimiche e biologiche di equilibrio dell'ambiente. Al contempo, si legittima un sistema di tutela incentrato sull'interrelazione tra diritto penale e diritto amministrativo, in quanto il primo interverrebbe per la violazione non di qualunque cautela imposta dalla pubblica amministrazione, bensì soltanto di quelle volte al contenimento del rischio di pregiudizio e di grave deterioramento dei singoli ecosistemi naturali, a partire da una considerazione del contesto empirico – fattuale, nel quale si inseriscono le singole attività umane. La nozione ecocentrico–moderata di ambiente – alla quale altre scienze umane sono approdate prima del diritto penale – rappresenta il fil rouge dell'intera indagine. Nella prima parte della ricerca, si è cercato di dimostrare come tramite tale nozione risultino superabili le critiche tradizionalmente rivolte dalla dottrina del diritto penale minimo al diritto penale ambientale (il riferimento è alle tesi di Hassemer, Baratta e Ferrajoli). Si è quindi analizzata la legislazione penale vigente rilevando come anche alcune tipologie di illecito penale ambientale attualmente vigenti - pur con le carenze che derivano loro dal fatto di essere inserite in un sistema normativo disorganico e poco razionale – possono apparire conformi al principio di offensività, se lette sotto l'ottica di una diversa accezione del bene giuridico oggetto di tutela penale. Il confronto comparatistico sull'ordinamento spagnolo costituisce il trait d'union tra la fase ricognitiva e la fase propositiva dell'indagine, in quanto le soluzioni adottate dal legislatore spagnolo rappresentano un significativo esempio dell'incidenza della nozione di bene ambiente sulla tecnica di redazione delle fattispecie incriminatrici e sulla tipizzazione del pericolo e lasciano margini per una valorizzazione della dimensione di materialità del bene ambiente, in chiave ecocentrico – moderata. La fase propositiva dell'indagine, infine, ha descritto in che modo ed entro quali limiti l'assunzione di una prospettiva ecocentrico-moderata possa contribuire a risolvere la questione della scarsa offensività delle fattispecie ambientali di pericolo astratto, senza tuttavia far apparire come inevitabile la rinunzia ad una tecnica di redazione del reato incentrata sulla violazione della disciplina extrapenale di settore. E ciò, nella convinzione che la questione teorica centrale in materia di diritto penale ambientale concerna non tanto la scelta di anticipare la soglia di tutela penale – la quale appare obbligata a fronte delle dimensioni macroscopiche dei danni ambientali e della natura seriale e interagente delle condotte che li cagionano–, quanto la necessità di pensare a tecniche di incriminazione del pericolo astratto che riducano al minimo il rischio di scarto tra tipicità ed offensività in concreto. In questa prospettiva, il legislatore è tenuto a fissare una soglia di pericolo penalmente rilevante che risulti "ragionevolmente" fondata. Per "ragionevolezza" del giudizio di pericolo si intende una valutazione astratta della idoneità lesiva del comportamento considerato, in base alla quale si prevede che quel comportamento, per le modalità attraverso le quali generalmente si realizza, con buona probabilità condurrà alla produzione di una classe futura di eventi lesivi. Orbene, due sembrano gli elementi rilevanti per una soglia ragionevole di pericolo nel diritto penale ambientale: 1) la natura del bene protetto; 2) la tipologia di lesioni da prevenire. Quanto al primo, la riappropriazione di una dimensione materiale del bene ambiente non solo consente di identificare il bene giuridico direttamente protetto dalla norma penale, ma anche definisce il "contesto" empirico al quale rapportare l'idoneità offensiva della condotta punita. Quanto al secondo elemento - la lesione ambientale -, essa servirebbe da parametro di riferimento per valutare, sul piano statistico, le caratteristiche di tempo, di qualità e quantità di sostanze immesse, di modalità di svolgimento che una certa attività deve generalmente possedere per poter ragionevolmente affermare che abbia inciso sul processo causale di verificazione del danno. In tal modo, ex ante, sarebbe possibile frazionare il nesso causale in relazione a ciascuna condotta. Questo tipo di giudizio è di certo condizionato dal fatto che le indagini scientifiche devono porre per date alcune delle condizioni di partenza del contesto empirico di incidenza (coeteris paribus), nonché dal dato che esse tendenzialmente osservano l'interazione tra sostanze già note, e non tra sostanze ancora sconosciute. Tali obiezioni, per quanto logicamente corrette, sono superabili, se ci si colloca in una in una prospettiva di tipo normativo, e cioè dal punto di vista del legislatore al momento della redazione delle norme penali. Alle leggi scientifiche il legislatore richiede infatti una valutazione di tipo statistico sull'incidenza di una data condotta nel processo causale di verificazione del danno; il dato statistico consente di selezionare tra una pluralità di comportamenti quelli che con maggiore frequenza di casi si ritiene contribuiscano in concreto a produrre un certo risultato offensivo per il bene protetto. La frequenza statistica è un primo dato attendibile, dal punto di vista del diritto, quando si tratta di prevedere i probabili danni conseguenti ad una certa condotta pericolosa. Una volta ottenuti dati scientifici attendibili sull'idoneità lesiva di un certo comportamento, la selezione dei fatti da incriminare dipende poi, oltre che dalla significatività lesiva degli stessi, anche da altri parametri, tra i quali il rango del bene giuridico tutelato e "l'adeguatezza della tecnica normativa utilizzata rispetto allo scopo di protezione". In questo modo, nella formulazione del pericolo astratto entra in gioco un criterio di "ragionevolezza" inteso come criterio che bilancia il requisito scientifico della concreta capacità offensiva della condotta con altri requisiti normativi. In sostanza, in materia di pericolo astratto non si pretende dalle leggi scientifiche di copertura una certezza piena, pari al 100%, sulla relazione casuale tra fatto e macroevento futuro, ma una certezza "ragionevole", ossia il raggiungimento di un certo livello di attendibilità e di credibilità nella previsione, il quale, unito ad altre valutazioni normative, contribuisce a tipizzare fattispecie di pericolo per le quali si riduce al minimo il rischio di uno scarto tra offensività in astratto ed offensività in concreto. Quanto alla clausola del coeteris paribus, essa non è eliminabile ove si ragioni secondo una prospettiva