Il concetto fondante e le motivazioni alla base di questo lavoro di tesi sono costituiti dalla volontà di analizzare a fondo la problematica energetica ed ambientale, focalizzando l"indagine sul ruolo delle Fonti Energetiche Rinnovabili e contestualizzandola nel contesto "locale" relativo alla Regione Emilia Romagna: questo lavoro di tesi, infatti, è stato sviluppato nell"ambito di un progetto di collaborazione stipulato tra Università e Regione Emilia Romagna e si è svolto all"interno dell"Assessorato alle Attività Produttive della Regione, lavorando con il "Servizio Politiche Energetiche" emiliano-romagnolo. La crisi energetica (e, contestualmente, la crisi ambientale) rappresenta una problematica al centro del dibattito globale da oltre mezzo secolo, affrontata finora in maniera non organica e realmente efficace dalle nazioni e dagli organismi sovranazionali coinvolti in tale dibattito. Tale tematica è divenuta ancora più pregnante (e la ricerca di una "soluzione" al riguardo, ancora più pressante) negli ultimi anni, in seguito alla deflagrazione di una crisi globale –economica e sociale- che ha intaccato i modelli di crescita e sviluppo (anche tecnologico) conosciuti finora, ponendo di fronte agli occhi dell"umanità la necessità impellente di ridefinire politiche economiche, ambientali e, conseguentemente, energetiche, caratterizzate da una maggiore sostenibilità globale. La continua crescita della popolazione e il progressivo incremento generalizzato (e disomogeneo) degli standard di vita alimentano con ritmi esponenziali la domanda –e la conseguente produzione- di energia, inevitabilmente correlata (proprio a causa dei modelli di sviluppo seguiti finora) ad un drammatico incremento delle emissioni climalteranti, che continuano a nuocere irreversibilmente alla salubrità del nostro fragile ecosistema. Oltre alla problematica ambientale si aggiunge, con impellenza sempre più marcata, quella relativa alla disponibilità delle principali fonti energetiche (quelle fossili), che si profilano in esaurimento entro lassi temporali che potrebbero divenire drammaticamente prossimi: il "rischio reale" connesso alla prosecuzione di politiche energetiche poggiate sullo sfruttamento intensivo di tali fonti non è tanto connesso all"eventuale esaurimento assoluto delle risorse stesse, quanto ad una loro progressiva riduzione, tale da renderle viepiù costose e sempre meno convenienti economicamente. Uno scenario di questo tipo si tradurrebbe inevitabilmente in una condizione per la quale solamente i Paesi più ricchi potrebbero usufruire di tali risorse, estremamente costose, mentre i Paesi meno evoluti economicamente rischierebbero di trovarsi nell"impossibilità di approvvigionarsi, andando incontro a condizioni di deficit energetico: uno scenario inquietante, che però non appare così "ipotetico", se si tiene conto di come –già ora- siano in aumento segnali di allarme e di conflitto, attivati da localizzate insufficienze energetiche. In un quadro globale di questo tipo le strade risolutive finora riconosciute e percorse dal mondo scientifico, politico ed economico sono sostanzialmente due: - L"implementazione del risparmio energetico, in un"ottica di drastica riduzione dei consumi globali; - La "conversione" della produzione energetica (attualmente fondata sulle fonti convenzionali, ossia quelle fossili) verso le cosiddette "Fonti Energetiche Alternative". Questa seconda direttrice di marcia sembra poter essere quella in grado di reindirizzare verso un orizzonte di maggiore sostenibilità l"attuale sistema energetico globale, e in quest"ottica assumono quindi enorme importanza strategica le tecnologie alternative e, prime tra tutte, le Fonti Energetiche Rinnovabili (FER). Queste consentirebbero infatti sia di ridurre l"impatto ambientale connesso alla produzione energetica da fonti convenzionali, che di implementare politiche di autosufficienza energetica per quei Paesi che attualmente, dal punto di vista del bilancio energetico interno, dipendono in misura marcata dall"importazione di combustibili fossili dall"estero. La crisi energetica e il conseguente ruolo chiave delle Fonti Energetiche Rinnovabili è quindi il punto di partenza di questa tesi, che ha voluto confrontarsi con tale problematica globale, misurandosi con le azioni e con i provvedimenti intrapresi al riguardo a livello locale, focalizzando l"attenzione sulla realtà e sugli sviluppi delle Fonti Energetiche Rinnovabili nella Regione Emilia Romagna. Per sviluppare il lavoro si è proceduto definendo prima di tutto un quadro complessivo della situazione, in termini di problematica energetica e di stato attuale delle Fonti Energetiche Rinnovabili, scendendo progressivamente nel dettaglio: partendo da una fotografia a livello mondiale, quindi europeo, successivamente italiano (basandosi sui dati di pubblicazioni italiane ed estere, di enti competenti in materia come Terna, il GSE o l"Enea per l"Italia, e l"IEA, l"EIA, l"UE per l"Europa e il resto del mondo). Nella terza parte della tesi si è scesi al dettaglio di questo stato attuale delle Fonti Energetiche Rinnovabili a livello Regionale (Emiliano-Romagnolo) e Provinciale (le nove Province della Regione): per procedere alla definizione di questo quadro la "tecnica operativa" è consistita in una raccolta dati effettuata in collaborazione con il "Servizio Politiche Energetiche" della Regione Emilia Romagna, estesa alle 9 Province e ai 348 Comuni del territorio emiliano-romagnolo. La richiesta di dati avanzata è stata relativa agli impianti alimentati da fonte energetica rinnovabile in esercizio e a quelli in fase di valutazione sul territorio afferente all"Ente considerato. Il passo successivo è consistito nell"aggregazione di questi dati, nella loro analisi e nella definizione di un quadro organico e coerente, relativo allo stato attuale (Ottobre 2010) delle Fonti Energetiche Rinnovabili sul territorio emiliano-romagnolo, tale da permettere di realizzare un confronto con gli obiettivi definiti per le FER all"interno dell"ultimo Piano Energetico Regionale e con lo stato delle FER nelle altre Regioni italiane. Sono stati inoltre realizzati due "Scenari", relativi all"evoluzione stimata del parco "rinnovabile" emiliano-romagnolo, definiti al 2012 ("Breve Termine") e al 2015 ("Medio Termine"). I risultati ottenuti hanno consentito di verificare come, nell"orizzonte "locale" emiliano-romagnolo, il sistema globale connesso alle Fonti Energetiche Rinnovabili abbia attecchito e si sia sviluppato in misura marcata: gli obiettivi relativi alle FER definiti nel precedente Piano Energetico Regionale sono infatti stati sostanzialmente raggiunti in toto. Dalla definizione degli "Scenari" previsionali è stato possibile stimare l"evoluzione futura del parco "rinnovabile" emilianoromagnolo, verificando come questo risulti essere in continua crescita e risulti "puntare" su due fonti rinnovabili in maniera particolare: la fonte fotovoltaica e la fonte a biocombustibili. Sempre dall"analisi degli "Scenari" previsionali è stato possibile stimare l"evoluzione delle singole tecnologie e dei singoli mercati rinnovabili, verificando limiti allo sviluppo (come nel caso della fonte idroelettrica) o potenziali "espansioni" molto rilevanti (come nel caso della fonte eolica). Il risultato finale di questo lavoro di tesi è consistito nel poter definire dei nuovi obiettivi, relativi alle differenti Fonti Energetiche, da potersi inserire all"interno del prossimo Piano Energetico Regionale: l"obiettivo "complessivo" individua –avendo il 2015 come orizzonte temporale- una crescita incrementale delle installazioni alimentate da FER pari a 310 MWe circa. Questo lavoro di tesi è stato ovviamente organizzato in più "Parti", ciascuna ulteriormente suddivisa in "Capitoli". Nella "Prima Parte", costituita dai primi 4 Capitoli, si è proceduto ad introdurre la problematica energetica e il contesto in cui si muovono le decisioni e le politiche (comunitarie, nazionali e sovra-nazionali) destinate a trovare soluzioni e risposte: Il Primo Capitolo, introduttivo, definisce prima di tutto gli "strumenti" e i concetti che verranno successivamente richiamati più volte nel resto della Tesi, partendo dal concetto di "energia", definito sia "concettualmente" che attraverso le unità di misura utilizzate per quantificarlo. Il passo successivo è stato quello di contestualizzare l"evoluzione dello sfruttamento di questa "risorsa", in relazione allo sviluppo delle tecnologie e delle stesse condizioni di vita umane, così da definire un background storico per le considerazioni introdotte nel Capitolo successivo. Il Secondo Capitolo, infatti, introduce la problematica attuale (ma mutuata dal background storico evidenziato in precedenza) della "crisi energetica" e della "crisi ambientale" ad essa correlata, considerandone gli aspetti prima di tutto globali, connessi a considerazioni di natura sociale, demografica e –conseguentemente economica e sociale: all"interno di questa analisi, vengono citati anche gli scenari previsionali elaborati da numerosi enti di ricerca e istituzioni, coinvolti su più livelli nell"ottica di riuscire ad individuare una "risposta" alle problematiche sollevate dallo sfruttamento intensivo della risorsa energetica per vie convenzionali. Tale risposta è rappresentata dalle normative sovranazionali, europee e italiane varate nell"ottica di attuare una "transizione etica" in materia di sviluppo sostenibile, impatto ambientale e sfruttamento energetico: un presupposto imprescindibile per la transizione energetica sostenibile è proprio l"impegno a livello locale (quindi anche e prima di tutto di istituzioni quali, in Italia, le Regioni, le Province e i Comuni), senza il quale difficilmente si potranno raggiungere traguardi avanzati, che implicano anche un sostanziale cambio di mentalità. Nell"ottica di approfondire ulteriormente il contesto all"interno del quale vengono adottate azioni e intrapresi provvedimenti utili a concretizzare risposte a livello italiano –nazionale e locale- il Terzo Capitolo introduce il tema delle "politiche energetiche sostenibili", partendo dalla definizione dell"attuale condizione Italiana (in termini di inquinamento atmosferico e di sfruttamento intensivo della risorsa energetica, nonché di scenari previsionali), per definire successivamente le politiche nazionali per le fonti rinnovabili, per il settore dei trasporti, del riscaldamento e del raffreddamento, della pianificazione energetica e della generazione distribuita. Il Capitolo introduce anche il tema degli interventi in ambito di fiscalità energetica ("Certificati Verdi", "Certificati Bianchi" e il "Conto Energia"). Proprio per definire al meglio i meccanismi di incentivazione, il Quarto Capitolo esplicita (facendo riferimento alla documentazione pubblicata da enti quali GSE, Terna, GRTN) il meccanismo del cosiddetto "mercato elettrico" e degli scambi che vi avvengono, in modo tale da comprendere come i metodi di incentivazione alle fonti alternative che si appoggiano su interventi di fiscalità energetica, riescano ad avere –o meno- presa sul sistema. La "Seconda Parte" (costituita dai Capitoli dal 5° al 13°) è invece dedicata al necessario approfondimento sullo stato delle Fonti Energetiche Rinnovabili (FER): in ogni capitolo è stato infatti approfondita la condizione attuale delle principali FER (fonte a Biocombustibili, Eolica, Geotermica, Idraulica, Solare Fotovoltaica, Solare Termica, Solare Termodinamica). Tale approfondimento è stato condotto in termini di sviluppo della tecnologia, incidenza e contributo della singola FER sui bilanci elettrici (considerando prima il quadro mondiale, quindi quello europeo, per scendere infine al dettaglio italiano). Nella parte finale di ogni capitolo sono state riportate anche le principali criticità riscontrate per ogni fonte presa in considerazione, oltre che gli scenari previsionali stimati considerandone i potenziali sviluppi, in un"ottica di medio termine e di lungo termine. La "Terza Parte" (comprendente i Capitoli dal 14° al 22°) di questa Tesi raccoglie invece il lavoro svolto e i risultati ottenuti e permette di definire lo stato attuale e gli scenari previsionali (a breve termine e a medio termine) per le Fonti Energetiche Rinnovabili nella Regione Emilia Romagna, con un livello di dettaglio sia Regionale che Provinciale. Il lavoro, come detto, è consistito nella raccolta dati effettuata presso gli enti di "governo territoriale" emiliano-romagnoli (la Regione, le 9 Province e i 348 Comuni) e nella successiva aggregazione, elaborazione e interpretazione di questi stessi dati. I Capitoli dal 15° al 19° definiscono lo stato attuale (all"Ottobre 2010) e gli scenari previsionali (a breve termine e medio termine) per le differenti FER (rispettivamente, Biocombustibili, Eolica, Fotovoltaica, Geotermica e Idroelettrica), prima a livello Provinciale, quindi a livello Regionale. Nella conclusione di ogni Capitolo è contenuto un confronto con lo stato della FER presa in considerazione relativo agli anni precedenti, oltre che il confronto con gli obiettivi definiti per la tecnologia al 2010 dal precedente Piano Energetico Regionale. Questi Capitoli si chiudono con l"analisi del trend storico della Fonte Energetica Rinnovabile considerata e con la conseguente individuazione dei potenziali obiettivi al 2012 e al 2015 da inserire nel prossimo Piano Energetico Regionale. E" presente anche l"evoluzione stimata del "mercato" della singola FER presa in considerazione, oltre che della "tipologia tecnologica" sulla quale gli installatori e gli investitori tenderanno ad orientarsi sia nel breve che nel medio termine. I Capitoli 20°, 21° e 22° contengono invece lo stato "riassuntivo" delle Fonti Energetiche Rinnovabili, definite per il panorama emiliano-romagnolo (anche in questo caso, prima a livello Provinciale, successivamente a livello regionale) sotto un"ottica temporale differente: il Capitolo 20° riassume lo stato attuale del parco "rinnovabile" complessivo emiliano-romagnolo, definendone l"evoluzione storica e confrontandolo con gli obiettivi fissati al 2010 dal precedente Piano Energetico regionale, permettendo così di verificare –nel complesso- se le stime del 2004 erano state corrette. Il Capitolo 21° definisce l"evoluzione del parco "rinnovabile" complessivo emiliano-romagnolo al 2012, sia a livello Provinciale che Regionale, definendone in questo modo un trend stimato di crescita e dei conseguenti obiettivi di breve termine, riferiti alle singole FER. Il Capitolo 22° definisce infine l"evoluzione del parco "rinnovabile" complessivo emiliano-romagnolo al 2015 (ancora una volta, sia a livello Provinciale che Regionale) permettendo così di ricavare un trend stimato di crescita e, soprattutto, gli obiettivi di medio termine -riferiti alle singole FER- da inserire all"interno del prossimo Piano Energetico Regionale. La conclusione permette di chiudere sinteticamente il lavoro svolto in precedenza, traendo le indicazioni più rilevanti dai dati e dalle considerazioni pregresse: come si evincerà, l"Emilia Romagna risulta una Regione in cui gli obiettivi rinnovabili (e di "conversione energetica") sono stati sostanzialmente raggiunti e, in alcuni casi, perfino superati. Il mercato rinnovabile è in crescita e le politiche locali e sovra locali evidenziano una marcata volontà di puntare prevalentemente su settori e tecnologie quali quella della biomassa e quella solare fotovoltaica. Nonostante questo, si evidenzia anche la necessità di lavorare a livello di enti regionali e provinciali, per omogeneizzare ulteriormente la distribuzione energetica "rinnovabile" sul territorio (implementando lo sviluppo di determinate fonti su distretti territoriali al momento non ancora raggiunti da tali mercati) e per provvedere ad una riduzione dei consumi energetici che consenta alle FER di avere una maggiore incidenza sui bilanci energetici ed elettrici, locali e regionali. Si ricorda che la "costruzione" di questa tesi è stata sviluppata parallelamente ad un"attività di stage presso il settore Politiche energetiche dell"Assessorato alle Attività Produttive della Regione Emilia – Romagna, che in questa fase sta procedendo alla definizione del nuovo Piano Energetico Regionale, e alla conseguente individuazione d
l'Italia è un territorio ricco di testimonianze e bellezze artistiche e archeologiche. Questa tesi va ad inserirsi in un'ottica di conservazione del nostro patrimonio culturale; in questa si vanno ad inserire anche le problematiche di carattere sismico del nostro costruito. In tale ambito di studio è stata focalizzata l'attenzione sulla Certosa di Pisa, un edificio monumentale che costituisce un patrimonio di inestimabile valore e incomparabile bellezza. Il complesso, nato nel 1366, nel corso della sua lunga vita ha visto avvicendarsi periodi fiorenti seguiti da periodi di decadenza, l'ultimo dei quali condusse al definitivo abbandono della Certosa nel 1969 da parte dei suoi monaci. Agli inizi del Novecento, la comunità certosina era ormai ridotta a poche unita e furono costretti a convivere con le istituzioni di passaggio. In questo periodo la Certosa infatti fu occupata dai militari come un ospedale per i prigionieri feriti. Nel 1972, gli ultimi due monaci lasciarono definitivamente la Certosa di Calci, che gradualmente si andò sempre più degradando, al punto che, per la sua sopravvivenza, si decise nel 1979 di destinare alcuni degli spazi dell'ala occidentale del monastero alla realizzazione del Museo di Storia Naturale e del Territorio, inaugurato nel 1986, affidandoli al dipartimento universitario pisano di Scienze della Terra. Questo momento risulta essere molto importante per il mantenimento dell'intero complesso monastico; rimangono però alcune aree attualmente chiuse al pubblico, fortemente degradate, che necessitano di urgente restauro, sia architettonico che strutturale. Si pongono cosi le basi per uno studio e analisi sul tema del recupero, restauro e riqualificazione del Bene, finalizzato a valutare le condizioni di conservazione e la vulnerabilità sismica evidenziando gli elementi di maggiore criticità e fornendo spunti per indagini più approfondite. Tra le aree maggiormente degradate è stata individuata la zona di ambito di studio: il chiostro delle foresterie; Il chiostro delle foresterie, anche detto granducale o del priore, ha avuto una forte trasformazione nel corso tempo. Nel 1384 venne costruito il piano terra del chiostro, andandosi ad inserire in un contesto già delineato e realizzato; La parte superiore fu costruita nel 1471; Nel 1606 cominciarono i lavori di ammodernamento anche nella parte orientale del monastero, con la costruzione della foresteria nuova e di una cisterna. Al piano terra venne realizzata una pilastratura a sostegno del percorso aereo del piano superiore. Questa conformazione, oltre a comportare una diversa organizzazione degli spazi monastici, comporta una nuova distribuzione degli sforzi. Nel 1614 fu eseguito il tamponamento del livello inferiore del chiostro. Nel 1769 sotto il suo priorato fu realizzata la foresteria granducale; per l'esecuzione della foresteria furono demoliti i muri che dividevano una sala ed una camera e costruire tre maschi murari per separare gli spazzi. Venne realizzata la "galleria dei quadri" e una piccola stanza attigua, la cappellina e il terrazzo coperto. Dopo questi lavori si instaurano nuove distribuzioni degli sforzi e un comportamento completamente diverso della fabbrica nei confronti di azioni esterne. Altro problema è stata la realizzazione del terrazzo coperto; essendo un vero e proprio ampliamento della fabbrica realizzato successivamente rispetto alle altre parti del monastero, funziona da "perno" che si oppone alla spinta della parete frontale delle foresterie. Presumibilmente potrebbero essere nati quindi dei cinematismi di rotazione o ribaltamento della facciata laterale che ha come vincolo l'intersezione tra la foresteria nobile e il terrazzo coperto; questo cinematismo potrebbe essere anche parte delle cause delle lesioni nella foresteria granducale localizzate in corrispondenza dell'ammorsamento dei maschi murari di separazione delle sale con la facciata laterale. È stata sviluppata l'analisi dello stato di fatto con la relativa caratterizzazione dei materiali Come strutture verticali sono state individuate le pareti portanti di spessore variabile dai 15 ai 90 cm. Sono presenti due diverse tipologie di muratura; muratura mista in pietre e mattoni e muratura in mattoni pieni; come strutture orizzontali sono presenti solai piani e diversi tipi di volte: volte a crociera, a botte, a padiglione e unghiate. È stato sviluppato anche un rilievo del degrado, il quale ha permesso di individuare le zone più alterate e degradate classificandole. Il Chiostro della Foresteria presenta un esteso degrado su gli elementi costituenti la struttura, sia che siano pareti intonacate, volte a crociera, o colonne in pietra serena. L'intonaco è in buona parte deteriorato con patine, distacchi e mancanze, fino a portare in luce la sottostante struttura. In alcuni casi il degrado è imputabile ad infiltrazioni d'acqua derivanti dalle coperture, mentre in altri punti è dovuto ad interventi di manutenzione realizzati con poca cura, oltre che ad un normale deperimento dei materiali. Il degrado degli ambienti interni, attigui al chiostro, è dovuto principalmente a problemi di umidità ed infiltrazioni di acqua dalle coperture, che stanno provocando evidenti danni sulle superfici affrescate e stuccate delle volte oltre che agire negativamente sulle strutture lignee, provocando marcescenza delle travi. Per tali motivi le zone maggiormente degradate risultano essere quelle prossime alle strutture di copertura. Il degrado si manifesta con macchie di umidità e nei casi più gravi con distacco di intonaco, con efflorescenze ed ossidazioni delle superfici in laterizio, con marcimento dei travicelli e travi. Risulta necessario operare urgenti ristrutturazioni delle coperture per scongiurare maggiori danni, che possono condurre alla perdita definitiva degli affreschi o ad oneri eccessivi per il loro restauro. Questo parte del rilievo, oltre a farci capire quali siano gli interventi più urgenti, ha permesso di individuare possibili meccanismi locali da analizzare. Le Norme Tecniche per le Costruzioni consentono di eseguire per le costruzioni in muratura analisi statiche o dinamiche, lineari o non lineari. L'analisi ritenuta più opportuna per la caratterizzazione della risposta strutturale del complesso architettonico è l'Analisi Dinamica Modale con spettro di risposta. L'analisi dinamica modale dell'edificio è stata eseguita su modello tridimensionale ad elementi finiti ed è stata condotta con l'ausilio del software di calcolo SAP 2000 v.14. Nel modello sono stati distinti e modellati gli elementi costituenti la struttura portante dell'edificio: pareti, pilastri e colonne, orizzontamenti piani e voltati, strutture di copertura e fondazioni. Le pareti in muratura sono state schematizzate con elementi bidimensionali tipo "shell". La modellazione strutturale prevede di rappresentare solamente le porzioni di pareti aventi funzione strutturale, e cioè i maschi murari e le travi di accoppiamento. Gli elementi portanti verticali quali pilastri in mattoni e colonne in pietra sono stati modellati con elementi monodimensionali di tipo "frame", ad ognuno dei quali viene assegnata la sezione e il materiale costituente. Le volte presenti ad ogni piano nel fabbricato hanno geometria molto varia e talvolta complessa, per cui, date le finalità a cui è volta l'analisi, si è preferito fare ricorso alla trattazione delle volte equivalenti proposta da Lagomarsino; sono state rappresentate con elementi piani (shell) di rigidezza equivalente. Le coperture lignee sono state modellate schematizzando gli elementi portanti (travi e travicelli) mediante elementi "frame" di opportuna sezione disposti a rappresentare le orditure (doppie o triple) delle strutture portanti. Infine l'interfaccia terreno-struttura è stata modellata adottando una schematizzazione elastica del suolo alla Winkler con molle di adeguata rigidezza disposte nelle tre direzioni. Come azioni forzanti sono stati inseriti gli spettri di progetto dell'azione sismica in accelerazione orizzontale nelle due direzioni principali x e y. Gli effetti sulla struttura sono stati valutati combinando gli effetti dei primi 150 modi di vibrare con il metodo CQC. I risultati ottenuti dall'analisi dinamica modale mostrano che i primi due modi di vibrare mobilitano una quota rilevante di massa partecipante nelle direzioni x ed y, ed a questi modi sono associate delle forme modali flessionali. Ai modi successivi sono associate forme modali torsionali. Il raggiungimento del'85% di massa partecipante per entrambe le direzioni si ottiene oltre il 100° modo di vibrare. Gli studi svolti sulla struttura in termini di rilievo geometrico, rilievo strutturale ed analisi storico-critica, hanno permesso di acquisire una buona conoscenza del manufatto in esame; Tuttavia, la presenza in molti ambienti di affreschi di notevole pregio storico-artistico ha reso problematica l'esecuzione di saggi necessari a caratterizzare il materiale in opera ed ad identificare la qualità degli ammorsamenti tra pareti; per la natura esclusivamente geometrica delle informazioni in possesso, si dovrebbe rientrare nella classe LC1, tuttavia l'esecuzione di un qualsiasi intervento su una struttura di tale pregio storico, comporterà necessariamente una preventiva campagna di saggi, pertanto in quest'ottica si è scelto di eseguire un'analisi più complessa e porci in classe LC2, adottando il relativo fattore di confidenza pari a 1,20. Le verifiche agli Stati Limite Ultimi sono state effettuate sia in condizione statica che sismica. Le verifiche SLU in condizione statica per carichi gravitazionali ed in assenza di sisma sono state svolte riferendosi alle sollecitazioni derivate dalla combinazione fondamentale; le verifiche SLV (per TR = 712 anni) in condizione sismica sono state effettuate sottoponendo la struttura ad un sisma proveniente sia dalla direzione X che dalla direzione Y, facendo riferimento alle sollecitazioni ricavate dalle combinazioni sismiche. Le verifiche previste per gli Stati Limite Ultimi (sia statici che simici) sono: • pressoflessione nel piano della parete; • pressoflessione fuori piano; • taglio per azioni nel piano della parete (taglio-trazione diagonale e taglio-scorrimento orizzontale). Le verifiche agli SLU eseguite in condizione statica risultano in genere soddisfatte con eccezione di alcuni elementi. La verifica a pressoflessione nel piano può essere ritenuta adeguatamente soddisfatta ad ogni livello della struttura, con alcune singolarità in elementi di piccole dimensioni. Tali punti non sono da ritenersi critici per la sicurezza globale statica. Anche la verifica a pressoflessione fuori piano risulta adeguatamente soddisfatta tranne nei maschi murari che già non soddisfano le limitazioni di snellezza, e risultano quindi maggiormente vulnerabili all'instabilizzazione fuori piano. La verifica a taglio invece presenta un più alto numero di elementi che, in misura maggiore o minore, non verificano le condizioni di scorrimento. Le maggiori criticità si riscontrano nel fronte del chiostro, dove le aperture seriali riducono la sezione netta resistente, ed all'ultimo piano della struttura, dove si localizzano le azioni orizzontali più rilevanti. Le verifiche condotte ad SLV per sisma X e sisma Y mostrano una situazione più gravosa rispetto alla condizione statica. Riferendoci al caso di pressoflessione nel piano si nota che il piano terra e il primo piano riescono a soddisfare adeguatamente le verifiche imposte, in quanto le pareti sono soggette a tensioni normali di una certa entità e momenti sollecitanti non eccessivi. Maggiori problemi si riscontrano al secondo piano dove la combinazione di sforzo normale minore ed elevato momento flettente comporta il non soddisfacimento della verifica. La verifica di pressoflessione fuori piano condotta con il metodo semplificato suggerito da norma mostra in maniera evidente come i maggiori problemi di stabilità fuori piano siano attribuibili agli elementi con elevata snellezza. Inoltre non risultano verificate tutte le pareti dell'ultimo piano poiché, trovandosi a quota elevata rispetto al piano delle fondazioni, su queste agiscono forze sismiche rilevanti. Tuttavia la situazione più critica si instaura nella verifica a taglio delle pareti: la quasi totalità dei maschi murari non riesce a soddisfare le condizioni di scorrimento imposte da norma, sia nel caso di azione sismica proveniente dalla direzione X che dalla direzione Y, denotando una sostanziale inadeguatezza dell'intero complesso ad assorbire le azioni orizzontali generate da un terremoto tipo con periodo di ritorno pari a 712 anni. Le verifiche sui solai piani sono state condotte separatamente rispetto al modello tridimensionale della struttura, facendo ricorso a schemi statici bidimensionali rappresentativi della situazione in esame. Le misure fatte per i solai del lato frontale sono state estese anche per gli altri (attualmente inaccessibili). Sono stati ipotizzati quindi travicelli di dimensione pari a 6x8 cm con interasse di 30 cm, sorretti dalle travi principali di dimensione 20x27cm. Per il travicello è stato adottato uno schema di trave semplicemente appoggiata con carico distribuito, mentre la trave principale è stata schematizzata come trave semplicemente appoggiata con carichi concentrati in corrispondenza dell'appoggio dei travicelli. Per questi schemi sono state effettuate la verifica a flessione deviata, la verifica a taglio e la verifica a deformazione. Le seguenti verifiche risultano generalmente soddisfatte; I travicelli costituenti l'orditura secondaria risultano ovunque verificati, sia in termini di resistenza che di deformabilità. Anche le travi principali soddisfano i requisiti di sicurezza. Tuttavia è da far presente che le verifiche sono state condotte riferendosi alle sezioni degli elementi rilevati in opera supposte interamente reagenti, cioè in condizioni di buono stato di conservazione. Alcuni elementi lignei mostrano un elevato stato di marcescenza a causa delle continue infiltrazioni d'acqua, per cui la sezione resistente dell'elemento risulta notevolmente ridotta. Per questi elementi in avanzato stato di degrado le verifiche condotte non possono essere considerate rappresentative dello stato di fatto. Nelle costruzioni esistenti in muratura il collasso è determinato, più che dalla resistenza ultima della muratura, dalla carenza dei vincoli, da difetti costruttivi, dalla presenza di discontinuità non sempre visibili. Da qui la necessità di affiancare all'analisi sismica globale realizzata con l'ausilio dei software di calcolo, un analisi locale dei possibili meccanismi di collasso. Dall'esame del quadro fessurativo è stato possibile riconoscere meccanismi di ribaltamento composto della facciata; sulle pareti di controvento si individuano lesioni diagonali, con origine in prossimità del fronte e terminanti in corrispondenza delle porte. In corrispondenza delle intersezioni murarie sono presenti lesioni verticali. Il calcolo viene effettuato assumendo lo schema di corpo rigido, e confrontando il valore del momento stabilizzante, dovuto all'azione dei carichi verticali ed alle reazioni esercitate in corrispondenza dei ritegni orizzontali con quello ribaltante dovuto alle azioni orizzontali. Il valore dell'accelerazione orizzontale che porta all'attivazione del meccanismo è di 0.120g, contro un valore di riferimento della PGA (valutata per SLV con TR= 712 anni) di 0.138g. In queste condizioni è quindi possibile l'attivazione di questo meccanismo. L'analisi dello stato di fatto ed i risultati ottenuti dalle verifiche sul fabbricato hanno evidenziato alcune problematiche; saranno quindi indispensabili studi più approfonditi sui materiali degli elementi portanti e sulle loro proprietà meccaniche; si necessita inoltre si indagini inerenti ad una precisa definizione dei carichi gravanti sulla struttura. Lo stato di degrado in cui versa il complesso generato da uno stato di incuria è evidente; Sono presenti infiltrazioni d'acqua in vari punti della struttura; sono pertanto di primaria urgenza provvedimenti volti a consolidare le coperture al fine di non protrarre oltre le perdite subite; in alcune zone infatti sono già in atto i lavori. Dalle analisi svolte seguendo sia un approccio globale, che locale sono emersi elementi di vulnerabilità della struttura; problematiche sono riscontrabili in tutta l'area analizzata; ai piani superiori, dove gli elementi sono soggetti a ridotte compressioni ed elevati momenti flettenti, i maschi risultano eccessivamente snelli e suscettibili ai fenomeni di instabilità fuori piano. Il comportamento nei confronti dell'azione tagliante, in particolar modo nella condizione sismica, risulta abbastanza critico per l'intera struttura. D'altronde questo risultato era prevedibile, essendo questa la maggiore problematica che affligge gli edifici storici in muratura. In relazione alle questioni riscontrate risulta evidente come sia necessario effettuare degli interventi sulle fabbriche al fine di garantirne una migliore risposta strutturale. Un intervento su un edificio tutelato può risultare molto complesso da svolgersi: deve infatti essere in grado di conciliare le esigenze di conservazione con quelle di sicurezza, evitando l'esecuzione di opere invasive; Saranno quindi preferibili interventi di tipo locale che conducano al soddisfacimento dei requisiti richiesti per le azioni simiche.
Nel corso della ricerca ho tentato di indagare lo stato d'animo della nostalgia nell'opera di Ernst Jünger [1895–1998] dialogando parallelamente con l'imprescindibile questione della tecnica, centrale nel pensiero dell'autore. Ho deciso di lavorare sui testi di Jünger scegliendo, analizzando e citando quegli scritti che risultavano particolarmente di rilievo nel contraltare tecnica-nostalgia. Il lavoro si divide in due parti. Nella prima seguo principalmente il percorso filosofico di Jünger sulla questione della tecnica e lo sviluppo anche grazie al costante confronto con alcuni pensatori tedeschi che hanno vissuto il disagio della modernità. Poi tento di mappare i luoghi letterari jüngeriani oscillanti tra tecnica e nostalgia, raggruppandoli – nella seconda parte – in una sorta di atlante. Ne emerge una geofilosofia dei topoi che Jünger sceglie per fuggire l'accelerazione, la mobilitazione massiva nata sotto l'insegna del lavoro e la dilagante tecnicizzazione e trasformazione del mondo. Ho potuto delineare, attraverso questo percorso, lo stato d'animo scelto come trasporto verso un tempo e uno spazio diversi da quelli offerti nel panorama del mondo mutato della tecnica, come una spinta opposta al lineare avanzare del progresso. La premessa al lavoro è relativa a una breve sintesi della ricezione di Jünger in Italia. Un chiarimento in questo ambito – che avviene accennando alcune delle principali posizioni critiche – è necessario se si pensa che alcune interpretazioni legate a rigide schematizzazioni, hanno a lungo condizionato la diffusione e la circolazione della produzione di Jünger in Italia. Nonostante la sua "riabilitazione" avvenuta durante gli anni Settanta, molti interpreti anche contemporanei tendono a leggere il dopo-operaio come un arenarsi nella perdita della carica spirituale esponenzialmente affievolitasi con il passare del tempo, come uno spiaggiamento in una produzione fiacca, un'estetica letteraria dai contenuti aridi. Altra è la matrice interpretativa che ha indirizzato questa ricerca. Diversi studiosi contemporanei si sono infatti interessati notevolmente anche alla produzione successiva a L'operaio [Der Arbeiter, 1932], tracciando fertili sentieri ancora poco battuti e ampliando la critica sul pensiero di Ernst Jünger. Considerato questo, la mia ricerca si apre tracciando una cornice biografica che cerca di mettere in luce l'epoca in cui Jünger si forma, focalizzando l'attenzione sulla sua adesione al movimento culturale della Konservative Revolution1. L'aspetto conservatore e quello rivoluzionario, emblematici del movimento konservative-revolutionäre che viene analizzato come contenitore del disagio della modernità della Germania weimariana, faranno sempre parte della personalità di Jünger come insanabili tensioni e contraddizioni riscontrabili in tutta la sua produzione letteraria. Per questo ad alcuni capitoli è stato dato un titolo "ossimorico", valorizzando le coppie oppositive che contraddistinguono i relativi contenuti dei paragrafi sviluppati e cercando al contempo di trasmettere al lettore il profondo senso di frattura interna dell'autore stesso. Lo stesso titolo generale del lavoro: Tecnica e Nostalgia vuole sottolineare che l'argomento che ci si appresta ad affrontare verterà su due elementi in tensione. L'indagine vera e propria si dispiega a partire dagli anni Trenta, un'epoca emblematicamente definita della mobilitazione totale. Tale definizione è anche il titolo di un saggio di Jünger La mobilitazione totale [Die totale Mobilmachung, 1930], panoramica di quel tempo che ha indotto il massimo dispiegamento delle forze umane sotto il segno della produzione e del lavoro e che funziona come sfondo imprescindibile e formulazione preliminare alla sua opera più conosciuta, L'operaio. Lo scritto al quale in questa sintesi si accenna soltanto, è estremamente eterogeneo ed è stato letto criticamente analizzando i diversi livelli testuali riscontrabili al suo interno: politico, sociale, filosofico, estetico, visionario e profetico. Nel saggio il fenomeno tecnico è pensato a partire da quello del lavoro. In questo senso il lavoratore mobilita il mondo ricorrendo alla tecnica, la quale non rappresenta solo il simbolo della figura de L'Operaio ma anche, e soprattutto, la maniera con cui questa figura mobilita il mondo. L'impero tecnico non distingue più tra tempo di guerra e tempo di pace, perché tutto è preda di questa titanica mobilitazione. Il rapporto che si instaura tra il Lavoratore e la tecnica è di reciprocità, nel senso che mentre la tecnica è l'unica potenza che consente al Lavoratore di instaurare il proprio dominio sul mondo, solo l'instaurazione del regno del Lavoratore può consentire alla tecnica di raggiungere la sua perfezione, la sua compiutezza o espressione totale. Jünger crede che l'impersonalità attiva che trova espressione come "Arbeiter" possa dominare la tecnica, dunque l'avvento del regno del Lavoratore equivale all'irruzione di forze elementari nel mondo borghese ed è il preludio alla formazione totale dello spazio del Lavoro. La formulazione dell'essenza non tecnica della tecnica influenzerà profondamente le riflessioni filosofiche di uno dei più fedeli lettori di Jünger, Martin Heidegger [1889-1976]. Un paragrafo della presente ricerca è dedicato proprio a questa ascendenza. Il confronto tra i pensatori, a lungo vincolato e in parte ridotto allo scambio epistolare pubblicato e conosciuto con il titolo Oltre la linea [Über die Linie,1950] sul quale la critica è ampia e dibattuta2, non può non tenere conto anche del volume Zu Ernst Jünger3 che raccoglie gli appunti heideggeriani degli anni Trenta, diverse annotazioni su Der Arbeiter, sul pensiero di Jünger e altri scritti, imprescindibile punto di partenza per la comprensione dell'Auseinandersetzung fra i due pensatori. Nel 1934 compare il saggio Sul dolore [Über den Schmerz, 1934] dove il dolore è intimamente connesso alla questione del lavoro e della tecnica. In particolare il rapporto con il dolore, in questo senso pietra di paragone, diviene una delle misure fondamentali per leggere le trasformazioni dell'epoca della tecnica e il senso di estraneazione che affiora nella produzione di Jünger. Nella seconda coscienza, vissuta risolutamente come un compito assegnato al nuovo tipo, la freddezza e il distacco sono tratti fondamentali e rappresentativi di una nuova concezione del corpo e del mondo, sintomatica sia della compenetrazione tra tecnica ed ethos, sia della fusione meccanico-organico. La costruzione organica [organische Konstruktion], parola chiave del saggio dedicato al dolore, resta nella presente ricerca e nella produzione jüngeriana un torrente sotterraneo che affiora ciclicamente come fonte per le riflessioni su perfezione e perfezionamento, alimentando inoltre le invenzioni e gli espedienti letterari dell'opera di Jünger. Perfezione e perfezionamento è anche il titolo che ho deciso infatti di assegnare al capitolo in cui vengono dibattute le considerazioni jüngeriane degli anni Cinquanta. Tali considerazioni sono influenzate dal contributo del fratello di Ernst Jünger, Friedrich Georg Jünger [1898-1977] e del suo saggio Die Perfektion der Technik [1946]4, La perfezione della tecnica – per l'appunto – che inizialmente doveva intitolarsi Illusione della tecnica, se non fosse per il fatto che l'autore si accorse che l'illusione era proprio figlia dell'aspirazione alla perfezione. Ne ho analizzato i passaggi fondamentali, indicando i punti che maggiormente possono aver influenzato Ernst e le discrepanze d'opinione con le considerazioni espresse nel disegnare l'impero dell'operaio e la mobilitazione totale sotto l'insegna del lavoro e della fusione con la macchina "tecnica" ritenuta, fino agli anni Cinquanta, non soltanto necessaria ma anche auspicabile. Certamente la costruzione organica trova la sua sede letteraria privilegiata nel panorama descritto nel romanzo Le api di vetro [Gläserne Bienen, 1957]. Nel paragrafo dedicatogli ho tentato di lasciar risuonare la domanda jüngeriana dell'uomo sui suoi mezzi tecnici e sulla tipizzazione dell'individuo nell'epoca delle macchine, con particolare attenzione alla con-fusione presente nel mondo mutato che circonda il protagonista del romanzo. L'insetto artificiale, l'ape di vetro, è come lo specchio di un destino collettivo che da una parte seduce e incanta, perché incarna lo sforzo titanico dell'uomo, quasi demiurgico, una capacità tecnica simile all'abilità artistica; e al contempo inquieta, perché sottende la possibile sostituibilità dell'ape naturale, organica, con quella artificiale, modello riproducibile, intercambiabile, un esemplare della dimensione pianificata e della progettazione tecnica. La possibilità della tecnica di imitare in simili modelli l'uomo, è concepita sin dall'antichità. Ho fornito brevemente allora un quadro sintetico di queste imitazioni nel tempo, soffermandomi su alcuni esempi letterari del Deutsche Romantik, movimento che ha offerto a Jünger un ampio spettro di spunti per le riflessioni e le fantasie letterarie su quella con-fusione perturbante che nel Novecento ha contribuito a mettere in luce l'assottigliamento della linea di demarcazione fra umano e macchina. Il compimento letterario vero e proprio, il contenitore di tali fantasie, è rappresentato dalle utopie distopiche che la penna di Jünger genera. Nella seconda parte del lavoro ho cercato allora di analizzare e mettere in luce la nostalgia, attraverso le utopie tecniche – che in parte si rivelano la ricerca, messa su carta e romanzata, di una fuga verso una stabilità originaria – e i luoghi che ho deciso di definire "del tempo perduto", spazi dove al Leviatano tecno-logico5 non è concesso entrare. Le principali geofilosofie degli avvicinamenti jüngeriani sono il bosco e l'isola. Sul primo e in particolare sulla figura del Waldgänger esiste una discreta letteratura secondaria che indaga il saggio rappresentativo di tale figura Trattato del ribelle [Der Walgang,1951], breviaro il cui nucleo teorico è legato alla descrizione di uno spazio lontano dal nichilismo, una radura incontaminata dove i due poli heimlich e unheimlich convivono e lottano in una tensione costante che è però autentica e originaria, preistorica ma anche post storica in quanto resistenza, ribellione che sfugge dal corso del tempo calcolabile. Altro luogo che consente questo avvicinamento è l'isola. L'isola è un topos letterario vivo nella produzione di Jünger. Ne ho analizzato allora le principali espressioni, nutrite dall'amore per la Sicilia e la Sardegna, protagoniste di diversi scritti. La dimensione nostalgica della tensione verso altro non riguarda una possibilità di rivoluzione comunitaria, o se non altro non è concettualizzata in questi termini, bensì come una ricerca di conservazione-sopravvivenza individuale, una mobilitazione estrema e radicale in nome della perfezione umana e non del perfezionamento tecnico. Ciò che la tecnicizzazione con le sue conseguenze ha reso distante e per cui Jünger prova nostalgia è proprio la possibilità di avvicinarsi a questi stessi luoghi "senza spazio né tempo" dove l'invisibile può essere ancora custodito. Tale esercizio si esplica come tensione verso l'invisibile, addestrandosi a far ricorso a uno sguardo che è possibile da una parte definire "antico", perché la capacità di visione di cui Jünger scrive apparteneva a civiltà ormai scomparse come scomparse è essa stessa. Tuttavia questa capacità che era nei popoli antichi non era propriamente dei popoli antichi, quanto piuttosto un modo di vedere originario, al di fuori di un tempo o di un luogo determinato. È lo sguardo del mondo del mito che ho tentato di illustrare a partire dallo scritto Filemone e Bauci. La morte nel mondo mitico e in quello tecnico [Philemon und Baucis. Der Tod in der mytischen und in der technischen Welt, 1972] dove la morte viene scelta come elemento atto a delineare la differenza tra la sua visione nel mondo mitico e in quello tecnico. Lo sguardo del mondo tecnico può essere definito come telescopico. Jünger pubblicò ben cinque raccolte fotografiche in quattro anni, mostrando che i suoi innumerevoli interessi sconfinavano anche nell'ambito della fotografia. Ho cercato di far dialogare la visione obiettiva, oggettiva e telescopica con quella del mondo del mito di Filemone e Bauci. L'occhio fotografico per Jünger è un punto di vista privilegiato per cogliere e rilevare sismograficamente le espressioni degli uomini in un mondo in trasformazione, ma al contempo nel mirino dell'obiettivo il mobile viene fissato e la violenza, il rischio e l'incidente, sono assorbiti in un'ottica di normalizzazione. Nell'epoca della tecnica, nell'istante in cui la macchina fotografica congela il pericolo e il dolore, l'istantanea li rende riproducibili, li cristallizza al di fuori della zona della sensibilità corporea in una patina lucida esterna. Ho ritenuto necessario porre questo sguardo anche a confronto con la visione stereoscopica, quello sguardo che offre una dimensione aggiuntiva alla piatta immagine che uno schermo o i nostri occhi presi singolarmente possono fornirci. Secondo Jünger chi impara ad utilizzare questo sguardo non può più fare a meno di trovare dappertutto delle corrispondenze che superano l'esperienza comune e fanno sgorgare dalla sfera esperienziale un'altra sfera, che conferisce un senso di unità ed armonia non soltanto con tutto il cosmo, lo spazio, ma anche con tutto il tempo. La critica al proprio tempo, stigmatizzato dal marchio della tecnica, si accompagna al desiderio di accedere a un altro tempo e a un altro spazio dove l'invisibile possa essere custodito. La nostalgia di Jünger richiama uno sguardo, una visione, ben diversa da quella obiettiva, oggettiva e calcolante del mondo della tecnica. Se durante la Rivoluzione Conservatrice la nostalgia era uno stato d'animo molto rappresentativo del desiderio di ritorno di o a una Heimat quasi viscerale e interna, legata al senso di comunità di suolo e sangue, dopo il nazismo e l'Olocausto non è da escludere che la nostalgia, in Germania, sia stata invece, attraverso un processo lento e doloroso, espulsa dalla sfera Heimat, intesa in senso rivoluzionar-conservatore, per dirigersi verso un altro luogo, una sorta di zona franca. In conclusione tento di affermare che la nostalgia di Jünger non è semplicemente tensione verso il ricordo del mondo dei padri, del passato con i suoi schemi, valori e tradizioni che la tecnica ha spazzato via, bensì verso il ritorno a un originario, immobile e stabile, materno. Nell'ultimo paragrafo ho tentato di chiarire la differenza tra il ricordo e il ritorno nell'opera di Jünger. Il ritorno appartiene alla dimensione mitica, astorica, dove torna un nucleo identico, immobile, che riesce ad oltrepassare il tempo lineare imprimendo un segno mirabile che colpisce con forza maggiore di quella del ricordo. Jünger afferma che non è necessario né sufficiente evocare la notte dei tempi, una civiltà sepolta o un remoto passato per avvicinarsi a ciò che non muta, a questo centro essenziale7. Gli avamposti scelti da Junger sono i luoghi deputati all'apertura di questo ritorno, percepito come qualcosa che costantemente manca nel deserto della civiltà tecnologica. Questo nucleo originario non è mai raggiungibile, è soltanto avvicinabile, e se da un lato la tecnica ostacola l'esercizio di tali avvicinamenti, Jünger ritiene che esiste per il singolo la possibilità di infrangere i vincoli della tecnica, inserendo le cose in un nuovo ordine di significati. L'interesse che ha orientato la ricerca effettuata cerca di rispondere a due obiettivi fondamentali. Il primo è tentare di offrire un contributo scientifico che possa collocarsi nella letteratura secondaria su Ernst Jünger e ampliarne il relativo dibattito attuale; il secondo è provare a riflettere sulle trasformazioni che la tecnica ha portato a partire dalla Prima Guerra Mondiale, in particolare in Germania, considerata un territorio particolarmente sensibile al disagio della modernità, sulla dimensione emotiva che ha accompagnato il mutamento avvenuto. La nostalgia di Jünger si potrebbe collocare in quella "discrepanza di volumi" che passa tra il progresso e la maturazione, nonché la trasformazione, dello spazio emozionale dell'uomo.