ex ante; anzi, in materia di pericolo astratto, detta clausola costituisce uno degli elementi che completano la base empirica di riferimento per la valutazione del pericolo. Questi elementi sono un insieme di condizioni standardizzate che si suppone generalmente costituiscano il "normale" contesto di svolgimento della condotta pericolosa. L'"astrazione" circa una serie di circostanze che si assume accompagnino normalmente il compimento di una data condotta pericolosa - anche se non conosciute dall'agente concreto - consente di considerare penalmente rilevanti solo quei comportamenti che "generalmente" realizzano un messa in pericolo del bene tutelato e che, in quanto desunti dal normale svolgimento degli avvenimenti, ossia dal prevedibile decorso delle cose a parità di condizioni, sono anche percepibili nel loro significato dall'agente concreto, per quanto sprovvisto delle cognizioni tecniche di chi ha posto la norma incriminatrice. Pertanto, per fissare una soglia normativa ragionevole di pericolo penalmente rilevante, l'attendibilità del dato scientifico deve essere un'attendibilità "ragionevole" dal punto di vista del diritto; e, dal punto di vista della creazione normativa delle fattispecie incriminatrici, il giudizio sulla carica di pericolo di talune condotte è ragionevole se ha ad oggetto condotte non eccezionali, condotte di normale realizzazione, condotte dominate e dominabili dalla volontà umana, condotte le cui modalità di esecuzione siano standardizzabili da parte del legislatore ed, infine, condotte che si inseriscono in un contesto empirico il quale, a sua volta, sia non eccezionale ed immaginifico, ma corrispondente al normale contesto empirico di svolgimento di una certa tipologia di azioni umane. Partendo da tali premesse, si è quindi tentato di verificare la "tenuta" offensiva delle tecniche di incriminazione incentrate sull'esercizio di attività in assenza di autorizzazione e sul superamento di limiti tabellari. Nell'ultima parte dell'indagine, il confronto tra il sistema sanzionatorio italiano ed il sistema sanzionatorio di altri ordinamenti europei fornisce lo spunto per un'ampia riflessione sulla necessità di rafforzare la risposta sanzionatoria, in chiave sia repressiva che preventiva. In questa prospettiva, si osserva che l'introduzione di nuove tipologie di pene, di natura interdittiva o consistenti in obblighi di ripristino dello status quo ante, sebbene avrebbe il pregio di innescare meccanismi intimidatori più efficaci di quelli prodotti dal ricorso alla pena detentiva - tenuto conto dello stretto collegamento tra i reati ambientali e l'attività professionale e di impresa-, tuttavia dovrebbe essere vagliata in un'ottica sistemica, cioè in una prospettiva di riforma dell'intero sistema sanzionatorio penale. Ciò, in quanto qualunque opzione di modifica delle sanzioni penali presuppone il raggiungimento di un punto di accordo preliminare su questioni centrali. Tra queste si annoverano: il mantenimento o la soppressione del binomio delitto-contravvenzione, l'eventuale abolizione delle pene detentive di breve durata, la connotazione in termini fortemente personalistici del contenuto delle sanzioni e, soprattutto, il modo di concepire il rapporto tra codice e legislazione penale speciale. Allo stato attuale, in assenza di serie possibilità di riforma del codice penale e del sistema sanzionatorio l'unico settore ove appare realisticamente praticabile la sperimentazione di nuove soluzioni sembra essere quello della responsabilità da reato delle persone giuridiche. A tal proposito, l'indagine richiama l'opportunità di inserire i reati ambientali nel catalogo di illeciti dei quali l'ente è chiamato a rispondere, nonostante le incertezze che tutt'ora permangono sulla reale efficacia repressiva e preventiva del sistema sanzionatorio attualmente vigente. Una scelta di questo tipo, infatti, allineerebbe l'Italia allo standard punitivo della gran parte degli ordinamenti europei e sarebbe in ogni caso il segno di un atteggiamento di maggior rigore del legislatore nei confronti della criminalità di ambito ecologico. Senza la pretesa di esaurire la portata di temi tanto complessi, lo studio affronta infine la questione della collocazione sistematica dei reati ambientali, descrivendone brevemente i modelli teorici di riferimento ed evidenziando come le sorti del diritto penale ambientale – anche sotto il profilo della riforma delle sanzioni - siano legate a doppio filo alle sorti dell'intera disciplina penale extracodicistica, di natura settoriale. Laddove il legislatore non si mostrasse ancora disposto ad affrontare il tema spinoso della riforma complessiva della legislazione penale speciale, sarebbe comunque non più procrastinabile un intervento di modifica della normativa penale ambientale. Sotto questo profilo, tenuto conto che in materia ambientale la disciplina extrapenale di settore incide sul disvalore offensivo dei fatti puniti, qualunque riforma delle norme penali incriminatrici non potrebbe che essere pensata in stretta correlazione con una riforma del diritto amministrativo, di modo che l'intera normativa sia conformata a criteri di razionalità, nella scelta delle sanzioni, nella tipizzazione dell'offesa, nella formulazione linguistica delle norme, a livello sia intrasistemico, che extrasistemico.
La ricerca in oggetto ha avuto lo scopo di analizzare la disciplina normativa e la rilevanza politico sociale di una delle pene più severe comminate dal tribunale della Santa Inquisizione: la confisca dei beni agli eretici. L'esame si è concentrato, in particolare, sulla centralità che questa pena assunse nei conflitti antiinquisitoriali che caratterizzarono i vari tentativi da parte della corona di introdurre, nel Regno di Napoli, un'Inquisizione di tipo spagnolo. La costante reazione popolare che vide uniti come mai prima popolo, nobili e ceto togato, apparve diretta più che contro l'Inquisizione, contro l'uso indiscriminato di una pena che, rappresentando un utilissimo strumento di progressione monarchica, minava alle basi l'autonomia delle organizzazioni politiche locali. Le fonti su cui si è diretta la nostra attenzione sono state per la prima parte della tesi quelle tipiche del diritto comune per la seconda, invece i manoscritti della biblioteca nazionale di Napoli e i numerosi documenti ritrovati nell'Archivio di Stato e in quello diocesano. Il primo capitolo della tesi si è concentrato sull'esatta ricostruzione normativa della pena attraverso il vaglio di norme sia del Corpus iuris civilis che del Corpus iuris canonici. L'esame ha dimostrato che la confisca, anche se