L'oggetto di questa tesi è la peculiare comparsa del termine imperator in un numero esiguo, ma comunque significativo di documenti provenienti dal regno di Asturia e León e dalla Britannia del X secolo. Se già di per sé questa sorta di "incongruenza storica" cattura l'attenzione, il fatto che i due fenomeni imperiali siano praticamente contemporanei e si sviluppino in due contesti molto distanti nello spazio, senza un apparente collegamento, evidenzia l'opportunità di uno studio comparativo. Ad una più attenta analisi, non si può fare a meno di notare come, in entrambi gli ambiti, il secolo immediatamente precedente sia stato caratterizzato da un momento particolarmente favorevole per la cultura – el renacimiento asturiano e the alfredian renaissance – reso possibile dall'azione attiva di due monarchi, Alfonso III di Asturia e León (866-910) e Alfred di Wessex (871-899). Nelle corti di questi sovrani vennero redatte delle cronache (le Crónicas Asturianas e la Anglo-Saxon Chronicle) nelle quali si proponeva una chiave di lettura della storia tesa a ricercare una nuova identità per i rispettivi popoli e si sottolineava il ruolo centrale delle rispettive dinastie regnanti. L'obiettivo della tesi è pertanto duplice: da una parte si desidera comprendere in quale modo e in quale senso sia stato utilizzato il termine imperator nella documentazione presa in esame, dall'altra si prova a capire quale peso ebbero le nuove identità etniche, religiose e territoriali, elaborate nelle già citate cronache, all'interno di questi fenomeni imperiali. Per una miglior resa dell'argomentazione si è deciso di dividere la tesi in due blocchi, il primo dedicato alle cronache del IX secolo e il secondo ai documenti in cui compare il titolo imperiale, risalenti al secolo successivo. A sua volta ciascun blocco si divide quindi in due capitoli, all'interno dei quali le tematiche vengono declinate nel caso ispanico e in quello anglosassone. La tesi si apre con la presentazione dei criteri impiegati nella selezione del corpus di "documenti imperiali" (Cap. 1) – nome con cui si definiscono i diplomi al cui interno compare il titolo di imperator – che ammontano ad un totale 38, di cui 20 asturiano-leonesi (privati e pubblici) e 18 anglosassoni (esclusivamente pubblici). A seguire viene fornito il contesto storico (Cap. 2) e lo status quaestionis (Cap. 3). Nel primo capitolo del primo blocco (Cap. 4) vengono trattate le tre cronache prodotte nella corte asturiano-leonese alla fine del IX secolo: conosciute anche come Crónicas Asturianas, sono intitolate rispettivamente Crónica Albeldense, Crónica Profetica e Crónica de Alfonso III. Per rendere il quadro qui esposto il più completo possibile si inizia trattando il patrimonio librario a disposizione degli autori delle cronache. A seguire si delineano i profili delle tre opere, soffermandosi in particolar modo sulla loro paternità e datazione. Si forniscono quindi indicazioni sulla tradizione manoscritta di queste cronache per poi tracciare un percorso tra le fonti. In questa parte si chiariscono concetti come quello di identità (etnica, religiosa e geografica), e si assiste alla comparsa di temi storiografici come quelli della Reconquista e del neogoticismo. Questi elementi costituiscono il punto di partenza per un ragionamento teso a far emergere il background ideologico comune a tutte e tre cronache. Nel corrispettivo capitolo inglese (Cap. 5) si delinea un profilo della produzione letteraria, in particolare storiografica, che ha caratterizzato le ultime due decadi del IX secolo anglosassone. Si inizia inquadrando gli uomini che formarono parte della cosiddetta alfredian reinassance per poi analizzare il ruolo avuto, all'interno di questo momento di rinascita culturale, dalle traduzioni in Old English delle grandi opere storiografiche. Infine, si propone una rilettura dell'unica opera storiografica scritta ex novo – l'Anglo-Saxon Chronicle – dalla quale emerge come fil rouge il concetto di overlordship. Questo è il nome che gli studiosi moderni hanno dato all'autorità che alcuni re anglosassoni poterono esercitare al di sopra degli altri regni dell'isola: si trattava di una supremazia principalmente militare che portava un re, per periodi spesso brevi, ad imporre la propria sovranità – e talvolta dei tributi – a popolazioni diverse dalla propria. Questa idea di sovranità sovrapposta era già presente in Beda e viene recuperata dai cronisti anglosassoni che la ricollegano, in maniera evidente, alla dinastia dei re del Wessex, coniando per quei re che la detennero la parola bretwalda. A conclusione del primo blocco è presente un capitolo di confronto (Cap. 6) che permette di tirare le somme della prima metà della tesi. Si ribadiscono alcuni punti in comune tra i due casi di studio qui definiti "macrocongruenze": sia la Britannia che la Spania erano parte dell'impero romano, ma non di quello carolingio e subirono un'invasione durante l'Alto Medioevo (danesi/norvegesi la prima e islamici la seconda); in entrambi i casi la produzione di cultura scritta durante il IX secolo orbitava attorno alla figura del monarca; le cronache del periodo celebrano la dinastia regnante come elemento cardine della storia "nazionale" e così facendo ne legittimano l'autorità; fra le pagine di queste cronache vengono proposte nuove identità per entrambe le popolazioni. Tuttavia, al di là di queste evidenti somiglianze, si è notato come, all'interno della cronachistica, si sia arrivati a due modi particolari di rappresentare sé stessi, il proprio regno, il proprio popolo e il proprio contesto geografico. Sono queste differenze a suscitare un particolare interesse dal momento che, come è stato chiaro sin dalla sua fase embrionale, in nessun modo lo scopo di questa ricerca è l'omologazione: non si sta cercando di uniformare la storia inglese del IX e X secolo con quella spagnola dello stesso periodo, per quanto esse abbiano sicuramente dei punti in comune. Nel capitolo di confronto si riflette quindi sulle particolari soluzioni autorappresentative soluzioni a cui sono giunti i cronisti asturiani e anglosassoni riguardo a tre punti chiave: il recupero del passato, la concezione territoriale dell'ambiente geografico e la questione identitaria. Non si può infatti trascurare il differente peso che ebbero nei relativi ambiti il ricordo del regno visigoto e quello dell'Eptarchia anglosassone e dunque, rispettivamente, le opere di Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile. Sarebbe inoltre sbagliato non sottolineare le differenze tra le due nuove proposte identitarie: quella inglese su base spiccatamente etnica (Angelcynn) e quella ispanica su base principalmente religiosa (regnum Xristianorum). Non poteva infine mancare un paragrafo dedicato ai differenti rapporti tra i due ambiti studiati e il mondo carolingio contemporaneo. Nel secondo blocco vengono sviscerati i fenomeni imperiali. Il capitolo dedicato all'ambito ispanico (Cap. 7) si apre con una riflessione sulle varie figure di scriptores del regno di León e sul peso avuto dai formulari visigoti nella documentazione altomedievale. Al principio del corrispettivo capitolo inglese (Cap. 8) vengono invece presentati due casi di utilizzo del termine imperiale precedenti il X secolo: quello di sant'Oswald di Northumbria (634-642) nella Vita Sancti Columbae di Adomnano di Iona e quello di Coenwulf di Mercia (796-821) nel documento S153. Seguono due paragrafi dedicati alla documentazione di Edward the Elder (899-924) e Æthelstan (924-939) che mettono in luce un sostanziale sviluppo della titolatura regia, indice di un progressivo ampliamento dell'autorità di questi monarchi. Il centro di entrambi i capitoli del secondo blocco consiste nella dettagliata analisi dei documenti imperiali e nelle riflessioni che da questa scaturiscono. Nel caso spagnolo è possibile affermare con una certa sicurezza che l'uso del titolo imperator ebbe inizio con il figlio, Ordoño II, che lo attribuì al padre per rafforzare la propria posizione di re di León. Tra la morte di Ordoño II (924) e l'ascesa al trono di Ramiro II (931) il titolo cominciò ad essere adoperato anche nella documentazione privata, senza per questo scomparire da quella regia. Non è purtroppo possibile cercare di ricondurre il fenomeno imperiale ispanico alla figura di uno scriptor in particolare – a differenza del caso inglese –; va però fatto presente che alcuni testi risalenti alla seconda metà del secolo differiscono dai documenti di Ordoño II nell'impiego del termine, poiché questo viene usato in riferimento al re vivente, anziché al padre defunto. Il titolo, almeno all'inizio del X secolo, non sembra riflettere un'autorità superiore (per l'appunto imperiale), ma richiama la sua più antica accezione, quella di "generale vittorioso" e costituisce una prerogativa dei sovrani leonesi. Per quanto riguarda il fenomeno imperiale inglese, invece, è possibile individuare un punto di inizio nei famosi alliterative charters, probabilmente redatti da Koenwald di Worcester (928/9- 957), sulla cui paternità si discute lungamente nella tesi. Sembra chiaro che imperator altro non sia che la traduzione latina di quello che gli storici hanno definito overlord. Tramite l'impiego di tale titolo i sovrani anglosassoni hanno voluto rappresentare la loro crescente egemonia sugli altri regni dell'isola, rivendicando così un'autorità più territoriale che etnica. Occorre però far presente che l'uso della terminologia imperiale forma parte di quel più ampio processo di evoluzione della titolatura regia già iniziato con Edward the Elder. Queste riflessioni vengono poi messe in relazione con quelle del primo blocco e sviluppate nelle conclusioni (Cap. 9). Esse vertono su quattro punti fondamentali: l'uso del documento e della lingua latina nei due ambiti; la Britannia e la Spania come universi a sé; il significato di imperator nei due contesti documentari; la concezione territoriale come presupposto teorico e geografico di questo utilizzo. La lettura delle fonti ci permette di affermare che entrambi i contesti rappresentavano per i rispettivi sovrani degli universi idealmente a sé stanti. I sovrani leonesi e anglosassoni ereditarono dai loro predecessori non solo una "missione" politica – di riconquista per i primi e di controllo per i secondi –, ma anche una specifica concezione – diversa per ciascun caso – dell'ambiente geografico in cui si trovavano a operare. La Britannia del re-imperatore anglosassone è la Britannia di Beda, frammentata e divisa, eppure tutto sommato unita. La Spania dei re leonesi è la Spania di Isidoro, unita, omogenea, ma drammaticamente perduta. Tuttavia, per il caso spagnolo e nel periodo qui preso in esame, al titolo non venne mai accostato un riferimento spaziale che rimandasse ad un dominio su tutta la penisola. In quello inglese, invece, tale accostamento ci fu, ma il riferimento geografico alla Britannia non fu un'esclusiva del titolo imperiale. Possiamo quindi dire che, nel caso inglese, il titolo nacque per il bisogno di tradurre in latino un'autorità indiretta ed egemonica (come quella di un rex regum), e perse poi questo significato – e quindi l'uso –, quando la situazione politica del regno si modificò; nel caso spagnolo invece, avvenne un'elaborazione quasi simmetricamente opposta. Il titolo, inizialmente usato nel suo significato più antico di "generale vittorioso" o "signore potente", venne poi reinterpretato quando nell'XI e XII secolo cambiarono gli equilibri politici della penisola. In questo periodo troviamo infatti sovrani come Alfonso VI e Alfonso VII impiegare titolature quali imperator totius Hispaniae. In entrambi i casi, l'imperator venne inteso come sinonimo di rex regum, ma in due momenti diversi: ovvero quando ve ne fu effettivamente bisogno. La tesi è provvista di mappe e della bibliografia, divisa tra fonti e studi. Inoltre si è considerato utile aggiungere in appendice i testi dei documenti imperiali. ; The subject of this thesis is the peculiar presence of the term imperator in a small, but still significant, number of 10th century documents from the reign of Asturia and León and from Britain. The fact that these two "imperial phenomena" coexisted and developed in two very distant contexts, without an apparent connection, makes a comparative study necessary. Also, in both areas the previous century was characterized by a particularly favorable moment for culture - el renacimiento asturiano and the alfredian renaissance - made possible by the action of two monarchs, Alfonso III of Asturia and León (866-910) and Alfred of Wessex (871-899). In these sovereigns' courts, chronicles were drawn up (the Crónicas Asturianas and the Anglo-Saxon Chronicle), proposing an interpretation of history which tend to seek a new identity for the respective peoples, highlighting the central role of the respective ruling dynasties. The aim of the thesis is therefore twofold: on the one hand, to understand in what way and in what sense the term imperator was used in the documentation examined; on the other hand, to estimate what weight the new ethnic, religious and territorial identities had within these imperial phenomena. For a better performance of the argument, it was decided to divide the thesis into two parts, the first dedicated to the chronicles of the 9th century and the second to the documents of the following century in which the imperial title appears. In turn, each part is divided into two chapters focused on Hispanic and Anglo-Saxon cases. The thesis opens with the presentation of the criteria used in the selection of the corpus (Ch. 1), which amounts to a total of 38 imperial documents, of which 20 Asturian-Leonese (private and public) and 18 Anglo-Saxon (exclusively public). The historical context (Ch. 2) and the status quaestionis (Ch. 3) are provided below. The first chapter of the first part (Ch. 4) deals with the three chronicles produced in the Asturian-Leonese court at the end of the 9th century. Also known as Crónicas Asturianas. they are respectively entitled Crónica Albeldense, Crónica Profetica and Crónica de Alfonso III. This chapter starts treating the Asturian library, available to the authors of the chronicles, and follows with the description of each chronicle, focusing on their paternity and dating. It then provides information about the manuscript tradition of each chronicle and it finally ends with an overall reading of the sources. Here, concepts such as identity (ethnic, religious and geographic) are clarified, and we observe the origin of historiographic themes such as those of the Reconquista and neo-Gothicism. These elements constitute the starting point for a reflection aimed at bringing out the ideological background common to all three chronicles. In the corresponding English chapter (Ch. 5) is outlined a profile of the literary production, in particular historiographic, which characterized the last two decades of the 9th century in England. We start by framing the men who formed part in the so-called alfredian reinassance and then analyze the role played in this moment of cultural rebirth by the translations in Old English of the great historiographic works. Finally, we propose a rereading of the only historiographic work written ex novo, the Anglo-Saxon Chronicle, where the concept of overlordship emerges as a common thread. Overlordship is the name that modern scholars have given to the authority that some Anglo-Saxon kings were able to exercise over other kings in the island. It is a predominantly military supremacy which leads a king, for often short periods, to impose his sovereignty - and sometimes tributes - on populations other than his own. This idea of overlapped sovereignty was already present in Beda and is recovered by the Anglo-Saxon chroniclers who relate it, explicity, to the dynasty of the kings of Wessex, coining for those kings who held it the term bretwalda. At the end of the first part there is a comparison chapter (Ch. 6) that draws the conclusions of the first half of the thesis. Some points in common (here called "macrocongruenze") between the two case studies are reiterated: both Britain and Spania formed part of the Roman Empire, but not of the Carolingian Empire and both suffered an invasion during the Early Middle Ages (Danes / Norwegians and Muslims); in both cases the production of written culture, during the 9th century, orbited around the figure of the monarch; the chronicles celebrate the reigning dynasty as the centre of "national" history to legitimize its authority; among the pages of these chronicles new identities are proposed for both populations. However, beyond these obvious similarities, it has been noted that the chronicles adopted two different ways of self-representing themselves, their kingdom, their people and their geographical context. The comparison chapter therefore reflects on three key points: the recovery of the past, the territorial conception of the geographical environment and the identity issue. In fact, we cannot neglect the different importance that the memory of the Visigoth kingdom and of the Anglo-Saxon Heptarchy (and therefore, respectively, the works of Isidore of Seville and the Venerable Bede) had. It would also be wrong not to underline the differences between the two new identity proposals: the English one had a distinctly ethnic base (Angelcynn), while the Hispanic base was mainly religious base (regnum Xristianorum). The last paragraph if finally dedicated to the different relationships between the two areas studied and the contemporary Carolingian world could not be missing. In the second block imperial phenomena are examined. The chapter dedicated to the Hispanic context (Ch. 7) opens with a reflection on the various figures of scriptores of the kingdom of León and on the weight of Visigoth formulae in the early medieval documentation. At the beginning of the corresponding English chapter (Ch. 8) are presented two cases of a use of the imperial term preceding the 10th century: that of Saint Oswald of Northumbria (634-642) in the Adomnan of Hy's Vita Sancti Columbae of and that of Coenwulf of Mercia in the charter S153. These cases are followed by two paragraphs dedicated to Edward the Elder's and Æthelstan's documentation, which highlight a substantial development of the royal title, pointing out an expansion of the authority of these monarchs. The center of both the chapters of the second block consists in the detailed analysis of the imperial documents and in the reflections that arise from it. In the Spanish case, it is possible to affirm with some certainty that the use of the imperator title began with his son, Ordoño II, who attributed it to his father to strengthen his position as king of León. Between the death of Ordoño II (924) and the ascent to the throne of Ramiro II (931), the title also began to be employed into private documentation, without disappearing in the public one. Unfortunately, it is not possible, as it is in the English case, to trace the Hispanic imperial phenomenon back to a particular scriptor. However, it should be noted that some texts dating from the second half of the century differ from the charters of Ordoño II in the use of the term, adopting it in reference to the living king, rather than the deceased father. The title, at least at the beginning of the tenth century, does not seem to reflect a superior (or imperial) authority, but recalls its most ancient meaning, of "victorious general" and constitutes a prerogative of the Leonese sovereigns. As for the English imperial phenomenon, however, it is possible to identify a starting point in the famous alliterative charters, probably drawn up by Koenwald of Worcester (928/9- 957), whose authorship is largely discussed in the thesis. It seems clear that imperator is nothing but the Latin translation of what historians have called overlord. Through the use of this title, the Anglo-Saxon rulers wanted to represent their growing hegemony over the other kingdoms of the island, thus claiming a more territorial than ethnic authority. However, it should be noted that the use of imperial terminology forms part of the broader process of evolution of the royal title that started with Edward the Elder. These reflections are then related to those of the first part and developed in the conclusions (Ch. 9). They focus on four fundamental points: the use of the documentation and the Latin language in the two areas; Britain and Spania as self-contained universes; the meaning of imperator in the two documentary contexts; the territorial conception as a theoretical and geographical assumption of this use. Reading the sources allows us to affirm that both contexts represented universes ideally self-contained for their respective sovereigns. The Leonese and Anglo-Saxon rulers inherited from their predecessors not only a political "mission" - reconquering for the former and control for the latter -, but also a specific conception - different for each case - of the geographical environment in which they found themselves operate. The Britannia of the Anglo-Saxon king-emperor is Bede's Britannia, fragmented and divided, but spiritually united. The Spania of the Leonese kings is Isidoro's Spania, united, homogeneous, but dramatically lost. However, for the Spanish case in the period examined here, the imperial title was never related to a geographical reference; in the English one, the geographical reference to Britannia existed, but was not exclusive to the imperial title. We can therefore say that, in the English case, the title was born out of the need to translate into Latin an indirect and hegemonic authority (like that of a rex regum), and then lost this meaning - and therefore the use - when the political situation of the kingdom changed. In the Spanish case, conversely, an almost symmetrically opposite processing took place. The title, initially used in its oldest meaning as "victorious general" or "powerful lord", was reinterpreted in the 11th and 12th centuries, when the political balance of the peninsula changed. In this period, we find in fact rulers like Alfonso VI and Alfonso VII employing titles such as imperator totius Hispaniae. In both cases, the emperor was intended as a synonym for rex regum, but in two different moments - always when it was more needed. The thesis is equipped with maps and bibliography, divided between sources and studies. Furthermore, it was considered useful to add a final appendix with the texts of the imperial documents. ; El tema de esta tesis es la aparición peculiar del término imperator en un número pequeño, pero significativo, de documentos del siglo X procedentes de los reinos de Asturias y León y de Inglaterra. Si en sí mismo este tipo de "coincidencia histórica" capta la atención, el hecho de que los dos fenómenos imperiales sean prácticamente contemporáneos y se desarrollen en dos contextos muy distantes en el espacio, sin una conexión aparente, pone de manifiesto la necesidad de un estudio comparativo. Tras una ulterior búsqueda, no pasa desapercibido cómo, en ambas áreas, el siglo inmediatamente anterior se caracterizó por ser un momento particularmente favorable para la cultura – el renacimiento asturiano y the alfredian reinassence –, hecho posible por la acción de dos monarcas, Alfonso III de Asturias y León (866-910) y Alfred de Wessex (871-899). En los entornos de estos soberanos, se elaboraron crónicas (las Crónicas Asturianas y la Anglo-Saxon Chronicle) que proponían una lectura de la historia destinada a buscar una nueva identidad para los respectivos pueblos, subrayando el papel central de las respectivas dinastías gobernantes. El objetivo de la tesis es, por lo tanto, doble: por un lado, se quiere entender de qué manera y en qué sentido se utilizó el término imperator en la documentación examinada y, por otro lado, tratamos de comprender qué peso tenían las nuevas identidades étnicas, religiosas y territoriales, dentro de estos fenómenos imperiales. Para una mejor presentación de los argumentos, se decidió dividir la tesis en dos bloques: el primero dedicado a las crónicas del siglo IX y el segundo a los documentos del siglo siguiente en los que aparece el título imperial. A su vez, cada bloque se divide en dos capítulos donde se desarrollan las temáticas en los casos hispanos y anglosajones. La tesis comienza con la presentación de los criterios utilizados para la selección del corpus de "documentos imperiales" (Capítulo 1) – los diplomas donde aparece el título de imperator –, que asciende a un total de treinta y ocho, veinte de los cuales son asturianos-leoneses (privados y públicos) y dieciocho anglosajones (exclusivamente públicos). El contexto histórico (Capítulo 2) y el status quaestionis (Capítulo 3) se proporcionan a continuación. En el primer capítulo del primer bloque (Capítulo 4) se presentan las tres crónicas producidas en la corte asturiano-leonesa a finales del siglo IX. También conocidas como Crónicas Asturianas, estas son la Crónica Albeldense, la Crónica Profética y la Crónica de Alfonso III. Para conseguir una visión lo más completa posible, comenzamos viendo los libros que los autores de las crónicas tenían a su disposición. A continuación, se analizan las tres obras, con una particular atención a su autoría y datación. Finalmente, proporcionamos indicaciones sobre la tradición manuscrita de estas crónicas y trazamos un camino entre las fuentes. En esta parte se van perfilando cuestiones cruciales, como la identidad (étnica, religiosa y geográfica), y temas historiográficos, como la Reconquista y el neogoticismo. Estos elementos constituyen el punto de partida para un razonamiento destinado a resaltar el trasfondo ideológico común a las tres crónicas. En el capítulo sucesivo (Capítulo 5) se traza un perfil de la producción literaria, en particular historiográfica, que caracterizó las últimas dos décadas del siglo IX anglosajón. Se comienza enmarcando a los hombres que formaron parte del llamado alfredian reinassance y analizando sucesivamente el papel desempeñado por las traducciones en Old English de las grandes obras historiográficas en este momento de renacimiento cultural. Finalmente, proponemos una nueva lectura de la única obra historiográfica escrita desde cero, la Anglo-Saxon Chronicle, a partir de la cual el concepto de overlordship emerge como un hilo conductor. Este es el nombre que los eruditos modernos le han dado a la autoridad que algunos reyes anglosajones pudieron ejercer sobre los otros reyes de la isla. Es una supremacía predominantemente militar que lleva a un rey – a menudo por períodos cortos – a imponer su soberanía, y a veces tributos, a poblaciones distintas de la suya. Esta idea de soberanía superpuesta ya estaba presente en Beda y es recuperada por los cronistas anglosajones que la relacionan, evidentemente, con la dinastía de los reyes de Wessex, acuñando para aquellos reyes la palabra bretwalda. Al final del primer bloque hay un capítulo de comparación (Capítulo 6) que permite resumir las conclusiones de la primera mitad de la tesis. Se reiteran algunos puntos en común entre los dos estudios del caso: tanto Britannia como Spania formaron parte del Imperio Romano, pero no del Imperio Carolingio y sufrieron una invasión durante la Alta Edad Media (Daneses / Noruegos e islámicos); en ambos casos, la producción de cultura escrita durante el siglo IX orbitaba alrededor de la figura del monarca. Las crónicas resultantes de este período celebran la dinastía reinante como la piedra angular de la historia "nacional" y al hacerlo legitiman su autoridad; entre las páginas de estas crónicas se proponen nuevas identidades para ambas poblaciones. Sin embargo, más allá de estas similitudes obvias, se ha observado que dentro de las crónicas ha habido dos formas particulares de representación de sí mismos, de su reino, de su gente y de su contexto geográfico. Son estas diferencias las que despiertan un interés particular, ya que, como ha quedado claro desde el principio, no hay absolutamente ningún intento de homologar la historia inglesa de los siglos IX y X con la historia española del mismo período, aunque sin duda tienen puntos en común. Por lo tanto, el capítulo de comparación reflexiona sobre las particulares formas de auto-representación proporcionadas por los cronistas asturianos y anglosajones y se centra en tres puntos clave: la recuperación del pasado, la concepción territorial del entorno geográfico y la cuestión relativa a la identidad. De hecho, no podemos descuidar el peso diferente que tuvo el recuerdo del reino visigodo y el de la Heptarquía anglosajona y, por lo tanto, respectivamente, las obras de Isidoro de Sevilla y de Beda la Venerable. También sería un error no subrayar las diferencias entre las dos nuevas propuestas de identidad: la inglesa, con una base claramente étnica (Angelcynn) y la hispana, con una base principalmente religiosa (regnum Xristianorum). Finalmente, no podía faltar un párrafo dedicado a las diferentes relaciones entre las dos áreas estudiadas y el mundo carolingio contemporáneo. En el segundo bloque se examinan los fenómenos imperiales. El capítulo dedicado al contexto hispano (Capítulo 7) comienza con una reflexión sobre las diversas figuras de los scriptores del reino de León y sobre el peso de las fórmulas visigodas en la documentación altomedieval. Al comienzo del capítulo correspondiente en inglés (Capítulo 8) se presentan dos casos de uso del término imperial anterior al siglo X: el de San Oswald de Northumbria (634-642) en la Vita Sancti Columbae de Adomnano de Iona y el de Coenwulf de Mercia (796-821) en el documento S153. Siguen dos párrafos dedicados a la documentación de Edward the Elder (899-924) y Æthelstan (924-939), donde se destaca un desarrollo sustancial del título real que indica una expansión de la autoridad insular de estos monarcas. El centro de ambos capítulos del segundo bloque consiste en el análisis detallado de los documentos imperiales y en las reflexiones que surgen de esto. En el caso español se puede concluir que, aunque hay rastros de un empleo del título imperial en la documentación de Alfonso III, es posible afirmar con cierta certeza que el uso del título imperator comenzó con su hijo, Ordoño II (914-924), quien lo atribuyó a su padre para fortalecer su posición como rey de León. Entre la muerte de Ordoño II (924) y el ascenso al trono de Ramiro II (931), el título también pasó a la documentación privada, sin desaparecer de la pública. Desafortunadamente, no es posible, como en el caso inglés, tratar de rastrear el fenómeno imperial hispano hasta la figura de un escritor en particular. Sin embargo, debe tenerse en cuenta que algunos textos que datan de la segunda mitad del siglo difieren de los documentos de Ordoño II en el uso del término, ya que se emplea en referencia al rey vivo y no al padre fallecido. El título, al menos a principios del siglo X, no parece reflejar una autoridad superior (precisamente imperial), pero recuerda su significado más antiguo, el de "general victorioso" y constituye una prerrogativa de los soberanos leoneses. En cuanto al fenómeno imperial inglés, por otro lado, es posible identificar un punto de partida en los famosos alliterative charters, probablemente producidos por Koenwald de Worcester (928/9- 957), cuya autoría se discute extensamente en la tesis. Parece que imperator no es más que la traducción latina de lo que los historiadores han llamado overlord. Mediante el uso de este título, los gobernantes anglosajones querían representar su creciente hegemonía sobre los otros reinos de la isla, reclamando así una autoridad más territorial que étnica. Sin embargo, debe tenerse en cuenta que el uso de la terminología imperial forma parte de ese proceso más amplio de evolución del título real que ya comenzó con Edward the Elder. En las conclusiones (Capítulo 9) se relacionan estas reflexiones con las del primer bloque desarrollándolas. Se centran en cuatro puntos fundamentales: el papel del documento y del idioma latino en las dos áreas; Britannia y Spania como universos en sí mismos; el significado de imperator en los dos contextos documentales y, por último, la concepción territorial como una premisa teórica y geográfica de este empleo de la terminología imperial. Tras leer las fuentes podemos afirmar que ambos contextos representaban, a los ojos de sus respectivos soberanos, universos dentro del universo. Los gobernantes leoneses y anglosajones heredaron de sus predecesores no solo una "misión" política – de reconquista para los primeros y de control para los segundos – sino también una concepción específica, diferente para cada caso, del entorno geográfico en el que se encontraban. La Britannia del rey-emperador anglosajón es la Britannia de Beda, fragmentada, dividida y, sin embargo, unida. La Spania de los reyes leoneses es la Spania de Isidoro, unida, homogénea, pero dramáticamente perdida. Sin embargo, para el caso español, en el período examinado aquí, nunca se encuentra el título imperial en relación a una referencia territorial que evoque un dominio sobre toda la península. En el inglés, sin embargo, existía este uso, pero la referencia geográfica a Britannia no era exclusiva del título imperial. Por lo tanto, podemos decir que, en el caso inglés, el título nació de la necesidad de traducir al latín una autoridad indirecta y hegemónica (como la de un rex regum), y luego perdió este significado – y su uso – cuando la situación política del reino cambió. En el caso español, sin embargo, tuvo lugar un procesamiento casi simétricamente opuesto. El título, utilizado inicialmente en su significado más antiguo como "general victorioso" o "señor poderoso", fue reinterpretado más tarde cuando el equilibrio político de la península cambió en los siglos XI y XII. En este período encontramos, de hecho, gobernantes como Alfonso VI y Alfonso VII que emplean títulos como imperator totius Hispaniae. En ambos casos, imperator fue concebido como sinónimo de rex regum, pero en dos momentos diferentes; cuando realmente se necesitaba. La tesis está provista de mapas y bibliografía, dividida entre fuentes y estudios. Además, se consideró útil agregar los textos de los documentos imperiales al apéndice.
Terra di luce e di sole, Trapani è un territorio la cui bellezza incontaminata incanta grazie alla sua natura ricca, che offre un paesaggio luminoso dove il cielo si tinge di forti colori, quasi accecanti, ingentiliti dal verde delle vigne, degli ulivi . Affacciato su un mare ricco e pescoso questo territorio, caratterizzato prevalentemente da dolci colline, è infatti la regione più vitata d'Italia. L'analisi è stata condotta concentrando l'attenzione su alcuni aspetti chiave rivolti ad illustrare i possibili strumenti per la valorizzazione della provincia di Trapani, evidenziando il significato, gli obiettivi, le attività, le capacità e in particolare, le attitudini a fronteggiare eventuali situazioni di cambiamento. La tesi è strutturata in Sei capitoli: Nel primo capitolo si cerca di costruire una breve sequenza ragionata delle politiche di sviluppo nella provincia di Trapani evidenziate negli strumenti di programmazione negoziata e sviluppo locale presenti sul territorio. Dallo "intervento straordinario", che certamente oggi non suscita alcun sentimento nostalgico, ai possibili interventi per rafforzare la rete di uno sviluppo che cessi di essere subalterno e dipendente, attraverso "l'elaborazione di un quadro di interventi possibili orientati non da una dispersione a tappeto, ma da un ragionamento organizzato da una logica. Obiettivo da perseguire non di certo con una corsa agli aiuti finanziari "a pioggia" visti come un'automatica sorgente di crescita, ma facendo un uso ragionato degli aiuti europei e statali, supportati da un'efficace programmazione, capace di offrire soluzioni riconosciute come essenziali. Una programmazione che si è basata su due gambe: partecipazione attiva dei privati e creazione, da parte dell'operatore pubblico, delle condizioni in cui ai soggetti privati siano facilitati comportamenti virtuosi; tutto ciò contornato da una negoziazione tra operatori pubblici e privati, volta alla realizzazione di accordi, a livello locale, per colmare lo svantaggio tra le aree. Già con la riforma dei Fondi strutturali si è tentato di apportare significative modifiche. Innovazioni come quelle dei principi generali di partenariato, programmazione, addizionalità, valutazione e monitoraggio; classificazione per obiettivi ed iniziative che hanno sicuramente imboccato una nuova strada per una nuova politica per il Mezzogiorno. Certamente non si è riusciti a stravolgere i risultati avuti in passato ma si è acquisita un'esperienza su un periodo di programmazione che ha aiutato a calibrare il tiro per il futuro. I risultati dell'analisi e di contesto che il presente capitolo fornirà, la valorizzazione dei risultati degli interventi di politica di sviluppo locale (Learder, Patti territoriali, PIT) e di incentivi a compensazione delle diseconomie e delle inefficienze di contesto, consentono una più forte integrazione con le istanze espresse dal territorio, un'efficiente programmazione e valutazione dell'efficacia delle azioni per il raggiungimento degli obiettivi. Programmi di iniziativa comunitaria (Leader), strumenti di progettazione integrata (P.I.T.), definiti come modalità operativa di eccellenza per l'attuazione del POR, permettono alle Autonomie locali di identificare le opportunità del territorio e di formulare in piena autonomia, seppur ascoltando il partenariato sociale-economico, le proposte progettuali coerenti con gli obiettivi definiti dalla Regione e di gestire gli interventi. Saranno analizzati gli strumenti di programmazione negoziata, sviluppo locale e incentivazione operanti nella provincia di Trapani al fine di riportare, per grandi linee, l'impatto che le risorse hanno avuto sul territorio provinciale. Nel secondo capitolo l' attività di analisi territoriale ha portato a focalizzare l'attenzione su quattro settori che rappresentano il motore trainante dell'economia: Il settore Turistico è il più dinamico dell'economia trapanese con flussi di domanda crescenti che già si stanno trasformando in domanda immobiliare, esistono le condizioni per indirizzare tale domanda verso la riqualificazione di immobili di pregio in stato di abbandono o sottoutilizzo. Il comparto turistico della provincia di Trapani si è sviluppato grazie all'importanza storica e culturale, nonchè a quella paesaggistica e naturalistica, dei vari comuni e delle isole che rientrano in questo comprensorio provinciale. Esso si basa su un'offerta decisamente varia: archeologia, poiché si trovano qui gli avanzi di numerosi insediamenti sia greci che punici (le aree archeologiche di Selinunte, Segesta, Mozia) ma anche splendidi ambienti naturali come quello della riserva naturale dello Zingaro, la prima istituita in Sicilia, e delle saline con i mulini a vento. E ancora, tradizioni popolari, feste dei santi patroni, spettacoli ed eventi culturali, al largo di Trapani, fanno parte della provincia le isole dell'arcipelago delle Egadi e, molto più lontano, più vicina alla costa africana che a quella siciliana, l'isola di Pantelleria, profumata di capperi e zibibbo. Nel settore Ittico i contributi apportati risultano essere di estrema importanza per coloro che vogliono conoscere e approfondire il vasto pianeta pesca da diverse angolature tutte correlate tra loro. Si va dall'aspetto giuridico a quello economico, dalla sostenibilità ambientale del Mediterraneo alla sicurezza del lavoro in tutta la filiera ittica, dall'importante e delicato passaggio dal FEP al FEAMP alle innovazioni portate avanti dalla Blue Economy, da un'attenta e dettagliata descrizione dei dati salienti del settore alla situazione socio-economica alieutica di alcuni paesi che si affacciano nel Mediterraneo. Un settore, quello della pesca, che in Sicilia contribuisce notevolmente alla storia, alla cultura e soprattutto all'immagine dell'Isola. Il settore olivicolo è il secondo più importante settore agricolo, obiettivo fondamentale è realizzare "interventi mirati allo sviluppo dei servizi in agricoltura". Per questo motivo le iniziative promosse in ambito regionale sono considerate "il punto di confluenza di tutte le iniziative previste dal P.O.". Le Unità Operative Territoriali (U.O.T.) sono aree pilota individuate in ogni regione meridionale dagli organismi competenti per progettare e realizzare un intervento di divulgazione e di consulenza alle imprese che possa poi essere utile in sede di programmazione a consolidare, migliorare o impostare il modello dei servizi regionali. Esso rappresenta un valido contributo per ottenere una olivicoltura efficiente, in grado di offrire ai mercati nazionali ed esteri un prodotto alimentare altamente qualificato e garantire all'olivicoltore la necessaria redditività. Il settore vitivinicolo è il comparto economicamente e socialmente più importante del trapanese che sta attraversando una crisi gravissima con gravi rischi economici e sociali, attraverso gli IDE è possibile se non risolvere quanto meno mitigare la crisi del settore. Il mondo del vino è una realtà molto complessa che si basa su un paradosso: gli elementi della tradizione territoriale si contrappongono al processo continuo di innovazione e sviluppo globale. Il vino possiede un'importante aspetto culturale, legato al territorio, ma nello stesso tempo svolge un'importante funzione economica nello scenario nazionale e soprattutto internazionale. In sostanza, nel vino, gli aspetti locali, legati alla cultura e alla tradizione, si mescolano agli aspetti economici e consumistici. Queste considerazione trovano una conferma nel caso della Provincia di Trapani. Quest'area si caratterizza, da un lato, per lunga storia vitivinicola in grado di offrire una produzione di qualità e, dall'altro, per un'eredità agricola frammentata e tendente alla produzione di qualità media. Negli ultimi anni, inoltre, lo scenario commerciale dei vini siciliani è stato connotato da una sostanziale staticità in termini organizzativi e promozionali, che contrasta con il dinamismo di altre aree viticole nazionali. Queste ultime hanno preso atto che il vino rappresenta un prodotto complesso e dinamico. Oltre a essere un fenomeno di costume, il vino è un elemento del mercato economico e finanziario, costituisce un'esperienza culturale e gioca un ruolo sempre più attivo nel campo della gastronomia. Costituisce, quindi, una risorsa fondamentale per lo sviluppo della cultura e dell'economia di uno specifico territorio. Il terzo capitolo si inserisce in quel filone di ricerche che esamina l'implementazione del marketing, attraverso lo svolgimento di indagini empiriche condotte sulle imprese di trasformazione, sulla base di quelle recenti costruzioni teoriche che considerano le imprese quali aggregati di attività generatrici di valore, mediante l'impiego di risorse e capacità. La prospettiva teorica della "configurazione d'impresa" può rappresentare una chiave di lettura della pratica attuale del marketing in esse applicato; nello specifico, essa indirizza l'analisi, da un lato, verso il contenuto e le eventuali modifiche intervenute nelle attività di marketing e, dall'altro, verso la sensibilizzazione del management nei confronti di tematiche ormai ampiamente sviluppate e consolidate negli studi teorici, quali quelli relativi, appunto, alle risorse e alle capacità. Il lavoro è stato articolato in due parti. La prima parte pone l'accento sull'evoluzione avvenuta nel trapasso dall'era industriale a quella post industriale (e fino ai giorni nostri), in relazione ai postulati del marketing mix, rispetto al quale anche le imprese vitivinicole siciliane hanno implementato la propria attività, e tutto ciò specialmente per quelle ad alto grado di orientamento al mercato. La seconda parte invece prende le mosse da una indagine condotta sulle imprese agroalimentari marketing oriented. La presente ricerca intende infatti aggiornare ed approfondire i risultati di quell'indagine, estendendola, per quanto è possibile, a tale fine è stata imperniata esclusivamente sulle imprese vitivinicole ad alto grado di orientamento di mercato, mediante l'impiego di una scheda–questionario; una tale scheda tende ad acquisire dettagliate informazioni, oltre che sui principali caratteri strutturali e gestionali delle imprese, sulle modalità di adozione delle attività di marketing, attraverso il ricorso agli strumenti del marketing mix. Pur rappresentando queste ultime un'esigua minoranza delle imprese vitivinicole della Sicilia, le analisi svolte consentiranno di illustrare i risultati ottenuti da una frangia di imprese, destinate ad espandersi negli anni avvenire, attraverso l'adozione delle strategie di marketing, ampliando la loro sfera di influenza sulla vitivinicoltura siciliana e sul mercato dei relativi prodotti.Dall'indagine empirica condotta sulle imprese vitivinicole di trasformazione emergono alcuni elementi estremamente significativi. Il marketing è ben concepito e realizzato nelle sue dimensioni culturali ed operative, per quanto si sia in presenza di una certa diversità di schemi di interpretazione e di attuazione della pratica del fenomeno. Le evoluzioni intervenute nelle attività di marketing nelle imprese vitivinicole esaminate si sono concretizzate in un avvicinamento dell'impresa al cliente e al mercato. L'obiettivo di sviluppare un'impresa maggiormente customer–oriented non sembra trovare tuttavia, supporto nell'adozione di una logica processuale delle attività di marketing e nella gestione e sviluppo delle capacità aziendali. Occorre pertanto attendere che il movimento evolutivo avviatosi una decina di anni fa, e che ha visto un crescente ricorso alle attività di marketing nelle imprese di trasformazione del comparto dei vini, si accresca ulteriormente negli anni avvenire, anche sotto lo stimolo dell'azione pubblica; quest'ultima non può disinteressarsi infatti di un processo evolutivo che ha investito (ed investirà sempre più) l'intera filiera produttiva dei vini siciliani, con particolare riguardo a quelli di qualità. Nel quarto capitolo si affrontano i problemi derivanti dalla crisi di un settore vitivinicolo, quando questo sistema produttivo, rappresenta grande parte dell'economia di un'area e, più nello specifico, di un'area di ritardo nello sviluppo, occorre porsi, in primo luogo, il tema del capitale umano. Il lavoro di carattere eminentemente qualitativo di questo documento, assieme al lavoro più quantitativo rappresentato da "Analisi di Contesto", rappresentano una base conoscitiva sufficientemente ampia per offrire elementi decisionali di carattere strategico. La condivisione degli elementi strategici contenuti in questo capitolo con molti tra gli operatori locali e diversi tra gli operatori nazionali, che comunque ben conoscono la realtà locale, ci ha confortato sulla correttezza delle linee individuate. Certo, esistono sfumature, sovente dettagli, che non sempre paiono completamente condivisibili, da parte di qualcuno, ma il senso generale, l'impostazione ed il metodo, pare largamente accettato. Con il nuovo quadro di programmazione, con la riforma dell'OCM di settore, sulla base dell'analisi dei mercati potenziali e dei più tradizionali e sulla base del posizionamento dei più temibili competitor, si è definito uno scenario che consente di guardare alla situazione con un'ottica diversa dal passato. Da queste considerazioni nasce il presente capitolo, contiene elementi di forte innovazione, capaci di suscitare legittime ansie e preoccupazioni, che nascono proprio nella consapevolezza della debolezza del capitale sociale ed umano dell'area: su quali spalle si potrebbe appoggiare un piano così ambizioso? Questa è la principale domanda che gli interlocutori si pongono, non sulle scelte, non sugli strumenti, non sulle modalità; il problema è chi. Questo richiede uno sforzo particolare da parte dei decisori politici, che certo non possono scegliere i soggetti, ma che possono definire un contesto normativo che favorisca l'emergere di nuovi gruppi dirigenti. In questo senso segnali interessanti stanno apparendo nell'orizzonte regionale. Questi, che sinora appaiono come semplici segnali debbono, però, solidificarsi in un disegno strategico coerente. Se questo lavoro potrà servire ad aprire la discussione sulle linee strategiche, un obiettivo molto importante sarà stato raggiunto. L'analisi condotta ha precise implicazioni sul piano della strategia da implementare per attrarre investimenti esteri nella provincia di Trapani. I fattori critici evidenziati dagli attori della business community non si riferiscono a carenze nei contenuti o negli strumenti della comunicazione, ma sono elementi di debolezza che possono essere superati solo attraverso precisi interventi di carattere strutturale. In queste condizioni un'azione di promozione degli investimenti generalizzata a tutti i settori darebbe luogo solo ad una dispersione delle risorse nel tentativo inutile di compensare con iniziative di comunicazione i problemi strutturali nazionali e regionali, che spingono gli investitori stranieri a scegliere altri paesi. La situazione descritta porta, infatti, ad escludere la classica azione di promozione degli investimenti esteri "ad ombrello" che, da un lato interessa in modo indifferenziato tutti i settori produttivi del trapanese, e dall'altro cerca di attrarre investitori esteri in modo non selettivo. Coerentemente con i risultati dell'analisi SWOT, la strada che si è scelto di percorrere riconosce in pieno le difficoltà in cui versa il nostro Paese ed il Meridione in generale, di cui Trapani fa parte a pieno titolo, e segue pertanto una strategia alternativa, più complessa sul piano analitico e operativo ma sicuramente più efficace in termini di risultati attesi. La linea d'azione che verrà percorsa si articola in 3 fasi: 1) identificazione di quei comparti in cui le condizioni per gli investimenti esteri sono più favorevoli e i vantaggi per gli investitori sono tali da soverchiare i fattori disincentivanti nazionali e locali. 2) scelta della tipologia di investimenti da attrarre. Non tutti gli investimenti esteri sono benefici per un territorio, alcuni possono avere addirittura effetti negativi. Fra le diverse tipologie di investimenti esteri connessi al comparto prescelto verranno identificati quelli più desiderabili per il loro impatto sul settore stesso e sull'economia trapanese in generale. 3) selezionata la tipologia di investimenti desiderabile verrà definita la strategia di attrazione di tali investimenti più adeguata, tenendo conto delle caratteristiche degli investitori, dei loro interessi e dei loro possibili obiettivi. Dunque la selezione del settore da proporre alla business comunità come possibile oggetto di IDE scaturisce dalla convergenza di due criteri di giudizio: il primo è direttamente legato alle convenienze economiche che si creano all'interno di specifici settori dell'economia trapanese di cui un investitore esterno può beneficiare, il secondo è invece connesso agli effetti positivi che l'investimento estero può generare sul settore stesso o sul sistema trapanese in qualche suo aspetto. Il quinto capitolo si articola in 3 parti corrispondenti a tre differenti livelli conoscitivi ed operativi. La prima parte può essere considerata come una fase preliminare del lavoro. Essa è dedicata all'analisi del terroir : una specifica conoscenza delle condizioni climatiche, delle caratteristiche del terreno e delle peculiarità dei vitigni e dei portinnesti, oltre che lo studio del risultato dell'interazione di questi elementi con il fattore umano, costituiscono la base per una corretta gestione del "sistema vigneto", a partire dalle fasi di progettazione ed impianto dello stesso fino alla scelta delle più idonee pratiche colturali, il tutto sulla base di ben precisi obiettivi enologici, che tengano conto delle esigenze del mercato. La seconda parte, di carattere più tecnico, si presenta come una guida pratica nella scelta e nell'effettiva realizzazione di tutte le operazioni di campo che risultano necessarie a partire dalla fase precedente all'impianto, ed in seguito sia nei vigneti di nuovo impianto che in quelli già in produzione. Il tutto deve essere effettuato in modo da poter conseguire il duplice obiettivo della redditività dei viticoltori e della qualità del prodotto ottenuto, nel pieno rispetto dell'ambiente. Si trova infine un riferimento alle attività svolte dai servizi allo sviluppo per agevolare i viticoltori nella effettuazione delle diverse operazioni e guidare la gestione dei vigneti verso condizioni di maggiore efficienza. La terza ed ultima parte è costituita dai "disciplinari": una raccolta di regole indirizzate ai viticoltori nate dalla considerazione congiunta delle caratteristiche del territorio, degli obiettivi enologici e delle esigenze del mercato. L'obiettivo è quello di offrire ai viticoltori uno strumento di analisi per conoscere gli eventuali problemi, accrescere le proprie conoscenze per inseguire la via del miglioramento per il futuro. Le ultime due annate possono essere considerate agli antipodi sotto tutta una serie di profili. Le condizioni registrate hanno sicuramente avuto un'influenza sugli aspetti quali-quantitativi della produzione. In viticoltura le variabili della natura possono essere tanto favorevoli quanto pericolose nell'influenzare il percorso produttivo e il raggiungimento degli obiettivi di ciascun viticoltore. La conoscenza, il monitoraggio degli elementi presi in esame e lo studio dei risultati raccolti possono aiutare nella definizione delle azioni future da intraprendere nel corso del lavoro in vigna. Il valore intrinseco e il risultato consequenziale delle scelte è infinitamente importante, ed è inscindibile da ciò che sta a monte e a valle delle stesse: è fondamentale fare la cosa giusta al momento giusto. La filosofia è quella della sostenibilità, sotto varie declinazioni e applicazioni. Ma il raggiungimento di questo faticoso equilibrio in ogni azienda vitivinicola passa attraverso un percorso che prevede la conoscenza, l'osservazione e la misura di tutti quegli elementi che intercorrono nella definizione di sostenibilità. Il Consorzio è lo strumento attraverso il quale la Regione, promuove ed organizza la bonifica come mezzo permanente di difesa, conservazione, valorizzazione e tutela del suolo, di utilizzazione e tutela delle acque e salvaguardia dell'ambiente, inoltre si mette in evidenza anche come il Consorzio di tutela sia un ottimo strumento per promuovere, valorizzare informare il consumatore e curare gli interessi generali della DOC "Sicilia". Il sesto capitolo si propone di individuare i percorsi di valorizzazione della produzione vinicola, attraverso l'esperienza diretta ed interviste si focalizza l'attenzione su due casi di successo, nonché leader nel settore vitivinicolo; le aziende: "Florio S.p.a" e "Pellegrino & C. S.p.a". L'obiettivo è quello di evidenziare gli elementi di forza e di criticità di un'offerta per i mercati esteri che ha saputo declinare le leve del marketing con il valore aggiunto rappresentato dall'immagine territoriale. La strategia di internazionalizzazione di queste storiche imprese Siciliane dimostra come oggi per approdare all'estero in maniera competitiva occorra individuare strategie innovative fondate sull'immagine del territorio. In questa prospettiva, il valore simbolico del vino e del suo territorio devono essere rinnovati per poter trovare posto nell'universo valoriale di consumatori sempre più attenti, oltre che alla qualità del prodotto, ai significati culturali che esso veicola.