limitatamente ai casi di lesa maestà umana, fu prescritta per la prima volta nelle leges QuisQuis di età imperiale che ne sancirono la caratteristica peculiare: a patire le colpe dei condannati erano anche i discendenti non colpevoli degli stessi i quali venivano spogliati dei loro beni, della capacità di contrarre e di ogni altra dignità civile. Parzialmente revocata dalla lex Sancimus e dalla lex Cognovimus la costituzione in esame non fu mai estesa dagli imperatori cristiani alla discendenza degli eretici. La pena venne, poi, adottata anche nel diritto canonico a partire dalla Vergentis di Innocenzo III con la quale il papato equiparò l'eresia ad un crimine di lesa maestà stabilendo in modo definitivo il carattere pubblico dei reati di fede. In particolare la confisca assunse carattere retroattivo con l'effetto di annullare tutti gli atti inter vivos e mortis causa stilati nel periodo intercorso tra il delitto e la sentenza. Più tardi, le Gazaros di Federico II prescrissero il castigo dell'infamia e della confisca anche contro i figli ortodossi degli eretici pertinaci sottolineando la maggiore gravità del reato di lesa maestà divina rispetto a quello di lesa maestà umana. Fu, infine, la Cum Secundum Leges di Bonifacio VIII a rendere la confisca una pena in ipso iure o latae sententiae a tutti gli effetti con l'obbligo per il colpevole di consegnare spontaneamente i beni alle autorità fiscali senza necessità di alcun intervento giudiziario. L'esame normativo della confisca ha cercato anche di evidenziare, seppur sinteticamente, le significative divergenze dottrinali e giuridiche sull'uso della pena che, nonostante le comuni basi di diritto canonico, esistevano tra Inquisizione romana e Inquisizione spagnola. Il riferimento ha riguardato, in particolare le istruzioni dettate dal Torquemada e il suo, meno noto, codice del 1484 ritrovato nella Storia Universale di Cesare Cantù . Da queste fonti è stato possibile desumere che i sequestri, in Spagna, venivano applicati, di norma, prima delle sentenze; che l'infamia e la perdita dei beni erano estese anche ai discendenti e l'esproprio finiva per riguardare persino i pentiti. Gli inquisitori, del resto, avevano poteri illimitati. Potevano, infatti, condannare alla tortura, come falso penitente, ogni riconciliato la cui confessione veniva giudicata, arbitrariamente, imperfetta e corroborata da un pentimento solo simulato, nonché, quanti erano accusati di aver nascosto molti peccati durante la confessione giudiziale. L'interesse si è, successivamente, spostato, sulla disputa relativa alla legittimità della pena che divampò nella prima metà del XVI secolo. L'esame delle fonti di diritto comune ha dimostrato che il punto centrale del dibattito riguardava l'ammissibilità di sanzioni, definite dalla storiografia "puramente penali", in cui il castigo era integralmente sganciato dagli elementi soggettivi della fattispecie normativa astratta e gli effetti della pena si estendevano anche a soggetti pienamente innocenti. I giuristi dell'umanesimo giuridico italiano e francese cercarono di restringere la portata della pena attraverso interpretazioni che ne riconducessero gli effetti entro ambiti di stretta legalità. L'Anarcano , ad esempio, considerava la confisca latae sententia contraria allo ius naturae e negava la liceità della condanna post mortem ammettendo la capacità di donare, testare e alienare del presunto eretico. Ancora De Vio avvalorava l'obbligo della sentenza prima dell'acquisizione fiscale dei beni del condannato e insisteva sul fatto che il reo poteva considerarsi obbligato solo ad assolvere una pena regolarmente prescritta non certo ad infliggersela spontaneamente. Fu poi Budè a sferrare l'attacco definitivo contro le leggi che colpivano gli eredi dei condannati per eresia nel Commento alle Pandectae del 1508 nel quale definiva la pena della confisca una norma orrenda estranea alla tradizione romana e contraria ai fondamenti stessi della giustizia. Eppure una revisione generale delle posizioni finora quasi unanimemente condivise, in materia d'Inquisizione, sembra attraversare la storiografia più recente . Su di essa è sembrato doveroso concentrare l'attenzione per comprendere i nuovi sviluppi delle attuali ricerche. Alla luce di questi studi la terminologia inquisitoriale avrebbe fuorviato non pochi studiosi contribuendo alla diffusione di una ingiustificata cattiva fama dell'istituzione che è durata per secoli. Il Sant'Ufficio non appare più, oggi come un tunnel di errori, abusi e violazioni dei diritti umani ma l'unico tribunale dell'epoca a garantire l'osservanza di un codice giuridico moderato e una prassi procedurale uniforme. Questi studi dimostrano come solo una piccola percentuale dei processi di fede si concluse, effettivamente, con la pena di morte e come, nelle sentenze, predominassero pene molto lievi. Il processo, del resto, assumeva connotati altamente garantisti concedendosi agli imputati la possibilità di chiedere il cambiamento della sede in caso di corruzione dell'inquisitore che si occupava del caso e di avvalersi sempre di un avvocato difensore. Queste tesi storiografiche lasciano, a mio avviso, non poche perplessità. La presunta clemenza del sacro tribunale viene largamente smentita oltre che dalle critiche dei giuristi dell'evo medievale e moderno da quei manuali che nel 500 rappresentarono il vademecum cui il giudice inquisitore avrebbe dovuto attenersi nell'amministrazione della giustizia. Il Directorium di Eymrich, poi ripreso e commentato dal Pena nel cinquecento, il Iudicale Inquisitorium di Umberto Locati ed il Sacro Arsenale di Eliso Masini , su cui pure si è concentrata la nostra analisi, rappresentano un esempio lampante in tal senso. Analizzarli ha significato comprendere, attraverso la forma della prassi giudiziaria, come la confisca dei beni venisse, effettivamente, applicata nel cinquecento. Dai manuali emerge che dopo la cattura del reo, nella stragrande maggioranza dei casi, la dimora dove abitava l'eretico o erano custodite cose eretiche era posta sotto sequestro. L'autorità politica, in collaborazione con quella ecclesiastica, entro un certo lasso di tempo, aveva l'obbligo di provvedere, a sue spese, al recupero di tutti i beni in essa rivenuti e, su autorizzazione delle autorità ecclesiastiche, di procedere alla distruzione della casa, dalle fondamenta . La confisca trovava un'applicazione spietata. Secondo i tre inquisitori non era ammessa alcuna possibilità di pentimento "salvifico" per i penitenti che confessavano spontaneamente le loro colpe dopo l'emanazione della sentenza; non era prevista nessuna