Abstract Aim: This study aimed to describe the change in surgical practice and the impact of SARS-CoV-2 on mortality after surgical resection of colorectal cancer during the initial phases of the SARS-CoV-2 pandemic. Methods: This was an international cohort study of patients undergoing elective resection of colon or rectal cancer without preoperative suspicion of SARS-CoV-2. Centres entered data from their first recorded case of COVID-19 until 19 April 2020. The primary outcome was 30-day mortality. Secondary outcomes included anastomotic leak, postoperative SARS-CoV-2 and a comparison with prepandemic European Society of Coloproctology cohort data. Results: From 2073 patients in 40 countries, 1.3% (27/2073) had a defunctioning stoma and 3.0% (63/2073) had an end stoma instead of an anastomosis only. Thirty-day mortality was 1.8% (38/2073), the incidence of postoperative SARS-CoV-2 was 3.8% (78/2073) and the anastomotic leak rate was 4.9% (86/1738). Mortality was lowest in patients without a leak or SARS-CoV-2 (14/1601, 0.9%) and highest in patients with both a leak and SARS-CoV-2 (5/13, 38.5%). Mortality was independently associated with anastomotic leak (adjusted odds ratio 6.01, 95% confidence interval 2.58–14.06), postoperative SARS-CoV-2 (16.90, 7.86–36.38), male sex (2.46, 1.01–5.93), age >70 years (2.87, 1.32–6.20) and advanced cancer stage (3.43, 1.16–10.21). Compared with prepandemic data, there were fewer anastomotic leaks (4.9% versus 7.7%) and an overall shorter length of stay (6 versus 7 days) but higher mortality (1.7% versus 1.1%). Conclusion: Surgeons need to further mitigate against both SARS-CoV-2 and anastomotic leak when offering surgery during current and future COVID-19 waves based on patient, operative and organizational risks. ; Appendix 1 Writing group (*denotes joint first authors) Elizabeth Li*, James C. Glasbey*, Dmitri Nepogodiev*, Joana F. F. Simoes*, Omar M. Omar, Mary L. Venn, Jonathan P. Evans, Kaori Futaba, Charles H. Knowles, Ana Minaya-Bravo, Helen Mohan, Manish Chand, Peter Pockney, Salomone Di Saverio, Neil Smart, Abigail Vallance, Dale Vimalachandran, Richard J. W. Wilkin, Aneel Bhangu (Overall guarantor). 2 Statistical analysis Omar M. Omar (Lead statistician), Elizabeth Li, James C. Glasbey, Aneel Bhangu. 3 CovidSurg Operations Committee Kwabena Siaw-Acheampong, Ruth A. Benson, Edward Bywater, Daoud Chaudhry, Brett E. Dawson, Jonathan P. Evans, James C. Glasbey, Rohan R. Gujjuri, Emily Heritage, Conor S. Jones, Sivesh K. Kamarajah, Chetan Khatri, Rachel A. Khaw, James M. Keatley, Andrew Knight, Samuel Lawday, Elizabeth Li, Harvinder S. Mann, Ella J. Marson, Kenneth A. McLean, Siobhan C. Mckay, Emily C. Mills, Dmitri Nepogodiev, Gianluca Pellino, Maria Picciochi, Elliott H. Taylor, Abhinav Tiwari, Joana F. F. Simoes, Isobel M. Trout, Mary L. Venn, Richard J. W. Wilkin, Aneel Bhangu. 4 International Cancer Leads (*denotes specialty principal Investigator) James C. Glasbey (Chair); Colorectal: Neil J. Smart*, Ana Minaya-Bravo*, Jonathan P. Evans, Gaetano Gallo, Susan Moug, Francesco Pata, Peter Pockney, Salomone Di Saverio, Abigail Vallance, Dale Vimalchandran. 5 Dissemination Committee Joana F. F. Simoes (Chair); Tom E. F. Abbott, Sadi Abukhalaf, Michel Adamina, Adesoji O. Ademuyiwa, Arnav Agarwal, Murat Akkulak, Ehab Alameer, Derek Alderson, Felix Alakaloko, Markus Albertsmeiers, Osaid Alser, Muhammad Alshaar, Sattar Alshryda, Alexis P. Arnaud, Knut Magne Augestad, Faris Ayasra, José Azevedo, Brittany K. Bankhead-Kendall, Emma Barlow, David Beard, Ruth A. Benson, Ruth Blanco-Colino, Amanpreet Brar, Ana Minaya-Bravo, Kerry A. Breen, Chris Bretherton, Igor Lima Buarque, Joshua Burke, Edward J. Caruana, Mohammad Chaar, Sohini Chakrabortee, Peter Christensen, Daniel Cox, Moises Cukier, Miguel F. Cunha, Giana H. Davidson, Anant Desai, Salomone Di Saverio, Thomas M. Drake, John G. Edwards, Muhammed Elhadi, Sameh Emile, Shebani Farik, Marco Fiore, J. Edward Fitzgerald, Samuel Ford, Tatiana Garmanova, Gaetano Gallo, Dhruv Ghosh, Gustavo Mendonça Ataíde Gomes, Gustavo Grecinos, Ewen A. Griffiths, Madalegna Gründl, Constantine Halkias, Ewen M. Harrison, Intisar Hisham, Peter J. Hutchinson, Shelley Hwang, Arda Isik, Michael D. Jenkinson, Pascal Jonker, Haytham M. A. Kaafarani, Debby Keller, Angelos Kolias, Schelto Kruijff, Ismail Lawani, Hans Lederhuber, Sezai Leventoglu, Andrey Litvin, Andrew Loehrer, Markus W. Löffler, Maria Aguilera Lorena, Maria Marta Madolo, Piotr Major, Janet Martin, Hassan N. Mashbari, Dennis Mazingi, Symeon Metallidis, Ana Minaya-Bravo, Helen M. Mohan, Rachel Moore, David Moszkowicz, Susan Moug, Joshua S. Ng-Kamstra, Mayaba Maimbo, Ionut Negoi, Milagros Niquen, Faustin Ntirenganya, Maricarmen Olivos, Kacimi Oussama, Oumaima Outani, Marie Dione Parreno-Sacdalanm, Francesco Pata, Carlos Jose Perez Rivera, Thomas D. Pinkney, Willemijn van der Plas, Peter Pockney, Ahmad Qureshi, Dejan Radenkovic, Antonio Ramos-De la Medina, Keith Roberts, April C. Roslani, Martin Rutegård, Irène Santos, Sohei Satoi, Raza Sayyed, Andrew Schache, Andreas A Schnitzbauer, Justina O. Seyi-Olajide, Neil Sharma, Richard Shaw, Sebastian Shu, Kjetil Soreide, Antonino Spinelli, Grant D Stewart, Malin Sund, Sudha Sundar, Stephen Tabiri, Philip Townend, Georgios Tsoulfas, Gabrielle H. van Ramshorst, Raghavan Vidya, Dale Vimalachandran, Oliver J. Warren, Duane Wedderburn, Naomi Wright, EuroSurg, European Society of Coloproctology (ESCP), Global Initiative for Children's Surgery (GICS), GlobalSurg, GlobalPaedSurg, ItSURG, PTSurg, SpainSurg, Italian Society of Colorectal Surgery (SICCR), Association of Surgeons in Training (ASiT), Irish Surgical Research Collaborative (ISRC), Transatlantic Australasian Retroperitoneal Sarcoma Working Group (TARPSWG), Italian Society of Surgical Oncology (SICO). 6 Collaboratoring authors (*denotes site principal investigators) Argentina: Alurralde C., Caram E. L., Eskinazi D* (Sanatorio 9 De Julio Sa); Badra R., García J.S., Lucchini S.M.* (Sanatorio Allende). Australia: Cecire J., Salindera S.*, Sutherland A. (Coffs Harbour Health Campus); Ahn J.H., Chen S., Gauri N., Jang S., Jia F., Mulligan C., Yang W., Ye G., Zhang H. (Concord Repatriation General Hospital); Moss J.*, Richards T., Thian A., Vo U. G. (Fiona Stanley Hospital); Bagraith K., Chan E., Ho D., Jeyarajan E., Jordan S., Nolan G. J., Von Papen M., Wullschleger M. (Gold Coast University Hospital); Egoroff N., Gani J., Lott N., Pockney P.* (John Hunter Hospital); Phan D., Townend D.* (Lismore Base Hospital); Bong C., Gundara J.* (Logan Hospital); Bowman S.*, Guerra G. R. (Queen Elizabeth II Jubilee Hospital); Dudi-Venkata N. N., Kroon H. M.*, Sammour T. (Royal Adelaide Hospital); Mitchell D.*, Swinson B. (Royal Brisbane and Women's Hospital). Austria: Messner F., Öfner D.* (Medical University of Innsbruck); Emmanuel K., Grechenig M., Gruber R., Harald M., Öhlberger L., Presl J.*, Wimmer A. (Paracelsus Medical University Salzburg). Barbados: Barker D., Boyce R., Doyle A., Eastmond A., Gill R., O'Shea M., Padmore G.*, Paquette N., Phillips E., St John S., Walkes K. (Queen Elizabeth Hospital). Belgium: Flamey N., Pattyn P.* (Az Delta); Oosterlinck W.*, Van den Eynde J., Van den Eynde R. (Uz Leuven). Bulgaria: Sokolov M.* (University Hospital Alexandrovska). Canada: Boutros M.*, Caminsky N. G., Ghitulescu G. (Jewish General Hospital); Boutros M.*, Demyttenaere S.*, Garfinkle R. (St Mary's Hospital); Nessim C.*, Stevenson J. (The Ottawa Hospital). Croatia: Bačić G., Karlović D., Kršul D., Zelić M.* (University Hospital Center Rijeka); Bakmaz B., Ćoza I., Dijan E., Katusic Z., Mihanovic J.*, Rakvin I. (Zadar General Hospital). Cyprus: Frantzeskou K., Gouvas N.*, Kokkinos G., Papatheodorou P., Pozotou I., Stavrinidou O., Yiallourou A.* (Nicosia General Hospital). Czechia: Martinek L., Skrovina M.*, Szubota I. (Hospital and Oncological Centre Novy Jicin). Denmark: Ebbehøj A. L., Krarup P., Schlesinger N., Smith H.* (Bispebjerg Hospital). Egypt: Al Sayed M., Ashoush F.*, Elazzazy E., Essam E., Eweda M., Hassan E., Metwalli M., Mourad M., Qatora M. S., Sabry A.*, Samih A., Samir Abdelaal A., Shehata S.*, Shenit K. (Alexandria Main University Hospital); Attia D., Kamal N., Osman N.* (Alexandria Medical Research Institute); Alaa S., Hamza H. M., M. elghazaly S., Mohammed M. M.*, Nageh M. A., Saad M. M.*, Yousof E. A. (Assiut University Hospital); Eldaly A. S.* (El-Menshawy Hospital); Amira G., Sallam I.*, Sherief M., Sherif A. (Misr Cancer Center); Ghaly G.*, Hamdy R., Morsi A., Salem H.*, Sherif G. (National Cancer Institute); Abdeldayem H., Abdelkader Salama I.*, Balabel M., Fayed Y., Sherif A. E.* (National Liver Institute, Menoufia University). Finland: Kauppila J. H.*, Sarjanoja E. (Länsi-Pohja Central Hospital); Helminen O., Huhta H., Kauppila J. H.* (Oulu University Hospital). France: Beyrne C., Jouffret L.*, Marie-Macron L. (Centre Hospitalier Avignon); Lakkis Z.*, Manfredelli S. (CHU Besançon); Chebaro A.*, El Amrani M., Lecolle K., Piessen G.*, Pruvot F. R., Zerbib P. (CHU Lille); Ballouhey Q.*, Barrat B., Taibi A. (Chu Limoges); Bergeat D., Merdrignac A. (CHU Rennes – General Surgery); Le Roy B., Perotto L. O., Scalabre A.* (Chu Saint Etienne); Aimé A., Ezanno A.*, Malgras B. (Hia Begin); Bouche P. A.*, Tzedakis S.* (Hôpital Cochin – APHP); Cotte E., Glehen O., Kepenekian V., Passot G. (Hopital Lyon Sud); D'Urso A., Mutter D., Seeliger B.* (Strasbourg University Hospitals/IHU-Strasbourg); Bonnet S., Denet C., Fuks D., Laforest A., Pourcher G., Seguin-Givelet A.*, Tribillon E. (Institut Mutualiste Montsouris); Duchalais E.* (Nantes University Hospital). Germany: Bork U.*, Fritzmann J., Praetorius C., Weitz J., Welsch T. (Carl-Gustav-Carus University Hospital, TU Dresden); Beyer K., Kamphues C.*, Lauscher J. C., Loch F. N., Schineis C. (Charité University Medicine, Campus Benjamin Franklin); Becker R.*, Jonescheit J. (Heilig-Geist Hospital Bensheim); Pergolini I., Reim D.* (Klinikum Rechts der Isar TUM School of Medicine); Boeker C., Hakami I.*, Mall J.* (KRH Nordstadt-Siloah Hospitals); Albertsmeier M.*, Kappenberger A., Schiergens T., Werner J. (LMU Klinikum Campus Innenstadt); Nowak K.*, Reinhard T.* (Romed Klinikum Rosenheim); Kleeff J., Michalski C., Ronellenfitsch U.* (University Hospital Halle (Saale)); Bertolani E., Königsrainer A.*, Löffler M. W., Quante M.*, Steidle C., Überrück L., Yurttas C. (University Hospital Tuebingen); Izbicki J., Nitschke C., Perez D., Uzunoglu F. G.* (University Medical Center Hamburg–Eppendorf). Greece: Antonakis P., Contis I., Dellaportas D., Gklavas A., Konstadoulakis M., Memos N.*, Papaconstantinou I.*, Polydorou A., Theodosopoulos T., Vezakis A. (Aretaieion Hospital); Antonopoulou M. I., Manatakis D. K.*, Tasis N. (Athens Naval and Veterans Hospital); Arkadopoulos N., Danias N., Economopoulou P., Frountzas M., Kokoropoulos P., Larentzakis A., Michalopoulos N.*, Parasyris S., Selmani J., Sidiropoulos T., Vassiliu P. (Attikon University General Hospital); Bouchagier K.*, Klimopoulos S., Paspaliari D., Stylianidis G. (Evaggelismos General Hospital); Baxevanidou K., Bouliaris K., Chatzikomnitsa P., Efthimiou M., Giaglaras A., Kalfountzos C.*, Koukoulis G., Ntziovara A. M., Petropoulos K., Soulikia K., Tsiamalou I., Zervas K., Zourntou S. (General Hospital of Larissa 'Koutlimpaneio and Triantafylleio'); Baloyiannis I., Diamantis A., Perivoliotis K., Tzovaras G.* (General University Hospital of Larissa); Christidis P., Ioannidis O.*, Loutzidou L. (George Papanikolaou General Hospital of Thessaloniki); Karaitianos I.*, Tsirlis T. (Henry Dunant Hospital Center); Charalabopoulos A., Liakakos T., Baili E., Schizas D.*, Spartalis E., Syllaios A., Zografos C. (Laiko University Hospital); Athanasakis E., Chrysos E., Tsiaoussis I., Xenaki S.*, Xynos E.* (University Hospital of Heraklion Crete and Interclinic Hospital of Crete). Hong Kong: Futaba K.*, Ho M. F., Hon S. F., Mak T. W. C., Ng S. S. M. (Prince of Wales Hospital); Foo C. C.* (Queen Mary Hospital). Hungary: Banky B.*, Suszták N. (Szent Borbála Kórház). India: Bhat G. A., Chowdri N. A., Mehraj A.*, Parray F., Shah Z. A., Wani R. (Sher-I-Kashmir Institute of Medical Sciences); Ahmed Z., Bali R., Bhat M. A., Laharwal A., Mahmood M., Mir I., Mohammad Z., Muzamil J., Rashid A.* (SMHS Hospital, Government Medical College). Ireland: Aremu M.*, Canas-Martinez A., Cullivan O., Murphy C., Owens P., Pickett L. (Connolly Hospital Blanchardstown); Corrigan M.*, Daly A., Fleming C.*, Jordan P., Killeen S., Lynch N., O'Brien S., Syed W. A. S., Vernon L. (Cork University Hospital); Fahey B. A., Larkin J. O.*, McCormick P., Mehigan B. J., Mohan H., Shokuhi P., Smith. J (St James's Hospital); Bashir Y., Bass G. A., Connelly T. M., Creavin B., Earley H., Elliott J. A.*, Gillis A. E., Kavanagh D. O., Neary P. C., O'Riordan J. M., Reynolds I. S., Rice D., Ridgway P. F., Umair M., Whelan M. (Tallaght University Hospital); Corless K., Finnegan L., Fowler A., Hogan A., Lowery A.*, McKevitt K.*, Ryan É. (University Hospital Galway); Coffey J. C., Cunningham R. M., Devine M., Nally D.*, Peirce C. (University Hospital Limerick); Hardy N. P., Neary P. M., O'Malley S.*, Ryan M. (University Hospital Waterford/University College Cork). Italy: Macina S.* (ASST Mantua); Mariani N. M.*, Opocher E., Pisani Ceretti A. (ASST Santi Paolo E. Carlo); Bianco F.* (ASST Papa Giovanni XXIII – Bergamo); Marino M. V.*, Mirabella A., Vaccarella G. (Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti Villa Sofia-Cervello); Agostini C., Alemanno G., Bartolini I., Bergamini C., Bruscino A., De Vincenti R., Di Bella A., Fortuna L., Maltinti G., Muiesan P.*, Prosperi P.*, Ringressi M. N., Risaliti M., Taddei A.*, Tucci R. (Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi); Campagnaro T.*, Guglielmi A., Pedrazzani C., Rattizzato S., Ruzzenente A., Turri G. (Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona); Bellora P., D'Aloisio G., Ferrari M., Francone E., Gentilli S.*, Nikaj H. (Azienda Ospedaliero Universitaria Maggiore della Carità); Bianchini M., Chiarugi M., Coccolini F., Di Franco G., Furbetta N., Gianardi D., Guadagni S., Morelli L.*, Palmeri M., Tartaglia D.* (Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana); Anania G.*, Carcoforo P.*, Chiozza M., De Troia A., Koleva Radica M., Portinari M., Sibilla M. G., Urbani A. (Azienda Ospedaliero Universitaria San'anna); Fabbri N., Feo C. V.*, Gennari S., Parini S., Righini E. (Azienda Unità Sanitaria Locale di Ferrara, Università di Ferrara); Annessi V., Castro Ruiz C., Montella M. T., Zizzo M.* (Azienda Unità Sanitaria Locale – IRCCS di Reggio Emilia); Grossi U., Novello S., Romano M., Rossi S., Zanus G.* (Ca' Foncello Treviso – DISCOG – Università di Padova); Esposito G., Frongia F., Pisanu A., Podda M.* (Cagliari University Hospital); Belluco C., Lauretta A.*, Montori G., Moras L., Olivieri M.; Feo C. F., Perra T.*, Porcu A.*, Scanu A. M. (Cliniche San Pietro, Aou Sassari); Aversano A., Carbone F., Delrio P.*, Di Lauro K., Fares Bucci A., Rega D.*, Spiezio G. (Colorectal Surgical Oncology Unit – Istituto Nazionale Tumori Fondazione, Pascale IRCCS); Calabrò M.*, Farnesi F., Lunghi E. G., Muratore A.*, Pipitone Federico N. S. (Edoardo Agnelli); De Palma G. D., Luglio G.*, Pagano G., Tropeano F. P. (Federico II University Hospital); Baldari L.*, Boni L.*, Cassinotti E.* (Fondazione IRCCS Ca' Granda – Ospedale Maggiore Policlinico di Milano); Cosimelli M., Fiore M.*, Guaglio M.*, Sorrentino L. (Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, Milano); Agnes A., Alfieri S., Belia F., Biondi A., Cozza V., D'Ugo D., De Simone V., Litta F., Lorenzon L., Marra A. A., Marzi F., Parello A., Persiani R., Ratto C., Rosa F., Scrima O., Sganga G. (Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS); Belli A.*, Izzo F., Patrone R. (HPB Surgical Oncology Unit – Istituto Nazionale Tumori Fondazione, Pascale IRCCS); Carrano F. M., Carvello M. M., Di Candido F., Maroli A., Spinelli A.* (Humanitas Clinical and Research Center IRCCS, Rozzano (Mi) and Humanitas University, Department of Biomedical Sciences, Pieve Emanuele (Mi)); Aprile A., Batistotti P., Massobrio A., Pertile D., Scabini S.*, Soriero D. (IRCCS Ospedale Policlinico San Martino); De Manzoni Garberini A.* (Ospedale Civile Spirito Santo); Federico P., Maida P., Marra E., Marte G., Petrillo A., Tammaro P., Tufo A.* (Ospedale del Mare); Berselli M.*, Borroni G.*, Cocozza E., Conti L., Desio M., Rizzi A. (ASST Sette Laghi-Varese); Baldi C.*, Corbellini C., Sampietro G. M. (Ospedale di Rho – ASST Rhodense); Baldini E.*, Capelli P., Conti L., Isolani S. M., Ribolla M. (Ospedale Guglielmo da Saliceto Piacenza); Bondurri A., Colombo F.*, Ferrario L., Guerci C., Maffioli A. (Ospedale Luigi Sacco Milano); Armao T., Ballabio M.*, Bisagni P., Gagliano A., Longhi M., Madonini M., Pizzini P. (Ospedale Maggiore di Lodi); Mochet S.*, Usai A. (Ospedale Regionale Umberto Parini); Bianco F.*, Incollingo P. (Ospedale S. Leonardo – Asl Napoli 3 Sud, Castellammare di Stabia); Mancini S., Marino Cosentino L.*, Sagnotta A.* (Ospedale San Filippo Neri); Nespoli L. C., Tamini N.* (Ospedale San Gerardo); Anastasi A., Bartalucci B., Bellacci A., Canonico G.*, Capezzuoli L., Di Martino C., Ipponi P., Linari C., Montelatici M., Nelli T., Spagni G., Tirloni L., Vitali A. (Ospedale San Giovanni di Dio); Abate E., Casati M.*, Casiraghi T., Laface L., Schiavo M. (Ospedale Vittorio Emanuele III – Carate Brianza); Arminio A., Cotoia A., Lizzi V.*, Vovola F. (Ospedali Riuniti Azienda Ospedaliera Universitaria Foggia); Vergari R.* (Ospedali Riuniti di Ancona); D'Ugo S.*, Depalma N., Spampinato M. G. (Vito Fazzi, Leece); Brachini G., Chiappini A., Cicerchia P. M., Cirillo B., De Toma G., Fiori E., Fonsi G. B., Iannone I., La Torre F., Lapolla P.*, Meneghini S., Mingoli A., Sapienza P., Zambon M. (Policlinico Umberto I Sapienza University of Rome); Capolupo G. T.*, Mazzotta E. (Policlinico Universitario Campus Bio Medico of Rome); Gattolin A., Migliore M., Rimonda R., Sasia D.*, Travaglio E. (Regina Montis Regalis Hospital, Mondovì); Cervellera M., Gori A., Sartarelli L., Tonini V.* (S. Orsola-Malpighi Hospital); Chessa A.*, Fiorini A., Norcini C. (San Giovanni di Dio); Colletti G., Confalonieri M., Costanzi A.*, Frattaruolo C., Mari G., Monteleone M. (San Leopoldo Mandic); De Nardi P.*, Parise P., Vignali A. (San Raffaele Scientific Institute, Milan); Belvedere A., Bernante P., Jovine E., Neri J., Parlanti D., Pezzuto A. P., Poggioli G., Rottoli M.*, Tanzanu M., Violante T. (IRCCS Azienda Ospedaliero – Universitaria di Bologna; Alma Mater Studiorum University of Bologna); Borghi F., Cianflocca D., Di Maria Grimaldi S., Donati D., Gelarda E., Giraudo G., Giuffrida M. C., Marano A.*, Palagi S., Pellegrino L., Peluso C., Testa V.* (Santa Croce E. Carle Hospital, Cuneo); Agresta F.*, Prando D.*, Zese M.* (Santa Maria degli Angeli Hospital ULSS 5 – Adria); Armatura G.*, Frena A., Scotton G.* (St Moritz Hospital); Gallo G.*, Sammarco G., Vescio G. (University 'Magna Graecia' of Catanzaro); Di Marzo F.* (Valtiberina); Fontana T.* ('Vittorio Emanuele' – Gela). Japan: Kanemitsu Y.*, Moritani K. (National Cancer Center Hospital). Jordan: Al Abdallah M.*, Ayasra F., Ayasra Y., Qasem A. (Al-Basheer Hospital); Fahmawee T., Hmedat A., Obeidat K.* (King Abdullah University Hospital); Abou Chaar M. K., Al-Masri M.*, Al-Najjar H., Alawneh F. (King Hussein Cancer Center). Libya: Alkadeeki G.*, Al Maadany F. S. (Al-Jalaa Hospital); Aldokali N., Senossi O., Subhi M. T. (Alkhadra Hospital); Burgan D.*, Kamoka E., Kilani A. I. (National Cancer Institute, Sabratha); Ellojli I.*, Kredan A. (Tripoli University Hospital). Lithuania: Bradulskis S., Dainius E., Kubiliute E., Kutkevičius J., Parseliunas A., Subocius A., Venskutonis D.* (Lithuanian University of Health Sciences Kaunas Clinical Hospital). Madagascar: Rasoaherinomenjanahary F.*, Razafindrahita J. B., Samison L. H. (Joseph Ravoahangy Andrianavalona Hospital). Malaysia: Hamdan K. H., Ibrahim M. R., Tan J. A., Thanapal M. R.* (Hospital Kuala Lumpur); Amin Sahid N., Hayati F.*, Jayasilan J., Sriram R. K.*, Subramaniam S. (Queen Elizabeth Hospital and Universiti Malaysia Sabah, Kota Kinabalu, Sabah); Che Jusoh M. A., Hussain A. H., Mohamed Sidek A. S., Mohd Yunus M. F., Soh J. Y., Wong M., Zakaria A. D.*, Zakaria Z. (School of Medical Sciences and Hospital, Universiti Sains Malaysia); Fathi N. Q., Xavier R. G., Roslani A. C.* (University Malaya Medical Centre). Mexico: Buerba G. A., Mercado M. Á.*, Posadas-Trujillo O. E., Salgado-Nesme N., Sarre C. (Instituto Nacional de Ciencias Médicas y Nutrición 'Salvador Zubirán'). Morocco: Amrani L., El Ahmadi B., El Bouazizi Y., Majbar A. M., Benkabbou A., Mohsine R., Souadka A.* (Institut National d'Oncologie, Université Mohammed V Rabat). Netherlands: Hompes R.*, Meima-van Praag E. M., Pronk A. J. M., Sharabiany S. (Amsterdam UMC, University of Amsterdam); Grotenhuis B.*, Hartveld L. (Antoni Van Leeuwenhoek Ziekenhuis); Posma-Bouman L.* (Slingeland Ziekenhuis); Derksen T., Franken J., Oosterling S.* (Spaarne Gasthuis); Konsten J.*, Van Heinsbergen M. (Viecuri Medisch Centrum). Nigeria: Olaogun J.* (Ekiti State University Teaching Hospital); Abdur-Rahman L.*, Adeyeye A.*, Bello J., Olasehinde O., Popoola A. (University of Ilorin Teaching Hospital). Pakistan: Jamal A., Kerawala A. A.* (Cancer Foundation Hospital); Memon A. S.*, Nafees Ahmed R., Rai .L* (Dr Ruth K. M. Pfau Civil Hospital); Ayub B., Ramesh P., Sayyed R.* (Patel Hospital); Butt U. I.*, Kashif M., Qureshi A.*, Farooka M. W.*, Ayyaz M.* (Services Hospital Lahore); Ayubi A., Waqar S. H.* (Pakistan Institute of Medical Sciences). Poland: Major P. (Jagiellonian University Medical College). Portugal: Azevedo C., Machado D., Mendes F.* (Centro Hospitalar Cova da Beira); De Sousa X.* (Centro Hospitalar de Setúbal); Fernandes U., Ferreira C.*, Guidi G., Marçal A., Marques R., Martins D., Vaz Pereira R., Vieira B. (Centro Hospitalar de Trás-Os-Montes e Alto Douro, EPE); Afonso J., Almeida J. I., Almeida-Reis R.*, Correia de Sá T., Costa M. J. M. A., Fernandes V., Ferraz I., Lima da Silva C., Lopes L., Machado N., Marialva J., Nunes Coelho M., Pereira C., Ribeiro A., Ribeiro C. G., Santos R., Saraiva P., Silva R., Tavares F., Teixeira M. (Centro Hospitalar do Tamega e Sousa); Almeida A. C., Amaral M. J., Andrade R., Camacho C., Costa M., Lázaro A.*, Nogueira O., Oliveira A., Ruivo A., Silva M., Simões J. (Centro Hospitalar e Universitário de Coimbra); Devezas V., Jácome F., Nogueiro J., Pereira A., Santos-Sousa H.*, Vaz S. (Centro Hospitalar e Universitário de São João); Pinto J., Tojal A.* (Centro Hospitalar Tondela-Viseu); Cardoso P.*, Cardoso N., Domingos J. C., Henriques P., Manso M. I., Martins dos Santos G., Martins R., Morais H.*, Pereira R., Revez T., Ribeiro R., Ribeiro V. I., Soares A. P., Sousa S., Teixeira J. (Centro Hospitalar Universitário do Algarve – Unidade de Faro); Amorim E., Baptista V. H., Cunha M. F.*, Sampaio da Nóvoa Gomes Miguel I. I. (Centro Hospitalar Universitário do Algarve – Unidade de Portimão); Bandovas J. P., Borges N.*, Chumbinho B., Figueiredo de Barros I., Frade S., Gomes J., Kam da Silva Andrade A., Pereira Rodrigues A., Pina S., Silva N.*, Silveira Nunes I., Sousa R. (Centro Hospitalar Universitário Lisboa Central); Azevedo P., Costeira B., Cunha C., Garrido R.*, Miranda P., Peralta Ferreira M., Sousa Fernandes M. (Hospital Beatriz Angelo); Galvão D., Vieira A.* (Hospital de Santo Espirito da Ilha Terceira); Patrício B., Santos P. M. D. D.*, Vieira Paiva Lopes A. C. (Hospital de Torres Vedras – Centro Hospitalar do Oeste); Cunha R., Faustino A., Freitas A., Mendes J. R.*, Parreira R. (Hospital do Divino Espírito Santo); Abreu da Silva A.*, Claro M., Costa Santos D., Deus A. C., Grilo J. V. (Hospital do Litoral Alentejano); Borges F.*, Corte Real J., Henriques S., Lima M. J., Matos Costa P. (Hospital Garcia de Orta); Brito da Silva F., Caiado A.*, Fonseca F. (Instituto Português de Oncologia de Lisboa Francisco Gentil); Ângelo M., Baiao J. M., Martins Jordão D.*, Vieira Caroço T. (IPO Coimbra); Baía C., Canotilho R., Correia A. M., Ferreira Pinto A. P., Peyroteo M., Videira J. F.* (IPO Porto). Réunion: Kassir R.*, Sauvat F. (CHU Réunion). Romania: Bezede C., Chitul A., Ciofic E., Cristian D., Grama F.* (Coltea Clinical Hospital); Bonci E.*, Gata V.*, Titu S.* (Prof. Dr. Ion Chiricuta Institute of Oncology). Russia: Garmanova T., Kazachenko E., Markaryan D., Rodimov S., Tsarkov P.*, Tulina I. (Clinic of Coloproctology and Minimally Invasive Surgery, Sechenov Medical State University); Litvina Y., Provozina A. (Immanuel Kant Baltic Federal University, Regional Clinical Hospital); Agapov M.*, Galliamov E., Kakotkin V., Kubyshkin V., Kamalov A., Semina E. (Moscow Research and Educational Center, Lomonosov Moscow State University). Saudi Arabia: Alshahrani M.*, Alsharif F., Eskander M. (Aseer Central Hospital); Alharthi M., Aljiffry M., Basendowah M., Malibary N.*, Nassif M., Saleem A., Samkari A., Trabulsi N.* (King Abdulaziz University Hospital); Al Awwad S.*, Alghamdi M.*, Alnumani T.* (King Fahad General Hospital); Al Habes H., Alqannas M.*, Alyami M.*, Alzamanan M., Cortés Guiral D.*, Elawad A. (King Khalid Hospital); AlAamer O., Alselaim N.* (King Saud Bin Abdulaziz University for Health Sciences, King Abdullah International Medical Research Center, Ministry of National Guard, Health Affairs, General Surgery Department); Al-Khayal K., Alhassan N., Alobeed O., Alshammari S., Bin Nasser A.*, Bin Traiki T., Nouh T.*, Zubaidi A. M. (King Saud University). Serbia: Aleksić L., Antic A., Barisic G.*, Ceranic M., Grubač Ž., Jelenkovic J., Kecmanović D., Kmezić S., Knezevic D.*, Krivokapic Z.*, Latinčić S., Markovic V.*, Matić S.*, Miladinov M., Pavlov M.*, Pejovic I., Tadic B., Vasljević J., Velickovic D. (Clinic for Digestive Surgery, Clinical Centre of Serbia); Buta M., Cvetkovic A., Gacic S., Goran M., Jeftic N., Markovic I.*, Milanović M., Nikolic S., Pejnovic L., Savković N., Stevic D., Vucic N., Zegarac M. (Institute for Oncology and Radiology of Serbia); Karamarkovic A., Kenic M., Kovacevic B., Krdzic I.* (Zvezdara University Medical Center). Singapore: Lieske B.* (National University Hospital). South Africa: Almgla N.*, Boutall A., Herman A., Kloppers C.*, Nel D., Rayamajhi S. (Groote Schuur Hospital). Spain: Paniagua García Señorans M.*, Vigorita V. (Álvaro Cunqueiro Hospital); Acrich E., Baena Sanfeliu E., Barrios O., Golda T.*, Santanach C., Serrano-Navidad M., Sorribas Grifell M., Vives R. V. (Bellvitge University Hospital); Escolà D., Jiménez A.* (Comarcal Alt Penedés); Cayetano Paniagua L., Gómez Fernández L.* (Consorci Sanitari de Terrassa); Collera P., Diaz Del Gobbo R., Farre Font R., Flores Clotet R., Gómez Díaz C. J.*, Guàrdia N., Guariglia C. A., Osorio A., Sanchez Jimenez R., Sanchon L., Soto Montesinos C. (Fundació Althaia – Xarxa Assistencial Universitària de Manresa); Alonso-Lamberti L., García-Quijada J., Jimenez Miramón J., Jimenez V.*, Jover J. M., Leon R., Rodriguez J. L., Salazar A., Valle Rubio A. (Getafe University Hospital); Aguado H.* (Hellín Hospital); Bravo Infante R., De Lacy F. B., Lacy A. M.*, Otero A., Turrado-Rodriguez V.*, Valverde S. (Hospital Clinic Barcelona); Anula R., Cano-Valderrama O., Del Campo Martín M., Díez-Valladares L., Domínguez I., Dziakova J., García Alonso M., García Romero E., Gómez Latorre L., Muguerza J.M.*, Pizarro M. J., Saez Carlin P., Sánchez del Pueblo C., Sánchez-Pernaute A., Sanz Ortega G., Sanz-Lopez R., Torres A. (Hospital Clínico de Madrid); Garcés-Albir M.*, Lopez F.*, Martín-Arévalo J., Moro-Valdezate D.*, Pla Marti V. (Hospital Clínico Universitario de Valencia); Beltrán de Heredia J., De Andrés Asenjo B.*, Gómez Sanz T., Jezieniecki C., Nuñez del Barrio H., Ortiz de Solórzano Aurusa F. J., Romero de Diego A., Ruiz Soriano M., Trujillo Díaz J., Vázquez Fernández A. (Hospital Clínico Universitario de Valladolid); Lora-Cumplido P., Sosa M. V.* (Hospital de Cabueñes); Gonzalez-Gonzalez E., Minaya Bravo A. M.* (Hospital del Henares); Alonso de la Fuente N., Jimenez Toscano M.* (Hospital del Mar); Grau-Talens E. J., Martin-Perez B.* (Hospital Don Benito-Villanueva); Benavides Buleje J. A., Carrasco Prats M.*, Giménez Francés C.*, Muñoz Camarena J. M., Parra Baños P. A., Peña Ros E., Ramirez Faraco M., Ruiz-Marín M.*, Valero Soriano M. (Hospital General Reina Sofía); Estaire Gómez M.*, Fernández Camuñas Á., Garcia Santos E. P., Jimenez Higuera E., Martínez-Pinedo C., Muñoz-Atienza V., Padilla-Valverde D.*, Picón Rodríguez R., Sánchez-García S., Sanchez-Pelaez D. (Hospital General Universitario de Ciudad Real); Colombari R. C., del Valle E., Fernández M., Lozano Lominchar P.*, Martín L., Rey Valcarcel C., Zorrilla Ortúzar J. (Hospital General Universitario Gregorio Marañón); Alcaide Matas F., García Pérez J. M., Troncoso Pereira P.* (Hospital Mateu Orfila); Mora-Guzmán I.* (Hospital Santa Bárbara); Achalandabaso Boira M.*, Sales Mallafré R. (Hospital Universitari de Tarragona Joan XXIII); Marín H., Prieto Calvo M., Villalabeitia Ateca I.* (Hospital Universitario Cruces); De Andres Olabarria U., Durán Ballesteros M., Fernández Pablos F. J., Ibáñez-Aguirre F. J., Sanz Larrainzar A., Ugarte-Sierra B.* (Hospital Universitario de Galdakao); Correa Bonito A., Delgado Búrdalo L., Di Martino M.*, García Septiem J.*, Maqueda González R., Martin-Perez E. (Hospital Universitario de la Princesa); Calvo Espino P.*, Guillamot Ruano P. (Hospital Universitario de Móstoles); Colao García L., Díaz Pérez D.*, Esteban Agustí E., Galindo Jara P., Gutierrez Samaniego M.*, Hernandez Bartolome M. A.*, Serrano González J. (Hospital Universitario de Torrejón de Ardoz); Alonso Poza A., Diéguez B., García-Conde M., Hernández-García M., Losada M.* (Hospital Universitario del Sureste); Alvarez E., Chavarrias N., Gegúndez Simón A., Gortázar S., Guevara J., Prieto Nieto M. I., Ramos-Martín P., Rubio-Perez I.*, Saavedra J., Urbieta A. (Hospital Universitario la Paz); Cantalejo Diaz M., De Miguel Ardevines M. D. C., Duque-Mallén V.*, Gascon Ferrer I., González-Nicolás Trébol M. T., Gracia-Roche C., Herrero Lopez M., Martinez German A., Matute M., Sánchez Fuentes N., Sánchez-Rubio M., Santero-Ramirez M. S., Saudí S. (Hospital Universitario Miguel Servet); Blazquez Martin A., Diez Alonso M.*, Hernandez P., Mendoza-Moreno F., Ovejero Merino E., Vera Mansilla C. (Hospital Universitario Principe de Asturias); Acebes García F., Bailón M., Bueno Cañones A. D., Choolani Bhojwani E., Marcos-Santos P., Miguel T., Pacheco Sánchez D., Pérez-Saborido B., Sanchez Gonzalez J., Tejero-Pintor F. J.* (Hospital Universitario Río Hortega); Cano A., Capitan-Morales L., Cintas Catena J., Gomez-Rosado J.*, Oliva Mompean F., Pérez Sánchez M. A., Río Lafuente F. D., Torres Arcos C., Valdes-Hernandez J. (Hospital Universitario Virgen Macarena); Cholewa H., Frasson M., Martínez Chicote C., Sancho-Muriel J.* (Hospital Universitario Y Politécnico la Fe); Abad Gurumeta A., Abad-Motos A., Martínez-Hurtado E., Ripollés-Melchor J.*, Ruiz Escobar A. (Infanta Leonor University Hospital); Cuadrado-García A.*, Garcia-Sancho Tellez L.*, Heras Aznar J.*, Maté P., Ortega Vázquez I.*, Picardo A. L., Rojo López J. A., Sanchez Cabezudo Noguera F.*, Serralta de Colsa D.* (Infanta Sofía University Hospital); Cagigas Fernandez C., Caiña Ruiz R., Gomez Ruiz M., Martínez-Pérez P., Poch C., Santarrufina Martinez S.*, Valbuena Jabares V. (Marqués de Valdecilla University Hospital); Blas Laina J. L., Cros B., Escartin J.*, Garcia Egea J., Nogués A., Talal El-Abur I., Yánez C. (Royo Villanova); Cagigal Ortega E. P., Cervera I., Díaz Peña P., Gonzalez J., Marqueta De Salas M., Perez Gonzalez M.*, Ramos Bonilla A., Rodríguez Gómez L. (Severo Ochoa University Hospital); Blanco-Colino R., Espin-Basany E.*, Pellino G. (Vall d'Hebron University Hospital). Sri Lanka: Arulanantham A., Bandara G. B. K. D., Jayarajah U.*, Ravindrakumar S., Rodrigo V. S. D. (District General Hospital Chilaw); Srishankar S.* (Teaching Hospital Anuradhapura). Sudan Ali Adil A. K. (Al-Rajhi). Sweden: Älgå A.*, Heinius G., Nordberg M., Pieniowski E. (Stockholm South General Hospital); Löfgren N., Rutegård M.* (Umea University Hospital). Switzerland: Arigoni M., Bernasconi M., Christoforidis D.*, Di Giuseppe M., La Regina D., Mongelli F. (Ente Ospedaliero Cantonale); Chevallay M., Dwidar O., Gialamas E., Sauvain M. (Pourtales Neuchatel Hospital); Adamina M.*, Crugnale A. S., Guglielmetti L., Peros G. (Kantonsspital Winterthur). Turkey: Aghayeva A.*, Hamzaoglu I., Sahin I. (Acibadem Altunizade Hospital); Akaydin E., Aliyeva Z., Aytac E., Baca B., Ozben V.*, Ozmen B. B. (Acibadem Atakent Hospital); Arikan A. E.*, Bilgin I. A.*, Kara H., Karahasanoğlu T., Uras C. (Acibadem Maslak Hospital); Dincer H. A., Erol T. (Hacettepe University Hospital); Alhamed A., Ergün S.*, Özçelık M. F., Sanli A. N., Uludağ S. S.*, Velidedeoglu M.*, Zengin A. K. (Istanbul Universty – Cerrahpaşa Medical Faculty); Bozkurt M. A., Kara Y.*, Kocataş A. (Kanuni Sultan Suleyman Training and Research Hospital); Azamat İ. F., Balik E.*, Buğra D., Kulle C. B. (Koç University Medical School); Gözal K., Güler S. A., Köken H., Tatar O. C.*, Utkan N. Z., Yıldırım A., Yüksel E. (Kocaeli University Teaching Hospital); Akin E., Altintoprak F.*, Cakmak G., Çelebi F., Demir H., Dikicier E., Firat N., Gönüllü E., Kamburoğlu M. B., Küçük I. F., Mantoglu B. (Sakarya University Faculty of Medicine); Çolak E.*, Kucuk G. O., Uyanik M. S. (Samsun Training and Research Hospital); Göksoy B.* (Sehit Prof. Dr. İlhan Varank Training and Research Hospital); Bozkurt E., Mihmanli M., Tanal M.*, Yetkin S. G. (Sisli Hamidiye Etfal Training and Research Hospital); Akalin M., Arican C., Avci E. K., Aydin C., Demirli Atıcı S.*, Emiroglu M., Kaya T.*, Kebabçı E., Kilinc G., Kirmizi Y., Öğücü H., Salimoğlu S., Sert İ., Tugmen C., Tuncer K., Uslu G., Yeşilyurt D. (University of Health Sciences Tepecik Training and Research Hospital); Yildiz A.* (Yildirim Beyazit University Yenimahalle Training and Research Hospital). Uganda: Lule H.*, Oguttu B.* (Kampala International University Teaching Hospital). UK: Agilinko J., Ahmeidat A., Bekheit M.*, Cheung L. K., Kamera B. S., Mignot G., Shaikh S.*, Sharma P. (Aberdeen Royal Infirmary); Al-Mohammad A., Ali S., Ashcroft J., Baker O., Coughlin P., Davies R. J.*, Kyriacou H., Mitrofan C. G., Morris A., Raby-Smith W., Rooney S., Singh A., Tan X. S., Townson A., Tweedle E. (Addenbrooke's Hospital); Angelou D., Choynowski M., McAree B.*, McCanny A., Neely D. (Antrim Area Hospital – Northern Health and Social Care Trust); Mosley F.* (Bradford Royal Infirmary); Arrowsmith L.*, Campbell W.* (Causeway Hospital); Grove T., Kontovounisios C., Warren O.* (Chelsea and Westminster Hospital); Clifford R., Eardley N., Krishnan E., Manu N., Martin E., Roy Mahapatra S., Serevina O. L., Smith C., Vimalachandran D.* (Countess of Chester Hospital); Emslie K.*, Labib P.*, Minto G., Natale J., Panahi P., Rogers L.* (Derriford Hospital); Abubakar A.*, Akhter Rahman M. M., Chan E., O'Brien H., Sasapu K.* (Diana Princess of Wales Hospital Grimsby); Ng H. J.* (Dumfries and Galloway Royal Infirmary); Day A.* (East Surrey Hospital); Hunt A., Laskar N.* (East Sussex Healthcare (Conquest Hospital and Eastbourne District General Hospital)); Gupta A.*, Steinke J., Thrumurthy S. (Epsom and St Helier University Hospitals NHS Trust); Massie E., McGivern K., Rutherford D., Wilson M.* (Forth Valley Royal Hospital); Handa S., Kaushal M., Kler A., Patel P.*, Redfern J., Tezas S. (Furness General Hospital); Aawsaj Y., Barry C., Blackwell L., Emerson H., Fisher A.*, Katory M., Mustafa A. (Gateshead Health NHS Foundation Trust); Kretzmer L.*, Lalou L., Manku B., Parwaiz I., Stafford J. (George Eliot Hospital); Abdelkarim M., Asqalan A., Gala T., Ibrahim S., Maw A.*, Mithany R., Morgan R.*, Sundaram Venkatesan G. (Glan Clwyd Hospital); Boulton A. J. (Good Hope Hospital); Hardie C., McNaught C.* (Harrogate District Hospital); Karandikar S.*, Naumann D. (Heartlands Hospital); Ayorinde J., Chase T., Cuming T., Ghanbari A., Humphreys L., Tayeh S.* (Homerton University Hospital); Aboelkassem Ibrahim A., Evans C., Ikram H., Loubani M.*, Nazir S., Robinson A., Sehgal T., Wilkins A. (Hull University Teaching Hospitals NHS Trust); Dixon J.*, Jha M., Thulasiraman S. V., Viswanath Y. K. S.* (James Cook University Hospital); Curl-Roper T., Delimpalta C., Liao C. C. L.*, Velchuru V., Westwood E. (James Paget University NHS Foundation Trust Hospital); Bond-Smith G.*, Mastoridis S., Tebala G. D., Verberne C. (John Radcliffe Hospital); Bhatti M. I., Boyd-Carson H., Elsey E., Gemmill E., Herrod P.*, Jibreel M., Lenzi E., Saafan T., Sapre D., Sian T., Watson N. (King's Mill Hospital); Athanasiou A.*, Burke J., Costigan F., Elkadi H., Johnstone J., Nahm C. (Leeds Teaching Hospitals Trust); Annamalai S., Ashmore C., Kourdouli A. (Leicester Royal Infirmary); Askari A., Cirocchi N., Kudchadkar S., Patel K., Sagar J.*, Talwar R.* (Luton and Dunstable University Hospital); Abdalla M., Ismail O., Newton K., Stylianides N.* (Manchester Royal Infirmary); Aderombi A., Bajomo O., Beatson K., Garrett W.*, Ng V. (Medway Hospital); Al-Habsi R., Divya G S., Keeler B.* (Milton Keynes University Hospital); Egan R., Fabre I., Harries R.*, Li Z., Parkins K., Spencer N., Thompson D. (Morriston Hospital Swansea); Gemmell C., Grieco C., Hunt L.* (Musgrove Park Hospital); Mahmoud Ali F. (Newcastle Upon Tyne Hospitals NHS Foundation Trust.); Seebah K., Shaikh I.*, Sreedharan L., Youssef M.* (Norfolk and Norwich University Hospital); Shah J.* (North Manchester General Hospital); McLarty N., Mills S.*, Shenfine A. (Northumbria NHS Hospital Trust); Sahnan K. (Northwick Park Hospital); Michel M., Patil S., Ravindran S., Sarveswaran J.*, Scott L. (Pinderfields Hospital); Bhangu A.*, Cato L. D., Kamal M., Kulkarni R., Parente A., Saeed S., Vijayan D. (Queen Elizabeth Hospital Birmingham); Kaul S., Khan A. H., Khan F., Mukherjee S.*, Patel M., Sarigul M., Singh S. (Queen's Hospital Romford); Adiamah A., Brewer H., Chowdhury A.*, Evans J., Humes D.*, Jackman J., Koh A., Lewis-Lloyd C., Oyende O., Reilly J., Worku D. (Queens Medical Centre); Bisset C., Moug S. J.* (Royal Alexandra Hospital); Math S., Sarantitis I., Timbrell S., Vitone L.* (Royal Blackburn Hospital); Faulkner G.* (Royal Bolton Hospital); Brixton G., Findlay L., Majkowska A., Manson J.*, Potter R. (Royal Bournemouth Hospital); Bhalla A.*, Chia Z., Daliya P., Grimley E., Malcolm F. L., Theophilidou E. (Royal Derby Hospital); Daniels I. R., Fowler G., Massey L., McDermott F.*, Rajaretnam N. (Royal Devon and Exeter Hospital); Beamish A., Magowan D., Nassa H., Price C., Smith L., Solari F., Tang A. M., Williams G.* (Royal Gwent Hospital); Davies E.*, Hawkin P., Raymond T., Ryska O. (Royal Lancaster Infirmary); Baron R. D.*, Gahunia S., McNicol F.*, Russ J., Szatmary P., Thomas A. (Royal Liverpool University Hospital); Jayasinghe J. D., Knowles C., Ledesma F. S., Minicozzi A.*, Navaratne L., Ramamoorthy R., Sohrabi C., Thaha M.*, Venn M. (Royal London Hospital); Atherton R.*, Brocklehurst M., McAleer J., Parkin E.* (Royal Preston Hospital); Aladeojebi A., Ali M., Gaunt A.* (Royal Stoke University Hospital); Hammer C., Stebbing J. (Royal Surrey County Hospital); Bhasin S., Bodla A. S., Burahee A., Crichton A., Fossett R., Yassin N.* (Royal Wolverhampton NHS Trust); Brown S.*, Lee M., Newman T., Steele C. (Sheffield Teaching Hospital NHS Foundation Trust); Baker A., Konstantinou C., Ramcharan S.*, Wilkin R. J. W. (South Warwickshire NHS Foundation Trust); Lawday S., Lyons A.* (Southmead Hospital); Chung E., Hagger R., Hainsworth A., Karim A., Owen H., Ramwell A., Williams K.* (St George's Hospital); Hall J. (Stepping Hill Hospital); Harris G., Royle T.*, Watson L. J. (Sunderland Royal Hospital); Asaad P., Brown B., Duff S.*, Khan A., Moura F., Wadham B. (The University Hospital of South Manchester); McCluney S., Parmar C.*, Shah S. (The Whittington Hospital); Babar M. S., Goodrum S., Whitmore H. (Torbay and South Devon NHS Trust); Balasubramaniam D.*, Jayasankar B.*, Kapoor S., Ramachandran A. (Tunbridge Wells Hospital); Beech N., Chand M.*, Green L., Kiconco H., McEwen R. (University College London Hospital); Pereca J.* (University Hospital Ayr); Gash K.*, Gourbault L., MacCabe T., Newton C.* (University Hospitals Bristol NHS Foundation Trust); Baig M., Bates H., Dunne N., Khajuria A., Ng V., Sarma D. R., Shortland T., Tewari N.* (University Hospitals Coventry and Warwickshire NHS Trusts); Akhtar M. A.*, Brunt A., McIntyre J., Milne K., Rashid M. M., Sgrò A., Stewart K. E., Turnbull A. (Victoria Hospital Kirkcaldy); Aguilar Gonzalez M.*, Talukder S.* (West Suffolk Hospital); Eskander P., Hanna M., Olivier J.* (Weston General Hospital); Magee C.*, Powell S.* (Wirral University Teaching Hospital); Flindall I., Hanson A., Mahendran V. (Worcestershire Royal Hospital); Green S., Lim M., MacDonald L., Miu V., Onos L., Sheridan K., Young R.* (York Teaching Hospitals NHS Trust); Alam F., Griffiths O., Houlden C., Kolli V. S., Lala A. K., Seymour Z.* (Ysbyty Gwynedd). USA: Haynes A.*, Hill C., Leede E., McElhinney K., Olson K. A., Riley C., Thornhill M. (Dell Seton Medical Center at the University of Texas); Etchill E., Gabre-Kidan A.*, Jenny H., Kent A., Ladd M. R., Long C., Malapati H., Margalit A., Rapaport S., Rose J., Stevens K., Tsai L., Vervoort D., Yesantharao P., Bigelow B. (Johns Hopkins Hospital); Klaristenfeld D.* (Kaiser Permanente San Diego Medical Center); Huynh K. (Kaiser Permanente West Los Angeles); Azam M., Choudhry A.*, Marx W. (SUNY Upstate University Hospital); Abel M. K., Boeck M., Chern H., Kornblith L.*, Nunez-Garcia B., Ozgediz D., Glencer A., Sarin A., Varma M. (University of California, San Francisco (UCSF)); Abbott D., Acher A., Aiken T., Barrett J., Foley E., Schwartz P., Zafar S. N.* (University of Wisconsin); Hawkins A.*, Maiga A. (Vanderbilt University Medical Center).