grazia neppure per i recidivi e per coloro che avevano persistito nell'eresia «per multo vel parvo tempore» e si ammetteva, per prassi, la possibilità di procedere alla pubblicazione dei beni anche dopo la morte dell'eretico «non obstante», in tal caso, il principio per cui «crimine morte estinguntur quo ad temporales pena» . I figli degli eretici subivano la punizione anche se ortodossi. Questo passaggio della pena da padre in figlio, di generazione in generazione, trovava un fondamento preciso. Si consideravano "intrasmissibili", infatti, solo le pene dette "puramente" personali, come ad esempio la pena di morte, per le quali era impossibile scorporare la responsabilità per il fatto dall'autore del reato, essendo , invece, la confisca una pena patrimoniale, si ammetteva la possibilità che fosse espiata «per alium» . La pena non trovava applicazione solo contro i beni dei membri eretici del clero i quali andavano semplicemente restituiti alla Chiesa che li aveva loro erogati a titolo di mero mantenimento . L'interesse della ricerca, nella seconda parte della tesi, si è spostato sulla ricostruzione normativa e i riflessi socio-dottrinali che la pena della confisca ebbe nel Regno di Napoli. Incrociando i manoscritti inediti conservati presso la Biblioteca Nazionale, le carte dell'Archivio di Stato e i processi dell'Archivio diocesano si è potuto evincere che la storia della confisca dei beni nel Viceregno ha assunto connotati del tutto particolari intrecciandosi, inevitabilmente, con le travagliate vicende relative all'introduzione in esso della Santa Inquisizione. Per la prima tipologia di fonti particolarmente rilevanti appaiono, tra gli altri, gli scritti inediti di Rubino , Parrino , Gio Battista Giotti e Pietro Di Fusco , e i notamenti e le carte sciolte dell'Archivio di Stato quanto, invece, alla seconda tipologia lo spoglio dei processi del fondo Sant'Ufficio ha riportato in luce casi processuali di rilevantissimo significato. L'obbiettivo è stato quello di scardinare le tesi di quanti, semplicisticamente, liquidavano la centralità acquisita, nel napoletano, dai vescovi nella cura dell'ortodossia con la sufficienza della giurisdizione ordinaria alle cause di fede della città e quella di quanti, invece, riconducevano i loro poteri straordinari ad una delega segreta di Roma volta ad eludere l'opposizione popolare. Da una parte, infatti, appare con certezza che il fulcro reale intorno al quale ruotarono i tumulti che tra il cinquecento ed il seicento si scatenarono nel Viceregno spagnolo fu la confisca dei beni, dall'altro dubbi si pongono anche quanto alla provenienza del conferimento del titolo di inquisitori ai vescovi. L'uso indiscriminato della pratica della confisca dei beni fu introdotto, per la prima volta a Napoli, in seguito dell'entrata in vigore della prammatica aragonese "De Blasphementibus" del 1481 . Ferdinando il Cattolico avocava a se la competenza di uno dei reati di eresia considerato baluardo della cura dell'ortodossia e sanciva la pena della confisca di un terzo del patrimonio contro i blasfemi con modalità processuali del tutto diverse da quelle tipicamente adottate nei tribunali vescovili. La prammatica fu successivamente riconfermata dal sovrano nel1483 . La necessità di intervenire sul tema, a distanza di soli due anni, era legata all'urgenza di rimarcare la competenza regia su un crimine che avrebbe consentito indirettamente di estendere, non poco, il controllo sui reati di fede. L'impegno profuso in ambito penale collideva con i privilegi che in materia di Inquisizione lo Stato da sempre aveva concesso ai Napoletani. Quando il sovrano cercò di introdurre, per la prima volta, il Sacro Tribunale nel 1510 fu costretto ad emanare un editto nel quale rendeva noto «que la Inquisition espanola se quietasse par el sossiego y bien universal de todo, y con esso la confiscation» . Il "Re Cattolicissimo", dovendo rinunciare ad un tribunale alla spagnola stabile, emanava, nello stesso periodo, due prammatiche che concretizzavano nei fatti quello che il rescritto reale si proponeva di scongiurare realizzando i fini per cui l'Inquisizione era nata in Spagna: l'espulsione "Hebreorum sive Iudaorum". La prima prammatica ordinava che gli Ebrei, di sesso sia maschile che femminile, a partire dai dieci anni di età si rendessero riconoscibili ai membri della comunità cristiana indossando al petto un segno di panno rosso. Chi avesse contravvenuto a tale disposizione avrebbe pagato una multa pari ad un oncia d'oro. La seconda, più rigida, vietava ogni forma di «commixtio atque conversatio» tra i perfidi Giudei e i probi Cristiani e stabiliva che tutti «gli Ebrei e i nuovamente convertiti di Puglia e Calabria» nonché quelli che se n'erano fuggiti da Spagna e si trovassero condnnati da Santo Officio […]» fossero espulsi irreversibilmente «a Civitate Neapolis totque Regno» . Stessa tattica quella di Carlo V. Dopo la sua ascesa al trono, il sovrano cercò nuovamente di introdurre un tribunale alla spagnola stabile ma i dissidi popolari furono a tal punto cruenti da costringerlo a riconfermare, almeno in via formale, l'attribuzione agli ordinari della competenza dei reati di fede . Il sovrano in realtà era forte delle Prammatiche con cui ribadiva le disposizioni contro i blasfemi e i Giudei sancite dal suo predecessore acuendone la portata. Del resto, anche Filippo II per sedare i tumulti contro l'Inquisizione sorti tra il 1564-5, da una parte, emise una declaration nella quale dichiarava di «non haver dicto che la dicta Cità y Reyno habbia havere la Inquisition en la forma de Hespana» dall'altra riconfermava la pena della confisca dei beni per i Giudei e i blasfemi emettendo una prammatica nella quale aumentava le pene stabilite in precedenza aggravandole con quattro anni di galera. L'uso della confisca era, dunque, indubbiamente fissato in norme di legge astratte ma ciò che rileva alla luce delle più recenti scoperte è che anche la sua applicazione fu costante tanto che la resistenza alla pena non fu solo quella di carattere teorico-culturale condotta dagli autori anticuriali ma assunse le vesti di una vera e propria opposizione sociale. La riottosità alla confisca accomunava tutti gli strati della società realizzando una solidarietà cetuale mai conosciuta prima. La motivazione che spingeva nobili e toghe a restare uniti contro il Sacro Tribunale era svincolato dai privilegi di casta e legato piuttosto all'uso spietato della confisca che colpiva incondizionatamente la nobiltà come personaggi più direttamente legati al sovrano, quando con la loro ricchezza minacciavano di ricoprire un ruolo politico prestigioso nel Regno. Per questo motivo anche i togati che, nella polemica anticuriale, avevano da sempre difeso gli interessi della corona a scapito delle rivendicazioni della Chiesa, appoggiarono l'opposizione in principio innescata dalla nobiltà e propagandarono, a mezzo stampa, una visione negativa dell'Inquisizione in generale che serviva a garantire l'appoggio del popolo nella lotta anticuriale. Attraverso quest'opera di propaganda i cittadini condivisero l'opposizione dei ceti alti all'instaurazione di un tribunale di fede diverso da quello ordinario. Non è un caso che, nel riferire gli avvenimenti del 1661, Rubino ribadisca che « la Città tutta e tutti li cittadini », senza alcuna distinzione di ceto, « erano pronti ad abbrusiar le case» se il tribunale dell'Inquisizione avesse permesso l'uso della confisca dei beni e aggiungeva, ancora, che era questo il motivo che induceva « tutte le persone di qualsivoglia che fusse» a desiderare « che lo tribunale de lo Santo Officio vi fusse ma che si esercitasse dall'Ordinario e cancellando anco affatto il nome di Inquisizione » . Scopo di tutti era avere la certezza « acciò che da tutti si venisse sicuro che mai in questa Fid.ma Città e Regno ci debba essere confiscatione di beni per delitti di heresia come si sperava inviolabilmente per futura notizia di questa Città Ill.ma » . Anche il Parrino nell'opera dal titolo Teatro eroico e politico de governi del vicerè di Napoli individuava i motivi della rivolta nella necessità da parte di tutto il popolo di difendersi dagli attacchi della confisca. Nella disamina dei fatti è chiara l'unione tra ceti che distinse l'intera vicenda. I cittadini, senza distinzione di casta, erano uniti per ottenere contro la confisca «un rimedio» che durasse « per sempre » . A suo dire, infatti, i sequestri comminati per motivi di fede, erano numerosi. La stessa rivolta del 1661 non era legata solo al più noto caso del conte di Mola, ma nel suo manoscritto l'autore ne annoverava almeno altri sei. Nel rendere noto che per sanare i conflitti del 1661 si supplicava sua Altezza di « stabilire che mai vi fosse confiscatione de beni […] et che si facesse supplicatio S. A in generale a mantenere senza novità e senza confiscatione di beni negli delitti di heresia», annoverava tra gli inquisiti a cui erano stati confiscati i beni ad opera dell'Inquisizione, anche il conte delle Noci, due gentiluomini che erano al suo servizio, Vincenzo Liguoro rappresentante della piazza di Porto « et in ogni modo li altri signori Liraldo, Mirabello et Alessandro di Cassano » . A ribadire le osservazioni del Rubino e del Parrino fu Giò Battista Giotti, nel suo Raggioni per la Fidelissima Città di Napoli negli Affari della Santa Inquisitione. Nel manoscritto l'Inquisizione era considerata pericolosa perché portava con se la pretesa di confiscare i beni agli eretici. « I litigi ogn'ora agitati» fungevano, per il Giotti, da astuti stratagemmi per confiscare beni e soddisfare interessi meramente fiscali. Spesso questi interessi erano il pretesto per « figurare macchie di Religione in alcuni degli stipiti donde le azioni provengono» col solo scopo di sottrarre beni a coloro contro i quali venivano intentate azioni legali. Per ottenerne l'appoggio nella lotta anticuriale il popolo minuto diventava il principale bersaglio dell'Inquisizione. Essendo, infatti, gli artigiani, i lazzari, i bottegai ecc. i più inclini a commettere, anche involontariamente, peccati come « la nefanda libidine, la golosità ne cibi ne giorni vietati, l'inosservanza de digiuni, la trascuraggine de divini ufficij ne tempi stabiliti, lo studio delle scienze divinatorie e l'esercitio delle vane superstizioni » per i quali era prevista la pena della confisca e la perdita di tutti i beni era opportuno restare uniti nella difesa di interessi civili comuni a tutti i ceti. Ma la dimostrazione più tangibile dell'uso della confisca e delle sue ripercussioni sociali risulta particolarmente evidente nei processi conservati presso il fondo Sant'Ufficio dell'Archivio diocesano di Napoli. Dall'esame di questi processi emergono numerosi dati. Oltre alla certezza che la confisca, contrariamente che nel resto d'Italia, veniva comminata anche dal tribunale ordinario, il primo dato che salta agli occhi è che nel Regno la confisca dei beni colpiva gli Ebrei e i nobili locali per non trovare alcuna applicazione contro eretici "maggiori", come i Luterani, per i quali il tribunale del Sant'Ufficio era stato riformato con il Concilio di Trento. Appare desumibile, inoltre, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza della dottrina, accanto alla Curia vescovile esisteva, nel Regno, un tribunale delegato del Sant'Ufficio con giurisdizione, competenze e apparati autonomi. I processi contro i seguaci di religioni eterodosse, infine, a differenza di quanto sostenuto, ancora una volta, dagli autori anticuriali, erano molto numerosi. Se, infatti, nei loro manoscritti il candore di fede dimostrato dai Napoletani giustificava le esenzioni e i privilegi concessi dai sovrani e li induceva ad ammettere l'uso di procedure straordinarie solo contro Ebrei e Saraceni bersagli dell'Inquisizione spagnola, la presenza di processi contro luterani, calvinisti, anabattisti, greci-ortodossi, e perfino seguaci di Zwingli di cui l'Archivio diocesano è pieno, dimostrerebbe quanto l'eterodossia fosse, invece, radicata nel Regno. Il primo processo preso in esame è quello condotto dal ministro delegato del Sant'Ufficio di Roma Carlo Baldino che ha come protagonista Gio' Cola de Marinis barone del Cilento . Il processo risale al febbraio del 1587. I capi d'accusa contestati sono molteplici. All'accusa di «non aver compiuto quanto necessario alla salute dell'anima» si aggiungono quella «di non avere distinto il Paradiso da lo Inferno e dunque il bene da lo male; di non aver fatto astinenza né digiunato nei giorni stabiliti considerandoli abusi del Papa e della Madre Chiesa; di aver negato l'adorazione de' Santi ch'essa è idolatria; di non aver creduto alla necessità de' sacramenti ma solo alla parola del vangelo; di non aver creduto al sacramento della comunione e nella consustanziazione del Corpo di Cristo nell'eucarestia». Nell'abiura cui fu sottoposto, il De Marinis riporta un dato interessante ai fini della ricerca. Racconta, infatti, che «havendo fatto resolutione di far bona confessione generale» si era recato «dal P. R. de li Regolari Santo Apostolo di Napoli» il quale «havendo preso da me tutto il fatto mi dicea ch'era mia absoluto bene per non subjre li tormenti e la confiscatione confessar a l'altrui chi