Il lavoro prende in considerazione i principali avvenimenti che hanno influenzato l'evoluzione economica finanziaria del nostro Paese nella crisi del cambio 1992,ho voluto concentrare l'attenzione sugli avvenimenti a partire dal 1979 e analizzando l'intervento delle autorità monetarie. Allora non esisteva l'Euro, esisteva il Sistema Monetario Europeo con una sorta di valuta di riferimento, l'ECU, a cui le varie valute nazionali aderenti al sistema dovevano stare agganciate, entro una percentuale di scostamento non superiore al 2,25% per alcune e al 6% per altre, fra cui la lira. La Germania vantava di un'economia più solida di altri, con un sistema produttivo di avanguardia e con una moneta forte che faceva da riferimento per tutte le economie. L'Italia aveva un' economia che si doveva adattare continuamente alle conseguenze di una gestione del paese sconsiderata, miope e orientata al breve termine, frutto di una incompetenza della classe politica. Nel marzo 1979, l'Italia aveva aderito al Sistema Monetario Europeo, una decisione orientata, insieme con la politica estera, al rafforzamento dei vincoli comunitari nell'intento di dar luogo alla creazione di un'Europa Unita; consapevoli che questa sarebbe stata una scelta più di carattere politico che economica. L'adesione allo Sme avvenne in un clima di divergenza, Paolo Baffi allora governatore della Banca d'Italia, faceva infatti presente che una valuta debole come la lira, avrebbe trovato difficoltà ad abbandonare il regime delle svalutazioni facile. diversi economisti, oltre a Baffi,al di là di dove sedessero, se in Parlamento come Luigi Spaventa o alla direzione della Banca d'Italia o ancora all'interno del governo come Rinaldo Ossola, sostenevano la loro contrarietà all'ingresso nel Sistema Monetario Europeo, esponendo motivazioni tra loro eterogenee. Tutti si attendevano che il vincolo esterno dei cambi stabili costringesse il paese a seguire una politica di rigorosa stabilità monetaria. L'Italia aveva ottenuto il privilegio di una banda di oscillazione del 6%, contro il 2,5% degli altri paesi, ma tutti intendevano che l'adesione all'accordo di cambio avrebbe imposto una politica di rientro all'inflazione. Contro le aspettative generali, l'inflazione proseguì invece più violenta di prima. Il tasso di cambio, assunse con l'avanzare del progetto unitario una significatività crescente, aggiungendo alla sua funzione di strumento di orientamento, quella di fattore di credibilità. Le autorità monetarie italiane non accettarono mai una svalutazione esterna della lira pari a quella interna. Fra il 1980 e il 1987, i riallineamenti di parità nell'ambito dello Sme si susseguirono numerosi e coinvolsero numerose valute. Ogni riallineamento segnò una svalutazione della lira rispetto al marco. Dopo il 1987, i riallineamenti vennero sospesi e il corso della lira subì un solo ritocco al ribasso, in occasione del rientro della banda stretta. La politica di fatto seguita fu dunque quella di una graduale rivalutazione della lira, in termini reali, rispetto al marco. All'inizio degli anni novanta venne firmato il trattato di Maastricht, il contenuto degli accordi si inseriva in un contesto politico- sociale interno altamente critico, nel quale le energie politiche a lungo represse dalla guerra fredda si erano liberate, grazie al crollo del Muro di Berlino, spingendo quindi gli equilibri del sistema politico e economico con una rottura che si verificò del tutto nel 1992. Se il processo d'integrazione europeo era stato spesso rappresentato dalla classe politica come una sorta di panacea alle tare italiane, a Maastricht, si celebrò l'innocenza dell'europeismo italiano che vide stravolgere e crollare la visione retorica con la quale aveva guardato alla costruzione europea a partire degli anni '70. Per la storia dell'integrazione europea, il trattato di Maastricht rappresenta una pietra miliare, anche se con l'entrata in vigore ha creato ancora più instabilità, in quanto caratterizzato da uno scarso realismo degli obiettivi di convergenza delle variabili macroeconomiche, da mancanza flessibilità e insieme da asimmetrie dei comportamenti possibili delle banche centrali. La scena economica internazionale era segnata da: tendenze divergenti dei tassi di interesse, al ribasso negli Stati Uniti per rilanciare l'economia, al rialzo in Germania per gli effetti dell'unificazione tedesca, con conseguenti indebolimenti del dollaro, rafforzamento del marco, tensione nello Sme; le incertezze circa il completamento della unificazione monetaria in Europa, quale è stata sancita nel trattato di Maastricht. Questi sviluppi esterni coglievano l'economia italiana in una fase di attività produttiva debole, inflazione in lenta discesa, squilibri irrisolti nella finanza pubblica. Tra gli accadimenti che sono susseguiti, sono da richiamare i seguenti: l'esito negativo del referendum danese sul trattato di Maastricht del 2 giugno, infatti il referendum di Copenaghen si conclude al fotofinish (50,7%) di no contro il (49,3%) di si; mancata riduzione dei tassi di interesse in Germania; voci di svalutazione della lira; rialzo dei tassi ufficiali in Germania. Nel corso dell'anno 1992 si assiste a una piena recessione, infatti con il debito pubblico al 105,5 del Pil, con un fabbisogno attorno al 10,4 del Pil, con il passivo della bilancia dei pagamenti di parte corrente in crescita, la crisi era alle porte. Il 6 giugno la Banca d'Italia aumenta il tasso sulle anticipazioni a scadenza fissa di mezzo punto percentuale, irrigidendo così la politica monetaria, Moody's mise sotto controllo l'Italia per la sua incapacità nella riduzione del debito pubblico. Il 29 giugno il cambio contro il marco arrivò a 756,54 a fronte di una sostanziale stabilità nei confronti della sterlina e della peseta, Amato per effettuare un risanamento economico annunciò il 5 luglio la manovra da 30000 miliardi di lire, e con quella successiva di 100000 miliardi dà inizio al risanamento finanziario del Paese. Le vicende relative alle turbolenze che hanno sconvolto le parità valutarie dei paesi aderenti allo Sme hanno avuto inizio con la svalutazione del 7% della lira, la quale appariva quasi un riallineamento da manuale. Il 21 settembre, la Banca d'Italia, annunciò che le autorità monetarie si sarebbero astenute all'effettuare la quotazione ufficiale della lira. Questo fu un colpo durissimo per l'Italia che fino a quella data, aveva fatto del cambio della lira l'architrave della sua politica economica e finanziaria, sostenendo pesanti oneri in termini di riserve valutarie, infatti tra il giugno e il settembre vennero impiegate 53000 miliardi di riserve; colpo durissimo anche per la Comunità, colpita al cuore proprio nello strumento fondamentale, lo SME, investito nel ruolo di preparare e garantire le condizioni di stabilità, generalizzata e consolidata, che avrebbero dovuto, poi consentire quel salto di qualità dell'Europa, con il decollo della Unione Economica e monetaria, la moneta unica e il sistema delle banche centrali europee. Successivamente le tensioni speculative investono la lira , la sterlina e la peseta: momento in cui Italia e Gran Bretagna annunciano di uscire dagli Accordi europei di cambio. Subito dopo la svalutazione del 1992, si aprì un periodo di svalutazione generale della lira rispetto alle altre monete, periodo che si protrasse all'incirca fino al marzo 1993. Tra il 1992 e 1993 vennero firmati due accordi triangolari il protocollo Amato 31 luglio 1992 che abolì il sistema di scala mobile, completato da Ciampi nel luglio 1993, con la quale si fissarono gli obiettivi comuni di politica di reddito. Dopo di allora la lira rimase agganciata al dollaro. Il legame fra lira e dollaro potrebbe essere frutto dell'agire spontaneo dei mercati, ma potrebbe anche essere scaturito dalla decisione delle autorità monetarie italiane di ritornare alla vecchia linea di cambio differenziato, già seguita negli anni prima del 1979, fino all'ingresso dello Sme. Il problema essenziale delle autorità di governo era quello di evitare che la svalutazione esterna della lira si traducesse in inflazione importata, l'aver agganciato la lira al dollaro può essere inteso come una misura ragionevolmente coerente con l'obiettivo della stabilità monetaria. Di certo che la svalutazione della lira non ha contribuito alla soluzione del problema economico italiano, ha rischiato di aggravarlo producendo perdita di credibilità per il Paese. La crisi del sistema monetario europeo ha favorito una ripresa dei dibattiti teorici sui modelli di crisi valutarie, che si distinguono tra prima e seconda generazione, quelli di prima collegano l'emergere della crisi all'incompatibilità tra politiche macroeconomiche e stabilità del cambio; quelli di seconda, il cui sviluppo è stato stimolato dagli stessi fatti del 1992, nella quale l'emergere di una crisi appare come una scelta endogena, effettuata dalle autorità in base alle proprie preferenze e all'interazione con gli agenti economici privati. Analizzando i modelli si può concludere che mentre la rappresentazione di un regime di cambio fisso per mezzo di un livello puntuale del cambio non rappresenta un limite interpretativo rilevante, le ipotesi relative al processo di espansione del credito e all'esistenza di un livello di soglia delle riserve, nei modelli di Krugman, non sembrano dar conto adeguatamente della realtà dei fenomeni economici. I modelli di prima generazione danno una spiegazione "fondamentalista" delle crisi nel senso che fanno risalire la crisi allo sfasamento dei fondamentali macroeconomici dell'economia, in particolare l'esistenza di politiche fiscali espansive e prolungati deficit di bilancio incompatibili con un impegno di cambio fisso. I modelli di seconda generazione sottolineano il comportamento ottimizzante del policy-maker che non subisce più la crisi, ma decide di avviarla perché tale scelta minimizza i costi, nel senso che i costi in termini di reputazione a cui il governo va incontro uscendo dall'impegno sono comunque minori dei costi di rimanere in termini di incremento dei tassi di interesse e riduzione delle riserve valutarie. I modelli di terza generazione pongono enfasi sulla presenza di squilibri di natura finanziaria con la conseguenza che delle crisi valutarie non sono più viste come fenomeni a sé stanti ma come parte di una crisi sistemica in cui le crisi valutarie e bancarie si autoalimentano. Le ipotesi di perfetta previsione, d'altra parte, implicano che la razionalità degli agenti sia tale da non permette il realizzarsi di peso problem, i quali invece vengono osservati nella realtà. (Riassunto tradotto in inglese) Labour takes into account the main events that influenced the financial economic development of our country in the 1992 exchange rate crisis, I wanted to focus on the events since 1979 and analysing the intervention of the monetary authorities. At that time there was no euro, there was the European Monetary System with a kind of reference currency, the ECU, to which the various national currencies participating in the system had to be hooked, within a variance rate of no more than 2.25% for some and 6% for others, including the lira. Germany boasted of an economy stronger than others, with a state-of-the-art production system and a strong currency that was the benchmark for all economies. Italy had an economy that had to adapt continuously to the consequences of a reckless, short-sighted and short-term management of the country, the result of an incompetence of the political class. In March 1979, Italy had joined the European Monetary System, a decision aimed, together with foreign policy, at strengthening EU ties in order to create a united Europe; aware that this would be a more political than an economic choice. The accession to the Sme took place in a climate of divergence, Paolo Baffi then governor of the Bank of Italy, in fact, pointed out that a weak currency such as the lira, would find it difficult to abandon the regime of devaluations easy. several economists, in addition to Baffi, beyond where they sat, whether in Parliament as Luigi Spaventa or at the management of the Bank of Italy or even within the government as Rinaldo Ossola, argued their opposition to entry into the European Monetary System, exposing heterogeneous motivations among themselves. Everyone expected that the external constraint of stable exchange rates would force the country to follow a policy of strict monetary stability. Italy had obtained the privilege of a 6% swing band, compared with 2.5% in the other countries, but all wanted that accession to the exchange agreement would impose a policy of returning to inflation. Against general expectations, however, inflation continued more violent than before. The exchange rate, as the unitary project progressed, became increasingly significant, adding to its role as a guideline, that of a credibility factor. The Italian monetary authorities never accepted an external devaluation of the lira equal to the internal one. Between 1980 and 1987, the realignments of parity within the Sme followed numerous and involved numerous currencies. Each realignment marked a devaluation of the lira against the mark. After 1987, the realignments were suspended and the course of the lira underwent only one downward adjustment, on the occasion of the return of the narrow band. The policy followed was therefore that of a gradual revaluation of the lira, in real terms, with respect to the mark. At the beginning of the 1990s the Maastricht Treaty was signed, the content of the agreements was part of a highly critical internal political-social context, in which political energies long repressed by the Cold War had been freed, thanks to the collapse of the Berlin Wall, thus pushing the balance of the political and economic system with a break that occurred entirely in 1992. If the process of European integration had often been portrayed by the political class as a kind of panacea to the Italian tare, in Maastricht, the innocence of Italian Europeanism was celebrated, which saw the rhetorical vision with which it had looked to the construction of Europe since the 1970s, overturned and collapsed. For the history of European integration, the Maastricht Treaty represents a milestone, although with the entry into force it has created even more instability, as it is characterized by a lack of realism in the convergence objectives of macroeconomic variables, lack of flexibility and at the same time as asymmetries of the possible behaviour of central banks. The international economic scene was marked by: divergent trends in interest rates, downwards in the United States to boost the economy, up in Germany due to the effects of unification Germany, resulting in a weakening of the dollar, a strengthening of the mark, tension in the SME; The uncertainty about the completion of monetary unification in Europe, as enshrined in the Maastricht Treaty, is. These external developments caught the Italian economy in a period of weak production activity, slow-falling inflation, unresolved imbalances in public finances. Among the events that have followed, the following are to be recalled: the negative outcome of the Danish referendum on the Maastricht Treaty of 2 June, in fact the Copenhagen referendum ends at photofinish (50.7%) no versus (49.3%) yes; failure to reduce interest rates in Germany; rumours of the valuation of the lira; official interest rates in Germany. During the year 1992 there is a full recession, in fact with public debt at 105.5 of GDP, with a requirement around 10.4 of GDP, with the passive of the current account balance growing, the crisis was upon us. On 6 June, the Bank of Italy increased the rate on fixed-term advances by half a percentage point, thus tightening monetary policy, and Moody's brought Italy under control for its inability to reduce public debt. On 29 June, the exchange rate against the mark reached 756.54 in the face of substantial stability against the pound and the peseta, Amato to carry out an economic recovery announced on 5 July the maneuver of 30000 billion lre, and with the next one of 100000 billion begins the financial consolidation of the country. The events surrounding the turmoil that have disrupted the currency parities of the SME member countries began with the devaluation of 7% of the lira, which appeared to be almost a textbook realignment. On 21 September, the Bank of Italy announced that the monetary authorities would refrain from making the official listing of the lira. This was a very serious blow for Italy, which until that date had made the lira change the backbone of its economic and financial policy, bearing heavy burdens in terms of foreign exchange reserves, in fact between June and September 53 trillion reserves were used; It is also a very serious blow for the Community, which has been struck at the heart by the fundamental instrument, the EMS, which has been invested in the role of preparing and guaranteeing the conditions of stability, generalised and consolidated, which should have allowed Europe to jump in quality, with the take-off of the Economic and Monetary Union, the single currency and the system of European central banks. Subsequently, speculative tensions hit the lira, sterling and peseta, when Italy and Great Britain announced they were leaving the European Exchange Agreements. Immediately after the devaluation of 1992, a period of general devaluation of the lira against the other currencies opened up, which lasted approximately until March 1993. Between 1992 and 1993, two triangular agreements were signed, the Amato protocol on 31 July 1992, which abolished the escalator system, which was completed by Ciampi in July 1993, which set common income policy objectives. After that, the lira remained pegged to the dollar. The link between the lira and the dollar may be the result of the spontaneous action of the markets, but it could also have stemmed from the decision of the Italian monetary authorities to return to the old differentiated exchange line, which was already followed in the years before 1979, until the entry of the Sme. The main problem of the government authorities was to prevent the external devaluation of the lira from translating into imported inflation, the having pegged the lira to the dollar can be understood as a measure reasonably consistent with the objective of monetary stability. Certainly the devaluation of the lira did not contribute to the solution of the Italian economic problem, it risked aggravating it, producing a loss of credibility for the country. The crisis in the European monetary system has encouraged a resumption of theoretical debates on currency crisis patterns, which stand out between the first and second generations, those of first generation link the emergence of the crisis to the incompatibility between macroeconomic policies and exchange rate stability; Second, the development of which was stimulated by the same events of 1992, in which the emergence of a crisis appears to be a choice "It's not just a way of using private economic agents," he said. By analysing the models, it can be concluded that while the representation of a fixed exchange rate regime by means of a timely exchange rate does not represent a relevant interpretive limit, assumptions about the credit expansion process and the existence of a level of reserve threshold, in Krugman's models, do not seem to adequately account for the reality of economic phenomena. First-generation models give a "fundamentalist" explanation of crises in the sense that the crisis is traced back to the shift in macroeconomic fundamentals of the economy, in particular the existence of expansionary fiscal policies and prolonged budget deficits incompatible with a fixed exchange rate commitment. The second-generation models emphasize the optimising behaviour of the policy-maker who is no longer suffering from the crisis, but decides to start it because this choice minimizes costs, in the sense that the reputation costs that the government faces by exiting the commitment are still lower than the costs of staying in terms of raising interest rates and reducing currency reserves. Third-generation models place emphasis on financial imbalances, with the consequence that currency crises are no longer seen as stand-alone phenomena but as part of a systemic crisis in which currency and banking crises feed themselves. The hypotheses of perfect prediction, on the other hand, imply that the rationality of the agents is such that it does not allow the realization of weight problem, which instead are observed in reality.
La ricerca sviluppata nella tesi è finalizzata a valutare gli eventuali limiti alla discrezionalità del legislatore nell'adozione del sistema elettorale desumibili dall'art. 48 Cost. nella parte in cui prevede l'eguaglianza del voto. In particolare l'indagine riguarda gli effetti che tale precetto costituzionale può avere in tema di scelta del sistema elettorale in senso stretto, inteso quindi quale sistema di trasformazione dei voti in seggi. Dal punto di vista metodologico la prima questione che viene affrontata è quella di ricostruire, in chiave storico-dottrinale, il concetto della rappresentanza politica al fine di ricercare il collegamento tra la natura rappresentativa dell'Assemblea legislativa e le regole elettorali. Questa operazione, che parte dagli studi classici sulla rappresentanza politica, risulta utile per provare a tracciare un distinguo tra la concezione classica, di matrice liberale, della rappresentanza come mera preposizione alla carica del singolo parlamentare e la concezione della rappresentanza politica come rapporto, perdurante il corso della legislatura, tra rappresentati e rappresentanti. Il passaggio dalla fase liberale e l'idea dell'elezione come scelta dei migliori, alla fase democratica-costituzionale, infatti, permette di poter intravedere nella rappresentanza politica un istituto più complesso che contempli un rapporto reale tra elettori ed eletti. Per poter parlare di rapporto rappresentativo devono essere innanzitutto individuati quelli che sono i soggetti della rappresentanza politica e quale è il loro ruolo nella rappresentanza. Lo studio della rappresentanza democratica conduce a ritenere che i soggetti che hanno un ruolo nell'istituto indagato sono il rappresentante e l'elettore. Se così è, allora si deve dare un'interpretazione all'art. 67 Cost., laddove, prevedendo che il singolo parlamentare rappresenta la Nazione, sembra trascurare il ruolo dell'elettore. È proprio un'interpretazione letterale dell'art. 67 della nostra Carta costituzionale che ha permesso, ad una parte della dottrina, di sostenere che i rappresentanti devono agire in nome di un interesse generale che travalichi gli interessi degli elettori. Nell'elaborato si cerca di argomentare, a contrario, come l'art. 67 non abbia una portata tale da incidere sugli interessi che il rappresentante deve perseguire. Si giunge a tale conclusione poiché l'istituto parlamentare, più che luogo nel quale i rappresentati interpretano l'interesse generale, è da considerarsi il luogo di sintesi delle domande e delle pulsioni sociali, quindi il luogo in cui vi è la composizione di variegati interessi che si ritrovano all'interno della società che vengono graduati attraverso la discussione e il dibattito parlamentare. Se questo è il ruolo del Parlamento allora la funzione del rappresentante non può limitarsi ad essere quella di interpretare un'ipotetica volontà generale ma deve essere quella di interagire con il contesto sociale, in particolar modo con gli elettori che hanno determinato il ruolo di rappresentante in capo ad uno specifico soggetto. Nello stesso tempo, il ruolo dell'elettore non può essere circoscritto alla mera scelta del parlamentare, ma deve essere anche quello di un soggetto che può influenzare la decisione politica in un rapporto dinamico con il rappresentante (PITKIN 1967). In questo modo è la concezione generale della democrazia che muta, in particolare rispetto al periodo liberale, e viene a qualificarsi non come statico governo sul popolo ma come un complesso processo politico nel quale il popolo è parte attiva anche oltre la mera approvazione elettorale (URBINATI 2006). Se la rappresentanza politica può essere così ricostruita dal punto di vista teorico, per avere un'applicazione concreta di questa dinamica tra i rappresentati e i rappresentanti, il ruolo del sistema elettorale deve essere quello di garantire che tale rapporto tra i due soggetti della rappresentanza possa effettivamente attuarsi. Lo studio del sistema elettorale deve tenere in considerazione questo modello di rappresentanza politica, che sarà il fil rouge per valutare quali sono i sistemi elettorali in grado di produrre un Parlamento che rispetti i canoni della rappresentanza democratica. Solo dopo aver svolto una ricostruzione del moderno concetto di rappresentanza politica, vi è la possibilità di collegare la stessa all'eguaglianza del voto, sancita dall'art. 48 della Costituzione nel più generale principio di eguaglianza tra i consociati. Per permettere un'adeguata analisi si è deciso di suddividere lo studio sostanzialmente in due momenti distinti, che caratterizzano il complicato rapporto sistema elettorale-rappresentanza-eguaglianza del voto, ovverosia il collegio elettorale e la formula elettorale. Nella prima parte si analizzano le conseguenze che il principio di eguaglianza ha sulla libertà del legislatore di determinare i confini dei collegi elettorali. Tale studio si è reso necessario poiché si è cercato di mettere in luce che il collegio elettorale è il luogo "naturale" di formazione del rapporto rappresentativo, poiché spazio territoriale dove i partiti politici presentano i propri candidati e dove si instaura quel circuito rappresentativo, fra rappresentanti e rappresentati, di cui si faceva riferimento durante la trattazione teorica del concetto della rappresentanza politica. Questo presupposto nasce dalla circostanza che se la rappresentanza è un rapporto politico tra soggetti (rappresentante e rappresentato), tale rapporto non può che non essere individuato all'interno del luogo dove formalmente e sostanzialmente gli elettori scelgono i propri rappresentanti. Si cerca quindi di argomentare che il luogo in cui si instaura e si alimenta il rapporto rappresentativo tra eletti ed elettori è proprio il collegio elettorale. Nell'elaborato si individuano, inoltre, le conseguenze che il principio d'eguaglianza del voto ha in merito alla suddivisione del territorio nazionale. Attraverso un approfondimento della giurisprudenza e della dottrina di alcuni ordinamenti stranieri, in particolare degli Stati Uniti e del Regno Unito, una delle prime conseguenze messe in luce è quella per cui i collegi elettorali devono essere strutturati in modo tale da garantire l'eguaglianza tra gli elettori situatati in collegi diversi, affinché tutti gli elettori siano posti nella condizione di poter egualmente partecipare alla formazione dell'Assemblea rappresentativa. Nel lavoro di tesi si prova ad argomentare che per garantire tale eguaglianza i collegi elettorali, quando eleggono un solo rappresentante, devono essere individuati e delimitati su basi essenzialmente demografiche affinché la consistenza della popolazione (o degli elettori) all'interno dei collegi sia quanto più omogenea (si veda p. es. la sentenza della Supreme Court degli Stati Uniti U.S. 725 (1983)). Diversamente, quanto il sistema elettorale adottato è un sistema plurinominale non è necessario che i collegi siano demograficamente identici. In questi casi è però indispensabile, come indicato dallo stesso Testo costituzionale all'art. 56, che pur nella diversità della composizione demografica la distribuzione dei seggi avvenga in modo proporzionale alla suddetta consistenza demografica, affinché, anche in questo caso, non vi sia una irragionevole distinzione tra elettori posti in collegi elettori diversi. In secondo luogo, si cerca di analizzare l'effetto che l'applicazione della formula elettorale può avere, legittimamente o meno, sulla distribuzione territoriale della rappresentanza. A tal proposito si cerca di mettere in luce che i c.d. sistemi elettorali multilivello – sistemi nei quali i voti vengono trasformati in seggi ad un livello territoriale diverso rispetto al collegio elettorale – sono legislazioni elettorali che non permettono la realizzazione del principio d'eguaglianza così considerato. In questi sistemi, infatti, alla conclusione dell'iter elettorale vi è la possibilità che l'allocazione dei seggi avvenga in misura diversa rispetto al numero di seggi che il collegio elettorale avrebbe diritto in base alla consistenza demografica. Attraverso un'analisi empirica si cerca di documentare che in questi sistemi elettorali l'eguaglianza tra gli elettori posti in collegi elettorali diversi rischia di non essere garantita, poiché all'assegnazione finale dei seggi, vi saranno elettori che saranno sovra o sotto rappresentati rispetto ad altri elettori di altri collegi elettorali. Il secondo collegamento tra legislazione elettorale e eguaglianza del voto che si cerca di sviluppare nell'elaborato è inerente al concreto sistema di trasformazione dei voti in seggi. Sul tema, si cerca di dimostrare che la dottrina dominante – sia prima che dopo le sentenze della Corte costituzionale in tema di premio di maggioranza – volta ad interpretare l'eguaglianza del voto come mera eguaglianza in entrata (quindi esclusione di voto plurimo e voto multiplo), sia la dottrina minoritaria, che invece ha incluso il principio di eguaglianza del voto "in uscita" tra i principi costituzionali, sono accomunate da una costruzione teorica dell'eguaglianza fondata sul principio proporzionale. In questo senso, infatti, la dottrina, indipendentemente dal considerare il principio d'eguaglianza del voto "in uscita" un precetto costituzionale, ha tendenzialmente sostenuto che l'eguaglianza del voto in questa accezione comporti l'adozione di un sistema elettorale proporzionale. Anche la giurisprudenza costituzionale sembrerebbe essere dello stesso avviso. Nelle due sentenze riguardanti il premio di maggioranza per l'elezione delle Assemblee rappresentative nazionali, la Corte sembra avere considerato l'eguaglianza del voto "in uscita" quale sinonimo di proporzionalità nazionale. La Corte, infatti, ha ritenuto illegittimo il premio di maggioranza senza una soglia poiché posto all'interno di un sistema proporzionale nel quale il voto "in uscita" non può essere eccessivamente distorto. La Corte sembra aver posto alla base delle proprie argomentazioni la quantità della distorsione del voto prodotta dal sistema elettorale. A confermare tale lettura della giurisprudenza soccorre la stessa Corte Costituzionale che nella sentenza n. 1 del 2014 ha richiamato il Tribunale federale tedesco, che da anni ritiene che il principio d'eguaglianza in senso sostanziale sia un principio che limita il legislatore solo qualora decida di adottare il sistema elettorale proporzionale. Se tali premesse sono vere, però, il rischio è quello che il principio d'eguaglianza "in uscita" sia un principio alquanto sfumato che limita la discrezionalità del legislatore solo qualora lo stesso decida di adottare il sistema elettorale proporzionale, non essendo, quindi, un precetto costituzionale che limita in via generale la discrezionalità del legislatore. Allo stesso modo, anche la dottrina, ancor prima delle sentenze della Corte, ragionando sulla distorsione del voto prodotta dai sistemi elettorali, ha cercato di motivare la legittimità costituzionale proprio del premio di maggioranza comparando tra loro sistemi elettorali di diversa natura (vuoi proporzionali, maggioritari o misti), concludendo che se un grado di disproporzionalità che si produce a livello nazionale in un dato sistema elettorale è da considerarsi costituzionalmente legittimo, di conseguenza deve esserlo anche negli altri. Una medesima impostazione teorica del problema viene portata avanti anche da chi, pur contrario al sistema elettorale con premio di maggioranza, utilizza il parametro della disproporzionalità per giungere a sollevare dubbi di legittimità costituzionale nel classico sistema uninominale first past the post, accusato di falsare la rappresentanza poiché in grado di assegnare ad una forza politica più seggi di quanti ne avrebbe ottenuti con un riparto proporzionale. Queste indagini, indipendentemente dalle conclusioni alle quali giungono, sembrano prendere le mosse esclusivamente dal grado di disproporzionalità nazionale prodotto da un certo sistema elettorale, accentuando oltremodo la quantità della distorsione del voto, senza prendere in considerazione le differenze strutturali del sistema elettorale di partenza. Sembrerebbe che la questione, anche relativa all'eguaglianza del voto, possa risolversi valutando quanto possa essere ragionevolmente disproporzionale un sistema elettorale. Per quel che riguarda una risposta a questo interrogativo, perlomeno in tema di sistema elettorale con premio di maggioranza, è stata fornita dalla Corte costituzionale che ha rigettato la questione di legittimità riguardante il premio di maggioranza con soglia al 40% previsto dalla legge n. 52 del 2015, ritenuto non irragionevolmente distorsivo della rappresentatività e dell'eguaglianza del voto. Come ha sottolineato attenta dottrina, però, muoversi esclusivamente indagando la ragionevolezza della distorsione del voto potrebbe però risultare infruttuoso, poiché valutare unicamente in base al metro della ragionevolezza rischia di non produrre un dato certo, che sia in grado di stabilire fin dove una soluzione possa spingersi per rimanere nell'ambito della legittimità costituzionale. Per permette di dare un significato pieno al precetto costituzionale dell'eguaglianza del voto, che non sia cedevole e non si "atteggi" diversamente sulla base del sistema elettorale prescelto dal legislatore, nell'elaborato si prova ad argomentare una diversa interpretazione del principio di uguaglianza "in uscita", a partire proprio dalla valorizzazione delle diversità strutturali che stanno alla base dei vari sistemi elettorali. La prima questione che viene affrontata è relativa alla determinazione del contenuto del principio d'eguaglianza "in uscita" o comunque di un principio costituzionale che non sia meramente il divieto di voto plurimo o multiplo. Come autorevole dottrina ha sostenuto, il principio di eguaglianza implicherebbe che il sistema elettorale adottato dal legislatore deve trattare tutti i voti aritmeticamente con le stesse modalità. Per valutare la portata normativa del principio contenuto all'art. 48 della Costituzione, e per riflettere sulla base di un iter argomentativo diverso, si cerca di verificare, sempre partendo da una concezione di rappresentanza politica che implichi un rapporto tra eletti ed elettori, se è possibile sostenere che l'eguaglianza del voto anche "in uscita" può essere valutata esclusivamente all'interno della ripartizione territoriale nella quale si forma il rapporto rappresentativo. Si prova quindi ad argomentare che la portata del principio d'eguaglianza dovrebbe essere valutata all'interno di queste ripartizioni territoriali, sicché il voto di un elettore dovrebbe poter essere uguale, anche come valenza effettiva, esclusivamente rispetto al voto degli elettori del suo stesso medesimo collegio elettorale. Nell'elaborato si cerca quindi di dimostrare che l'eguaglianza del voto "in uscita" non è tanto un'eguaglianza della valenza di ogni singolo voto di tutti gli elettori astrattamente considerati ma è l'eguaglianza dei suffragi tra soggetti che si trovano nella medesima situazione giuridica soggettiva, che è, in questo caso, quella di essere inseriti in un determinato collegio elettorale. Da queste premesse, si cerca di sostenere che volendo comparare la distorsione del voto che viene prodotta complessivamente (rectius nazionalmente) da un sistema elettorale, intesa come difformità tra voti nazionalmente ottenuti da una forza politica e seggi parlamentari complessivi conseguiti dalla stessa, lo si potrebbe fare solo laddove il sistema elettorale prevedesse espressamente l'elezione in un collegio unico nazionale. Provando a ragionare a partire dal collegio elettorale, viceversa, si cerca di dimostrare che sia proprio all'interno di quella articolazione territoriale che deve essere valutata l'eventuale distorsione del voto e l'eguaglianza tra gli elettori. Analizzando in questo modo i sistemi elettorali si cerca inoltre di superare lo storico dualismo tra sistemi maggioritari e sistemi proporzionali per riflettere, più che sulla formula elettorale, sul luogo nel quale si "forma" la rappresentanza politica. Dallo studio della rappresentanza all'interno di un determinato ambito territoriale, e non a livello nazionale, i risultati ai quali si cerca di giungere circa la distorsione del voto sono tali da far ritenere che, ad esempio, il sistema elettorale maggioritario, pur comportando eventualmente una grande distorsione del voto a livello nazionale, non implichi di per sé il venir meno della rappresentanza politica dei cittadini né comporti una limitazione dell'eguaglianza tra gli elettori situati in un determinato collegio elettorale. In questo modo, si prova a verificare se è sostenibile la tesi per la quale i voti degli elettori devono essere eguali non solo nel momento in cui vengono espressi ma anche nel momento in cui vengono "contati" per essere trasformati in seggi, senza che da tale principio si debba necessariamente concludere, come riteneva Lavagna, una costituzionalizzazione del sistema elettorale proporzionale. Successivamente si provano a mettere in relazione i risultati della trattazione teorica con la concretezza dei sistemi elettorali, al fine di provare a concludere che il principale sistema elettorale che non garantisce un'eguaglianza del voto (così come precedentemente ricostruita) è il sistema elettorale con premio di maggioranza (di qualsiasi natura) indipendentemente dalla quantità del premio assegnato alle forze politiche. Viceversa, si cerca di argomentare che sia sistemi maggioritari uninominali sia i sistemi elettorali proporzionali (ancorché eventualmente molto razionalizzati per la presenza di collegi elettorali che eleggono un numero esiguo di rappresentanti) sono pienamente compatibili con il principio di eguaglianza. A tal proposito, viene posto in evidenza che in un sistema proporzionale l'eguaglianza del voto starebbe ad esprimere che all'interno della circoscrizione plurinominale debba esserci un quoziente elettore, uguale per tutte le forze politiche, raggiunto il quale vi è l'attribuzione di un seggio. Viceversa, l'eguaglianza del voto così interpretata, non permetterebbe di riconoscere la legittimità costituzionale di quei sistemi con premio di maggioranza nei quali il voto dell'elettore può produrre una quantità di eletti superiore a quello degli altri elettori, tramite l'utilizzo di quozienti elettorali diversi tra il partito vincitore della competizione elettorale e le forze politiche "perdenti". In sostanza si cerca di mettere in luce che la limitazione principale per il legislatore che discende dall'eguaglianza del voto ex art. 48 Cost., oltre quella di poter ricorrere al sistema elettorale maggioritario di lista, è l'adozione dei sistemi elettorali con premio di maggioranza che, indipendentemente dalla quantità del premio di maggioranza assegnato, non "pesano" egualmente i voti degli elettori all'interno del collegio elettorale, sia quando esso è il "luogo" nel quale i voti vengono trasformati in seggi, sia quando questa trasformazione avviene e livello nazionale. L'ultima questione che viene trattata riguarda l'esistenza di principi o obiettivi costituzionali che possono essere bilanciati con il principio costituzionale dell'eguaglianza del voto al fine di limitarne, ancorché relativamente, la portata. A tal proposito si cerca di porre l'accento sul bilanciamento offerto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014 e nella sentenza n. 35 del 2017 tra eguaglianza del voto e stabilità del Governo all'interno di una forma di governo parlamentare. Partendo proprio dalla ragionevolezza nell'equilibrio tra stabilità e rappresentanza (unita, quest'ultima, alla rappresentatività e all'eguaglianza del voto), la Corte costituzionale sembra aver fondato le proprie decisioni basandosi sul grado di "compressione" ragionevole della rappresentatività e dell'eguaglianza. Dagli studi inerenti la rappresentanza, la legislazione elettorale e l'eguaglianza del voto si prova a proporre un diverso approccio per affrontare la questione, a partire dal mettere in dubbio l'individuazione della stabilità del Governo come obiettivo costituzionalmente apprezzabile e, pertanto, non bilanciabile con i principi costituzionali della rappresentanza politica delle Assemblee legislative e dell'uguaglianza del voto. Percorrere questa strada argomentativa non significa sostenere però che la stabilità dell'Esecutivo debba essere stigmatizzata e vista in un necessario dualismo con la rappresentanza politica, come se la stabilità possa essere raggiunta solamente attraverso una deminutio della rappresentanza all'interno dell'Assemblea parlamentare. La stabilità può essere infatti favorita, oltre che da una razionalizzazione delle regole che stanno alla base della forma di governo parlamentare, tramite l'adozione di quei sistemi elettorali (si pensi al classico sistema elettorale maggioritario) che pur non minando il campo dalla rappresentanza politica e dell'eguaglianza hanno lo scopo di influenzare i processi politici in modo da aumentare le probabilità che vengano a formarsi maggioranze parlamentari stabili. Questo starebbe a comprovare che esistono sistemi elettorali in grado di favorire la stabilità governativa pur restando sistemi elettorali con i quali gli elettori sono in grado di eleggere un Parlamento pienamente rappresentativo. Anche questi sistemi non sono però in grado di produrre ex-lege, come con il premio di maggioranza nell'esperienza italiana, un Governo "monocolore". Vi sono infatti casi in cui l'elevata frammentazione sociale produce un'elevata frammentazione parlamentare anche nei sistemi elettorali molto razionalizzati. L'esistenza di sistemi elettorali che pur favorendo la stabilità non incidono sulla rappresentanza politica, starebbe a dimostrare che la dicotomia tra rappresentanza e stabilità, che la Corte costituzionale (così come parte della dottrina) sembra riconoscere, è solo presunta. Da ultimo l'analisi dell'equilibrio tra stabilità e rappresentanza è inerente alla forma di governo. L'approfondimento si rende necessario nel momento in cui la Corte costituzionale ha sostenuto in due sentenze, una riguardante il sistema elettorale per l'elezione dei Consigli comunali e l'altra i Consigli regionali, che lo stesso meccanismo (il premio di maggioranza senza soglia), dichiarato illegittimo in una forma di governo parlamentare, possa essere ritenuto costituzionalmente ammissibile nella forma di governo adottata da comuni e regioni, poiché, a detta della Corte, si tratta di forme di governo che necessitano di una maggiore stabilità dell'Esecutivo, tale da poter comprimere la rappresentanza dell'Assemblea anche oltre a quanto consentito dalla Costituzione nella forma parlamentare di governo. In questo caso, l'interrogativo di fondo è quello di stabilire se una data forma di governo sia in grado di legittimare delle regole elettorali che sarebbero da considerarsi illegittime laddove vi siano delle diverse regole costituzionali che dominano il rapporto tra Assemblea rappresentativa e organo Esecutivo.
0 ORGANIZZAZIONE DEL PROGETTO: "Analisi degli ambiti prioritari di domanda e offerta di tecnologie per la "Fabbrica Intelligente"" 0.1 Cenni Teorici sull'attività di Project Management La parola "Progetto" è utilizzata per indicare compiti e attività in apparenza molto diverse tra loro, basti pensare ad un progetto di ricerca e ad un progetto di costruzione di un edificio: due attività assai diverse e formalmente senza punti in comune. Al fine di approfondire i concetti legati al progetto in esame, sarebbe utile definire in maniera più precisa cosa si intende con la parola "progetto". Sin dai primi studi di Taylor e Gantt ad inizio del 1900 si è cercato di dare una definizione chiara del termine, arrivando a definirlo come: "Un insieme di persone e di altre risorse temporaneamente riunite per raggiungere uno specifico obiettivo, di solito con un budget determinato ed entro un periodo stabilito" (Graham, 1990) "Uno sforzo complesso, comportante compiti interrelati eseguiti da varie organizzazioni, con obiettivi, schedulazioni e budget ben definiti" (Russel D. Archibald, 1994) "Un insieme di sforzi coordinati nel tempo" (Kerzner, 1995) "Uno sforzo temporaneo intrapreso per creare un prodotto o un servizio univoco" (PMI – Project Management Institute, 1996) "Un insieme di attività complesse e interrelate, aventi come fine un obiettivo ben definito, raggiungibile attraverso sforzi sinergici e coordinati, entro un tempo predeterminato e con un preciso ammontare di risorse umane e finanziarie a disposizione." (Tonchia, 2007) È da notare che, a prescindere dall'organizzazione e dal settore di riferimento, un progetto è caratterizzato da alcuni elementi distintivi: • un obiettivo da raggiungere con determinate specifiche; • un insieme di attività tra loro coordinate in modo complesso; • tempi di inizio e fine stabiliti; • risorse normalmente limitate (umane, strumentali e finanziare); • carattere pluridisciplinare o multifunzionale rispetto alla struttura organizzativa. La specificità dell'obiettivo determina l'eccezionalità del progetto rispetto alle attività ordinarie e quindi l'assenza di esperienze precedenti. Le organizzazioni, siano esse imprese, enti pubblici o Università, svolgono appunto due tipologie di attività con caratteristiche distinte: 1. funzioni operative; 2. progetti. Talvolta le due categorie presentano aree comuni e condividono alcune caratteristiche: • sono eseguiti da persone; • sono vincolati da risorse limitate; • sono soggetti a pianificazione, esecuzione e controllo. Nonostante queste caratteristiche comuni, progetti e funzioni operative hanno obiettivi diversi tra loro: il progetto infatti è di natura temporanea e ha lo scopo di raggiungere il proprio obiettivo e quindi concludersi, la funzione operativa invece è di natura ripetitiva e fornisce un'azione di supporto continuativo all'azienda. Un progetto indipendentemente dal settore e dall'organizzazione nel quale si sviluppa, ha 3 vincoli fondamentali tra loro in competizione: • qualità o prestazioni; • tempo; • costo. Per di più se il progetto è commissionato da un cliente esterno sarà presente un quarto vincolo, ovvero le buone relazioni tra l'organizzazione e il cliente, è chiaro infatti che è tecnicamente possibile gestire un progetto rispettando i primi tre vincoli senza coinvolgere il cliente, ma così vengono pregiudicati i futuri business. Le principali caratteristiche di un progetto sono: 1. Temporaneità: Ogni progetto infatti ha come detto una data di inizio e di fine definite, e quest'ultima viene raggiunta quando: a. gli obiettivi del progetto sono stati raggiunti; b. è impossibile raggiungere gli obiettivi; c. il progetto non è più necessario e viene chiuso. Temporaneità non significa che un progetto ha breve durata, i progetti infatti possono durare anche diversi anni, l'importante è comprendere che la durata di un progetto è definita con l'obiettivo di creare risultati duraturi. La natura temporanea dei progetti può essere applicata anche ad altri aspetti: - l'opportunità o finestra di mercato è generalmente temporanea; - come unità lavorativa, raramente il gruppo di progetto sopravvive dopo il progetto, il gruppo infatti realizzerà il progetto e alla conclusione di questo verrà sciolto, riassegnando il personale ad altri progetti. 2. Prodotti, servizi o risultati unici: Un progetto crea prodotti, servizi o risultati unici. I progetti solitamente creano: - un prodotto finale o un componente di un prodotto; - un servizio; - un risultato, come degli esiti, dei documenti e report. L'unicità è un'importante caratteristica degli output di un progetto. 3. Elaborazione progressiva: con questa espressione si intende lo sviluppo in fasi, organizzate attraverso una successione incrementale per tutto il ciclo di vita del progetto, infatti man mano che un Project Team (Gruppo di Progetto) approfondisce la conoscenza del progetto è anche in grado di gestirlo ad un maggiore livello di dettaglio e sarà in grado di arricchirlo di maggiori dettagli via via che il Team sviluppa delle conoscenze sul settore. L'attività di Gestione del Progetto o Project Management è l'applicazione di conoscenze, abilità, strumenti e tecniche alle attività di progetto al fine di soddisfarne i requisiti, dove il Project Manager (PM) è la persona incaricata del raggiungimento degli obiettivi di progetto. La gestione di progetto include: • identificare i requisiti; • fissare obiettivi chiari e raggiungibili; • adattare specifiche di prodotto, piani e approccio alle diverse aree di interesse e alle diverse aspettative dei vari stakeholder. • individuare il giusto equilibrio tra le esigenze di qualità, ambito, tempo e costi, che sono in competenza tra di loro. Nella gestione dei progetti infatti, è costante lo sforzo atto a bilanciare i tre vincoli (qualità e prestazioni, tempi e costi), poiché i progetti di successo sono quelli che consegnano il prodotto, il servizio o il risultato richiesti nell'ambito stabilito, entro il tempo fissato e rimanendo entro i limiti del budget definito, infatti la variazione anche di uno solo dei tre vincoli implica che almeno un altro ne risulta influenzato. Il PM si occupa inoltre di gestire i progetti tenendo conto dei rischi intrinseci di un progetto, ossia eventi o condizioni incerte che, se si verificano, hanno un effetto o positivo o negativo su almeno uno degli obiettivi di progetto. Una Gestione dei Progetti efficace ma allo stesso tempo efficiente, può essere definita quindi come il raggiungimento degli obiettivi del progetto al livello di prestazioni o qualità desiderate, mantenendosi nei tempi e nei costi previsti e utilizzando senza sprechi le risorse disponibili. Tutto ciò è fondamentale che sia conforme al desiderio del cliente, infatti nei casi in cui un progetto è commissionato da un cliente esterno, le relazioni con quest'ultimo diventano un ulteriore vincolo di progetto e quindi Il successo di un progetto si raggiunge con quanto detto sopra e con l'accettazione da parte del cliente. Raramente i progetti vengono completati rispettando l'obiettivo originale, spesso infatti con l'avanzamento del progetto alcune modifiche sono inevitabili, e se non gestite in maniera opportuna possono anche affossare il progetto e il morale di chi ci lavora. Perciò è necessario un accordo reciproco tra PM e cliente relativo ai cambiamenti degli obiettivi, che comunque devono essere minimi e sempre approvati. È da ricordare infine che i PM devono gestire i progetti in base alle linee guida dell'azienda a cui fanno riferimento, rispettando procedure, regole e direttive dell'organizzazione, altrimenti si rischia che il PM venga considerato come un imprenditore autonomo, finalizzato esclusivamente al raggiungimento dei suoi obiettivi, rischiando così di modificare il flusso di lavoro principale dell'organizzazione. 0.2 Scopo del Progetto Sotto il suggerimento della Commissione Europea, tutte le Regioni degli Stati membri dell'UE, sono state invitate a stilare un documento nel quale si definisca la propria Smart Specialisation Strategy SSS , al fine di favorire lo sviluppo delle politiche di coesione delle regioni e degli stati membri, da finanziare con i Fondi Strutturali per il periodo 2014-2020. Il concetto indica Strategie d'innovazione concepite a livello regionale ma valutate e messe a sistema a livello nazionale con l'obiettivo di: • evitare la frammentazione degli interventi e mettere a sistema le politiche di ricerca e innovazione; • sviluppare strategie d'innovazione regionali che valorizzino gli ambiti produttivi di eccellenza tenendo conto del posizionamento strategico territoriale e delle prospettive di sviluppo in un quadro economico globale. In linea con le direttive comunitarie e in coerenza con quanto indicato nella SSS della Regione Toscana, IRPET Regione Toscana ha incaricato quindi il Consorzio QUINN a redigere un report denominato "Analisi degli ambiti prioritari di domanda e offerta di tecnologie per la "Fabbrica Intelligente"", affinché venga delineato il panorama delle imprese regionali che fanno uso di queste tecnologie, al fine di erogare in una seconda fase dei finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo, in particolare quelli gestiti nell'ambito dei fondi strutturali che svolgono un ruolo rilevante come promotori dell'innovazione tecnologica. La "Fabbrica Intelligente" infatti rappresenta una delle 9 aree tecnologiche individuate dal Bando «Cluster Tecnologici Nazionali» presentato dal MIUR il 30 maggio 2012, e definita come strategica per la competitività del Paese. Nella SSS regionale, l'ambito prioritario legato alle tecnologie per la Fabbrica Intelligente si rivolge alle tecnologie dell'automazione, della meccatronica e della robotica. Ai fini degli obiettivi della SSS queste tre discipline concorrono in maniera integrata a sviluppare soluzioni tecnologiche funzionali all'automazione dei processi produttivi, in termini di velocizzazione, sicurezza e controllo, della sostenibilità ed economicità degli stessi, nonché dell'estensione della capacità di azione. Per un più semplice inquadramento definitorio, le tecnologie di questi tre settori vengono di seguito approfonditi e descritti in maniera distinta. 1. AUTOMAZIONE : Per "automazione" si intende lo sviluppo di sistemi, strumentazioni, processi ed applicativi che consentono la riduzione dell'intervento dell'uomo sui processi produttivi. L'automazione in tal senso si realizza mediante soluzioni di problemi tecnici legati all'esecuzione di azioni in maniera ripetuta, nella semplificazioni di operazione complesse, nell'effettuazione di operazioni complesse in contesti incerti e dinamici con elevato livello di precisione. Il concetto di automazione assume un carattere estensivo di integrazione di tecnologie e di ambiti applicativi (dal laboratorio, alla fabbrica intelligente), mantenendo il focus sul controllo automatico dei processi. 2. MECCATRONICA : La "meccatronica" è una branca dell'ingegneria che coniuga sinergicamente più discipline quali la Meccanica, l'elettronica, ed i sistemi di controllo intelligenti, allo scopo di realizzare un sistema integrato detto anche sistema tecnico. Inizialmente la meccatronica è nata dalla necessità di fondere insieme la meccanica e l'elettronica, da cui il nome. Successivamente l'esigenza di realizzare sistemi tecnici sempre più complessi ha portato alla necessità di integrare anche le altre discipline per applicazioni industriali robotiche e di azionamento elettrico. 3. ROBOTICA : Come ramo della cibernetica rivolto alle tecniche di costruzione (ed i possibili ambiti di applicazioni) dei robot, la robotica è la disciplina dell'ingegneria che studia e sviluppa metodi che permettano a un robot di eseguire dei compiti specifici riproducendo il lavoro umano. La robotica moderna si è sviluppata perseguendo principalmente: a) l'autonomia delle macchine; b) la capacità di interazione/immedesimazione con l'uomo e i suoi comportamenti. 0.3 Stakeholder del Progetto La definizione stakeholder o portatori di interesse fu elaborata nel 1963 al Research Institute dell'Università di Stanford da Edward Freeman, definendoli come i soggetti senza il cui supporto l'impresa non è in grado di sopravvivere. Gli stakeholder di un progetto sono persone o strutture organizzative coinvolte attivamente nel progetto o i cui interessi possono subire effetti dell'esecuzione o dal completamento del progetto, possono quindi avere influenza sugli obiettivi e sui risultati del progetto. Ignorare gli stakeholder può portare a conseguenze negative sui risultati del progetto, il loro ruolo infatti può avere sia un impatto negativo che positivo sul progetto: gli stakeholder positivi sono quelli che traggono vantaggi dalla buona riuscita del progetto, è quindi vantaggioso supportarne gli interessi, mentre i negativi sono quelli che vedono risultati sfavorevoli dalla buona riuscita del progetto, gli interessi di questi ultimi avrebbero la meglio con un aumento dei vincoli sull'avanzamento del progetto. Solitamente gli stakeholder principali in un progetto sono rappresentati da: • Project Manager: persona responsabile della gestione del progetto; • Cliente/utente: persona o struttura organizzativa che utilizzerà il prodotto del progetto; • Membri del Team di progetto: membri del gruppo incaricati all'esecuzione del progetto; • Sponsor: persona o gruppo che fornisce le risorse necessarie al progetto; • Soggetti influenti: persone o gruppi che sono non direttamente collegati con l'acquisto o l'uso del prodotto ma che, a causa della posizione ricoperta nella struttura organizzativa del cliente, possono influire positivamente o negativamente sul corso del progetto. Il compito di gestire le aspettative degli stakeholder va al Project Manager, spesso ciò non è semplice a causa dei differenti e contrastanti obiettivi degli stakeholder. Nel presente progetto gli stakeholder coinvolti nelle varie attività possono quindi essere ricondotti a quattro soggetti o gruppi: • Ente Committente: IRPET; • Ente Incaricato: Consorzio QUINN; • Team di Progetto; • Regione Toscana. 0.3.1 IRPET: ISTITUTO REGIONALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA DELLA TOSCANA L'IRPET, nato nel 1968 come organo tecnico-scientifico del CRPET (Comitato regionale per la programmazione economica della Toscana) con la finalità di compiere gli studi preliminari all'istituzione dell'ente Regione, è diventato Ente pubblico con legge della Regione Toscana nel 1974. L'Istituto è ente di consulenza sia per la Giunta che per il Consiglio regionale per lo svolgimento di compiti di studio e ricerca in materia di programmazione. Sono compiti dell'Istituto, in particolare: a) lo studio della struttura socio economica regionale e delle sue trasformazioni, degli andamenti congiunturali e dei relativi strumenti analitici; b) lo studio della struttura territoriale regionale e delle sue trasformazioni e dei relativi strumenti analitici; c) lo studio delle metodologie di programmazione, di valutazione e di verifica delle politiche; d) gli studi preparatori per gli atti della programmazione regionale e per il piano di indirizzo territoriale regionale in ordine ai problemi economici, territoriali e sociali; d bis) elaborazione dei documenti o rapporti di valutazione dei programmi nazionali e dell'Unione europea gestiti dalla Regione Toscana, di cui agli articoli 10, comma 5, e 12 della legge regionale 2 agosto 2013, n. 44 (Disposizioni in materia di programmazione regionale). e) la circolazione delle conoscenze e dei risultati di cui alle lettere a) b) e c). L'Istituto, nell'ambito delle medesime materie, può altresì svolgere altre attività di studio, ricerca e consulenza su committenza di soggetti pubblici e privati diversi dalla Regione, e inoltre: • stabilisce relazioni con enti di ricerca, anche esteri, istituti specializzati, dipartimenti universitari; • assume iniziative di formazione specialistica nelle discipline oggetto dell'attività dell'Istituto. 0.3.2 QUINN: CONSORZIO UNIVERSITARIO IN INGEGNERIA PER LA QUALITÀ E L'INNOVAZIONE Istituito nel 1989 su iniziativa dell'Università di Pisa con l'adesione di numerose grandi imprese italiane e riconosciuto dal MURST (oggi MIUR) con Decreto del 1991, l'attuale QUINN: Consorzio Universitario in Ingegneria per la Qualità e l'Innovazione viene costituito inizialmente con il nome "Qualital" allo scopo di far collaborare un gruppo di grandi imprese nella ricerca applicata e nella formazione manageriale in una disciplina in forte crescita, il Total Quality Management ed in particolare l'ingegneria dei processi aziendali. Nel 2005 alla missione originaria se ne affianca un'altra: l'innovazione. Cambia il nome: Quinn, Consorzio Universitario in Ingegneria per la Qualità e l'Innovazione, ma resta l'approccio rigoroso: sviluppare metodologie e strumenti di supporto ai processi innovativi derivanti dalla migliore ricerca e dalle esperienze più avanzate a livello internazionale. Il Consorzio con sede a Pisa, non ha fine di lucro; esso mira a creare sinergie tra le competenze del suo staff e dei partner accademici e le capacità operative delle Imprese industriali, delle Organizzazioni pubbliche e private operanti nella produzione di beni e servizi, allo scopo di promuovere e svolgere: • ricerca applicata e sperimentazione on field di metodologie e strumenti per il miglioramento della qualità di prodotti e servizi; • progetti di rilievo nazionale ed internazionale finalizzati allo sviluppo scientifico e tecnologico dell'ingegneria della qualità e dell'innovazione. Per quanto concerne la ricerca applicata le linee strategiche seguite riguardano: • Metodiche, strumenti per l'innovazione, la qualità, il miglioramento delle performance aziendali; • Gestione per Processi sviluppata in contesti diversificati; • Sistemi Integrati Qualità, Ambiente, Sicurezza, Sostenibilità. Il Consorzio QUINN è una struttura professionale con al vertice un rappresentante della componente accademica dell'Università di Pisa (discipline ingegneristiche) e gestito dal Direttore operativo con comprovata esperienza manageriale. QUINN opera quindi con un pool di professionisti che, con background multidisciplinare e approccio per «commessa», presidiano i principali ambiti di intervento: • il recupero di efficienza dei processi organizzativi; • la capitalizzazione dell'ascolto dei clienti e delle lessons learned; • il miglioramento continuo delle performance di unità operative e key people; • l'evoluzione dei sistemi di gestione Qualità, Ambiente e Sicurezza verso la sostenibilità. I componenti del pool, oltre ad operare personalmente sul campo, attivano collaborazioni con esperti del mondo della ricerca e delle professioni, per portare a termine progetti e ricerche che creino valore tangibile per i Committenti. Gli incarichi di QUINN si caratterizzano per la relativa non convenzionalità degli obiettivi assegnati, dei metodi di lavoro utilizzati e per l'interdisciplinarietà delle competenze richieste; costante è la flessibilità di approccio per rispondere ad esigenze che evolvono anche durante l'iter progettuale e l'attenzione a coinvolgere le risorse del Cliente che possono contribuire al risultato finale. Tra le linee di intervento a supporto dell'Innovazione attivate da QUINN negli ultimi 15 anni evidenziamo i "Servizi di supporto alle Policy pubbliche", che per la realizzazione di interventi di supporto alle policy regionali toscane (2010-2014) per l'innovazione delle imprese si sono articolate in: • Organizzazione e gestione di un percorso d'incontri per i centri servizi e di trasferimento tecnologico aderenti alla Tecnorete della Regione Toscana; • Revisione catalogo dei servizi avanzati e qualificati, sua estensione all'internazionalizzazione; • Analisi del concetto e di esperienze di Dimostratore Tecnologico; • Linee guida per la Divulgazione Tecnologica nel Trasferimento Tecnologico; • Linee guida per la valutazione della performance dei laboratori di ricerca e trasferimento tecnologico e laboratori di prova/analisi; • Linee guida alle attività di Business-Matching / Matchmaking; • Studio di fattibilità per una società di seed capital per Toscana Life Sciences e collaborazione con le attività di incubazione di Siena (2006); • Studi di fattibilità per le policy di sostegno alla nascita di nuove imprese innovative - CCIAA Lodi, ARTI/Regione Puglia (2007- 2008); • Indagine sul sistema dei Parchi Scientifici e Tecnologici Italiani (2010); • Studio di fattibilità dell'incubatore universitario di Sesto Fiorentino (2009); • Progettazione condivisa con gli attori territoriali del progetto Innovation Building a Prato (2009); • Ricerca sulla nuova imprenditorialità e attrazione di investimenti nel distretto della nautica della Spezia (2007-2008); • Attività di supporto all'Incubatore tecnologico di Firenze finalizzate alla ricerca e accoglimento di nuove imprese (2007); • Analisi di opportunità di nuove imprese innovative derivanti dalla costruzione di un nuovo ospedale (2006-2007). 0.4 Fasi del Progetto La Pianificazione del Progetto, nell'ottica di un'efficace Project Management, è stata svolta suddividendo il progetto in fasi al fine di poter effettuare un miglior controllo. I passaggi da una fase all'altra del progetto, che rappresentano il ciclo di vita del progetto, comportano generalmente una forma di trasferimento tecnico o comunque un passaggio di consegne, dove gli output ottenuti da una fase a monte, prima di essere approvati per procedere alla fase a valle vengono analizzati per verificarne completezza e accuratezza. Quando si ritiene che i possibili rischi sono accettabili, può essere che una fase venga iniziata prima dell'approvazione dei deliverable della fase precedente. Per fasi si intendono sequenze identificabili di eventi composti da attività coerenti che producono risultati definiti e che costituiscono l'input per la fase successiva. Le fasi standard identificabili nella maggior parte dei progetti sono: • Concezione e Avvio del Progetto; • Pianificazione; • Esecuzione e Controllo; • Chiusura. In sostanza il ciclo di vita del progetto definisce quale lavoro tecnico deve essere svolto in ciascuna fase, quando devono essere prodotti i deliverable in ciascuna fase e come ciascun deliverable deve essere analizzato, verificato e convalidato, chi è coinvolto in ciascuna fase e come controllare e approvare ciascuna fase. Le fasi che hanno portato alla redazione del report, nel quale le informazioni raccolte sul campo sono state organizzate in modo tale da consentire l'inquadramento del fenomeno della Fabbrica Intelligente in Toscana, sono così individuabili: • FASE 0: Fase Preliminare Dopo aver ricevuto l'incarico da parte di IRPET per la redazione del report, il QUINN ha analizzato la fattibilità del progetto, in modo da prevenire un rischio di insuccesso e dare concretezza all'idea progettuale, e una volta verificata ha redatto la propria Offerta Tecnica. Dopo l'accettazione dell'Offerta da parte dell'Ente Committente, QUINN ha costituito il Team di Progetto incaricato a svolgere le attività progettuali, assegnando a ciascun componente le proprie responsabilità e mansioni. Grazie all'utilizzo di tecniche efficaci per la pianificazione, sono state programmate nel dettaglio tutte le attività da svolgere, al fine di completare il report entro il termine fissato. • FASE 1: Comprensione del Contesto di riferimento In questa fase l'obiettivo centrale era rappresentato dalla comprensione del contesto del progetto, il Team di Progetto rispetto al contesto imprenditoriale italiano ha svolto un'analisi interna e una esterna, che hanno permesso di inquadrare il tema della "Fabbrica Intelligente". Partendo dalle origini prettamente letterarie del concetto, è stata illustrata l'evoluzione industriale che ha preceduto questo fenomeno, successivamente sono stati analizzati i macro trend socio-economici che hanno maggiore impatto sull'industria che stanno caratterizzando l'attuale scenario industriale, concludendo infine con la presentazione delle varie iniziative comunitarie e nazionali a sostegno della ripresa manifatturiera attraverso la "Fabbrica Intelligente". • FASE 2: Esplorazione del Concetto nel Panorama Internazionale Durante questa fase, svolta quasi in parallelo con la precedente, sono state analizzate le varie declinazioni al concetto di Fabbrica Intelligente e congiuntamente ricercati i trend e le tecnologie abilitanti. Attraverso un esercizio di Forecasting Tecnologico, osservando molteplici studi condotti da un altrettanto numero di esperti, sono stati identificati i trend attuali e quelli emergenti connessi alla Fabbrica Intelligente, con i conseguenti impatti sulle aziende e sulla forza lavoro. Alla fine sono stati ricercati alcuni casi di Fabbrica Intelligente, o di Industria 4.0 che dir si voglia, sviluppati da diverse aziende nel mondo. • FASE 3: Studio dell'Applicazione del Modello nella Regione Toscana Nello svolgimento di questa fase, si è passati allo studio degli ambiti prioritari della domanda e dell'offerta di tecnologie per la Fabbrica Intelligente nella Regione Toscana, per come identificata all'interno della SSS, focalizzandoci sulle tecnologie connesse all'automazione, alla meccatronica e alla robotica. Successivamente si è passati ad individuare possibili legami tra gli ambiti tecnologici analizzati e lo sviluppo di soluzioni tecnologiche funzionali ai processi produttivi, "in termini di velocizzazione sicurezza e controllo dei processi, della sostenibilità ed economicità degli stessi, nonché dell'estensione della capacità di azione". Si è arrivati infine a delineare il panorama della diffusione del modello della Fabbrica intelligente nelle imprese del sistema produttivo toscano, grazie all'analisi della diffusione fra le aziende produttrici e utilizzatrici delle tecnologie correlate, attraverso il merging di due DB di imprese Toscane stilati da enti qualificati, interviste in profondità e telefoniche, e infine attraverso l'organizzazione di due Focus Group. • FASE 4: Realizzazione Conclusiva del Report La quarta e ultima fase ha portato alla redazione finale del report, nel quale le informazioni sia di carattere quantitativo, ma soprattutto qualitativo raccolte sul campo sono state elaborate in maniera tale da evidenziare la diffusione del fenomeno nel tessuto produttivo toscano. I risultati conseguenti all'elaborazione di tali informazioni risultano essere: - la descrizione di casi studio sia di utilizzatori che di sviluppatori, con la presentazione delle peculiarità di adozione delle tecnologie che prefigurano possibili modelli di adozione alla Fabbrica intelligente; - la mappatura della diffusione delle tecnologie abilitanti della Fabbrica intelligente in Toscana con riferimento alle imprese utilizzatrici; - inquadramento del livello di maturità dei diversi settori produttivi toscani rispetto alle tecnologie target identificate dal Cluster Fabbrica Intelligente; - raccomandazioni di policy. 0.5 Strumenti e Tecniche utilizzate nell'ambito del Progetto Per una più facile comprensione dei contenuti, in questo paragrafo vengono descritti in forma teorica gli strumenti e le tecniche gestionali, che il Team di Progetto ha utilizzato per lo svolgimento delle attività progettuali, elencandoli in funzione dell'impiego nelle diverse fasi del progetto. Nel proseguo del lavoro, dove verranno presentati i contenuti del report, saranno illustrate le modalità operative realmente avviate nell'applicazione dei vari strumenti. 0.5.1 FASE 0: FASE PRELIMINARE In questa fase preliminare il PM detiene la responsabilità della pianificazione, integrazione ed esecuzione dei piani. La pianificazione, ovvero il P nella logica PDCA, è fondamentale a causa della breve durata del progetto e per l'assegnazione delle risorse. L'integrazione risulta altrettanto importante, altrimenti ogni soggetto sviluppa la propria pianificazione senza tener conto degli altri. La pianificazione è la definizione di cosa fare, quando va fatto e da chi; è destinata in linea teorica a: • "acquisire" gli obiettivi del processo; • individuare le fasi o meglio processi, diretti ed indiretti, che consentono di raggiungere gli obiettivi prefissati ovvero stesura della "mappa" di processi e delle interazioni; • scegliere metodi per il do, il check e l'act, il personale, i materiali e/o le informazioni, le macchine/tecnologie e/o attrezzature per ogni processo operativo aggredibile; • provare, sperimentare, verificare là dove non si sa; • emettere specifiche, standard; • occuparsi delle eventuali attività di comunicazione e addestramento. Per un PM è fondamentale utilizzare tecniche di pianificazione efficaci, e di seguito sono descritte quelle utilizzate durante tutte le fasi del progetto: • Work Breakdown Structure (WBS); • Matrice RACI; • Diagramma di Gantt; • Flow Chart (FC). 0.5.1.1 Work Breakdown Structure (WBS) La WBS (Work Breakdown Structure) è una forma di scomposizione (o disaggregazione secondo una struttura ad albero) strutturata e gerarchica del progetto che si sviluppa tramite l'individuazione di sotto-obiettivi e attività definite ad un livello di dettaglio sempre maggiore. Scopo della WBS è di identificare e collocare all'ultimo livello gerarchico pacchetti di lavoro (Work Package) chiaramente gestibili e attribuibili a un unico responsabile, affinché possano essere programmati, schedulati, controllati e valutati. La WBS è uno strumento di fondamentale importanza nel Project Management, infatti fornisce le basi per sviluppare una matrice delle responsabilità e successivamente effettuare lo scheduling . Attraverso la suddivisione dei deliverable in componenti più piccoli definiti "work package" si semplifica la gestione del progetto. Il work package infatti rappresenta il gradino più basso della gerarchia WBS ed è tramite questo che si possono definire in maniera più affidabile schedulazione dei tempi e costi. La suddivisione per livello procede riducendo ampiezza e complessità fino a quando non perviene a una descrizione adeguata e inequivocabile della voce finale. La Work Breakdown Structure (WBS), ha permesso di individuare, ai vari livelli, tutte le attività di sviluppo del progetto. La logica di scomposizione utilizzata è stata quella del processo di lavoro, questa logica consiste nel suddividere il progetto in relazione alla sequenza logica delle attività realizzative che verranno messe in opera, e ci ha permesso di individuare, per ogni pacchetto di lavoro: • scopo del lavoro con obiettivi e vincoli; • il processo di lavoro e le sue interfacce; • le risorse assegnabili e assegnate; • i limiti di tempo. 0.5.1.2 Matrice RACI La Matrice RACI è uno strumento che viene utilizzato per l'individuazione delle responsabilità all'interno di un progetto. Essa indica alle risorse umane coinvolte le mansioni e il grado di responsabilità all'interno del progetto, inoltre fornisce indicazioni specifiche su come comportarsi nel gestire le relazioni e responsabilità di altre persone coinvolte, rappresentando un forte elemento di motivazione per le stesse. La matrice di responsabilità nella sua intersezione indica il tipo di persona a cui è delegata una persona o un'unità organizzativa. Generalmente vengono utilizzate delle sigle che esprimono le responsabilità, le più utilizzate sono quelle corrispondenti all'acronimo RACI: • R: "Responsabile": è il ruolo di colui che è chiamato ad eseguire operativamente il task (per ogni task è possibile avere più Responsabili); • A: "Approva": è aziendalmente il ruolo a cui riporta il Responsabile o che comunque dovrà svolgere un ruolo di supervisione del lavoro del/dei Responsabili(ci può essere un solo A per ogni attività); • C: "Coordinamento": è il ruolo di chi dovrà supportare il/i Responsabile nello svolgimento del task fornendogli informazioni utili al completamento del lavoro o a migliorare la qualità del lavoro stesso • I: "Informato": è il ruolo di chi dovrà essere informato in merito al lavoro del/dei Responsabile e che dovrà prendere decisioni sulla base delle informazioni avute. 0.5.1.3 Diagramma di Gantt La complessità sempre maggiore di molti progetti, la gestione di grandi quantità di dati e le scadenze rigide incentivano le organizzazioni verso l'utilizzo di metodi per la pianificazione delle attività su scala temporale. Le tecniche di scheduling più comuni sono: • Diagrammi a barre o di Gantt; • Tecniche reticolari: - PDM (Precedence Diagram Method); - ADM (Arrow Diagram Method); - PERT (Program Evaluation and Review Technique); - CPM (Critical Path Method). • Approccio della Catena Critica CCPM (Critical Chain Project Management). La tipologia di rappresentazione utilizzata nel presente report, è il diagramma a barre (di Gantt), un mezzo molto semplice e intuitivo per visualizzare le attività o gli eventi tracciati in relazione al tempo, come nel nostro caso, o al denaro. La rappresentazione utilizzata riguarda l'evoluzione del progetto su scala temporale, dove ogni barra rappresenta un'attività la cui lunghezza è proporzionale alla durata dell'attività stessa, la quale è collocata sulla scala temporale. Il diagramma di Gantt permette perciò di definire cosa fare in una determinata quantità di tempo, e stabilisce inoltre eventi o date chiave (milestone) di progetto e un riferimento per il controllo dell'avanzamento. Il vantaggio che ha apportato sta nell'ottimizzazione delle risorse, attraverso una contemporanea visualizzazione delle attività, delle tempistiche e dei soggetti coinvolti. Ha comunque tre limitazioni principali, infatti non illustra: • le interdipendenze tra le attività; • risultati di un inizio anticipato o tardivo nelle attività; • l'incertezza inclusa nell'esecuzione dell'attività. 0.5.1.4 Flow Chart (FC) o Diagramma di Flusso Il Diagramma di Flusso, detto anche Flow Chart, rappresenta una modellazione grafica per rappresentare il flusso di controllo ed esecuzione di algoritmi, procedure o istruzioni operative. Esso consente di descrivere in modo schematico ovvero grafico: • le operazioni da compiere, rappresentate mediante forme convenzionali (ad esempio : rettangoli, rombi, esagoni, parallelogrammi, .), ciascuna con un preciso significato logico e all'interno delle quali un'indicazione testuale descrive tipicamente l'attività da svolgere; • la sequenza nella quale devono essere compiute, rappresentate con frecce di collegamento. Tale strumento permette pertanto di visualizzare tutto o parte del processo e di capire il collegamento delle sequenze necessarie a svolgere una funzione. In particolare permette di individuare i punti del processo in cui si verifica l'effetto che si vuole analizzare e di risalire il flusso fino alle origini delle cause potenziali. 0.5.2 FASE 1: COMPRENSIONE DEL CONTESTO DI RIFERIMENTO Tutti i progetti si interfacciano con il mondo reale, quindi occorre considerare i diversi contesti in cui il progetto converge. Alla luce di questo il PM ha incaricato i componenti del Team di Progetto di effettuare, un'analisi del contesto di riferimento, svolgendo un esercizio di Forecasting Tecnologico, attraverso la Ricerca sul Web, allo scopo di realizzare: • un'Analisi Interna; • un'Analisi Esterna; • l'Analisi SWOT. 0.5.2.1 Ricerca sul Web Lo strumento che normalmente viene utilizzato per effettuare una ricerca sul web è il cosiddetto motore di ricerca, il quale è basato sull'inserimento di una o più parole-chiave le cui occorrenze vengono cercate all'interno dei vari documenti presenti in rete. Bisogna dire che il processo di ricerca e di selezione delle informazioni è molto più complesso di quanto si possa pensare, per l'appunto possiamo differenziare la ricerca delle fonti in due modi: • Fonti Istituzionali (es. Regolamenti Comunitari, EUROSTAT, ISTAT, etc.); • Fonti Pubbliche (es. Unioncamere); • Enti di natura scientifica (es. società di consulenza). La conoscenza precedente dell'argomento influenza e da maggiori garanzie di successo nella ricerca, in questo modo l'utente è in possesso di termini specifici che può utilizzare direttamente come keywords. Gli elementi per impostare una soddisfacente ricerca sul web possono essere riassunti in: • chiarezza dell'oggetto, quesito o obiettivo della ricerca; • tempo e capacità dell'utente che effettua la ricerca; • qualità delle risposte in termini di: - adeguatezza, completezza ed esaustività; - affidabilità e autorevolezza della fonte; - grado di aggiornamento. 0.5.2.2 Forecasting Tecnologico Il Forecasting Tecnologico è un settore dei Technology Future Studies che racchiude varie strumenti volti ad anticipare e a capire la direzione potenziale, le caratteristiche e gli effetti del cambiamento tecnologico. Sono identificabili 9 cluster: 0.5.2.2.1 Expert Opinion Questa famiglia comprende tecniche basate sull'opinione di esperti, e include la previsione o la comprensione dello sviluppo tecnologico attraverso intense consultazioni tra vari esperti in materia. Uno dei metodi più diffusi è sicuramente il Metodo Delphi. Questo metodo combina richiesta di pareri riguardanti la probabilità di realizzare la tecnologia proposta e pareri di esperti in materia dei tempi di sviluppo. Gli esperti si confrontano e si scambiano pareri in base alle proprie previsioni tecnologiche, in modo da arrivare a una linea comune. 0.5.2.2.2 Trend Analysis L'Analisi del Trend comporta la previsione attraverso la proiezione dei dati storici quantitativi nel futuro. Questa analisi comprende modelli sia di previsione economica che tecnologica. Una tecnologia di solito ha un ciclo di vita composto di varie distinti fasi. Le tappe includono tipicamente • una fase di adozione • una fase di crescita • una fase di sviluppo • una fase di declino. L'analisi cerca di identificare e prevedere il ciclo della innovazione tecnologica oggetto dello studio. 0.5.2.2.3 Monitoring and Intelligence Methods Questa famiglia di metodi (Monitoring e le sue variazioni: Environmental Scanning and Technology Watch) ha lo scopo di fare acquisire consapevolezza dei cambiamenti all'orizzonte che potrebbero avere impatto sulla penetrazione o ricezione delle tecnologie nel mercato. 0.5.2.2.4 Statistical Methods Fra i metodi statistici, i più diffusi sono l'Analisi di Correlazione e l'Analisi Bibliometrica. • L'Analisi di Correlazione anticipa i modelli di sviluppo di una nuova tecnologia correlandola ad altri, quando lo stesso modello è simile ad altre tecnologie esistenti. • L'Analisi Bibliometrica si concentra sullo studio della produzione scientifica (pubblicazioni, etc.) presente in letteratura. In particolare risulta utile al fine di: - sviluppare conoscenza esaustiva del tema oggetto di studio; - analizzare i database da usare, da cui trarre informazioni e dati; - acquisire conoscenza sulle informazioni dei brevetti, fonte importante per acquisire informazioni uniche dal momento che spesso i dati e le informazioni rintracciabili nei brevetti non sono pubblicati altrove; - definire la strategia di ricerca; - utilizzare gli strumenti di analisi, attraverso software di data e text mining efficienti; - analizzare i risultati, grazie alle informazioni di vario tipo da cui gli esperti possono estrarre informazioni strategiche. 0.5.2.2.5 Modelling and Simulation Per "modello" si intende una rappresentazione semplificata delle dinamiche strutturali di una certa parte del mondo "reale". Questi modelli possono mostrare il comportamento futuro dei sistemi complessi semplicemente isolando gli aspetti essenziali di un sistema da quelli non essenziali. Tra i principali metodi: • Agent Modeling, tecnica che simula l'interazione dei diversi fattori in gioco; • System Simulation, tecniche che simulano la configurazione di un sistema a fronte dell'azione di possibili variabili aggiuntive. 0.5.2.2.6 Scenarios Costituiscono rappresentazioni alternative delle tecnologie future, sulla base di considerazioni e condizioni ulteriori a seguito di possibili cambiamenti delle condizioni al contorno inizialmente ipotizzate. 0.5.2.2.7 Valuing/Decision/Economic Methods Tra i metodi il più popolare è il "Relevance Tree Approach": le finalità e gli obiettivi di una tecnologia proposta sono suddivisi tra: • obiettivi prioritari; • obiettivi di basso livello. Grazie ad una struttura ad albero è possibile identificare la struttura gerarchica dello sviluppo tecnologico. In base ad esso viene eseguita la stima delle probabilità di raggiungere gli obiettivi ai vari livelli di sviluppo tecnologico. 0.5.2.2.8 Descriptive and Matrices Methods In crescente affermazione in questa famiglia di metodi è la definizione di Roadmap dello sviluppo di tecnologie, che consiste nel proiettare i principali elementi tecnologici di progettazione e produzione insieme alle strategie per il raggiungimento di traguardi desiderabili in modo efficiente Nel suo contesto più ampio, una Roadmap tecnologica fornisce una "vista di consenso o visione del futuro" della scienza e della tecnologia a disposizione dei decisori. 0.5.2.3 Analisi SWOT L'analisi SWOT è uno strumento di pianificazione strategica semplice ed efficace che serve ad evidenziare le caratteristiche di un progetto o di un programma, di un'organizzazione e le conseguenti relazioni con l'ambiente operativo nel quale si colloca, offrendo un quadro di riferimento per la definizione di strategie finalizzate al raggiungimento di un obiettivo. La SWOT Analysis si costruisce tramite una matrice divisa in quattro campi nei quali si hanno: • Punti di Forza (Strengths); • Punti di Debolezza (Weaknesses); • Opportunità (Opportunities); • Minacce (Threats). L'Analisi SWOT consente di distinguere fattori esogeni ed endogeni, dove punti di forza e debolezza sono da considerarsi fattori endogeni mentre minacce e opportunità fattori esogeni. I fattori endogeni sono tutte quelle variabili che fanno parte integrante del sistema sulle quali è possibile intervenire, i fattori esogeni invece sono quelle variabili esterne al sistema che possono però condizionarlo, su di esse non è possibile intervenire direttamente ma è necessario tenerle sotto controllo in modo da sfruttare gli eventi positivi e prevenire quelli negativi, che rischiano di compromettere il raggiungimento degli obiettivi prefissati. I vantaggi di una analisi di questo tipo si possono sintetizzare in 3 punti: • la profonda analisi del contesto in cui si agisce, resa possibile dalla preliminare osservazione e raccolta dei dati e da una loro abile interpretazione si traduce in una puntuale delineazione delle strategie; • il raffronto continuo tra le necessità dell'organizzazione e le strategie adottate porta ad un potenziamento della efficacia raggiunta; • consente di raggiungere un maggiore consenso sulle strategie se partecipano all'analisi tutte le parti coinvolte dall'intervento. 0.5.3 FASE 2: ESPLORAZIONE DEL CONCETTO NEL PANORAMA INTERNAZIONALE Anche in questa fase, dove l'obiettivo era quello di ricercare nella letteratura le varie declinazioni al concetto di "Fabbrica Intelligente" e le tecnologie attuali ed emergenti connesse ad essa, è stata svolta un'analisi degli organismi specializzati nel Foresight Tecnologico e di profondi conoscitori del settore dell'automazione industriale, per studiare le tendenze tecnologiche per i prossimi anni. 0.5.4 FASE 3: STUDIO DELL'APPLICAZIONE DEL MODELLO NELLA REGIONE TOSCANA Durante lo svolgimento di questa fase, si è intrapreso un percorso di raccolta delle informazioni legate al tema della "Fabbrica Intelligente" nel tessuto produttivo toscano, che è stato strutturato in 3 diverse attività: • Mappatura della Diffusione delle Tecnologie in Toscana attraverso il merging dei DB "Osservatorio sulle imprese high-tech della Toscana" e delle "Aziende eccellenti" dell'IRPET con l'estrapolazione dei dati da Fonti Aziendali: questa attività verrà discussa nel dettaglio nel proseguo del lavoro; • Interviste in Profondità e Interviste Telefoniche; • Focus Group. 0.5.4.1 Intervista L'intervista semi-strutturata è l'equivalente del questionario, con domande predefinite dal ricercatore in fase di preparazione dello strumento; a differenziare i due metodi è il modo di presentazione, orale nel caso dell'intervista, scritto nel caso del questionario, che assicura maggiore capacità di adattamento all'interlocutore e di valorizzazione di tutte le opportunità di raccolta d'informazioni "non strutturate". L'intervista ha quindi il vantaggio di essere un metodo versatile, che è possibile utilizzare in ogni stadio della progettazione, dalla fase di esplorazione a quella di validazione ex post delle informazioni. A differenza dei questionari, la presenza del ricercatore allontana l'eventualità che il soggetto interpreti in maniera errata le domande o che si trovi in imbarazzo perché non comprende quanto gli viene richiesto; inoltre, nel caso di una risposta non attinente, il ricercatore può riformulare la domanda. Il vantaggio maggiore rispetto al questionario consiste nel fatto che l'intervista non registra la stessa alta percentuale di mancati recapiti da parte dei soggetti contattati; di conseguenza, i dati raccolti godono di maggiore validità . A differenza dell'intervista personale, l'intervista telefonica appare concepibile nell'ambito di un sondaggio, offrendo vantaggi legati soprattutto al costo e al tempo di esecuzione, nonostante la mancanza di un'interazione faccia a faccia limita la "competenza comunicativa" () dell'intervistatore e dell'intervistato. Durante l'intervista telefonica l'intervistato non può prendere visione diretta del questionario, come accade nel sondaggio tramite intervista personale, e non consente all'intervistatore il ricorso a tecniche che comportano strumenti da sottoporre visivamente all'intervistato, come forme di gadgets o scale auto-ancoranti. Dal punto di vista dell'intervistatore, si dispone di meno informazioni per valutare se l'intervistato ha capito davvero la domanda; di conseguenza tenderà a ridurre gli interventi opportuni per chiarire il testo. Non è possibile integrare il resoconto dell'intervista con informazioni relative all'ambiente fisico in cui essa ha luogo e al comportamento non verbale dell'intervistato. 0.5.4.2 Focus Group Interviste rivolte a un gruppo omogeneo di 7/12 persone, la cui attenzione è focalizzata su di un argomento specifico, che viene scandagliato in profondità. Un moderatore (spesso definito: 'facilitatore') indirizza e dirige la discussione fra i partecipanti e ne facilita l'interazione, anche attraverso la predisposizione di un "sceneggiatura" finalizzata a fare emergere le peculiari conoscenze ed esperienze, nonché finalizzata a favorire il confronto "creativo". Ogni partecipante ha l'opportunità di esprimere liberamente la propria opinione rispetto all'argomento trattato ma nel rispetto di alcune "regole del gioco" introdotte dal facilitatore; la comunicazione nel gruppo è impostata in modo aperto e partecipato, con un'alta propensione all'ascolto. Il contraddittorio positivo che ne consegue consente di far emergere i reali punti di vista, giudizi, pre-giudizi, opinioni, percezioni e aspettative del pubblico di interesse in modo più approfondito di quanto non consentano altre tecniche di indagine . Nella tabella seguente, sono riportati i metodi di Forecasting Tecnologico , suddivisi nei 9 cluster definiti dal "MIT- Massachusetts Institute of Technology", indicando quali sono stati impiegati nelle attività progettuali e in che fase. 0.5.5 FASE 4: REALIZZAZIONE CONCLUSIVA DEL REPORT Durante la fase conclusiva di redazione finale del report, il Team di Progetto si è concentrato nell'elaborazione dei dati raccolti durante le fasi precedenti attraverso strumenti grafici che hanno facilitato l'attività di capitolazione delle informazioni, tra cui: • Istogrammi; • Diagramma a Torta; • Mappatura con metrica a "semaforo" : questa tecnica di rappresentazione è stata ideata dal Team di Progetto. Le sue peculiarità saranno illustrate più nel dettaglio successivamente. • Modello di Maturità (Maturity Model). 0.5.5.1 Istogramma L'istogramma è la rappresentazione grafica di una distribuzione in classi di un carattere continuo. Un istogramma consente di rappresentare i dati attraverso rettangoli di uguale base ed altezza differente a seconda dei dati stessi, ed in un solo colpo d'occhio permette di capire se una "quantità" è maggiore, minore o uguale di un'altra semplicemente guardando l'altezza dei rettangoli. 0.5.5.2 Diagramma a Torta Un Diagramma a Torta è una tecnica di rappresentazione che in un modo semplice e diretto è evidenzia il peso delle varie componenti di una grandezza. In questo modo la grandezza in questione viene rappresentata sottoforma di cerchio i cui spicchi hanno un angolo e di conseguenza, un arco, proporzionale alle varie componenti. 0.5.5.3 Modello di Maturità Tale modello definisce il livello di maturità di un'entità. L'aspetto caratteristico di tale rappresentazione è il fatto di essere organizzato per livelli. Il modello definisce diversi profili di maturità crescente, indicando implicitamente anche una strategia molto generale di miglioramento che si basa sull'introduzione di quelle pratiche che permettono solitamente ad un'azienda, di muoversi da un livello di maturità al successivo.