m'havea adescato per l'absolutione da simili eccessi […]». Era questo timore che l'aveva indotto a recarsi «prontamente a cercar perdono a N.S. Dio alla Santa Madre Chiesa » e a confessare « tutto il fatto […] e tutti li complici […] a V.S. come ministro de lo Santo Officio». Per quanto il processo si sia in effetti concluso con l'assoluzione dell'imputato dall'ultima affermazione riportata si desumono due dati interessanti. Inanzitutto contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia più risalente appare chiaro che nel Regno le cause di fede erano controllate anche da uffici dell'Inquisizione stabili, sostanzialmente autonomi dalla Curia vescovile e dipendenti direttamente dalla Congregazione del Santo Ufficio di Roma. Di poi l'altra osservazione riguarda la normalità con cui veniva avvertita la pena della confisca dei beni dagli "addetti alla confessione" la quale, alla stregua dei "tormenti", appariva quasi una tappa obbligata del processo inquisitorio. Le accuse imputate al De Marinis lo accostano ad un Luterano e, di fatti, dall'esame di altre carte processuali contenute nell'Archivio diocesano e prese in esame in questa sede, si profilava l'esistenza a Napoli, tra il cinquecento ed il seicento di una folta comunità di luterani e calvinisti che predicavano e diffondevano i loro dogmi tra gli strati più disparati della società. Luterano era Sigismondo Chemer , sponte comparente, giunto a Napoli da Norimberga per frequentare l'università, il quale denunciava all'Inquisitore di essere Luterano « da che havea havuto cognizione et uso di ragione ». Il Chemer confessava di aver continuato a vivere ereticamente « et a sequitare queglia vita et a essere hereticissimo» fino a sei mesi prima della sua spontanea comparizione. In particolare non aveva mai creduto alla potestà del Pontefice ed alla necessità delle indulgenze il che lo aveva indotto a non rispettare le censure e i divieti imposti dalla Chiesa; non aveva mai venerato le immagini dei Santi giacchè, non esistendo il Purgatorio, non era necessaria la loro intercessione per accedere al Paradiso e, quanto ai sacramenti, egli aveva creduto nella sacralità del solo battesimo e dell'eucarestia e, per questo motivo, aveva deciso di non sottoporsi alla confermazione. Per il resto confessava di mangiare carne di venerdì, sabato, nelle vigilie e nei giorni proibiti disprezzando i precetti papali, e di comunicarsi non secondo l'uso cristiano ma sub utraque spetie. Il Chemer raccontava di aver sempre approvato quei dogmi al punto da diffonderli « oppugnando e contrastando alla fede cattolica […]». Luterano era anche Joannes Ruf, di dicotto anni, proveniente da Villa Keinign un paese lontano circa otto leghe da Norimberga. Il ragazzo era nato da padre luterano e mamma cristiana e resiedeva in Napoli in via Toledo presso il maestro Lorenzo Flamengo per il quale esercitava la professione di scrivano. Dal racconto del Ruf emerge che era stato il padre ad iniziarlo alla nuova setta sicchè sin da piccolo aveva cominciato a confessarsi e a comunicarsi nel modo dei luterani. In particolare egli si confessava in generale senza esprimere i peccati singolarmente e dicendo « io me confesso haver peccato innanzi a Dio et innanzi al mondo con pregar Iddio di volere perdonare con animo di voler essere migliore per l'avvenire». Quanto al sacramento dell'eucarestia per ben cinque volte si era comunicato sub utraque spetie cioè senza credere che « sotto la spetie del pane e del vino fosse il vero corpo e sangue di Christo » opinione che aveva mantenuto fino al giorno del suo interrogatorio. Luterano, infine, Stefano Orellio , anch'egli, come gli altri, sponte comparente, venuto, apposta nel Regno per convertirsi. I capi di imputazione che gravavano su di lui erano molteplici. Al tedesco veniva obiettato di non aver creduto che Gesù Cristo fosse Dio « né che fusse stato di verginità concetto » ma di aver sostenuto e divulgato che era un uomo nato, come tutti gli altri, dalla congiunzione carnale tra Maria e Giuseppe. Come gli altri Luterani aveva dubitato che oltre all'inferno per i cattivi e al paradiso per i buoni esistesse il purgatorio per coloro che non avessero integralmente espiato i peccati sulla terra e non aveva mai prestato fede all'intercessione dei Santi considerando idolatria omaggiarne le immagini. Condivideva, del resto, con gli altri membri dell'empia setta a cui apparteneva, l'opinione per cui nell'ostia non c'era il vero corpo di Cristo «ma un poco di pasta cossì fatta» e veniva accusato, infine, di aver negato la potestà del Sommo Pontefice di ordinare le indulgenze additandolo, nei suoi sermoni pubblici, come l'anticristo inviato dal male. Il luterano aveva divulgato tutte queste credenze invitando i cattolici a contravvenire ai divieti della Chiesa. Tali divieti, non essendo supportati da alcuna autorità, potevano essere liberamente violati essendo lecito mangiare carne, latticini e gli altri cibi proibiti nei giorni dedicati al Signore. Al di là dei capi d'imputazione, ciò che si evince nei processi esaminati è che nonostante la molteplicità e la particolare gravità delle accuse mosse, le sentenze definitive di condanna apparivano particolarmente miti rispetto a quelle comminate dai tribunali delegati romani per gli stessi casi. I tre Luterani, del resto, erano stati indotti a presentarsi spontaneamente al tribunale di fede per confessare la propria eresia dopo aver soggiornato per circa sei mesi nella casa del vescovo, consultore della santa fede nonché inquisitore. Se ne deduce che per il controllo dell'eresia luterana nel Viceregno era stata escogitata una particolare procedura. I prelati che avessero avuto notizia, durante la confessione, di sospetti di luteranesimo avevano l'obbligo di informare il consultore della congregazione della fede, normalmente il vescovo, affinchè chiamasse a se la persona sospetta e cercasse, in un lasso di tempo non superiore ai sei mesi, di convertirla al cristianesimo. Se la conversione aveva buon esito, il convertito veniva indotto a sottoporsi ad un processo inquisitorio nel quale la confessione spontanea e la certezza della conversione fondavano la sentenza per assoluzione dalle pene maggiori, compresa quella di confisca dei beni, le quali venivano, normalemente, commutate in penitenze pubbliche come monito per gli altri eretici. Più complessa la ricostruzione del processo contro il duca salernitano Giovanni Sabbato Califre . L'accusa mossa era quella di bigamia. Il caso partiva dalla confessione resa da Valenzia Formisano, seconda moglie del Califre, al parroco del suo paese. Contro il Califre