INTRODUZIONE KRAMSKOJ : L'ARTE L'inizio dell'attività di Kramskoj riguarda gli anni 60 del XIX secolo: è un periodo in cui la Russia vede il primo sviluppo della borghesia e, conseguentemente, di avanzate lotte sociali da parte delle truppe popolari. Ciò si riflette in tutti gli aspetti del vivere russo, dopo le riforme apportate dallo zar a favore dei feudatari. Manifesta negli stati d'animo della massa popolare, questa lotta viene condotta da intellettuali di estrazione modesta, tra i quali il nostro artista. La sua vocazione artistica risiede proprio nel rappresentare le immagini e nel 1857 entra nell'Accademia degli artisti per apprendere la grande arte del passato. Ci sono pervenuti alcuni articoli e una vasta corrispondenza di Kramskoj con artisti, scrittori, critici, in cui l'arte rappresenta l'argomento principale di queste lettere. Una considerevole quantità della corrispondenza è formata dalle lettere del pittore a P.M. Tretjakov, fondatore della galleria nazionale dell'arte russa. Egli è il primo pittore ad aiutare Tretjakov in questa grande impresa: le sue lettere lo orientano nella scelta dei quadri per la sua galleria, secondo gli obiettivi e le caratteristiche dell'opera degli artisti russi. Inoltre, particolare attenzione merita una parte della corrispondenza dedicata alle lettere destinate ai redattori giornalistici A.N.Aleksandrov e a A.S. Suvorin. Spinto da un appassionato desiderio di facilitare la pubblicazione delle sue idee sull'arte ma completamente disinteressato ad ottenere fama, Kramskoj dona a questi uomini il suo pensiero, riassume la sua opera creativa in un modello, mantiene la tendenza democratica dell'arte propagandistica con fervore, un'arte diretta al servizio del popolo, e non della classe borghese, più propensa a preoccuparsi del proprio guadagno e della propria popolarità. In Occidente gli ideali democratici si rivelano limitati ai soli paesi con interessi inerenti alla borghesia, in Russia trovano un senso gli ideali incarnatesi soprattutto nella società oppressa e interessata al trionfo della democrazia. Questo pone le fondamenta per portare le questioni sullo sviluppo sociale al centro dell'attenzione degli intellettuali progressisti: proprio in Russia sorge un'arte capace di riflettere le aspirazioni e gli ideali dell'uomo contemporaneo. In questa posizione, venutosi a creare un punto di riferimento nella sua teoria estetica, l'arte, in particolare quella plastica, acquisisce il significato di una specifica attività umana. In una delle sue lettere egli stabilisce così la facoltà dell'arte plastica: ". ogni uomo abbastanza intelligente, vivendo nel mondo, sforzandosi di usare la lingua umana, sa molto bene che ci sono cose che il linguaggio non può assolutamente esprimere. Egli sa che proprio l'espressione del viso viene in aiuto a tempo debito, altrimenti la pittura non ha ragione di esistere". Questa sua espressione può essere facilmente compresa in maniera errata, come negazione del ruolo chiave delle idee nella creazione dell'opera artistica, ma naturalmente questo non è sminuire il ruolo dell'arte; anzi, egli porta come esempio la fortuna dell'arte nell'Antica Grecia e nel Rinascimento europeo a dimostrazione che, come allora, l'arte raggiunge l'apice perché partecipa alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita popolare e esprime i desideri,gli ideali e la fede del popolo. Prima di tutto egli considera lo sviluppo dell'arte democratica nella sua liberazione dal potere "feudale" dell'Accademia."Penso, - scrive già nel 1886, - che in ciò si racchiude l'eliminazione di tutte le anomalie a favore di una sana crescita". C'è però da considerare che la liberazione della personalità cela in sé un nuovo pericolo per l'arte democratica: il pericolo dell'individualismo. Per salvare l'arte da questa calamità il pittore propone come uno dei capisaldi fondamentali dell'arte la sottomissione dell'aspirazione individuale del pittore a favore dell'interesse del popolo. Ottenendo la libertà della rappresentazione artistica, egli si pone la domanda: "libertà da cosa?". E risponde: "Naturalmente, solo dalla tutela amministrativa, tuttavia è necessario che il pittore presti la più alta obbedienza e dipendenza.agli istinti e ai bisogni del popolo, all'armonia del sentimento interiore e al moto personale al servizio degli altri". Ciò che Kramskoj definisce "armonia del sentimento interiore e moto personale al servizio degli altri", noi la chiamiamo unità dialettica, ovvero gli interessi personali e sociali dell'uomo. E' notevole che egli viva in un'epoca caratterizzata da opposte tendenze, la rottura tra personale e sociale, poiché nell'unità dell'una e dell'altra egli individua il caratteristico limite della natura umana, la sua naturale, normale manifestazione. Basta quindi soffermarsi su queste straordinarie parole, scritte dall'artista F.A. Vasilev: "Voi umani siete la dimostrazione del mio pensiero, e cioè che la vita individuale, felice o infelice che sia, cominci con un immenso, sconfinato spazio, in cui i suoi ideali sono comuni a tutta l'umanità. E ci sono degli interessi, capaci di far vibrare il cuore, che pensano quotidianamente, che vanno oltre le gioie e le tristezze familiari,e sono di gran lunga più profondi". Se l'unità del personale e del sociale è stata definita come caratteristica della natura umana, allora per Kramskoj la sottomissione dell'arte agli interessi del popolo non significa assolutamente porre violenza alla personalità umana, il limite della libertà creativa dell'uomo, la libertà della creazione artistica è per il democratico pittore il libero Sviluppo dell'artista, il suo impegno sociale. Ma l'artista può servire il popolo solo conoscendo i suoi interessi, solo incarnando i suoi ideali nelle immagini, in modo chiaro e affine. Alla radice del problema occorre esaminare ancora una condizione avanzata dal pittore, quella sul carattere nazionale dell'arte: "Mi batto per l'arte nazionale. Penso che non esista altra forma di arte che quella nazionale". Egli pensa bene, che la forma nazionale stabilisca la possibilità di fare un'arte comprensibile e accessibile alla massa, anche se non racchiude la possibilità d'espressione di tutta l'umanità: secondo il pittore, ciò penetra nell'arte di quella nazione che si trova "davanti allo sviluppo dell'umanità". Un'altra regola generale che egli stabilisce in base all'analisi dell'esperienza riguarda la tendenziosità dell'arte, considerandola non nel senso di manifestazione delle sue idee astratte, prese da fuori; ma come rivelazione estetica del rapporto dell'artista con la realtà, che gli appartiene, poiché egli è uomo e cittadino. L'arte cessa di essere parziale, quando nell'artista muore la percezione della sua appartenenza all' "idea della vita umana", allora l'arte, come ad esempio nell'arte greca, nel Rinascimento, nell'arte fiamminga, privata della tendenziosità, "degenera nel puro diletto, nel lussuoso ornamento, così finisce col diventare artificiosa e muore". Il suo pensiero sullo scopo sociale dell'arte va ricercato proprio negli stretti rapporti con l'impostazione della questione nello specifico, essa fa parte dell'educazione morale dell'uomo, in particolare l'arte realizza la sua funzione educativa, il suo specifico. "L'artista, - scrive - non deve dare consigli edificanti", ma "rappresentare immagini, vive, reali, e su questa strada arricchire gli uomini": basandosi sulla realtà, l'arte attinge al suo stesso modello ed esempio, e aiuta l'uomo a essere migliore. Nell'impostazione della questione sul ruolo educativo dell'arte egli studia l'autorità dell'estetica illuminista, da Diderot, che aveva come ideale l'edificante arte di Greuze, prende a modello l'opera di L.N.Tolstoj e di I.E.Repin . Comprendendo giustamente la questione dell'arte pubblica come educativa, il pittore sbaglia quando pensa che l'educazione morale possa risolvere comodamente le contraddizioni della vita: ciò si ricollega con la sua incomprensione per la natura antagonista fra classi nella società contemporanea. Non per niente egli riporta con stupore il racconto di M.E. Saltykov – Ščedrin1: "il carassio idealista"2, dove si riconosceva nel personaggio. La sua idea sul cammino guida verso il riassetto sociale è, così, utopistico. A sua volta ciò, naturalmente, deriva dall'interpretazione idealistica della storia, caratteristica della concezione illuminista. Ma non bisogna trarre la conclusione che l'arte, e in primo luogo quella dei pittori realisti russi, non giochi un suo ruolo nella soluzione dei problemi sociali: chiarendo le vistose contraddizioni della realtà e insieme a queste manifestando nella lotta forze avanzate, formulando ideali democratici, l'arte russa contribuisce alla realizzazione della rivoluzione sociale e la sua forza è aspirare proprio ad arrivare fino all'origine, al realismo. Partendo dalla condizione fondamentale sulla natura dell'arte e dell'opera artistica,egli risolve la questione che riguarda la forma realistica nella tappa avanzata del suo sviluppo, manifestando costantemente il senso determinante dell'arte grandiosa. L'artista esorta a seguire l'arte del passato e quella a lui contemporanea: la rappresentazione artistica è sempre perfetta e può avverarsi solo se l'artista si sforza di rendere l'incarnazione della sua idea nel migliore dei modi: ". non gli scopi tecnici fanno progredire la tecnica, ma il perseguimento dell'incarnazione dell'idea". Nei giorni nostri una parte degli artisti pensa che la perfezione della produzione artistica ostacoli la percezione dell'arte di massa, e gli occorre un grande lavoro per chiarire il suo metodo formale affinché l'opera risulti comprensibile allo spettatore. E' interessante confrontare con quest'ultimo punto di vista il ragionamento di Kramskoj: "L'uomo riceve l'impressione dell'opera artistica solo attraverso gli occhi. Per inchiodare lo sguardo dello spettatore e richiamare la sua attenzione, è necessaria un'affascinante apparenza: in questo modo, se nel quadro c'è un non so che di persuasivo, penetra nel cuore dell'uomo, altrimenti la pittura non è comprensibile a tutti e spesso rimane nella sfera circoscritta degli amanti, degli intenditori, dei critici o di qualsiasi altro ruolo in cui l'arte pubblica risulta inoperosa". Così, secondo il pittore, l'eccellenza della forma artistica "è un'affascinante apparenza" ,vale a dire una condizione obbligatoria dell'arte di massa. Da autentico democratico, egli esprime fiducia per il senso estetico del popolo, dicendo che: " mai il signore si offenda di ciò che è semplice e non stupido, come la critica d'arte". Riconoscendo il parere di "migliaia di spettatori", "supreme autorità di giudizio per l'artista",egli parla in questi termini: "Chi fra tutti è più difficile accontentare? Gli uomini che si trovano tra due poli opposti di sviluppo: l'uomo semplice ma intelligente e il luminare". Nel concetto di " uomo semplice ma intelligente" si manifesta la sua profonda fiducia per il senso estetico, compreso nella stessa natura umana, corrotto dalla borghesia ignorante e dalla ricercata perfezione della persona illuminata. Tale è il suo atteggiamento riguardo alla questione del rapporto fra idea e forma nell'arte in generale; perciò i suoi sforzi si concentrano sull'elaborazione di questo problema a proposito dell'arte a lui contemporanea. Per lui il suo secolo è soprattutto un secolo "di conoscenza e di convinzione", quindi la prima esigenza che si presenta nell'arte contemporanea è l'attività creativa concepita non in rapporto alla comprensione intuitiva della realtà, capace di far fallire il pittore, ma in rapporto alla conoscenza scientifica delle imparziali leggi della natura. In queste parole è espresso il monito contro il soggettivismo, contro l'atteggiamento arbitrario nei confronti della natura, che conduce l'artista all'identificazione con il suo punto di vista distorto. Egli presta molta attenzione al problema che concerne la perfezione dell'arte e imposta la sua soluzione secondo il tipo di percezione che ha l'uomo contemporaneo. In termini scherzosi dice: "Vorrei soddisfare una mercantessa, che per niente non vorrebbe vedere sotto il naso Il "Nero". Cos'è questo "nero", che non vuole vedere la mercantessa? In concreto è la rappresentazione dell'ombra, e, nello stesso tempo, la percezione della tinta di colore nero come chiazza. Per principio, questa è la franchezza del procedimento artistico. La perfezione del procedimento artistico deve racchiudersi nell'impalpabilità del procedimento, realizzazione completa di tutti gli elementi della forma e contemporaneamente trasmissione del finissimo passaggio plastico e coloristico in forme realistiche. "Cosa occorre adesso, per non dire cose risapute? Non solo la mente occupa una posizione di rilievo, ma non deve anche farsi notare",".più è vicino alla verità, alla natura, più è impercettibile il colore". Egli ripete in continuazione che l'uomo contemporaneo è diverso da un modello coerente, da quegli "ingenui giganti" che dipinsero Velazquez e Rubens: ricordiamo ancora una volta che la sua è un'epoca di rottura con i vecchi principi e che questa crisi tocca l'animo umano; nella coscienza del pittore s'instaura un processo di sopravvalutazione di tutto ciò che pare incrollabile, che "ritorna" e che "è limitato", come se il conflitto interiore dell'uomo lo portasse definitivamente ad intraprendere la strada del dubbio e dell'esitazione. Egli vuole trasmettere e percepire non decisione, ma lavoro di coscienza. Sull'impostazione di tale questione psicologica egli è straordinariamente vicino a Tolstoj, personalità determinante per lo sviluppo generale del realismo russo in quel periodo: Černyševskij 3: definisce l'originalità dello psicologismo di Tolstoj "la dialettica dell'animo umano". Ciò si può dire sia per lo psicologismo dell'arte figurativa russa di questo tempo, stabilita teoricamente da Kramskoj, sia brillantemente personificata nella sua opera. Alla luce del problema, impostato in questo senso, deve cominciare a diventare chiara la ricerca della forma, capace di trasmettere la delicatissima fase di transizione, "la minima deviazione del piano di rilievo", del semitono nel luminismo e nel colorismo. Nell'organizzazione del suo pensiero estetico, occupa un posto importantissimo la questione sull'ideale dell'arte contemporanea: il senso estetico dell'Europa si sviluppa in quel tempo nel trionfo del vivere borghese, propenso a diventare l'inconfutabile norma del vivere umano; ciò contribuisce alla stabilizzazione dei rapporti borghesi, sui quali si è già detto sopra. Un'altra cosa che è già stata affrontata è la realtà russa, che penetra con il pathos della lotta di liberazione, generata dall'eroismo e dagli eroi: negando l'ideale come espressione del bello, "non evidente fra gli uomini", egli è estraneo alla negazione dell'ideale generale. Da democratico, egli sostiene ciò che ama e vuole il popolo:"da quanto so di quella parte di popolo che conosco (e di cui io faccio parte), questo è ciò che vuole: racconti eroici, e nient'altro"; perciò questi racconti non devono essere inventati, ma basati su eroi autentici. La loro autenticità è la dimostrazione " dell'esistenza reale della loro onestà e della loro schiettezza nel trionfo della verità". Quella della perfezione della creazione artistica ha rappresentato finora una delle questioni più discusse dell'arte sovietica, perciò sarebbe particolarmente interessante ricordare l'esatta definizione di limite di perfezione, dato da Kramskoj: "Osservando da molti anni compositori, pittori e architetti, so che in generale sbagliano quando, raggiunto il senso, la massima espressione, di solito pensano che è possibile ancora migliorare. E'questo appunto il concetto ed è un errore. Il concetto psicologico è tale che, se una volta la forma in questione manifesta il problema, ogni altra sarà solo peggiore [.] Se, attraverso il disegno e la lavorazione dettagliata, diventa in genere leggermente (e sottolineo: leggermente!) migliore, non sarà peggiore,ma maggiore, Dio me ne guardi!" . Con ciò noi ci imbattiamo nel giudizio scherzoso sulle eroine dal naso camuso del quadro di Kostandi "Gli uomini"4: "Non per controbattere, nella vita quei nasi lasciano profondamente a desiderare, ma nel quadro sono addirittura sospetti". Il ruolo di Kramskoj è importante non solo come teorico dell'arte, ma anche come critico degli avvenimenti artistici a lui contemporanei: fissando il corso dello sviluppo dell'arte russa a lui contemporanea, egli, con la stessa attenzione, segue il cammino dello sviluppo dell'arte in Europa, soprattutto in Francia, poiché, in quel periodo, Parigi è il centro attivo dell'arte in Europa. Sarebbe errato pensare che egli si accosti all'arte europea solo Dal punto di vista del suo superamento, anzi: tutte le lettere riguardo alle mostre che ha visto, senz'altro mantengono il pensiero su "a cosa corrisponde imparare". Egli riconosce la necessità per l'arte russa di uscire alla luce, così esclama: "Come fare per non perdere lungo il cammino il pregio più prezioso dell'artista, il cuore?" Ma è proprio nell'arte europea che egli non scorge il cuore e a questo proposito scrive: "Magari Patti5 ha il cuore? Ma perché, quando l'arte della borghesia consiste proprio nella negazione di questo pezzo di carne: ostacola il guadagno; è scomodo togliere di dosso la camicia al povero per mezzo delle truffe borghesi". Così, egli collega il carattere dell'arte contemporanea europea con la sua natura borghese, prendendo come riferimento il famoso artista spagnolo Fortuny6: "A volte la massa dei borghesi non può ricordare il suo nome più di una volta.eppure egli. è il loro portavoce". E'possibile comprendere cosa vuol dire Kramskoj dalle sue seguenti parole: "Non c'è persona che ha degli scopi sull'arte da portare avanti. ma dove sono? Non credete più a questi. E' meglio! Le opinioni dominanti, ovvero la loro assenza, è elevata a principio." In mancanza degli ideali comuni l'arte si chiude nell'ambito dei suoi obiettivi professionali e tutti i suoi sforzi si concentrano nel raggiungimento del virtuosismo: gradualmente il ruolo dell'arte si riduce alla funzione di puro svago, decorazione, che accontenta il gusto del borghese. Nel corso dell'arte europea comincia il periodo in cui, "tutti diventano uomini illuminati, perfino i maiali, in qualità d'illuminati, ritengono che il loro parere sia straordinariamente saggio e sono tutti obbligati ad accettarlo, non si può essere da meno, sebbene uno sia al corrente anche degli altri". I gusti borghesi, ovvero "la voce dell'aurea mediocrità", come la definisce il pittore, si prendono il potere nei confronti dell'arte: così accade che un talento come Fortuny si riveli, senza averlo previsto, portavoce dei gusti della borghesia, che può anche non sapere il suo nome. Tale è, fatte poche eccezioni, l'arte che si presenta alle mostre del Salone parigino. Giustamente Kramskoj rileva in quest'arte, che travisiamo in bellezza accademica, la "sfrontatezza" del rilievo e del colore, guarda con desolazione agli entusiasmi nei confronti di quest'arte da quattro soldi, che è molto simile ai grandi monumenti del passato. Egli scrive a proposito del Salone sulla mutata condizione dell'innovazione artistica in un unico stimolo, come dall'arena di una lotta concreta tra artisti. Ed ecco che, nella stessa corrente artistica europea, nasce un movimento che si contrappone al Salone:l' "impressionismo", o, come lo chiama il pittore, "Impressionalismo", vede la luce. Forse è sbagliato affermare che Kramskoj, senza tanti preamboli, tratti negativamente del nuovo movimento, anzi, inizialmente vi scorge qualcosa di vivo, che resiste alla routine salone – accademica. Nell'arte russa egli vi osserva una situazione completamente diversa: qui vi vede, contrariamente all'anarchia e alla competizione, che caratterizzano la vita in Europa, "un gruppo di uomini che operano contemporaneamente e che professano gli stessi principi" per questo egli scorge negli artisti russi il sincero interesse per la realtà, il desiderio di esprimere nell'opera il proprio atteggiamento verso di essa, e prende corpo in lui come "tendenziosità". Il pittore scopre la peculiarità dell'arte russa, in nome degli artisti russi, " per rendere il quadro tendenzioso non tendenzioso". Il criterio del pubblico russo, con la coscienza non ancora corrotta, nella quale persiste un briciolo di sano ideale, lo obbliga a cercare "la piena manifestazione di tale ideale" nell'arte, creando lo stimolo per lo sviluppo dell'arte in Russia, che corrisponde effettivamente alle nobili aspirazioni dell'uomo. Così, secondo il pittore, l'arte russa, che si manifesta con molta cautela, e nonostante ciò è sufficientemente chiara, ha tutti i requisiti per diventare la continuatrice della grande tradizione del passato nel XIX°secolo. Egli comprende che il valore nobile dell'arte può manifestarsi solo nella forma varia: ""L'inferno" dantesco è senza dubbio importante in poesia, ma anche "Le anime morte" di Gogol' non è da meno". Al pragmatismo dell'arte europea , basandosi sull'esperienza dell'arte russa,egli contrappone l'idea della poesia contemporanea come poesia "concetto, nobile slancio e sdegno per il male". Il pittore è profondamente convinto che l'arte russa stia affrontando un giusto percorso, che porterà inevitabilmente alla sua fioritura, non lo turba che per il momento "gli artisti russi dipingono con freddezza, troppo dettagliatamente, la loro mano è impacciata",e che essi "sono assolutamente incapaci con il colore, sono proporzionati con i loro modelli" etc.etc…; tuttavia con quale gioia, senza invidia, loda il successo di ogni artista russo, ogni notevole avanzamento della "scuola" ! Lo slancio sociale, che passa sotto il segno del democratismo d'umile estrazione e che si fonda in Russia dalle più favorevoli condizioni per lo sviluppo dell'arte, in condizioni di grande pathos ideologico, culminando verso gli inizi degli anni '80, termina dopo la sconfitta del populismo da parte dello zarismo: il crollo organizzativo comporta il disincanto sociale negli ideali del populismo, il terrore e l'oppressione della reazione politica provocano un calo dello slancio, ripercuotendosi anche nell'arte russa e facendo disperdere gradualmente i membri dei pittori ambulanti. Non capendone il vero motivo, Kramskoj soffre per questi cambiamenti così difficili, arriva a pensare ad una riconciliazione con l'Accademia, si spinge alla ricerca del cammino verso la salvaguardia dell'idea nella parola stampata, che anima la Società. Ma anche in questo suo momento difficile egli non abbandona la convinzione che la fioritura dell'arte russa, a cui si è dedicato una vita intera, è solo rimandata, che egli è ancora in testa. Il suo sogno unisce la futura fioritura dell'arte russa con l'arrivo di quel momento nella storia dell'umanità in cui "conclusosi inevitabilmente il periodo di transizione,in fin dei conti si arriverebbe a quella organizzazione che un tempo era, dicono, in terra, la preistoria, dove gli artisti e i poeti erano uomini, come gli uccelli che cantano per il puro gusto di cantare [.] solo a queste normali condizioni l'arte diventerà autentica e pura, e verranno concepite creazioni che le tradizioni nazionali attribuiranno a Dio, talmente sono belle, pure e impeccabili nella forma". Molte questioni sull'opera artistica, che animavano gli animi al tempo di Kramskoj, non perdono ancora oggi la propria attualità. I suoi enunciati sono interessanti non solo dal punto di vista dello studio dell'arte del passato, ma anche da quello degli interessi dell'arte del nostro tempo. La sua corrispondenza è la più ricca miniera sul pensiero dell'arte: in questa è racchiusa la sua argomentazione democratica e realistica, la più concreta nell'opera dei pittori realisti.
INDICE CAP.1 Premessa 1 DALLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITA' SANITARIA 1. La responsabilità in generale 2 2. Responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale 3 3. La responsabilità medica 9 4. La responsabilità del medico 10 5. La responsabilità della struttura sanitaria 12 6. Il sistema a doppio binario 14 7. La "spersonalizzazione" del rapporto 17 8. Il problema della responsabilità del medico dipendente dalla struttura 19 CAP. 2 RESPONSABILITA' CONTRATTUALE ED EXTRACONTRATTUALE 1. Il problema della distinzione dell'ambito applicativo delle regole sulla responsabilità 25 2. Lo stemperarsi dei profili di differenza 36 3.L'incremento dei punti di contatto 37 4. La zona grigia tra illecito e contratto 41 CAP.3 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DIPENDENTE DALLA STRUTTURA SANITARIA 1. La tesi della natura extracontrattuale 46 2. La tesi della natura contrattuale 50 3. La tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale 56 4. Evoluzione giurisprudenziale dopo le S.U. della cassazione e consolidamento della tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale 72 CAP.4 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DOPO LA LEGGE BALDUZZI 1. La ratio della legge e il contesto socio-economico nel quale si inserisce 79 2. Problematiche inerenti l'art.3 87 3. Ricadute dottrinali e giurisprudenziali 98 BIBLIOGRAFIA 111 1. Giurisprudenza di legittimità 116 2. Giurisprudenza di merito 118 CAP.1 DALLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITA' SANITARIA Premessa. La presente tesi si propone di affrontare la responsabilità civile del medico approfondendo uno dei profili più dibattuti, la natura della responsabilità, che è stata anche oggetto del predetto intervento normativo. A tal fine nel primo capitolo verrà trattato il passaggio dalla responsabilità del medico alla responsabilità sanitaria, facendo attenzione ai profili evolutivi della dottrina e della giurisprudenza, con uno sguardo rivolto alla spersonalizzazione del rapporto medico-paziente; nel secondo capitolo l'attenzione sarà rivolta alla natura della responsabilità, cercando di definire le linee di confine e le varie problematiche inerenti la prestazione medica; nel terzo capitolo verranno esaminate le varie tesi a supporto della diversa configurazione della natura della responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria e infine nell' ultimo capitolo verrà posto l'accento sul contesto socio-economico della legge Balduzzi e le varie problematiche inerenti l'art. I poteri riconosciuti al privato che si ritiene danneggiato dall'altrui condotta spaziano dalla tutela per equivalente alla tutela in forma specifica, previo riconoscimento del suo diritto. 2. Responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale. Volendo delineare le caratteristiche, o meglio il presupposto principale, alla base della responsabilità civile, vediamo che quest' ultimo si sostanzia nell' esistenza di un "danno risarcibile". L'opera di Sacco confutò la tesi dell' identificazione tra ingiustizia del danno e lesione di un diritto soggettivo assoluto, mostrando le varie sfaccettature che può assumere in pratica il requisito dell' ingiustizia del danno, al di là della lesione del diritto della vittima. Schlesinger invece contrastò l'impostazione tradizionale affermando che l'atipicità stessa dell' illecito, portasse l'istituto della responsabilità civile, al di là della protezione dei diritti assoluti . Basti pensare all' interesse del contraente che quando entra in un rapporto contrattuale non pretende solo la prestazione che è oggetto del contratto ma ha interesse anche a non subire pregiudizio alla propria persona e alle proprie cose che indirettamente entrano automaticamente nella stessa prestazione contrattuale. A mio avviso emblematico è a tal riguardo il caso del medico dipendente che, pur essendo legato alla struttura da un rapporto di lavoro, avente ad oggetto il suo obbligo di prestazione medica, si trova esposto ad una molteplicità di rischi e pericoli legati proprio allo svolgimento della sua prestazione. In passato la responsabilità medica si declinava come responsabilità del medico, ponendo al centro del giudizio la colpa professionale dello stesso sul cui accertamento veniva basata la responsabilità solidale di medico e di strutture; oggi, la responsabilità sanitaria è innanzitutto responsabilità della struttura sanitaria e porta alla ribalta l'attività di assistenza sanitaria e con essa il rispetto dei livelli di qualità e appropriatezza clinica delle prestazioni sanitarie oltre che degli standard organizzativi e strutturali , . Oggi si parla sempre più correntemente di responsabilità medica o medico-sanitaria per sottolineare che alla responsabilità del singolo professionista si aggiunge quella della struttura sanitaria o ospedaliera presso la quale il medico presta la propria attività. Al di là della terminologia, il mutamento più significativo si è realizzato nella disciplina della responsabilità sempre più complessa e articolata tanto che si è parlato di un nuovo sottosistema della responsabilità civile . Nell' arco di qualche decennio, come vedremo si è passati dall' affermazione della natura extracontrattuale della responsabilità al principio del concorso ed infine alla natura schiettamente contrattuale. 4.La responsabilità del medico. In origine la responsabilità medica nasce e si afferma come responsabilità professionale del medico. La cornice normativa era composta da poche norme di portata generale sulla responsabilità civile(artt.1218 e 2043 c.c.) ed una norma di parte speciale che, dedicata alla responsabilità del professionista intellettuale(artt.2236 c.c.), si trova nell'ambito della disciplina del contratto d'opera professionale . Nell' evoluzione giurisprudenziale la responsabilità medica è stata declinata come responsabilità sanitaria di medici e strutture che ha dato luogo alla creazione da parte dei giudici di regole di responsabilità solo modellate sull' atto medico. Si è arrivati infatti a dare autonomia al "fare organizzato" della struttura rispetto al "fare professionale" del medico. Nell' ottica dell' attività di assistenza sanitaria, di cui è debitrice la struttura nei confronti del paziente, non si può più parlare di somma delle prestazioni dei singoli medici. L'opera creativa della giurisprudenza ha dapprima cercato di definire questo "contatto sociale", che da essere considerato la fonte di meri obblighi di protezione senza obbligo primario di prestazione diviene fonte di un "contratto di fatto" sulla base del quale è possibile individuare in capo al medico un obbligo di prestazione ; successivamente cercando di assimilare e ricondurre all' obbligo di prestazione da parte del medico quell' obbligo di assistenza sanitaria di cui è debitrice la struttura, sulla base del contratto stipulato con il medico. Nel panorama dei soggetti operanti nel settore sanitario si iscrivono anzitutto le Aziende Unità Sanitarie Locali, costituite dalla legge di riordino del sistema sanitario nazionale, sono aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale, che operano mediante atti di diritto privato, e che sono vincolate al rispetto del principio della economicità della gestione e alla redazione del bilancio d'esercizio, rimanendo in ogni caso soggette al potere di controllo delle Regioni(art.3) . n. 502/1992. La natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria sia pubblica che privata, nei confronti del paziente, è oggi pacificamente condivisa da dottrina e giurisprudenza, non semplicemente sulla base della stipulazione di un contratto. Alla luce di tali considerazioni parrebbe preferibile una definizione della natura della responsabilità dell'istituto di cura in termini di responsabilità ex lege: la struttura sanitaria, ai sensi della legge 833/1978, è , infatti, legislativamente obbligata allo svolgimento dell'attività di "assistenza medica", con la conseguenza che il non corretto esercizio della stessa costituirebbe inadempimento di una obbligazione legale. Il sistema cd. a " doppio binario", costituisce il periodo intermedio dell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale dell'intera disciplina, nel quale alla responsabilità della struttura sanitaria si riconosceva origine contrattuale, mentre a quella del professionista si attribuiva natura aquiliana. In capo al medico gravava solo una responsabilità extracontrattuale, per violazione dei doveri inerenti alla professione, ex 2236 cod. civ., concorrente con quella contrattuale dell' ente. Un doppio binario in cui incanalare la responsabilità aquiliana del medico e quella contrattuale della struttura come responsabilità solidali in cui al medico era riconosciuta la possibilità di valersi di un beneficio di preventiva escussione della struttura sanitaria ogniqualvolta esso sia in grado di dare prova di una "non grave violazione" delle regole desumibili da protocolli scientifici, linee guida, raccomandazioni . Se la qualificazione extracontrattuale della responsabilità di quest'ultimo appariva corretta sul piano metodologico, al contempo risultava troppo riduttiva: ravvisare, infatti, nel medico un "quiusque de populo"significava non tenere conto del rapporto che si instaura direttamente tra quest'ultimo e il paziente . Inoltre, veniva a determinarsi un concorso improprio tra responsabilità aquiliana del medico e contrattuale dell'ente con conseguente bipartizione del regime giuridico applicabile, nonostante la responsabilità dell'ente avesse matrice unica ed esclusiva nell'esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico. A questo punto era utile definire quando si conclude il rapporto contrattuale tra ente e paziente; secondo l'impostazione tradizionale , è la stessa accettazione del paziente ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale a segnare la conclusione del "contratto d'opera professionale" tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente,l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica, in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura. A questo rapporto contrattuale il medico rimane del tutto estraneo, venendo ad instaurarsi con il malato solo un rapporto "giuridicamente indiretto". Di qui la conclusione che "la responsabilità del predetto sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente nei confronti del medico si prescrive nel termine quinquennale stabilito dall'art. La "spersonalizzazione" del rapporto che intercorre tra medico e paziente va di pari passo con l'evoluzione dell'attività medica. Proprio sulla figura del "malato" infatti e non più sulla cura della "malattia" dovrebbe concentrarsi il lavoro del medico e di tutti gli altri operatori sanitari. 8. Il problema della responsabilità del medico dipendente dalla struttura La responsabilità del medico verso l'ente è strettamente legata al tipo di rapporto che intercorre tra i due soggetti, mentre sostanzialmente irrilevante è la natura pubblica o privata della struttura. I problemi in merito alla responsabilità del medico alle dipendenze della struttura muovono dal non sempre agevole inquadramento di quest'ultimo all' interno del complesso iter organizzativo che vede il coinvolgimento di altre figure sanitarie e di altri fattori interni come apparecchiature e l'erogazione di servizi ad essi correlati. A questo punto analizziamo il caso in cui, il medico, nello svolgimento del suo incarico, provochi un danno al paziente. Quest'ultimo potrà agire in giudizio nei confronti del datore di lavoro del medico, struttura pubblica o privata, in quanto il suo rapporto è con l'istituzione, alla quale è ricorso, in base alla disciplina della responsabilità contrattuale; A sua volta l'istituzione convenuta in giudizio, può rivalersi civilmente con l'azione di regresso ai sensi dell' art. 2055 c.c. :" Responsabilità solidale.- Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali", nei confronti del proprio dipendente per i danni che sia stata costretta a risarcire al terzo, danneggiato in conseguenza della colpa professionale del medico, così pure può chiamarlo nel processo ove è citata in giudizio. Tornando, solo brevemente al quantum di diligenza richiesto al medico dipendente dalla struttura, la norma di riferimento è l'art. 2104 del c.c., che recita:"Diligenza del prestatore di lavoro.- Altrettanto emblematico si rivela poi il percorso giurisprudenziale in tema di qualificazione della responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria, infatti in tale settore si è registrato un progressivo abbandono della prospettiva extracontrattuale, ritenuta inappropriata in quanto l'assenza di un contratto non può determinare una variazione del contenuto dell' obbligo del medico che rimane pur sempre quello di cui all' art. 1176 secondo comma c.c. Il fondamento normativo della responsabilità del singolo operatore è individuato prevalentemente nell' art. 28 Cost., anche se non mancano riferimenti all' art.1228 c.c. . Medico ed ente sarebbero legati da un contratto di cui il paziente è terzo beneficiario , da ciò discende la sua possibilità di attivarsi contrattualmente anche nei confronti del medico per far valere la non diligente esecuzione della prestazione . In una posizione a se si colloca la sentenza della Corte di Cassazione n. 589 del 1999 che propone un nuovo approccio alla problematica mediante il ricorso alla teoria dell' obbligazione senza prestazione basata sul rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale tra medico e paziente . L'attività del medico incide su di un bene costituzionalmente garantito (art.32 Cost.) ed, inoltre, il medico è vincolato al rispetto di una disciplina deontologica particolarmente pregnante . CAP.2 RESPONSABILITA' CONTRATTUALE ED EXTRACONTRATTUALE 1.Il problema della distinzione dell'ambito applicativo delle regole sulla responsabilità. La differenza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale si basa su una diversità strutturale che pone la prima in esito alla violazione di un obbligo funzionale alla realizzazione del diritto e la seconda in esito alla lesione tout court di un diritto . Si pensi al mancato rispetto del vincolo ad attuare il trasferimento del diritto nei contratti ad efficacia reale. Il primo secondo cui:"L' accettazione del paziente nell' ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione del paziente preso in cura ". Siccome a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell' attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica, nelle vesti di organo dell' Ente ospedaliero, la responsabilità del sanitario verso il paziente per il danno provocato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale; immediata conseguenza quindi è che il diritto al risarcimento del danno, spettante al paziente nei confronti del medico, si prescrive nel termine quinquennale. Un secondo, più recente, orientamento faceva, invece, rientrare la responsabilità del sanitario in ambito contrattuale, assumendo che detta responsabilità, così come quella dell'ente, avrebbe "radice nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell'ambito dell'organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa comune radice, la responsabilità del medico dipendente sarebbe, come quella dell'ente pubblico, di natura professionale" . Detto inquadramento tende, peraltro, ad appiattire ed omologare la responsabilità della struttura a quella del medico; infatti, se da un lato dava importanza al contratto stipulato tra paziente e struttura, tanto da "attirare" nel regime contrattuale anche l'operato del medico, dall'altro individuava, quale unica fonte di danno, l'eventuale comportamento imprudente/negligente del professionista, così trascurando tutte quelle altre possibili cause di danno derivanti dall' inadempimento, da parte dell' ente, di obbligazioni di cui solo quest' ultimo è debitore (es. igiene, controllo dei macchinari, organizzazione del personale). Si deve peraltro segnalare che la Suprema Corte era giunta al riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità del sanitario dipendente anche tramite altra via, ovvero tramite l'accoglimento della teoria, di origine germanica, del "contratto con effetti protettivi a favore del terzo". Secondo questa impostazione, in alcuni contratti, accanto ed oltre al diritto alla prestazione principale, sarebbe garantito ed esigibile un ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto. La natura della responsabilità quindi, deve essere individuata non sulla base della condotta ( negligente o meno) in concreto tenuta dall'agente, ma sulla base della natura del precetto violato; sia la responsabilità del medico, sia quella dell'ente ospedaliero hanno entrambe una "radice comune" nell'esecuzione non diligente della prestazione, ma ciò non comporta necessariamente che entrambe le responsabilità siano di natura contrattuale, non potendosi escludere che un fatto, l'attività professionale del medico appunto, integri, da un lato, una responsabilità contrattuale a carico di un soggetto (ente ospedaliero) e, dall'altro, una responsabilità extracontrattuale a carico di un altro soggetto, autore del fatto (medico). Escluso, dunque, di poter fondare la natura contrattuale della responsabilità del medico sulla "radice comune" dell' esecuzione non diligente o sul rapporto di dipendenza tra medico ed ente, l'orientamento di cui trattasi individua la ragione della natura contrattuale degli obblighi di cura dovuti dal medico a favore del paziente nel "contatto sociale" che si instaura tra detti due soggetti; la disamina di tale teoria sarà trattata nel terzo capitolo, per il momento ci apprestiamo ad analizzare alcuni aspetti problematici. Secondo questa lettura, l'attività professionale del medico implica l' adempimento di obblighi di conservazione della sfera giuridica altrui che nascono dall'affidamento inevitabilmente generato dalla stessa professionalità. Con riferimento ai carichi probatori, secondo questa teoria che fonda la responsabilità del medico sul "contatto sociale" con il paziente, "in base alla regola di cui all'art. Parallelamente al descritto iter relativo alla responsabilità del sanitario, si è assistito al riconoscimento di una totale autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella del medico curante. 1228 c.c., per l'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario . Detta lettura, che costituisce un ritorno al passato inquadramento della responsabilità del medico, trova il proprio fondamento normativo nell' art.3 del recente provvedimento legislativo n. 189 dell' 8 novembre 2012 di conversione del c.d. "Decreto Sanità" (d.l. 13 settembre 2012,n. 158), secondo cui: "L'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all' art. 2043 del codice civile…". Nel rinvio all' art. 2043 c.c., parte della dottrina legge, infatti, la volontà del legislatore di prendere posizione ,nella disputa sulla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità del sanitario, a favore di tale ultima impostazione; sul punto si tornerà in maniera più accurata e approfondita nel capitolo quarto. Ne risulta una riduzione ad unità della responsabilità di diritto civile, questa volta all' insegna del modello contrattuale. Quanto al primo aspetto, costituisce principio giurisprudenziale ormai consolidato che la responsabilità extracontrattuale concorre con quella contrattuale ogniqualvolta all'inosservanza di una previsione negoziale si accompagni la violazione del generale dovere del neminem laedere . La tesi contraria fa perno principalmente sulla "specificità" della tutela creditoria, ovvero sul diritto del creditore alla prestazione che "assorbirebbe", in altre parole, la generica pretesa ad una condotta non dannosa da parte del debitore. In tal caso, dunque, il paziente potrà, quale creditore insoddisfatto, invocare la responsabilità contrattuale; ma al tempo stesso, ricorrere alle regole di responsabilità aquiliana. E' stato in proposito osservato che in sostanza , la funzione del cumulo della responsabilità medica risponde all'esigenza di offrire tutela al diritto alla salute, senza sottrarla al regime aquiliano anche in quei casi in cui la lesione sia stata la conseguenza di un inadempimento, ma nel contempo adottando per la valutazione della condotta medica uno standard unitario, valevole sia per la responsabilità contrattuale che per quella aquiliana, desumibile dal criterio della diligenza professionale ex. art. 1176 c.c. . Si parla di "obblighi di protezione", considerati autonomi rispetto all' obbligo di prestazione, oltre che sul piano della struttura, anche su quello della fonte: nascono dalla legge anche quando fonte dell' obbligazione sia il contratto . La questione rimane aperta e le possibilità configurabili sono tre: a) unicità di natura della responsabilità contrattuale e di quella aquiliana, c.d. reductio ad unum della responsabilità di diritto civile ; b) tertium genus tra contratto e torto; c) tradizionale bipartizione della responsabilità di diritto civile. In dottrina inoltre, di fronte al dilagante fenomeno della c.d."ipertrofia del contratto" , due sono le strategie elaborate: quella della c.d. "terza via" , diretta a far confluire al suo interno tutte le ipotesi tipiche di responsabilità che non rientrano né nel modello extracontrattuale né nel modello contrattuale; e quella della riscoperta, per dir si voglia della portata generale del principio del neminem laedere, in una prospettiva di graduale superamento dell' antinomia tra modello contrattuale e modello extracontrattuale di responsabilità . CAP.3 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DIPENDENTE DALLA STRUTTURA SANITARIA 1. La tesi della natura extracontrattuale. Un primo orientamento riconduce la responsabilità del medico inserito all' interno di una struttura sanitaria(sia essa pubblica o privata) all' alveo extracontrattuale. A tal proposito è utile far riferimento alla sentenza che ha segnato i caratteri di questa, ormai anacronistica configurazione. Parte nel contratto d'opera professionale, e nel conseguente rapporto obbligatorio, è l'ente ospedaliero ed esso soltanto, non anche il medico dipendente che provvede in concreto allo svolgimento dell' attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica. In sede di conclusione del contratto e di esecuzione della dovuta prestazione professionale, di fronte al paziente si pone esclusivamente la soggettività giuridica dell' ente ospedaliero, nel quale il medico dipendente si immedesima per effetto del rapporto organico, sì che non rileva, nell' ambito e sotto l'aspetto dell' attività diagnostica e terapeutica, il suo status di soggetto di diritto, essendo egli organo per mezzo del quale l'ente ospedaliero adempie la prestazione professionale che è il contenuto dell' obbligazione assunta a proprio carico con la conclusione del contratto ."Quanto all' ente ospedaliero, l'attività è dovuta nei confronti del paziente, quale prestazione che l' ente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto d'opera professionale. Quanto al medico dipendente, l'attività è dovuta nei confronti dell' ente ospedaliero nell'ambito del rapporto di impiego pubblico che lo lega all' ente e quale esplicazione della funzione che è obbligato a svolgere" . Non è configurabile una responsabilità contrattuale del medico dipendente da ente ospedaliero, verso il paziente, in conseguenza dell' errore diagnostico o terapeutico da lui commesso. Il quale errore, però, rileva, cioè sotto il profilo della responsabilità extracontrattuale . La qualificazione contrattuale della responsabilità del medico dipendente, pur in mancanza di un vincolo negoziale diretto col paziente, è variamente argomentata e costituisce attualmente la questione più complessa della materia. Così, pensando alla prestazione medica o meglio al fine ultimo e sperato di quest' ultima, il "risultato della guarigione", certo non dovuto, pensiamo alla malattie tumorali in fase terminale, indica e seleziona le terapie adeguate al suo (sperato) conseguimento. Il richiamo all' obbligazione senza prestazione, nella sentenza della cassazione n. 589 del 1999 e successive pronunce, appare forse il più problematico fra i tentativi di fondare la responsabilità diretta del medico dipendente da una struttura ospedaliera. Detto ciò, vediamo che obblighi di protezione, obbligazione senza prestazione e contratto con effetti protettivi a favore di terzo, sono inidonei a render conto della complessità di contenuto del rapporto medico-paziente e della sua attuale evoluzione. Limitarsi al profilo della responsabilità aquilliana quindi significherebbe farsi sfuggire il dato più significativo e caratterizzante, il modo in cui oggi realmente si atteggia il rapporto medico-paziente. 3. La tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Troppo riduttivo e alquanto garantista appare restringere la responsabilità del medico nell'alveo della responsabilità contrattuale, infatti difficilmente poteva configurarsi un rapporto contrattuale tra medico e paziente, tale da identificare un eventuale danno come inadempimento contrattuale. La responsabilità del medico per i danni cagionati dall' espletamento dell' attività sanitaria ha, pertanto, comunque natura contrattuale, ma derivante dalla posizione di garanzia che il sanitario assume nei confronti del paziente a seguito dell' affidamento che quest'ultimo ripone in colui che esercita una professione protetta avente a oggetto il bene, costituzionalmente tutelato, della salute. La cassazione inoltre è intervenuta anche in tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, affermando più volte che sussistendo un rapporto contrattuale , quand'anche fondato sul solo contatto sociale, in base alla regola di cui all'art. Natura contrattuale ha quindi la responsabilità del medico ospedaliero anche in caso di inesistenza di un pregresso rapporto obbligatorio col paziente poiché con quest' ultimo, nel momento in cui il sanitario decide di intervenire, si instaura un rapporto contrattuale di fatto . La giurisprudenza quindi, come più volte sottolineato in precedenza, operava una distinzione tra la responsabilità della struttura sanitaria, ritenuta da inadempimento a seguito dell' accettazione del paziente nell' ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale con l'obbligazione di compiere l'attività diagnostica e terapeutica in relazione alla situazione patologica del paziente preso in cura, dopo il pagamento del ticket, ipotizzando la conclusione di un contratto d'opera professionale tra paziente ed ente ospedaliero, mentre la natura della responsabilità del medico, dipendente e pagato dalla struttura pubblica, nei confronti del paziente, per danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico, veniva qualificata extracontrattuale, con esclusione della colpa lieve nei casi di negligenza o imprudenza . La tesi contrattualistica della natura della responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria è stata variamente argomentata da dottrina e giurisprudenza, sino ad essere cristallizzata, sotto un peculiare profilo, dalla nota pronuncia n.589/99 della Suprema Corte. Secondo un primo orientamento , la responsabilità contrattuale del medico dipendente troverebbe fondamento nell' art.28 Cost.; tanto la responsabilità dell' ente, quanto quella dell' operatore sanitario troverebbero, cioè, radice nella medesima condotta, ossia nell' esecuzione non diligente della prestazione sanitaria. Detta impostazione riduce al momento terminale, cioè al danno, una vicenda che non incomincia con il danno, ma si struttura prima come "rapporto, in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico ed il medico accetta di prestargliele" . La prima esperienza applicativa di questa teoria riguarda la responsabilità da contatto sociale del medico strutturato e le note difficoltà di inquadramento del rapporto tra ente, medico e paziente. Come già accennato il primo riconoscimento della validità del contatto sociale come fonte di responsabilità è avvenuto nella nota sentenza della Suprema Corte n. 589 del 22 gennaio 1999, ed ha ad oggetto la responsabilità del medico dipendente di un ente ospedaliero pubblico per il danno cagionato ad un paziente da un'errata diagnosi, con conseguente non corretto trattamento terapeutico. Più controverso è stato individuare la natura della responsabilità del medico dipendente. In alcune sentenze la Suprema corte ha peraltro optato per una responsabilità contrattuale del sanitario. Ciò perché si inseriva la prestazione del medico nel quadro del rapporto privatistico tra ente gestore e paziente, e si rilevava la diretta relazione che lega detta prestazione all' aspettativa del privato richiedente il servizio, ravvisandosi una responsabilità contrattuale sia dell' ente ospedaliero che del medico da cui questo dipende . Questo orientamento parte dal presupposto che, attraverso l'immedesimazione organica tra l'ente pubblico ed i suoi dipendenti, i danni causati all' assistito dall' esecuzione non diligente della prestazione del medico dipendente sono fonte di responsabilità diretta per l'ente gestore del servizio sanitario. La riconduzione in schemi contrattualistica anche della responsabilità del medico dipendente si desume poi dall' art. 28 della cost. che contempla, unitamente alla responsabilità dell' ente, quella del dipendente, essendo entrambe tali responsabilità fondate sull' esecuzione non diligente della prestazione sanitaria del medico. L'unicità del fondamento comporta quindi che anche quella del medico sarebbe una responsabilità contrattuale di natura professionale . È stata, infatti, definita un sottoinsieme della responsabilità civile o un settore multidisciplinare all' interno del quale vige un regime giuridico speciale , . L'atipicità del modello di responsabilità medica si desume anche dal fatto che, pure quando è stata collocata all' interno della responsabilità aquiliana, ad essa sono stati applicati comunque istituti propri della responsabilità contrattuale, quali la distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato, il criterio della diligenza professionale, il richiamo a regole di causalità materiale, la limitazione di responsabilità di cui all' art. 2236 c.c. 4. Evoluzione giurisprudenziale dopo le SU della cassazione e consolidamento della tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Da ciò ne consegue che la responsabilità dell' ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno entrambe radice nell' esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi , ovviamente tale qualificazione non discende dalla fonte dell' obbligazione ma dal contenuto del rapporto . 2236 c.c., essere allegata e provata dal medico ; a proposito della responsabilità professionale da contratto o contatto sociale del medico, la Corte in una pronuncia afferma che al fine del riparto dell' onere probatorio, il paziente danneggiato deve limitarsi a provare il contratto o contatto sociale, e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un' affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato . Ancora, in tema di responsabilità professionale del medico, ove pure quest' ultimo si limiti alla diagnosi e all' illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell' intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenere il necessario consenso informato, ha natura contrattuale e non precontrattuale e quindi ne consegue che a fronte dell' allegazione, da parte del paziente dell' inadempimento dell' obbligo di informazione, è il medico gravato dell' onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione .Dalle varie pronunce si evince come la sentenza n. 589 del 1999 ha sicuramente trovato un riscontro favorevole nella successiva giurisprudenza. Ricondurre all' alveo della responsabilità contrattuale da contatto sociale la responsabilità del medico dipendente ha però senz' altro esposto la professione medica alla cd. medicina difensiva. E' evidente che l'estensione ai medici del servizio sanitario nazionale della responsabilità contrattuale , che riduce notevolmente le possibilità di difesa da ingiuste o non provate accuse di violazione del contratto, non potrà che accelerare questo orientamento delle compagnie di assicurazione. La responsabilità del medico sembra concretizzarsi non all' atto dell' assunzione di un obbligo, ma in esecuzione dell' obbligazione sanitaria e quanto al suo contenuto, questo si atteggia come una normale obbligazione che richiama comportamenti destinati a produrre un risultato utile per il creditore. Come visto, nel tentativo di ricostruire il rapporto medico-paziente come autenticamente contrattuale vediamo come nella prestazione del medico nei confronti del paziente ciò che sembra sfuggire è l' accordo tra le due parti che deve precedere l'esecuzione della prestazione. Per quel che concerne, poi, il criterio della risarcibilità del danno, esso, a prescindere dalla natura della responsabilità individuata, viene sempre limitato all' interesse a non subire danni alla salute. La lesione dell' interesse positivo al contratto può venire in considerazione, in particolare, nel caso in cui si possa individuare in maniera distinta sia un interesse alla prestazione migliorativa, che un interesse alla prestazione conservativa. CAP. 4 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DOPO LA LEGGE BALDUZZI 1. La ratio della legge e il contesto socio-economico nel quale si inserisce. Nel capitolo precedente abbiamo visto come attraverso l'espediente del contatto sociale, come fonte di protezione tra medico e paziente, si compie una perfetta omologazione in punto di disciplina della responsabilità del medico a quella della struttura e viene salvaguardata, in nome della radice comune delle due responsabilità, l'unitarietà del regime di regole applicabile ad entrambi. Dal "fatto illecito del medico", che negli anni 80 aveva sorretto la configurazione di un regime unitario di regole di responsabilità, si trascorre oggi alla "non diligente esecuzione della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente nell' ambito dell' organizzazione sanitaria" . In tal modo si individua nell' "operato professionale", in cui si incardina il "fare" del sanitario/dipendente della struttura, quel "fatto dannoso comune" che sorregge la responsabilità solidali di medici e strutture. Quindi la responsabilità del medico dal paradigma della responsabilità professionale fondata sulla colpa, trascorre al paradigma di una responsabilità semi-oggettiva in quanto la prova liberatoria ad esso richiesta non è quella dell' assenza di colpa bensì quella specifica dell' evento straordinario ed eccezionale che è stato causa di danno alla salute . Tutto ciò perché nell' interpretazione che ormai si impone in giurisprudenza con riguardo alla ben nota regola probatoria contenuta nell' art. 1218, nel riferimento anche all' inesatto adempimento di obbligazioni che hanno per oggetto un fare professionale del medico, l'intero carico probatorio si sposta sulla struttura e sul medico e senza distinzioni di sorta si richiede ad entrambi come prova liberatoria, a fronte dell' allegazione dell' inadempimento da parte del paziente, non la prova dell' assenza di colpa bensì quella dell' evento straordinario ed eccezionale che è stato causa del danno alla salute del paziente . Si giunge cosi a considerare esigibile dal medico "strutturato", oltreché dall' ente, quel "risultato conseguibile, secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, all'abilità tecnica del primo, e alla capacità tecnico-organizzativa dell' ente" , del quale entrambi sono chiamati a rispondere fino alla prova di quell' evento imprevisto/imprevedibile/non prevenibile, che è stato causa dell' insuccesso del trattamento sanitario o del mancato miglioramento della salute del paziente. Oggi il medico, se dipendente di struttura, nonostante nelle massime si continui a declamare la sua responsabilità per colpa al pari degli altri professionisti intellettuali, diviene oggi "garante della salute" del paziente rispondendo di qualsiasi insuccesso della terapia fino al limite della complicanza non prevedibile o non prevenibile, e ciò anche nei casi in cui l' insuccesso sia riconducibile a fattori risalenti all' organizzazione . Ovviamente si parla sempre di responsabilità da violazione di obblighi che, a prescindere dalla fonte, vuoi da contatto sociale vuoi da contratto, vengono comunque ricondotte all' art. 1218, salvo differenziarsi sui contenuti della prova liberatoria posta a carico del medico. Per il primo, si richiede l' identificazione della causa, eccezionale e non prevedibile con la diligenza ordinaria, che sia stata all' origine dell' insuccesso del trattamento e/o del danno alla salute del paziente; per il secondo, che svolge la sua opera al di fuori di un'organizzazione sanitaria, si ritiene essere sufficiente, come prova liberatoria, quella della corretta esecuzione della prestazione o comunque del fatto che l'inadempimento non sia stato causa del danno. Ovviamente nel nostro sistema ciò è avvenuto, senza abbandonare il modello unitario di disciplina della responsabilità di medici e strutture che si regge su un fatto dannoso comune come presupposto fondante entrambe le responsabilità; modello che se in passato ha condotto ad omologare la responsabilità della struttura a quella del medico, oggi, in una inversione di tendenza, fa si che sia la responsabilità del medico ad adeguarsi in punto di disciplina, a quella della struttura. In questo clima dunque la nostra classe medica è stata attratta dal vortice della medicina difensiva, della quale abbiamo avuto modo di parlare all' inizio del paragrafo. L'obiettivo del legislatore è, allora, quello di farsi carico con misure concrete del problema, tentando di porre un freno al dilagare del contenzioso giudiziario e dei costi connessi. A completare il quadro l'estrema specializzazione di ogni operatore sanitario, insieme alla crescente difficoltà di aggiornamento e alla complessità della strumentazione moderna; lo svolgimento del lavoro in equipe e all' interno delle strutture sanitarie; la presenza di norme sempre più dettagliate e l'enfatizzazione del diritto alla salute, che ha fatto salire il livello di attesa di un risultato favorevole. In tale contesto si inserisce l' art. 3 del decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n.189, articolo specificamente dedicato alla "responsabilità professionale dell' esercente la professione sanitaria", che pare riportare la responsabilità del medico nella disciplina dell' illecito. L'art 3 del decreto legge stabiliva: Al comma I, che :"Fermo restando il disposto dell' art. 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell' attività dell' esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell' art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell' osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità nazionale e internazionale.". Al comma quarto che: "Fatto salvo quanto previsto al comma I, la responsabilità civile per danni a persone, causati dal personale sanitario medico e non medico, occorsi nell' ambito di una struttura sanitaria pubblica, privata accreditata e privata è sempre a carico della struttura stessa". - In tali casi resta comunque fermo l' obbligo di cui all' art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo"; Il comma quarto è stato, invece rimosso dal testo legislativo finale. Inoltre parte della dottrina, tra cui l'autore N. Todeschini, affermano che il legislatore avrebbe introdotto una mera lex specialis, per i soli dipendenti del sistema medico sanitario, senza tener conto che la responsabilità del medico fa parte delle "responsabilità nei servizi sanitari"; sottolineando anche come il ritorno all' applicazione della disciplina sull' illecito aquiliano, più gravosa per il paziente in ordine all' onere probatorio ed ai termini di prescrizione, volta a ridurre il contenzioso sulla responsabilità del medico,indebolirebbe sia il diritto alla salute, sia il diritto ad essere curati dal servizio sanitario, sia la stessa tutela della salute . Volendo passare in rassegna le due versioni della norma vediamo come il legislatore abbia inteso perseguire il proprio obiettivo focalizzando l'attenzione sulla "colpa professionale" del medico, così restituendo all' elemento soggettivo, troppo spesso trascurato nelle decisioni dei giudici, un ruolo centrale nella responsabilità del medico. Questa scelta definita da molti autori "demolitiva", da un lato, lascia intendere che per l'ente continuino a valere quelle regole già coniate prima dell' entrata in vigore della recente modifica; regole all' insegna di una responsabilità semioggettiva, che trova il proprio limite nella dimostrazione dell' evento imprevisto ed imprevedibile che abbia causato il mancato miglioramento del paziente; dall' altro lato, porta a ritenere che la volontà del legislatore di dettare una norma dedicata esclusivamente alla responsabilità del medico, significhi, implicitamente, aver ammesso che il regime applicabile al sanitario deve considerarsi disciplinato da regole separate ed autonome, sia con riguardo alla fonte, sia alla natura della responsabilità, rispetto a quelle indirizzate alla struttura. Come emerge dalla lettura proposta del comma 1, dell'art. 3, si ritiene che il legislatore, con l'ultima versione dell' articolato, abbia operato una "scelta di campo" a favore della natura extracontrattuale della responsabilità del medico, con le relative conseguenze in tema di elemento soggettivo, termine di prescrizione ed onere della prova . 3 della l. 8.11.2012 come disposizione, espressamente dedicata a disciplinare la responsabilità degli "esercenti la professione sanitaria", rivela dunque, nel silenzio serbato nei confronti di chi è oggi il protagonista chiave nel giudizio civile e cioè la struttura che è anche solidalmente responsabile con il medico, di voler guardare alla responsabilità del medico, in modo del tutto autonomo dalla responsabilità della struttura, confermandone il suo inquadramento nell' ambito delle responsabilità professionali da status. 3 del decreto sanità, nel riferimento alla prova di una diligenza, qualificata dall' applicazione delle L.G., con importanti implicazioni sulla quantificazione del risarcimento del danno in termini di riduzione, abbia inteso, nel rinvio all' art. 2043 c.c., far gravare sul paziente la prova della colpa medica all' insegna di un non dovuto o non richiesto dalle circostanze del caso, adeguamento alle L.G., che solo al medico compete individuare tra le diverse accreditate dalle Società scientifiche. Molti autori sostengono in definitiva che la norma del decreto Balduzzi sia "precettiva" con riguardo alla colpa penale e al criterio di quantificazione del danno in sede civile, mentre è una norma "interpretativa" con riguardo alla colpa civile del medico; la sua rilevanza nella gerarchia delle fonti consiste nell' evidenza di riassegnare un ruolo centrale alla responsabilità da fatto illecito, in linea con la tradizione, e conferma l'intuizione dottrinale dell' attualità, per così dire, del paradigma della responsabilità professionale fondata sulla colpa . In senso favorevole a una restaurazione del sistema vertente sulla natura aquiliana della responsabilità del medico, il Tribunale di Varese, nella sentenza 26 novembre 2012, n.1406, si è pronunciato motivando il revirement in forza di una maggiore coerenza con i nuclei ispiratori della disciplina di riforma sanitaria. Ciò in considerazione dell' aumento esponenziale e spesso pretestuoso del contenzioso nei confronti dei sanitari. Viene sottolineato anche il fatto che se il richiamo all' art. 2043 c.c. imponesse l'adozione di un modello extracontrattuale, l'applicazione rigorosa della norma ne comporterebbe l'applicazione anche alle ipotesi pacificamente contrattuali, quali i rapporti fra pazienti e medici liberi professionisti, dal momento che il primo periodo dell' art. 3, comma 1, secondo periodo della legge Balduzzi, in conformità con la collocazione sistematica e con la ratio dell' intervento legislativo, ha il solo scopo di richiamare la disposizione cardine espressione del principio del neminem laedere e del conseguente obbligo di risarcimento del danno conseguente alla violazione del suddetto principio. 3 del decreto legge 158/2012 scolpiva la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria pubblica, e dei medici pubblici dipendenti, il novellato art. 3 della legge di conversione, opta per la soluzione opposta, facendo scomparire ogni riferimento esplicito alla qualificazione in termini contrattuali della responsabilità del medico pubblico dipendente, con il chiaro ed indubbio riferimento all' art. 2043. Come abbiamo già visto poi la legge di conversione, ribaltando la norma del decreto legge che faceva una chiara scelta in tema di responsabilità risarcitoria del medico pubblico dipendente, richiama espressamente i criteri della responsabilità aquiliana, ritenendo che la responsabilità civile del medico non debba rifarsi ad una responsabilità da inadempimento con gli indubbi vantaggi del paziente in tema di prescrizione ed onere della prova, ma alla responsabilità aquiliana. In altri termini, al fine di contenere gli oneri risarcitori della spesa pubblica, il nuovo art. 3 della l. 189/2012, intende intervenire sul "diritto vivente", operando una scelta di campo finalizzata al valore del risparmio e non della salute del paziente. Il Tribunale di Torino non utilizza la teorica del contatto sociale e quindi rigetta la domanda del paziente per i danni subiti in ospedale, nel caso di specie la frattura del femore, per non aver fornito la prova della colpa delle parti convenute, e quindi del fatto illecito. Tralasciando i riscontri penalistici, per il caso di colpa lieve, che per molti è limitata alla sola imperizia e non anche alla negligenza e imprudenza, la persistenza della stessa responsabilità civile va riportata all' art. 2043 c.c., infatti la norma sottolinea come :" In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all' art. 2043 c.c. Ovviamente il giudice nella determinazione del risarcimento del danno terrà conto della condotta del medico richiamata nel primo periodo dell' art. 3, e quindi anche se l'esercente si attiene alle c.d. L.G. e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, nel momento in cui provochi dei danni al paziente, sarà tenuto al risarcimento danni ex art. 2043; se poi verrà accertato che la sua attività sia stata condotta con negligenza e imprudenza e non solo imperizia, risponderà anche in sede penale. Tutto ciò fa si che la paziente abbia stipulato, al momento dell'accordo con il medico dr. Le due sentenze ribadiscono che la responsabilità del medico, così come quella della struttura sanitaria, ha ancora natura contrattuale; anche l' obbligazione del medico dipendente dall' azienda sanitaria nei confronti del paziente, seppur fondata sul contatto sociale, costituisce vincolo contrattuale. La tutela del paziente passa in primo piano senza però sfociare in eccessive estensioni della responsabilità, civile e penale, che in passato hanno fomentato il ricorso alla medicina difensiva. Il richiamo all' art. 2043 c.c. all' interno dell'art.3 della legge Balduzzi è stato letto da molti autori come un vero e proprio fondamento normativo della responsabilità del medico ospedaliero di natura extracontrattuale. A conferma di questa prima interpretazione sono intervenute numerose sentenze, tra le quali è utile ricordare quella del tribunale di Milano che afferma come: Sembra corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire una precisa indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell' onere della prova, sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno". La tesi che però oggi è prevalente in giurisprudenza è quella che qualifica come "contrattuale" la responsabilità medica, per agevolare la posizione del paziente, responsabilità che nasce non dal contratto atipico di spedalità, che riguarda il rapporto del paziente con la struttura, bensì dal "contatto sociale" istituito tra medico ospedaliero e paziente. In conclusione del presente lavoro appare opportuno richiamare alcune novità contenute negli articoli 6 e 7 del ddl sulla responsabilità professionale n. 1324 dell' 8 luglio 2013. La prima novità si lega a una delle critiche mosse alla legge Balduzzi: avere fatto un riferimento troppo generico alla colpa. Inoltre, per quello che ci interessa più da vicino, dalla natura "extracontrattuale" della responsabilità in capo all' esercente la professione sanitaria sono esclusi i liberi professionisti . La responsabilità contrattuale delle strutture viene allargata anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime intramurario, nonché attraverso la "telemedicina". 1912, 744. CARUSI, Responsabilità del medico e obbligazione di mezzi, in Rass. giur. Treccani, 1990. CASTRONOVO C., Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979 in La responsabilità medica, Giuffrè editore, Milano, 2004 , 22. CATTANEO C., La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 313. CATTANEO C., La responsabilità medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, 11. CHINDEMI D., La responsabilità contabile e danno erariale della asl e del medico, in Resp. 2011, 1400. CHINDEMI D., Resonsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica e privata, terza edizione, Milano, 2015, 60ss. DE LUCA M, La nuova responsabilità del medico dopo la legge Balduzzi, Roma, 2012, 24-78. DE MATTEIS R., Dall' atto medico all' attività sanitaria. 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1. Arte, Storia, Memoria. Halbwachs e la memoria collettiva. Arte e Storia formano la memoria come fatto pubblico; e la memoria è costitutiva di qualsiasi comunità che voglia essere tale; essa è un fattore decisivo per l'identità della comunità (Toscano, 2008, p. 15). Questo passaggio di Mario Aldo Toscano ci rende subito consapevoli dei primi elementi da considerare: arte, storia, memoria. L'intreccio tra questi fattori è determinante e scaturisce da un processo non sempre pacifico o pacificato: I Beni Culturali non sono né pace né armonia: sono manifestazioni dell'avanzata faticosa di una frazione di umanità per gli itinerari impervi del mondo. Essi sono un riassunto delle dimensioni più ordinarie e più straordinarie, di eterni contrasti, di lotte tra valori (Ivi, p. 38). Il Bene Culturale è quindi il prodotto complesso di negoziazioni ma anche di imposizioni spesso conflittuali. Che la memoria possa diventare oggetto conflittuale ce lo spiega già Maurice Halbwachs, quando sostiene che la memoria collettiva "si accorda con i pensieri dominanti della società" (Halbwachs, 1987, p. 21). Se appare forzata, nella prospettiva halbwachsiana, l'idea che il ricordo individuale esista soltanto perché appoggiato su uno strato di memorie condivise da più persone e non vi sia spazio per una prospettiva psicologica del soggetto singolo, è altrettanto interessante il fatto per cui, in questa lettura basicamente durkheimiana, il ruolo dell'insieme societario sia determinante e vincolante per il soggetto. La memoria diviene quindi un'istituzione e come tale deve essere affrontata come problema delle forme istituzionalizzate che l'immagine del passato assume nella coscienza dei gruppi, e dei modi e le forme di questa istituzionalizzazione. Nessun gruppo potrebbe riprodursi nella propria identità senza produrre e conservare un'immagine del passato consolidata, almeno per alcune delle sue linee ritenute fondamentali e valide dall'insieme dei membri. Affinché però ciò avvenga, la memoria si costituisce di ricostruzioni parziali e selettive del passato. L'idea chiave di Halbwachs è dunque che ricordare sia attualizzare la memoria di un gruppo. L'immagine del passato che il ricordo attualizza non è tuttavia qualcosa di dato una volta per tutte: se il passato si "conserva", si conserva nella vita degli uomini, nelle forme oggettive della loro esistenza e nelle forme di coscienza che a queste corrispondono. Ricordare è un'azione che avviene nel presente, e dal presente dipende. La ricostruzione del passato dipende agli interessi, ai modi di pensare e ai bisogni ideali della società presente. Tuttavia (…) l'immagine del passato che ogni società si rappresenta è, in ogni epoca determinata, qualcosa che si accorda con i pensieri dominanti della società stessa. I contenuti della memoria collettiva costituiscono dunque un insieme denso e mobile, che (…) costantemente è modificato, del passato è sempre un fenomeno dinamico. Ora, questa dinamica non esclude il conflitto. (…) L'idea forse più fruttuosa che si può ricavare da Halbwachs è proprio quella che il passato, oggetto di ricostruzioni successive e suscettibili di modifica, sia una sorta di posta in gioco fra interessi e gruppi contrapposti. (…) La memoria collettiva rappresentata dalla coscienza comune di queste società riflette effettivamente il risultato di uno scontro nel quale sono decisivi i rapporti di potere fra i gruppi diversi dei quali la società globale è composta (Halbwachs, 1987, p. 28). 2. Gruppi in conflitto: la posta in gioco. Memoria vs oblio. Ora la questione si sposta dunque sui gruppi che spostano l'equilibrio della "posta in gioco", come l'ha definita poco sopra Paolo Jedlowski. Il controllo di ciò che in qualche modo deve diventare memoria è allora elemento decisivo per chi si sfida nell'arena dei significati simbolici e contemporaneamente politici. Allo stesso modo, da contraltare, oltre a ciò che deve diventare memoria si affianca ciò che deve essere escluso dalla memoria, in un processo selettivo sia positivo che negativo. Un oggetto, un avvenimento, un artefatto, un luogo, possono essere elevati qualcosa da ricordare come essere cancellati con impeto e velocità. Gli esempi sono disparati e forse anche, apparentemente, contraddittori. Si può ricordare una vittoria militare, come la vittoria di Stalingrado per le forze sovietiche ed in generale antinaziste. Al contempo si può ricordare anche una sconfitta, come monito per non ripetere errori commessi e guardare ad un futuro migliore: i giapponesi ogni anno fanno tesoro delle esperienze di Hiroshima e Nagasaki. Si può però anche ricordare una sconfitta per creare un mito: i serbi trovano nel massacro di Kosovo Polje il loro mito fondativo. Si può creare un monumento ad hoc anche lontano dal luogo fisico in cui è avvenuto il fatto. Allo stesso modo è possibile distruggere un qualcosa del gruppo avverso: a Mostar i croati hanno bombardato lo Stari Most, testimonianza del passaggio ottomano in Bosnia e simbolo della città erzegovese. 3. "Le nuove guerre" e il ruolo dell'etnia Il contesto delle "nuove guerre" (Kaldor, 1999), è quindi terreno di coltura per questo tipo di conflitti, manifestatisi soprattutto successivamente alla caduta del Muro di Berlino. Attori deputati a poter dichiarare guerra nei confronti di attori di pari grado. Lo scenario disegnato da Kaldor è decentralizzato e disordinato a causa della fine dell'era dei blocchi contrapposti. Contemporaneamente lo stato nazione non solo è meno forte fuori dei propri confini, ma anche internamente ha subito e sta subendo un processo di progressiva erosione dei propri poteri coercitivi e di prevenzione delle minacce interne. Secondo alcuni autori, tra cui W. Pfaff (1993), la fine del mondo diviso in blocchi ha fatto sì che finissero i conflitti tra stati e nascessero quelli tra gruppi divisi da identità e modelli di vita inconciliabili. Le divisioni di oggi in azione sarebbero però decisamente più violente di quelle espresse nella prima modernità in quanto le identità astratte e laiche della cittadinanza statale tendono ad essere sostituite da altre di natura culturale, religiosa ed etnica tra le quali è più difficoltoso il compromesso (Maniscalco, 2008), dando vita ad un ambiente neo-barbarico. Va qui ricordato anche Huntington (1997), con la sua teoria dello scontro delle civiltà, "secondo la quale i conflitti successivi alla guerra fredda si spiegano in termini di divergenze culturali piuttosto che ideologiche o economiche; più che particolari stati, esse tendono ad interessare coalizioni di stati omogenei tra loro rispetto alle 'civilizzazioni' di appartenenza" (Maniscalco, 2008, p. 29). Secondo Kaldor siamo quindi in presenza di conflitti intrastatali che però differiscono dalle guerre civili dell'epoca pre-1989. Le differenze si riscontrano negli scopi, nei metodi di combattimento (guerriglia per eliminare l'altro), per la tipologia delle unità di combattenti (privatizzazione dei corpi) e nei metodi di finanziamento (ottenuto con attività malavitose). Questi conflitti vengono infatti combattuti sulla base di etichette etniche, in cui una nuova politica dell'identità, fondata su un comunitarismo esclusivo, annulla le politiche inclusive statali. L'etnia, in questo rinnovato quadro, diviene quindi l'attore principale intorno al quale poter sviluppare il gruppo di riferimento nei conflitti intrastatali. Questi conflitti, come ricordato, si basano su etichette che vengono affibbiate da un gruppo all'altro: si diviene gruppo per creazione autonoma o per esclusione da un determinato contesto. La lingua (in moltissimi casi si dovrebbe parlare di dialetti), la religione, il clan, i tratti somatici, una storia condivisa, sono gli elementi che fanno sì che il gruppo tracci un confine in-out netto e non valicabile. L'esclusione, più che l'inclusione, è il fattore che determina l'appartenenza. 4. I Beni Culturali nelle "nuove guerre": gli spazi interstiziali, sospesi e marginali. I Beni Culturali assumono un ruolo determinante all'interno dei conflitti sopra descritti, per vari motivi tra loro collegati. Anzitutto, il bene culturale, come abbiamo detto all'inizio, è traccia della memoria del gruppo etnico ed anzi viene accettato, creato, ricreato, protetto dal gruppo stesso proprio per dare delle basi comuni a tutti gli appartenenti della formazione sociale. Il bene culturale è testimonianza del passato, emblema dell'esistenza/persistenza presente e segno di continuità protesa al futuro. Può provenire dal passato, come nel caso dello Stari Most (1555) che riconduce direttamente al passaggio ottomano nell'area. Oppure può essere creato nel presente per ricordare il passato (antico o recente) e proiettarlo nel futuro. Rimanendo nell'ex-Jugoslavia possiamo pensare alla Torre di Gazimestan, un luogo spoglio e dal basso significato artistico e architettonico, ma situato nella Piana dei Merli laddove i serbi furono sconfitti dagli ottomani nel 1389, data da cui i serbi fanno partire la fondazione delle proprie radici comuni. L'intreccio Arte-Storia-Memoria si esplica quindi in un rapporto triangolare e paritetico, in cui i tre elementi si danno forza l'uno con l'altro. La Storia può essere selezionata per meglio indirizzare la Memoria nel senso halbwachsiano. L'Arte può diventare il campo di applicazione visiva ed emotiva del triangolo suddetto. L'opera artistica però è situata in luoghi ben precisi, sia momentanei (mostre) sia stabili (opere monumentali) e questi luoghi sono configurabili quindi come spazi determinati, riconoscibili e soprattutto riconosciuti dai gruppi chiamati al loro utilizzo. In questo caso siamo di fronte a quelli che qui definiamo come "spazi intensivi". Prima però di arrivare agli spazi intensivi, necessitiamo di riflettere sulle altre categorie dello spazio. Il problema dello spazio è stato quindi oggetto, da parte della letteratura sociologica, di intense elaborazioni e revisioni. Già Simmel, nel suo Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, sottolineava sin da subito la natura multiforme dello spazio, in quanto unione di elementi psichici e di intuizioni dell'anima: Nell'esigenza di funzioni specificatamente psichiche per le particolari configurazioni storiche dello spazio si riflette il fatto che lo spazio è soltanto un'attività dell'anima, è soltanto il modo umano di collegare in visioni unitarie affezioni sensibili in sé slegate (Simmel, 1998, p. 524). Siamo allora di fronte ad una realtà composta da tanti "spazi particolari" che, come ci dice Emanuele Rossi (2006), "potremmo definire come spazi sospesi, i quali, pur differenziandosi nella loro strutturazione (…) e nelle loro finalità, si presentano sociologicamente interessanti soprattutto per ciò che contengono, per le forme di relazione e di convivenza che sono in grado di ospitare, di produrre o semplicemente di annullare" (p. 9). Per fare ciò "abbiamo bisogno quindi di re-imparare ad osservare e ad interpretare lo spazio, di riconoscere allo spazio e alle diverse forme che di volta in volta è in grado di assumere, la funzione di strumento di lettura privilegiato di tutte le cose, vero e proprio deposito a cui è necessario attingere per comprendere in modo qualitativo il gioco incessante delle passioni, degli entusiasmi, degli antagonismi, così come dei tormenti e delle sofferenze che da sempre caratterizzano gli esseri umani; ma per far ciò bisogna saper di nuovo lasciare spazio all'immaginazione e soprattutto non ridurre gli spazi a semplici rapporti geometrici (.)" (Ivi, p. 15). E' solo in questo modo che è possibile quindi scoprire, mediante "una speciale lente sociologica, individuata nel concetto di sospensione" (Ivi, p. 9), alcuni di questi "spazi particolari", in cui è possibile sospendere il normale corso degli eventi. Siamo quindi in grado di determinare diverse declinazioni di questi "spazi sospesi": "spazi interstiziali", "di margine", "di consumo". Qui ci interesseremo in particolar modo dei primi due, per il loro diretto collegamento con l'idea di "spazio intensivo". Il concetto di "interstizio", esaminato da Gasparini (2002), è di difficile e complessa collocazione ed anzi lo stesso autore dubita che si possa parlare di vero e proprio concetto. È altrettanto vero però che l'interstizio riesce "ad illuminare una serie di fenomeni specifici della vita quotidiana", divenendo "il tramite, la cerniera, la porta, il ponte o il guado che consente il passaggio verso altri sistemi organici di significati". Già Simmel (1998) aveva però evidenziato, sempre nel suo Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, lo "stare fra" (p. 523) come funzione sociologica. Lo spazio infatti è una "forma priva di qualsiasi efficacia che, però, proprio in quella naturale situazione dello stare fra, può svolgere quella fondamentale funzione di elemento necessario alla configurazione di tutte le cose, rendendo in tal modo effettivamente possibile lo strutturarsi di qualsiasi forma di interazione" (Rossi, 2006, p. 56). Il vivere in comune quindi si sostanzia all'interno di uno spazio comune e condiviso che viene continuamente svuotato e riempito dalle interazioni che si susseguono di volta in volta. È lo spazio interstiziale quindi quello in cui si creano le relazioni, un "terreno di incontro" tra individui e/o gruppi comunicanti. Un altro contributo interessante che riguarda lo "stare tra" è offerto da Henry Pross, che si è cimentato nell'elaborazione del concetto di "spazi intermedi". Per questo autore infatti qualunque forma spaziale è prodotta dal potere, che ne determina le configurazioni, i confini ed i limiti. Anche la costruzione di elementi fisici spaziali (palazzi, strade, accessi) sono una forma del potere vivente, ma accanto agli ordini che si susseguono in termini di spazio (superiore e inferiore) e di tempo (…) sono individuabili gli spazi e i tempi della transizione. Edifici, accessi, limiti sono le manifestazioni quotidiane di differenti ordini; ci sono però corridoi, angoli, differenze di altezze e di profondità, fuori dal controllo: per questo si configurano come spazi intermedi che procurano un senso di liberazione e di riparo dalla pressione dei tempi sociali (Pacelli, 2010, p.188). Anche in Pross è quindi possibile ravvisare quello "stare tra" simmeliano, come luogo di eventi sociologici reciproci continuamente in atto e che quindi senza sosta si creano, ricreano e rinnovano in un'arena sempre aperta ad una perpetua negoziazione di socialità o di socievolezza, per citare ancora Simmel. Tuttavia questo continuo muoversi tra "morire e divenire, e divenire e morire" fa sì che questi spazi intermedi, nonché quelli interstiziali, siano quindi contenitori ad "intermittenza", i quali vivono dell'intensità temporanea delle relazioni che vi insistono all'interno, quando coloro i quali li percorrono e vi sostano decidono di instaurare dei rapporti di socialità con gli altri. Sono spazi quindi senza storia e senza futuro, lontani dal "luogo antropologico" di Augè (1993), eppure capaci di accogliere la costruzione di nuovi simboli e di rituali che lì vengono messi in atto e permangono per poco tempo. Queste occasioni di breve intensità fanno sì che però vi si verifichino degli accumuli energetici, diventando, come intuì Simmel, dei "centri di rotazione" (1998, pp. 540-1) intorno ai quali "si sviluppano relazioni con forte carica emotiva" (Rossi, 2006, p. 64). In altri termini, siamo in presenza di uno spazio non identitario, a relazionalità forte soltanto in alcuni momenti e su cui non si radicano forme fisse data la continua transizione di soggetti che vi transitano all'interno. Un'altra tipologia di spazio di forte interesse è quella rappresentata dagli "spazi di margine". Per andare a trovare queste forme spaziali bisogna anzitutto risalire ai luoghi che ogni giorno sperimentiamo nelle nostre esistenze. Bauman (2006, p. 116) osserva come nelle nostre società contemporanee lo spazio sociale tende a formarsi prevalentemente sulla base di ciò che egli definisce proteofobia, ovvero la paura della diversità. Questa paura fa sì che all'interno delle nostre "mappe mentali" si vengano a creare dei "buchi" creati volontariamente al fine di distinguere ciò che attraversiamo necessariamente e ciò che altrettanto volontariamente escludiamo in un tentativo di razionalizzare e di dare maggiore importanza ai luoghi che viviamo ed in cui transitiamo, ci situiamo e ci relazioniamo quotidianamente. Il margine è quindi un qualcosa che è nello stesso momento all'interno ma anche all'esterno dell'ambiente percepito: interno per ubicazione ma esterno per quanto riguarda l'interezza delle relazioni sociali. Siamo quindi in presenza di uno spazio che viene inteso come un luogo di difesa, che serve per preservare e sottolineare la specificità del proprio ambiente: un modo per porre un "altro da sé", per sospendere alcune questioni scottanti ed infine per dare una collocazione a quelle "società a fianco" che risultano un qualcosa da nascondere alla vista. Ed è proprio in questi margini che coloro i quali vi sono confinati possono ricreare zone di sociazione, sfruttando quell'oscurità di cui gli spazi di margine sono creati proprio dall'ambiente "di maggioranza" circostante. Nell'"effervescenza sociale" (Rossi, 2006, p. 90) esistente dentro ai margini risiede l'interesse verso questi nuovi centri di creazione di simboli e di senso. In conclusione, gli spazi interstiziali e di margine risultano quindi essere delle forme sospese, non ben definite, volatili. Proprio per questa loro condizione di transitorietà sono però attraversati da momenti ad altissima intensità relazionale ed emozionale che ne determinano l'importanza per i suoi "abitanti". Nonostante la loro posizione defilata gli "spazi particolari" rimangono sempre in contatto con lo spazio principale, proprio perché sono prodotti da questo o perché sono popolati da coloro i quali in esso non devono risiedere o al massimo possono sostarvi/transitarvi per pochi, innocui, attimi. 5. Una nuova categoria concettuale: lo "spazio intensivo" Lo spazio intensivo si configura come una forma spaziale che sicuramente trae alcuni elementi dagli spazi descritti precedentemente, ma al contempo ne scarta alcuni fattori per accoglierne altri. Lo spazio intensivo è la "residenza" del bene culturale attorno al quale i gruppi si riuniscono, caricando di emotività e di senso il luogo/bene prescelto. Anzitutto, come ci ricorda Maurice Halbwachs (1987, pp. 135- 42), c'è una piena identificazione del gruppo con il luogo ed anzi la "fisicità" del bene culturale descrive, arricchisce e dà sostanza al luogo stesso. Luogo e bene culturale agiscono simultaneamente, dato che l'uno non può esistere senza l'altro. Il bene culturale diviene tale proprio perché è situato e sussiste in un dato luogo, che può essere, ad esempio, teatro di rivendicazioni territoriali (come nel caso della Torre di Gazimestan nella Piana dei Merli in Serbia). Il luogo invece diventa rilevante, unico e "degno" di riconoscibilità proprio per la presenza del bene culturale. Tuttavia, non basta la presenza del bene culturale per dotare di intensività lo spazio. Altri fattori diventano determinanti. Anzitutto, rispetto agli spazi interstiziali e a quelli di margine, lo spazio intensivo è anch'esso uno spazio "sospeso", laddove la ritualità che vi insiste è frutto di momenti di richiamo politico/religioso collettivo. In confronto allo spazio interstiziale, lo spazio intensivo ne condivide la condizione di "stare fra": spesso infatti lo spazio intensivo sta fra due gruppi in conflitto ed anzi segna il confine di uno rispetto all'altro. Può essere un confine sia fisico (quando ad esempio viene ricoperto d'importanza il limite dello stato) o simbolico/religioso, quando per esempio prendiamo come punto di analisi un luogo di culto, in cui accede solo chi condivide la medesima fede. È inoltre un terreno d'incontri, tra gruppi diversi ma molto più spesso tra appartenenti ad uno stesso gruppo. Di certo al suo interno possiamo trovare quella intermittenza interazionale che fa sì che lo spazio intensivo "viva" in determinati momenti: le celebrazioni, le ricorrenze, gli anniversari, una funzione religiosa. Al pari degli "spazi intermedi", lo spazio intensivo può fungere da temporanea via dalle strutture del potere, anche se è una funzione diretta del potere. All'interno dello spazio intensivo infatti il forte coinvolgimento emozionale fa sì che si vada oltre ai sentimenti tipicamente nazionalisti o di identificazione con lo spazio medesimo. Quando si fa pratica di qualche rito o cerimonia (religiosa e/o civile) all'interno dello spazio intensivo, si trascende la dimensione puramente politica o religiosa per anelare ad un obiettivo per l'appunto trascendentale, immanente. L'appello per esempio di un leader nazionalista diventa destino di un popolo, la terrena funzione religiosa invece si trasforma in appuntamento con l'infinito. Di certo, come abbiamo visto in Simmel, lo spazio intensivo è un "centro di rotazione", dato l'alto investimento emozionale che su questo fanno gli appartenenti ai gruppi. Oltre a ciò, lo spazio intensivo può essere paragonato anche agli spazi di margine. Al pari di questi infatti lo spazio intensivo può crearsi come ghettizzazione di una minoranza all'interno di un luogo che diviene poi il nucleo di rivendicazioni della minoranza stessa. La differenza principale dello spazio intensivo rispetto agli altri "spazi particolari" risiede nel contrasto tra fissità ed intermittenza. Mentre gli spazi di margine e interstiziale rimangono comunque delle zone di transito senza una storia, un passato o un futuro, lo spazio intensivo, nonostante la transitorietà dei suoi eventi, è sempre presente. È uno sfondo che può essere riattivato socialmente, politicamente o religiosamente in ogni istante. È uno spazio in cui la narrazione riparte sempre dal punto in cui era stata interrotta e all'interno del quale la stessa narrazione non viene continuamente rinegoziata ma parte da punti fissi nella memoria e nella storia del gruppo. Possiamo parlare quindi di una "intermittenza stabile", dove "stabile" può essere declinato in due modi: anzitutto perché è un'intermittenza che si ripete ad intervalli di tempi regolari (dodici mesi per gli anniversari civili, sette giorni per la maggior parte delle funzioni religiose); in secondo luogo perché vi è una stabilità ripetitiva e certa dei contenuti non negoziabili che vengono ogni volta riscoperti, riaffermati e, se possibile, ancora più arricchiti nella loro funzione simbolica e distintiva. Si tratta quindi di spazi in cui la storia, il mito, il rito, il simbolo, hanno un alto impatto e sono costitutivi dello spazio stesso. Siamo in un campo molto vicino a quello che conosciamo come "luogo antropologico". Marc Augè (1993) ha proposto per primo questo concetto. Il "luogo antropologico è simultaneamente principio di senso per coloro che l'abitano e per colui che l'osserva". Il luogo antropologico diventa così una parte importante nell'elaborazione delle identità personali e nelle relazioni tra membri del medesimo gruppo, dato che coloro che vi "nascono all'interno (…) hanno la possibilità di sviluppare con questo un rapporto esclusivo" (Rossi, 2006, p.101) in cui le stesse relazioni reciproche interne diventano circoscritte e realizzabili solo da chi vive quel luogo. Allo stesso tempo il luogo antropologico possiede anche un carattere storico proprio perché la dimensione relazionale ed esclusiva è inoltre ripetitiva e costituisce una garanzia di stabilità ai membri appartenenti. Queste qualità, unite al fatto che per la memoria il luogo essendo l'elemento sensibilmente più visibile, dispiega abitualmente una forma associativa più forte che non il tempo (…), proprio lo spazio si collega (.) inscindibilmente (…) nella memoria e (.) il luogo continua a rimanere il centro di rotazione intorno al quale il ritorno avviluppa gli individui in una correlazione ora diventata ideale (Simmel, 1998, p.540). Questa unione di luogo antropologico e "centro di rotazione" a forte carica emotiva fa sì che lo spazio diventi quindi "intensivo" nel senso delle relazioni che vanno ad inserirsi all'interno di quest'ultimo. 6. Conclusioni La situazione così descritta è quindi immediatamente ricollegabile all'importanza che i beni culturali rivestono all'interno dei nuovi conflitti del Ventunesimo secolo. Il ruolo determinante che questi luoghi "intensivi" hanno nell'unire il gruppo etnico di riferimento, riprendendo Smith (1984), sotto i punti di vista dei miti, delle storie e dei simboli condivisi, rende immediatamente determinante la posizione delle dispute attorno ai beni culturali. Tali beni possono essere quindi visti, come detto all'inizio, alla stregua di un "riassunto delle dimensioni più ordinarie e più straordinarie, di eterni contrasti, di lotte tra valori" (Toscano, 2008, p. 31). Non si può trascendere da essi ed anzi il gruppo etnico ne richiede l'esistenza, come riserve di memoria e di coesione univoca. Proprio però per questo ruolo determinante e così tanto identificante, è possibile, allo stesso tempo, rovesciare questa natura "polemizzante" per renderla invece dialogante: l'avvicinamento tra culture e gruppi diversi può avvenire solamente riconoscendo ed apprezzando l'unicità dell'altro. È per questo motivo quindi che, attorno al bene culturale, si sviluppa una duplice energia che gli attori sul campo devono saper ben indirizzare.