veniva aperto d'ufficio un processo che vedeva la comparizione di numerose persone. Chiusa la fase istruttoria apparve indubitabile che il duca contratto due matrimoni. Le deposizioni della difesa non bastarono ad evitargli una sentenza di condanna in contumacia. L'Arcivescovo fu irremovibile: « ipsum excomunicamus et intimamus confiscationem bonorum». La vertenza passava ad "ministrum aerarium fiscalem causarij". Citato a giudizio, questa volta il Califre decise di comparire all'udienza. In questo modo sperava di ottenere, attraverso la denuncia di persone sospette, la commutazione del sequestro dei beni con una pena di minore entità. Per le denunce e la confessione rese il Califre veniva, assolto « dalla scomunica maggiore, et tutte le altre censure, confiscationi et pene» a lui imposte, per essere condannato « a servire per remiero nelle Regie Galere per anni cinque prossimi continui» lasso di tempo dopo il quale le autorità si impegnavano a «rilasciare il sopravvenuto sequestro». Rileva nel processo che l'interrogatorio del vescovo era sempre seguito da uno del "Reggente" e che, dopo la condanna, il caso si aprì di nuovo questa volta "D.Nos Regentes et iudices Vicariae" rei di aver liberamente modificato la pena imposta per una causa già conclusa. A suscitare la controversia fu un ordine del duca D'Ossuna con il quale, probabilmente per l'intercessione del fratello e del suocero del Califre nonché di membri influenti del casale, dopo appena quattordici giorni di permanenza, il condannato fu fatto prelevare dalla galera per essere ricondotto nelle carceri della Vicaria. La giustificazione dell'ordine risiedeva nelle condizioni di salute dell'uomo. L'autorità politica, in realtà, subiva le pressioni della nobiltà napoletana ma cercava, allo stesso tempo, di protrarre quanto più a lungo possibile nel tempo gli effetti della pena. La sentenza emessa in secondo grado, infatti, aveva visto la commutazione della condanna dalla scomunica maggiore a cinque anni di triremi ma l'esenzione dalla confisca dei beni era stata solo parziale. A ben guardare, si prevedeva che la restituzione del patrimonio al Califre e l'annullamento del sequestro dovessero eseguirsi solo allo scadere della pena. Il che significava che, in caso di morte del duca prima dei cinque anni, cosa altamente probabile sulle galere, il legittimo successore nella titolarità dei suoi beni dovesse considerarsi l'ultimo che ne aveva detenuto il possesso e quindi, in questo caso, il fisco cui ne spettava, nel frattempo, il godimento e l'usufrutto. Spinti dalle pressioni della nobiltà, gli ufficiali regi avevano cercato di sedare gli animi con una parziale e limitata modifica della sentenza che serviva anche a scongiurare il tentativo dei membri del casale di chiederne l'annullamento, in ultima istanza, direttamente al Papa. Ma, placati gli animi, il casato dovette presto ritirare il suo intento. La sentenza conclusiva, emessa nelle persone di «Alessandro Bosolino in spiritualibus e temporali bus vicarius et officilibus vobis Ill.bus Dnõs Regenti, iudicibus Magnae Curiae Vicariae Neapolitana ac alijs», chiudeva definitivamente la questione ed eliminava ogni dubbio. Si stabiliva che per la salute della sua anima Giovanni Sabato Califre dovesse essere restituito alle triremi o quinqueremi regie essendo «nullum et impossibile appellari ad Summum Pontificem». Nel riconfermare la pena alla galera precedentemente imposta i giudici affermavano che il monitorio regio era nullo e nessun intervento era più possibile tanto ai secolari quanto al Papa perché la pena era già stata mutata una volta «ab declaratione excomunicationis» e perché «spettavit ac spectat cognitio huiusmodi criminis in Tribunalis S. O.» rientrando questa «heresis suspicione in abusu sacramenti matrimoni». Che il reale interesse fosse quello di ottenere il repentino dissequestro dei beni era dimostrato dal fatto che nella sentenza definitiva emessa dal tribunale in composizione mista l'impossibilità di commutare ulteriormente la pena era fondata su norme di diritto fiscale che, a quanto pare, «nec impugnationibus nolle ullo modo consentire in iudice nec potest componendi». Si conclusero con la condanna alla confisca anche i processi contro Giovan Giacomo Corcione e Francesco Castaldo accusati di ebraismo ratione peccati . Il caso si apriva per la denuncia di un certo Giovan Battista Ristaldo il quale, per discolparsi dai sospetti di eresia che cominciavano ad annidarsi sul suo conto, sviava l'attenzione dell'inquisitore su Corcione della Fragola e l'amico Castaldo. Era «cosa nota » affermava il denunciante che il Corcione « non senta bene de fide poiché porta molte profetie per provare che ancora non sia venuto il Messia». Secondo le deposizioni d'accusa era abitudine del Corcione «strappare l'ostia consacrata» e, di persona, aveva potuto assistere ad un rito nel quale l'ostia veniva «strappata havendola sopra andato con il corpo […] dicendola Idolo la quale ostia era stata consacrata da un prete de Fragola che non me volse nominare […] decendomi de più che avrebbe voluto trovare un altro che havesse voluto fare quell'esperientia». Il Corcione, appariva come il capo carismatico della setta. Conosceva, a memoria, «la gabbalà» e parlava perfettamente la «lingua canina». Quanto al Castaldo molti abitanti della Fragola, sua città natale, davano certezza della sua adesione alla setta ebraica. Gli ebrei non violavano solo il divieto di «conversatio atque commistio» con i cristiani sancito sia dall'Inquisizione romana che da quella spagnola ma si rendevano colpevoli di un delitto ancora più pesante. Avevano contrastato la fede cattolica cercando di convertire all'ebraismo individui pienamente cristiani. Per questo « in Curia Archiepti Neapolitana» nella vertenza «in super dnos fiscum inquirente contra Joannes Jacomo Corcione et Joannes Fracisco Castaldo inquisiti causae haeresiae» il «ministrum aerarium fiscalem causarij» intimava la confisca in modo anomalo. Precisava infatti l'ufficiale fiscale che gli eretici non venivano condannati a deporre al fisco l'«unum quartum» dei loro beni, come era previsto dalle Prammatiche reali precedentemente emesse, ma intimava «confisca ipsorum omnium honorum» per aver cercato di convertire altri cristiani.In conclusione, dall'esame condotto sui processi dell'Archivio diocesano appare indubitabile che la confisca dei beni nel Regno era regolarmente applicata solo per nobili ed Ebrei. Ma occorre porre attenzione su altri particolari interessanti. In primis i processi vescovili che seguivano la via straordinaria non erano affidati alla competenza generale della Curia ma ad un particolare ufficio preposto alla materia fiscale; altro dato da non sottovalutare, è che i presbiteri a cui venivano affidati i casi, erano indicati nelle formule di rito con il titolo non meglio precisato di ministri in spiritualibus et temporalibus de lo Santo Officio. Ciò, se si tiene conto della diversa dicitura usata per l'individuazione dei ministri con le stesse competenze nei tribunali delegati di Roma o dei tribunali alla spagnola, connota di una complessità ancora maggiore la struttura dell'inquisizione napoletana. Sembrerebbe, infatti, che i ministri in questione avessero ricevuto una doppia delega, sia ecclesiastica che temporale. Essi erano al tempo stesso servitori del vicerè di Napoli e commissari spetialiter deputati della Congregazione della Santa Inquisizione. Si realizzava una tipologia processuale che aveva alla base l' anomala struttura giudiziaria di un tribunale di fede misto che tendeva indubbiamente ad un prototipo più vicino per forma alla sua configurazione spagnola. La giustificazione a questo comportamento probabilmente risiedeva nella volontà dello Stato spagnolo di rivestire il ruolo di promotore delle campagne antiereticali sia stimolando il clero locale sia cercando di controllare indirettamente i tribunali di fede. Non potendo instaurare un tribunale di fede autonomo, l'intento, in pratica, era quello di rigettare il titolo di " Commissario delegato della Santa Inquisizione" imponendo, nello stesso tempo, nei tribunali di fede una presenza che fosse anche laica. Del resto nota è la tendenza spagnola di eleggere vescovi quali inquisitori. Se la teoria sposata fosse giusta verrebbe scardinata la tesi di Elena Brambilla e di tutti coloro che vedono in un accordo segreto tra i vescovi e Roma lo strumento che legittimava la Curia ad usare le procedure straordinarie nelle cause di fede. Semmai, secondo questa ricostruzione era l'appoggio del governo e la sua fiera resistenza ad un Inquisizione quale quella romana che estrometteva il potere laico dalla compagine giudiziaria a rendere la cura dell'ortodossia quasi di totale appannaggio della Curia vescovile. A questi elementi occorre aggiungere che con le prammatiche aventi ad oggetto il reato di blasfemia e quelle contro i Giudei i sovrani avevano mostrato chiaramente l'intento di mantenere il controllo delle cause di fede. In una prammatica, in particolare, ad esempio, si incaricava il Tribunale della Vicaria, le Udienze e tutti gli Ufficiali del Regno «si Regj che Baronali […] che usino tutta la sopraffina attenzione nella Inquisizione che dallo Stato si farà de' bestemmiatori » . Il Giotti, invece, nel descrivere cosa dovesse intendersi per modo di procedere ordinario alludeva ad una stretta collaborazione tra vescovi Collaterale e Vicerè. Chi amministrava le cause di fede, infatti, aveva il potere di imbastire autonomamente le cause, di provvedere alle indagini, di raccogliere gli elementi probatori, di valutarli ai fini della sentenza e anche quello di scegliere le pene più adatte al caso ma la condanna, doveva necessariamente essere sottoposta al vaglio del Consiglio Collaterale che, a sua volta, se lo riteneva opportuno, dava il beneplacito per l'esecuzione della sentenza su espressa autorizzazione del Vicerè. Questa stretta collaborazione è chiara nelle sue pagine. Scrive ad esempio, relativamente ad un caso, che «l'Arcivescovo cosentino dimanda a Regj del Collaterale di ottenere la castigatione di alcuni macchiati di eresia negli anni stessi, e scrittane parere favorevole al vicerè, rispose che presti all'Arcivescovo aiuto con che non si comandino se non come le leggi civili vogliono e nel tempo medesimo si ritrova, che il vescovo di Mottola procede contro il Barone di quel luogo come similmente in altri affari il Prelato di Agnola» . Ma il Giotti riporta anche molti esempi di inquisiti di religione catturati dalla Vicaria criminale e « con decreti poi agli ordinari conceduti» . A ciò si aggiunge che in un anonimo manoscritto dei primi del seicento nel difendere l'Inquisizione romana l'Autore affermava che la prassi di eleggere vescovi come inquisitori controllati dal sovrano di Spagna si perpetrò nei secoli. Questa consuetudine era stata introdotta da Ferdinando il Cattolico, si era rinnovata anche ai tempi di Carlo V e di Filippo II, ed era seguita fino al 1560 quando vennero eletti inquisitori il D.V. Bernardino Croce e nel 1561 il D.V. Annibale Moles al fine di «confiscare le robbe de condannati per delitti di eresia». La praticasi era perpetrata, «segretamente nelli secoli» da quando don Pietro da Toledo aveva emesso un editto in materia di Inquisizione nel quale stabiliva che non poteva ammettersi, nella cura dell'ortodossia, altro ministro « in questa occupazione più utile per colui che la esercita che amabile a chi l'esercita che tra i molti vescovi dependenti da Regj» . Il Parrino, infine, nella sua ricostruzione della rivolta del 1661, riporta un altro dato "anomalo". Racconta, infatti, che, durante i tumulti, il vicerè, per impedire al popolo l'invio di un'ambasceria al sovrano volta ad ottenere la liberazione dei beni del conte di Mola e degli altri eretici catturati da monsignor Piazza, aveva precisato che nelle cause di fede «non si dovesse andare da sua Altezza a supplicarlo per i detti dissequestri in osservanza alla bolla di Giulio III» in quanto il sovrano aveva rimesso ogni competenza su questa materia al Tribunale della Suprema Camera e «per prendere tali decisioni è convenevole andare dalla Camera né da altro Tribunale». Dalle analisi condotte risulta suffragata l'opinione di Adriano Prosperi sull'impossibilità di ricondurre l'Inquisizione ad un ideal tipo astratto dal momento che la sua struttura muterebbe in base alla realtà sociale politica e culturale in cui il tribunale attecchiva. Di certo appare improbabile, per la particolare organizzazione politica della corona spagnola, che i vescovi, nel Regno, operassero senza exequatur regio e alle dipendenze di Roma . Se il tribunale vescovile fosse stato dipendente unicamente da Roma e autorizzato a procedere da una delega segreta del Papa non si capirebbe il motivo dei conflitti, attestati dal Romeo , sorti con il tribunale delegato quando con la nomina ad inquisitore di Carlo Baldino esso fu introdotto, stabilmente, nel Regno. In conclusione è possibile attestare la presenza nel Regno di un' Inquisizione ibrida sottoposta al capillare controllo regio ma non completamente staccata dalla congregazione romana alle cui dipendenze rimaneva, nei fatti, il clero al contrario di quanto avveniva nell'Inquisizione spagnola.