L'albo lapillo Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo 1922 a Bologna, prima tappa del lungo peregrinare della famiglia Pasolini imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell'esercito. Carlo Alberto appartiene ad una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini Dall'Onda, nobili degli Stati della Chiesa che da sempre assolvono incarichi importanti in Vaticano. Tuttavia il padre, Argobasto, avvia la famiglia alla rovina a causa del gioco d'azzardo, rovina cui contribuirà a sua volta il figlio Carlo Alberto preda della medesima passione. L'aver scialacquato ciò che restava del patrimonio paterno, lo costringe nel 1915 ad abbracciare la vita militare, carriera che sopperiva ad un destino di degradazione economica. Carlo Alberto aderisce al fascismo e al riguardo, Enzo Siciliano addirittura si esprime con queste parole: "il fascismo apparteneva antropologicamente […] alla sua vanità, al suo evidente vitalismo, all'ombrosità del suo sguardo e ancor di più alla sua dissestata configurazione sociale, alla sua aristocrazia di sangue respinta verso le terre desolate della piccola borghesia" . L'angoscia del fallimento e il senso di solitudine che nasce da una passione non ricambiata spinge Carlo Alberto ai vizi perniciosi del vino e del gioco. Il dramma che suscitò nell'animo di Carlo Alberto lo "scandalo" del figlio, tralignò alla follia e unico rifugio, fino alla morte avvenuta nel 1958 per cirrosi epatica, lo trovò nel bere. Pier Paolo Pasolini nasce pochi mesi prima della storica Marcia su Roma, atto che sancisce la salita di Mussolini al potere. Le velleità dirigistiche e di controllo del fascismo coltivato dalla piccola borghesia che credeva di fare del Colpo di Stato delle camicie nere strumento per i propri fini particolari, viene travolta e rigettata. Questo il clima in cui cresce Pier Paolo Pasolini il quale, stabilitosi con la famiglia alla fine degli anni Trenta a Bologna, termina brillantemente gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Lettere. Pasolini amò profondamente il gioco del calcio, ma nella sua forma "pura": incontaminato, non degradato e inquinato come sarà quello reificato dalla società dei consumi, postindustriale, contro cui lancerà i suoi strali. È risaputo che si teneva in forma: aveva il terrore di invecchiare e negli ultimi anni della sua vita andò addirittura in Romania a fare la cura del Gerovital (a cui sottopone anche la madre). La prontezza del corpo fece di lui, come farà notare il suo amico Italo Calvino, uno dei pochi convincenti "descrittori di battaglie" della nostra letteratura recente. L'apparente normalità della sua vita si spezza l'8 settembre 1943, quando con lo storico armistizio, si frantumano le illusioni fasciste e l'Italia si trova allo sbando. Qui Pasolini prosegue la sua attività letteraria. Divenuto partigiano della brigata Osoppo, vicina al Partito D'Azione, cadrà vittima di quell'orribile episodio della Resistenza italiana che passò alla storia come "strage di Porzus", che vide i garibaldini e gli azionisti uniti contro le pretese territoriali sulle terre di confine delle truppe slovene fomentate dalla propaganda nazionalista e sciovinista di Tito. Questa pagina luttuosa e mesta della vita di Pier Paolo è calata nell'età storica dell'antifascismo segnata dal fenomeno della Resistenza, risultato dell'acuirsi del carattere politico-ideologico del conflitto tra il sistema democratico e i totalitarismi nazi-fascisti e che si traduce in una vera e propria resistenza nei confronti degli eserciti occupanti, sia in forma armata che in forma "passiva" (rifiuto del consenso, attività di intelligence e frenetica attività propagandistica di intellettuali e politici esuli). L'evento bellico della Liberazione attraversa e scuote tutta la penisola italiana, dalla Sicilia alle Alpi, lasciando un paese grondante di devastazione e distruzione. Enzo Siciliano parla di un'"ingenua furia romantica" del poeta Pasolini perché nel suo animo alberga il furore pedagogico di chi crede nella pregnante forza educatrice della poesia, della lingua che si fa storia e cultura attraverso il poeta che la plasma forgiando armi imperiture, vivificando una cultura locale in cui i poveri contadini possano riconoscersi e, insieme, superare l'eclissi e l'oblio dell'arcaicità d'espressione e dei costumi. Discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli, si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, professore di storia della letteratura italiana che segnerà la formazione di Pasolini insieme a Roberto Longhi, professore di Storia dell'Arte, fondamentale nella successiva passione figurativa del Pasolini regista. È affascinato dal Friuli, a cui dona il suo cuore. Pasolini aderisce nell'ottobre-novembre 1945 all'associazione Patrie tal Friul, il cui programma politico era dichiaratamente autonomista. Nel 1947 Pasolini si iscrive al Pci, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e per vivere inizia ad insegnare italiano alle scuole medie statali a Valvasone (dopo una breve parentesi in una scuola privata a Versuta). Il paese lasciato in eredità dalla guerra alla nuova classe politica e dirigente è un paese umiliato, stremato, insozzato dalla ferocia sanguinaria della guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri; un paese che ha perso la sua credibilità all'estero, governato da una classe politica inesperta, conservatrice, che non ha saputo rispondere alle pulsioni modernizzatrici favorendo la sclerotizzazione della frattura tra un nord vivace, propositivo e attivo, e un sud dove ha prevalso l'impulso reazionario che ha favorito il ripristino del vecchio stato, dove le forze dell'ordine e la magistratura sono tutt'altro che convertiti alla democrazia e dove predominano due partiti di massa tra loro antitetici. Il sogno di una cosa viene visto come "lo sfondo mitico e contadino del romanzo "romano" (per) l'epicità del libro che trae sostanza dal senso di avventura che increspa il vivere dei tre protagonisti: soluzione stilistica a cui Pasolini arriva dopo Ragazzi di vita" . La situazione agraria e contadina, soprattutto nel sud Italia, risente fortemente della distruzione e degli sconvolgimenti causati dalla guerra. La manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro a San Vito del Tagliamento per ottenere i miglioramenti che il lodo prometteva agli agricoltori disoccupati e ai mezzadri danneggiati dalla guerra, è rivolta contro quei proprietari terrieri che si sono strenuamente opposti fino a quel momento all'applicazione della legge. La concezione ideologica di Pasolini si incarna in un personaggio del "romanzo" Il sogno di una cosa: una ragazza borghese, Renata, che abiura alle precedenti categorie di pensiero e all'impianto ontologico tipico della sua classe sociale, "che mai gliel'avrebbero perdonato", per farsi marxista. Pasolini dona così forma al suo "inconscio antropologico" (Enzo Siciliano), affidandolo alle parole di questa giovane ma anche a quelle del prete Paolo quando dice, ho notato quanto siano migliori i giovani del popolo da quelli della borghesia: è una superiorità sostanziale e assoluta, che non ammette riserve. Si insinua insidioso anche un altro tratto autobiografico, che lui avvertirà sempre come una colpa soverchiante e per cui i patimenti emotivi si susseguiranno fino alla fine della sua breve esistenza: l'omosessualità. Trauma inconscio che si riverbera nel suo atteggiamento sessuale adulto per cui Pier Paolo cerca "in folle caccia notturna" i ragazzi, stabilendo una distanza netta dalla sua realtà domestica. Muoio nell'odore di una latrina della mia infanzia, legato per sempre alla vita da una vespa che accende nell'aria l'odore dell'Estate. O anche "ciò che più tortura è il "cedere"/mi trovo al mesto bivio del peccato/e cedo […]". Isolato e epurato dal partito comunista -al tempo duro ed ortodosso in materia-, si decide alla partenza con la madre Susanna. Roma. Pasolini rimane pur sempre un "poeta" inteso, alla Elsa Morante, come scrittore che sa dar voce, anche con irriverenza, al proprio daimon, rimanendo fedele alla propria vocazione. Poeta vicino all'espressionismo, rifugge dalla trasposizione della realtà nella letteratura dove esprime invece tutto il suo disagio esistenziale. Nella capitale della neonata Repubblica Italiana, Pasolini arriva con la madre agli albori degli anni Cinquanta. Nel frattempo avrà l'occasione di un nuovo contatto con il cinema quando Mario Soldati lo invita a collaborare alla sceneggiatura, insieme anche a Bassani, del suo film del 1954, La donna del fiume. La prima opera in omaggio alla romanità è del 1955, Ragazzi di vita. Lapalissiano il fine politico: disvelare una realtà taciuta, volutamente emarginata anche geograficamente nelle borgate, nelle appendici da una società apparentemente riemersa dalle ceneri della guerra, sedicente superstite dell'horror vacui della disperazione e della distruzione che tende a celare a se stessa i propri dolori ed i propri mali. Ciò spiega il perché è addirittura la presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Segni, a muoversi scrivendo esso stesso al Procuratore della Repubblica di Milano, bollando il testo come "pornografico". Contro questi perbenisti piccolo borghesi detrattori di Pasolini, politici e non, Gadda (che definisce Ragazzi di vita una "colonna sonora"), Bertolucci, De Robertis, Bigongiari, Carlo Bo, Cassola, Sereni, Anna Banti, Mario Luzi e con loro altri esponenti della cultura del tempo, costituirono quella giuria che a Parma nell'estate del 1955 assegna al "romanzo" il premio "Colombi- Guidotti". Il plurilinguismo a cui è votato Pasolini lo riporta presto sulle scene con un'opera, forse l'unica che- data l'organicità della narrazione- può essere ascritto alla famiglia dei "romanzi", Una vita violenta (1959). È una sorta di manifesto letterario con cui sancisce il suo riavvicinamento al Partito Comunista. Questo è deducibile dalle parole di Pasolini il quale in un'intervista apparsa sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel 1959 dirà io credo soltanto nel romanzo "storico" e "nazionale", nel senso di "oggettivo" e "tipico". Emblematico è a questo fine il titolo di una raccolta di undici componimenti poetici in lingua, Le ceneri di Gramsci, "i più intensi e profondi esperimenti poetici di Pasolini […] una vera e propria summa al contempo delle posizioni ideali del poeta e della sua visione del mondo" "una delle partiture più ingannevoli e più strabilianti di tutta l'opera di Pasolini" il cui segreto sta "nei poemi, che nelle intenzioni dovevano esprimere l'angoscia dell'inafferrabilità e dell'impermeabilità del reale, si trasformano in un flusso che riproduce il reale nei suoi tessuti e nelle sue strutture, come il continuum sintattico riproduce il continuum del paesaggio" , composti tra il 1951 e il 1956 e stampati nel 1957, precedente di due anni il romanzo Una vita violenta e intervallato da una collaborazione alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, a cui lo invita Federico Fellini, come revisore della parte dialettale romanesca (per cui si servirà della collaborazione di quello che diventerà uno dei suoi due pupilli e tenero amico, Sergio Citti). In questa raccolta di componimenti l'obiettivo è quello di dare un volto nuovo alla storia italiana e per farlo Pasolini indulge sul passato con brani dedicati alle origini medievali del canto popolare, al periodo classico, romano greco e barbarico, al periodo comunale: il tutto in un clima quasi di attesa, di sospensione del popolo che aspetta da sempre "mai tolto al tempo" (Il canto popolare) e quindi non obnubilato dalla modernità ma vivo, sopravvissuto nel Presente e emarginato, confinato, ghettizzato in vacui solitari e fatiscenti paesi di collina, in tuguri o baracche, in squallidi quartieri periferici che circondano, con ferina purezza e semplicità, le baldanzose, bislacche città frutto del tempo breve. L'occasione è data da una visita di Pasolini al "Cimitero degli Inglesi", accanto a Porta San Paolo a Roma, a ridosso del quartiere popolare il Testaccio, in cui era stato seppellito Gramsci. Pasolini contempla amareggiato la rovina storica, "in esso c'è il grigiore del mondo / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita / il silenzio, fradicio e infecondo". In questi versi sono condensate tutte le cocenti delusioni che albergano nel cuore del poeta e la sofferenza per la sorte dell'Italia: i dieci anni di dominio della Democrazia Cristiana al potere, il tradimento della Resistenza, il naufragio delle speranze e la perdita degli affetti. Durante lo srotolarsi del poemetto, Gramsci abbandona le vestigia di ideologo e uomo di partito, di padre e diviene per Pasolini "umile fratello", completamente disarmato, non rivoluzionario bensì il Gramsci della sofferenza riflessiva della prigione da cui gemmano pagine di vibrante lirismo e puntigliosa razionalità, lucidità storica e politica. Confinato nella solitudine dalla mordacità dell'uomo e dalla crudeltà della storia. L'interesse è rivolto al giovinetto Gramsci, umiliato e vilipeso, partorito dalla sensibilità del poeta, non al personaggio storico. La protesta è rappresentata dall'essere "diverso", nella poesia come nella vita. Diverso da chi, da cosa? Diverso dai prodotti della mercificazione, dall'omologazione e dalla massificazione che crea e fa subire al popolo inerme e disarmato l'evoluzione della tecnica. Questo non farà che esacerbare ulteriormente le idiosincrasie all'interno del partito dal quale, in seguito agli scandali legati alla sua omosessualità, era stato espulso. Sono gli anni in cui all'interno del partito domina l'intransigenza teologica dei marxisti ("sono inflessibili, sono tetri, / nel loro giudicarti: chi ha il cilicio / addosso non può perdonare. Nel 1958 pubblica L'usignolo della chiesa cattolica, una summa del suo credo marxista intriso soavemente di pietas cristiana. L'attività critica di Pasolini vede la sua prima momentanea sistemazione nella raccolta saggistica del 1960 Passione e ideologia. Un profondo e drastico mutamento del clima culturale occorse negli ultimi anni prima della guerra. Questo nuovo clima non è infondato ma motivato dalla lotta vittoriosa del paese contro il fenomeno fascista e la riconquista che ne derivò della libertà e della democrazia. Il primo numero compare alla fine di settembre del 1945 e, novità, in edicola perché vuole assurgere subito a organo culturale di massa. Chiude la sua attività nel dicembre del 1947. L'editoriale del direttore Una nuova cultura apre il "Politecnico". Contrasti con la redazione e divergenze di vedute fra Vittorini e esponenti di spicco del Partito Comunista, di cui era un giovane neofita, portò alla chiusura dell'organo. I dissapori con i dirigenti comunisti, in particolar modo con Palmiro Togliatti e lo storico Alicata, ruotano intorno al valore che Vittorini attribuisce alla cultura nell'orientamento della storia e nella rinascita della società, compiti che il partito attribuisce più alla politica che alla cultura. La cultura invece non può non svolgersi al di fuori di ogni legge di tattica e di strategia sul piano diretto della storia. Vittorini tende, esecrabilmente, a mettere in discussione il rapporto organico tra intellettuali e partito che dominerà la vita culturale nei decenni successivi caratterizzando la storia della cultura a sinistra dell'Italia; si rifiuta di porre così dei limiti al suo lavoro, di assecondare i diktat del partito e chiude la rivista "Il Politecnico". Il "ceto intellettuale" svolge una funzione di prim'ordine nell'analisi gramsciana, per la formazione del "blocco storico" perché è l'unico che può condurre al cambiamento la società rifondandola. Da qui, la sua idea di "intellettuale organico" per indicare quell'intellettuale che si lega visceralmente ad una classe sociale e al suo destino e istaura un rapporto dialettico con il suo partito. Una tendenza volta a creare una cultura liberale nell'Italia dopo la Liberazione ma, al contempo, attenta ai problemi del socialismo e della democrazia, corrente di pensiero incarnata da Norberto Bobbio. Per ottenere questo fine, è necessaria la comprensione della realtà. Al cinema e nella letteratura il parlato e il dialetto si impongono sovrani. Asor Rosa parla, per introdurre Pasolini, di "apoteosi e crisi del neorealismo" ricordando al lettore che ogni periodo storico-letterario finisce sempre e comunque o per rottura o per eccesso. Quello fascista, ci dice, terminò bruscamente per rottura e si fa strada l'idea che una nuova fase debba aprirsi per rispondere alle speranze degli italiani, anche nel campo del gusto e della poesia. Si scontra allora con le posizioni ufficiali del Partito Comunista che lo accusa tramite la rivista culturale ufficiale del partito, "Il contemporaneo", fondata nel 1954 e diretta da Salinari e Trombadori, di deviare dalla via del realismo inserendo nelle sue opere elementi decadenti, irrazionalistici e vitalistici. Alla "Guerra Fredda" corrisponde una spartizione del mondo in due parti (a cui nel 1962 si aggiungerà una terza realtà che è quella del blocco dei cosiddetti "paesi non allineati" nata alla conferenza di Bandung), simbolicamente indicate nella carta geografica con due colori differenti, il blu per i paesi schierati con gli Stati Uniti e rosso per quelli che gravitano intorno all'Unione Sovietica. In seguito alla Conferenza di Yalta del 1945, che stabilisce la spartizione delle zone di influenza, l'Italia viene inserita nel gioco di alleanze della potenza americana. Nel nostro Paese, il lungo periodo inaugurato dalle elezioni politiche del 1948, che vedono la vittoria di De Gasperi e della Democrazia Cristiana e l'uscita di scena del blocco delle sinistre, viene vissuto in condizioni di sostanziale equilibrio politico: per quarantacinque anni si succederanno governi a guida democristiana il cui percorso è agevolato anche da quella conventio ad excludendum, grazie alla quale vengono respinte come forze di governo, le due frange estreme dello schieramento parlamentare (Msi, erede delle posizioni della Repubblica di Salò, e Pci) . Un Paese ancora impegnato sulla strada della ricostruzione della propria identità, materiale e spirituale. La quasi totalità degli italiani ancora era impegnata, per vivere, nei settori tradizionali- principe ancora l'agricoltura che all'inizio del 1950 assorbe ancora quasi il 50% della popolazione attiva, concentrata con picchi del 56-57% al Sud (Ginsborg) - a cui corrispondeva un basso tenore di vita legato, nel caso dell'agricoltura, all'arretratezza strutturale che rallentava la crescita e la produzione (unica eccezione quella delle aziende agricole, dinamiche, moderne e produttive della Pianura Padana). Ciò è legato sia ad una perdita di autorità del pater familias, per cui il figlio del mezzadro tende a non voler più seguire le orme del padre sia al fatto che il proprietario, dato il crollo dei profitti e gli alti prezzi del mercato, tende a vendere le proprie terre il più delle volte ai mezzadri stessi. Ugualmente nel sud Italia si avvia un processo di vendita di terra che, insieme alla legge del 1948 che stabilisce il sistema di crediti ipotecari rurali rimborsabili in quarant'anni, agevola la piccola proprietà contadina. La fine del protezionismo diede nuova vita all'economia del paese portandolo, quasi obtorto collo, a rimodernarsi. In breve tempo la produzione industriale, così sollecitata al dinamismo, supera quella di tutti gli altri settori e l'Italia da paese agricolo diviene una delle nazioni più progredite del continente. L'"urbanizzazione" cambia il volto del paesaggio umano e sancisce la morte dell'"homo italicus" (Asor Rosa) legato alla proprietà e alla coltivazione della terra, sovverte totalmente i precedenti rapporti di classe con la crescita esponenziale della classe operaia di fabbrica che sarà al centro delle lacerazioni che seguiranno questo primo periodo di ebbrezza e che trova sfogo nella dura politica antisindacale e persecutoria ai danni di operai di dichiarata fede comunista perseguita dalle imprese. Il clima sociale e politico si scalderà velocemente e le lotte, le manifestazioni, le repressioni e la rabbia sociale che questa realtà esacerberà tingeranno di nero molte pagine della storia politico- sociale della Prima Repubblica italiana. Il "miracolo economico" in realtà cova degli squilibri al suo interno. Ginsborg delinea perfettamente questa situazione: il boom si realizzò seguendo una logica tutta sua, rispondendo direttamente al libero gioco delle forze del mercato e dando luogo, come risultato, a profondi scompensi strutturali. Dunque, l'altro lato della medaglia vede quelle declinazioni obliate dalla vitalità del momento, i contraccolpi che cova al suo interno il "boom" e che, accanto al forte spaesamento culturale, genera bisogni difficilmente soddisfacibili, come la domanda aggiuntiva di case, ospedali e scuole essendo più rivolto alla produzione di beni privati, individuali o al massimo familiari a detrimento dei beni pubblici e dei servizi. Fomenta anche rancore sociale accanto alle rivendicazioni di nuovi diritti dei lavoratori, che cominciano a tradursi in fiammate di combattività, a partire dagli scioperi del 1962- che si concluderà con l'episodio tragico di Piazza Statuto - e soprattutto del 1969 con la rivendicazione di uguaglianza di salario e parità normative tra operai e impiegati (lo Statuto dei Lavoratori è del 1970). Le forme governative non sono pronte alla sfida che questi mutamenti sociali mettono in campo. Avvocato seguace della linea dura, della politica "legge e ordine", opportunista nelle sue strategie di alleanze, Tambroni non si schiera apertamente con l'ala destra o sinistra del suo partito e mantiene buoni rapporti sia con i dirigenti missini che del Psi (anche se sarà bollato come uomo di destra non solo per la politica perseguita contro i manifestanti ma perché ottenne la carica di presidente del Consiglio grazie al voto degli esponenti del Msi e dei monarchici). Tambroni risponde alle manifestazioni che si svolgono a Genova, a Roma e in Emilia Romagna nel 1960 in occasione del congresso nazionale dei missini che provocatoriamente annunciano di tenerlo a Genova, una delle patrie della Resistenza, merito riconosciutole istituzionalmente con una medaglia d'oro. La vicenda Tambroni, ci fa notare Ginsborg, ha il merito di chiarire una volta per tutte una costante della storia politica della nostra Repubblica: l'antifascismo è nel dna dell'ideologia egemone per cui qualsiasi velleità autoritaria o liberticida viene osteggiata fisicamente dalla massa e messa al bando. Inoltre questo episodio favorisce un avvicinamento della Dc con i socialisti con la conseguente avanzata delle sinistre alle elezioni. Nel gennaio 1961 viene eletto alla Casa Bianca il democratico John Kennedy che, dopo il rapporto stilato sulla situazione politica italiana da un suo funzionario, decide di appoggiare l'ascesa del Psi con il doppio scopo di oscurare il partito comunista -che aumenta il proselitismo di massa- e al contempo far uscire l'Italia dallo stallo in cui il vuoto riformista l'aveva incatenato. Un papa ieratico, lontano dal sentire della gente. "Riforme mancate e mancata riforma del sistema politico si intrecciano e si alimentano a vicenda, innescando un "cortocircuito perverso" che agisce in profondità, sotto l'apparente bonaccia che va dal superamento della crisi economica all'"esplosione" del 1968" . Togliatti si aprirà al policentrismo politico e culturale e caldeggerà il superamento dello schieramento ideologico dei due blocchi. Stalin è morto nel 1953 e nel corso del XX Congresso del Pcus, che si tenne a Mosca nel febbraio del 1956, il nuovo segretario Nikita Chruscev diffonde il rapporto segreto sui crimini nefandi commessi da Stalin, favorito in questo dal "culto della divinità" a cui aveva piegato non solo la popolazione ma anche tutti i suoi sodales. La tradizione culturale del comunismo italiano ha allora, con Togliatti e la sua necessità di "vie nazionali del socialismo", l'originalità di confondersi con quella liberale. Quest'ultimo aspetto è interessante perché testimonia un processo di unificazione nazionale frutto sia di un maggior intervento scolastico mirato all'aumento del tasso di alfabetizzazione sia dell'incontro di due realtà fino a quel momento agli antipodi, i contadini del sud e la classe operaia del nord. Affermato poeta e emergente cineasta, interviene nel dibattito sui caratteri dell'italiano nell'epoca del "miracolo economico" e dedica alla nuova questione linguistica una conferenza (apparsa sulla rivista "Rinascita" nel dicembre del 1964) dove denuncia un letale sovvertimento del tradizionale assetto dei rapporti comunicativi, inquinati dall'avvento dell'industrializzazione a-morale e selvaggia e alla diffusione sempre più massiccia della televisione che tende ad unificare al ribasso la lingua italiana dalla cui facies scompare, o comunque si erode irreversibilmente, la genuinità di un dialetto che si vede aggredito dai potenti mass media. I dati statistici sono a questo fine utile: nel 1958 solo il 12 percento delle famiglie italiane possiedono un televisore, nel 1965 la percentuale è già salita al 49, allo stesso modo il possesso di un frigorifero passa dal 13 al 55 per cento, quello di una lavatrice dal 3 al 23 mentre gli italiani che posseggono un'automobile passa da 342000 a 4670000. Cambiano le abitudini alimentari e il modo di vestire degli italiani. Tutto ciò avallato dallo Stato e dal suo lassismo, dalla pigrizia e inamovibilità dei governi che nel ventennio 1950-1960 concedono piena libertà all'iniziativa privata. Fu uno dei pionieri della critica serrata e violenta di questo nuovo stato di cose, sociale e politico e ferventi saranno gli attacchi che lancerà dalle pagine di quotidiani, in particolare il "Corriere della Sera". A lacerare il velo delle illusioni saranno, in campo politico-sociale, atti di terrorismo e violenza vigliacca che dopo il preludio sessantottino, dalla Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 darà il via alla "strategia della tensione", allo stragismo nero e al fenomeno delle Br: vicende che tanto avviliranno la nostra democrazia. Il rifiutato è l'irruzione dell'estraneità e della diversità, l'oggetto inerte e passivo del rifiuto. L'essere del rifiutato è la sua povertà e la sua miseria inseparabili e irreparabili. Pasolini con la sua opera poetica, che contempla non solo la scrittura ma anche il cinema ("la lingua scritta della realtà"), offre al suo pubblico un ampio materiale di riflessione sulla figura del rifiutato, dell'emarginato e sulle sue implicazioni sociali, politiche e morali. Negli anni Sessanta la produzione culturale e artistica si sposta sul cinema perché ha una presa maggiore sul pubblico, è più sensibile alla quotidianità e fedele al paese che cambia. L'avventura del cinema lo porterà a viaggiare costantemente negli anni Sessanta. In Alì dagli occhi azzurri, un volume che raccoglie scritti tra il 1950 e il 1965, c'è un racconto in versi che presta il titolo alla raccolta, Profezia (1962-1964) in cui riversa la sua speranza nelle potenzialità rivoluzionarie dei popoli sfruttati del terzo mondo,essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/essi sempre infimi/essi sempre colpevoli/essi sempre sudditi/essi sempre piccoli […] deponendo l'onestà/delle religioni contadine, /dimenticando l'onore/della malavita/tradendo il candore/dei popoli barbari, /dietro ai loro Alì/dagli occhi azzurri- usciranno da sotto la terra/per uccidere-/usciranno dal fondo del mare per aggredire/scenderanno dall'alto del cielo per derubare […]distruggeranno Roma/e sulle sue rovine/deporranno il germe/della Storia Antica. Accanto c'è anche il filone politico, di denuncia: Le mani sulla città di Francesco Rosi,1963, affronta il tema della speculazione edilizia a Napoli, o a Elio Petri, Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965) etc. Accanto a questi registi Pier Paolo Pasolini è spinto al cinema dalla volontà di dare plasticità visiva alla sua immaginazione antropologica e poetica. Il suo è un cinema tutt'altro che consolatorio, non è foriero di speranze ed è colmo di rassegnazione e amarezza, sentimenti maturati in seguito al sopravvenire della crisi delle ideologie e allo sfigurarsi del mondo del "piccole patrie". Una nuova "Bibbia dei poveri". Un cinema che fa dell'intrattenimento piccolo-borghese una sorta di Moloch e che si staglia contro l'ipocrisia dei benpensanti attraverso l'esibizione del sesso senza veli, almeno finché il consumismo non farà della liberazione dai tabù sessuali un suo imperativo, trasformando lo stigmatizzato Pasolini in corifeo della nuova normalità borghese. In Pasolini il cinema si mostra da subito per ciò che è, "passione per la vita", un mezzo per portare la poesia nella realtà attraverso la chiarezza della prosa. "[…] Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. Sempre del biennio 1968-69 sono La sequenza del fiore di carta e Porcile (a detta dell'autore, il suo film "che più tende al cinema di poesia") mentre successive altre significative produzioni, dall'Edipo Re (1967), a Medea (1969-'70), da la "Trilogia della vita" (stagione 1970-1974) che contempla Il Decameron I racconti di Canterbury Il fiore delle mille e una notte (una trilogia della "mancanza della vita", affermazione disperata di qualcosa che non esiste più) alla quale seguirà un documento scritto nel giugno 1975 (Abiura dalla Trilogia della vita) dove giustifica il suo gesto dell'abiura con la costatazione della scomparsa di quella gioventù capace di libertà e trasgressione a cui quasi lui inneggiava attraverso questi film. L'innocenza che lui aveva perseguito qui è cancellata dal meccanismo di emulazione dei modelli veicolati dalla televisione, figli della società capitalista che tutto ciò che tocca corrompe; alla violenza disarmante e demistificante di Salò o le Centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui la rievocazione in chiave sado-masochista di un episodio della Repubblica fascista di Salò fa da metafora della situazione dell'Italia democratico-repubblicana; a cui avrebbe dovuto seguire Porno- Teo- Kolossal, progetto interrotto, insieme al suo romanzo Petrolio, dalla tragica fine dell'autore all'Idroscalo di Ostia. Riservandoci un'analisi più puntuale in un secondo momento, possiamo tuttavia cogliere la sua convinzione che sia in atto un mutamento socio- antropologico devastante, che oscura la prospettiva popolare della Storia spogliandola così del suo carattere "assoluto". Intuibile è, a questo punto, la sua netta condanna del movimento studentesco del 1968, da cui prende le distanze dichiarandosene estraneo perché avvertito come volontà di emancipazione piccolo- borghese. Lo stato d'animo del Pasolini degli ultimi anni è di "disperata vitalità": sa di non essere compreso. I suoi interventi si fanno sempre più numerosi e appassionati, ruotano intorno a ciò che Pasolini dice soggiacere alla base di questa drammatica realtà: l'esiziale vuoto democristiano, partito arroccato nel Palazzo per semplice tornaconto personale, l'inamovibilità del progressismo e gli errori tattici del Pci, la dissoluzione del mondo proletario- contadino. L'ingordigia dei governi di centro- sinistra che dominano la scena dal 1962 al 1968, rende sordi e ciechi i politici di fronte alle esigenze di un'Italia in rapido cambiamento. Le ragioni salienti del movimento studentesco vanno ricercate nelle riforme scolastiche degli anni Sessanta: con l'introduzione (1962) della scuola media dell'obbligo fino ai quattordici anni, si incentiva un livello di istruzione di massa oltre la scuola primaria ma contemporaneamente vengono alla luce le gravi carenze: dalla mancanza dei libri di testo alle gravissime lacune nella preparazione degli insegnanti, mai aggiornati. Il Sessantotto italiano nasce nelle università con la richiesta di un serio esame di coscienza alla cultura. Nel frattempo, nelle maglie comuniste torna in auge il pensiero marxista con la sua attenzione per i coni d'ombra aperti dallo sviluppo economico e la conseguente condizione della classe operaia. A completare il quadro, si aggiungono presto le influenze "terzomondiste" provenienti dall'America del Sud, a partire dalla morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967 che diviene così il martire simbolo della rivolta. Siamo nell'autunno del 1967 e investe gli atenei a partire dalla facoltà di sociologia di Trento a cui seguono quelli di Milano, Torino, Pisa. La nuova lettura che viene data nel Sessantotto è libertaria e iconoclastica del materialismo storico. I lasciti saranno vari, non tutti della medesima natura: innegabile il forte impulso alla democratizzazione, alla modernizzazione e alla partecipazione con l'affermazione del primato dell'assemblea a detrimento della delega. Gli atti dimostrativi, provocatori, violenti e il disprezzo per le regole furono alla base del fallimento. Ebbero però l'intuizione della necessità di avere al proprio fianco gli operai, classe sociale sclerotizzata in una situazione intollerabile. La propaganda incendiaria inibisce qualsiasi istanza modernizzatrice, le modalità di rivendicazione sono corrotte da una torsione del marxismo e del leninismo, per cui la coronazione della lotta di classe si può ottenere solo per mezzo di un furore iconoclasta e casinista. Gli anni dal 1968 al 1972 vedranno un susseguirsi di tiepidi e brevi governi di coalizione, perlopiù di centro-sinistra, che tentano di mediare la protesta con una scialba politica riformatrice che favorirà l'istituzione delle Regioni, la regolamentazione del referendum abrogativo; in campo sociale la regolamentazione delle pensioni, la nascita (maggio 1970) per merito del socialista Giacomo Brodolini dello Statuto dei Lavoratori di cui si comincia da subito a fare largo uso, la conclusione della lunga lotta del Lid per l'introduzione del divorzio in Italia, intrapresasi dopo il progetto di legge del 1965 presentato dal socialista Fortuna, il cui iter parlamentare però venne bloccato dalla Democrazia cristiana. Una condizione di assoluta precarietà su cui si abbatterà la più grave crisi economica dopo quella del 1929 e che influirà sulle politiche economiche internazionali per tutti gli anni Settanta, conosciuta come crisi petrolifera perché generata dalla decisione dei paesi dell'Opec di aumentare del 70 per cento il prezzo del petrolio facendolo schizzare alle stelle e mostrando nella sua drammaticità la totale dipendenza dei paesi occidentali dall'esportazione del petrolio. Questa crisi si abbatte su una situazione internazionale già fortemente problematica: la rottura del sistema Bretton Woods con la conseguente incertezza sui mercati finanziari internazionali, la svalutazione del dollaro, l'esplosione dei tassi salariali europei, un eccesso di offerta sul mercato del lavoro e il rapido declino dei profitti. Interessante è l'analisi che fa dei motivi che soggiacciono a questo estremismo della "nuova sinistra" Silvio Lanaro. Si è molto discettato sull'anomalia del "bipartitismo imperfetto", sul blocco ultradecennale del quadro politico e sul "revisionismo" del Pci, accompagnato dalla tattica terzinternazionalista del far terra bruciata alla propria sinistra: e tuttavia non si è posto l'accento sullo scotoma idiomatico di cui soffre chi vive in un paese privo nel lungo periodo di tradizioni liberali, e dunque costretto ad articolare le proprie concettualizzazioni (e le proprie azioni) a seconda di quanto gli offre il mercato delle idee e dei linguaggi. Immediata l'accusa da parte di polizia e governo alle frange anarchiche con l'individuazione dei responsabili nel ballerino Valpreda (che dopo aver trascorso tre anni in galera, solo nel 1985 sarà prosciolto da ogni accusa) e nel ferroviere Pinelli che "cadrà" dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi durante l'interrogatorio. Alla strage del 12 dicembre e alla tensione successiva si richiamerà il primo documento del Collettivo Politico metropolitano, da cui nasceranno le Brigate Rosse, gruppo che rimarrà isolato fino alle elezioni del 1972, quando il terrorismo si colora anche di rosso con l'incruento ma emblematico sequestro di un dirigente della Sit- Siemens. Nel marzo del 1972, al XIII Congresso del partito, viene eletto segretario Enrico Berlinguer. Alla strage di Piazza Fontana se ne aggiungono presto altre: Piazza della Loggia a Brescia, attentato al treno "Italicus" nel 1974 e attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. L'unico argine, nell'opinione di Berlinguer, sarebbe stata allora una grande alleanza che si concretizzasse politicamente in un accordo con la Dc, presentandolo come una strategia in cui comunisti e cattolici avrebbero condiviso un medesimo codice morale con il quale risollevare le sorti del paese. Questa strategia avrebbe avuto il merito indiscutibile di porre il Pci al centro della scena politica dopo anni di evanescenza. La sensazione che si ha è di essere di fronte alla nemesi del Partito democristiano, come si coglie dall'esigenza pasoliniana di un "Processo etico" al "Potere", ossia al partito che lo ha incarnato, al fine di riscrivere delle regole civili universali e inviolabili. A Pasolini il "coraggio intellettuale della verità" non manca: Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Colpa da cui discende la necessità di un processo, un "Processo come metafora" con cui "determinare nel paese una nuova coscienza politica" sancendo definitivamente la fine di "un'epoca millenaria di un certo potere", rendendo preclara una verità fondamentale, "che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere bensì in relazione al nuovo potere", ossia alle esigenze etiche della collettività civile. Le successive elezioni politiche, 20 giugno 1976 -le prime aperte anche ai giovani tra i 18 e i 21 anni-, confermano la salita del Pci che con il 34,4 per cento dei voti si avvicina alla Dc che resta stabile al 38,7 per cento, grazie alla grande borghesia che fa quadrato intorno al partito (storico l'invito del più famoso giornalista conservatore italiano e direttore del "Giornale Nuovo", Indro Montanelli, a votare Dc "turandosi il naso") mentre il Psi esce indebolito (nel 1976 il segretario De Martino verrà sostituito da un esponente dell'ala destra del partito, Bettino Craxi). I due governi Andreotti che si susseguono tra il 1976 e il 1978 e che includono il Pci nell'area di governo, passeranno alla storia come governi di "solidarietà nazionale" all'interno dei quali si appannerà la diversità comunista, grazie anche all'abilità del fine statista Aldo Moro, che con l'ambiguità e la sottigliezza del suo linguaggio, favorisce il graduale inserimento del Pci nelle logiche del sistema dei partiti, processo vissuto come un tradimento da quegli elettori che avevano riposto vitali speranze in un partito per cui Pasolini spende queste parole: la presenza di un grande partito di opposizione come il Partito Comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. A provocare il fallimento della "solidarietà nazionale" è proprio l'assenza del soggetto "nazionale" con cui unanimemente si indica un agglomerato sociale relativamente uniformato da comportamenti e valori comuni. Questo avvenimento scuote le fondamenta del sistema spingendo alla riflessione parte della società civile sull'importanza di beni immateriali usurati fino a quel momento. La presa di coscienza di Berlinguer del fallimento del "compromesso storico", si ha a Genova dove, nel settembre 1978, durante la festa nazionale dell'"Unità" rivolgendosi alla folla dirà che è giunto il momento in cui "si possono e si devono cambiare" gli equilibri politici del paese. Tuttavia, la rottura della solidarietà nazionale segnerà anche il declino del Pci. Nelle manifestazioni giovanili del 1968, diviene inviso agli studenti, e a larga parte del Pci, per la netta posizione che assume. Individua una forte ambiguità nel movimento, all'interno del quale scorge elementi piccolo-borghesi. La polemica contro/il Pci andava fatta nella prima metà/del decennio passato. siamo ovviamente d'accordo con l'istituzione/della polizia.//a Valle Giulia ieri, si è così avuto un frammento/di lotta di classe: e voi cari (benché dalla parte/della ragione) eravate i ricchi/mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto)erano i poveri. /Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, /o bandire dalla sua anima, una volta per sempre/l'idea del potere. Il "perturbatore della quiete" Pasolini, ospite scomodo della cultura italiana, negli ultimi anni della sua vita sente il bisogno cocente di confrontarsi con l'opinione pubblica, atterrito da ciò che vede: un'omologazione incalzante di costumi e moralità cui si doveva celermente fuggire e contro cui doveva lanciare i suoi strali anche a costo di attirarsi critiche aspre, come fu. Nel frattempo, prende a scrivere caustici pamphlet politici nella prima pagina del "Corriere della sera" (possibilità che gli è data dalla successione a Giovanni Spadolini come direttore di Piero Ottone, più liberale e pronto a violare il moderatismo borghese a favore di una più vivace dialettica politica, al cui fine venne creata una "Tribuna aperta"). I bersagli di Pasolini sono il consumismo, l'esercizio democristiano del potere, il permissivismo nei giovani e la linea ufficiale dei comunisti. Il fine è quello di provocare accese polemiche, assumendo anche posizioni inaspettate, come nel caso del referendum sull'aborto del maggio 1974 la cui vittoria viene aspramente criticata da Pasolini perché dissolve definitivamente l'identità contadina, lasciando un vuoto riempito dalla "borghesizzazione", dai valori vacui ed effimeri di un consumismo sfrenato. La vertiginosa salita del Pci alle elezioni amministrative del giugno 1975, offre a un Pasolini galvanizzato da questa novità politica, da quella che sembra una nuova primavera nata da una restaurazione della sinistra -favorito anche dal consenso accordatogli dai ceti medi, i quali sembrano rispondere a quel sentimento di legittimità costituzionale che suscita nei confronti del Pci il terrorismo di destra-, l'occasione per delineare un suo personale progetto di riforma che prevede l'abolizione immediata della scuola media dell'obbligo e della televisione. Nei confronti del successo elettorale comunista però Pasolini tiene un atteggiamento di distacco . I "fascisti di sinistra" dal punto di vista della prassi, sono frange attive all'interno del partito e simili impurità rischiano di far perdere di vista le necessità della Storia. "Io mi sono sempre opposto al Pci con dedizione, aspettandomi una risposta alle mie obiezioni. Accanto alle passioni, l'eros e le abitudini sono recidive. Nei suoi vagabondaggi notturni si riverbera il deragliamento della società italiana. Sarà vittima di aggressioni, conati di violenze e intolleranza fino al triste epilogo: l'alba del 2 novembre 1975 consegna al mondo il corpo di Pasolini abbandonato su un anonimo terreno dell'Idroscalo di Ostia. Ogni società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue fila. Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, […] ha fatto una serie di film alcuni dei quali sono ispirati al suo realismo che io chiamo romantico ossia, un realismo arcaico, gentile e al tempo stesso misterioso; altri ispirati ai miti, al mito di Edipo ad esempio, poi ancora al mito del sotto-proletariato il quale è apportatore […] di una umiltà che potrebbe portare ad una palingenesi del mondo. Lì si vede questo schema del sottoproletariato. Lo schema dell'umiltà dei poveri Pasolini l'aveva esteso in fondo al Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. […] Allora il saggista era una novità (che) corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene ad un altro aspetto di Pasolini cioè, benché fosse uno scrittore con dei frammenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico tuttavia aveva un'attenzione profonda per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Gli anni del boom economico italiano vedono un'incontrollabile e apparentemente solida crescita industriale a cui si accompagna un decisivo aumento del reddito e il conseguente espandersi dei consumi privati. Questa visione idilliaca è turbata tuttavia da alcune degenerazioni del sistema. La deflagrazione industriale, l'impennata della produzione settoriale e la diffusione del benessere hanno come contraltare una serie di sovvertimenti sociali che si manifestano sempre in maniera più evidente e che vanno dall'abbandono delle terre nel Meridione alla convivenza coatta nelle città industrializzate tra culture antitetiche e sconosciute sino a quel momento l'una all'altra al vuoto etico generato dalla perdita di quei valori diacronici, consolidati e comuni che informavano la vita relazionale. dove non c'è libertà ma un nuovo "dentro": il "penitenziario del consumismo" i cui "personaggi principali" sono i giovani. Il fenomeno della perdita non risarcita dei valori è devastante sui giovani, è l'ipoteca più amara che grava sul loro futuro e la caduta del prestigio irrelato dei valori culturali non poteva non produrre una mutazione antropologica, una crisi. È un sostituto della magia […] Ernesto De Martino lo chiama "paura della perdita della propria presenza" e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l'alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall'alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l'alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall'idea della perdita della propria presenza . Alla distruzione anomica del mondo popolare, sottoproletario e delle borgate che favorisce certi fenomeni di alienazione psichica, è imputabile il clima di criminalità brutale che si diffonderà in Italia. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. La società viene reificata dalla nuova realtà economica. In una lettera al suo amico Alberto Moravia esprime tutto il suo disagio esistenziale, la sua rabbia e la sua disperazione fisica di fronte al cataclisma che sta investendo la società italiana, Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Nel delineare il profilo strutturale della nuova società edonistica e consumistica si serve molto della descrizione delle relazioni individuali e del significato che queste acquistano. Pasolini parla di "genocidio" richiamandosi a Marx, intendendo dunque una totale sostituzione di valori, il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un'affermazione totalmente eretica e eterodossa. Oggi l'Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia- la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese- hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia . La dignità della povertà, elemento caratteristico del mondo contadino e che racchiude quasi in una dimensione sacra il mito pasoliniano, si perde nelle borgate romane degli anni Settanta (unica consolazione per lui sarà la realtà contadina del Terzo Mondo). Sentivano l'ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell'agiato. È attratto dal sottoproletariato di cui delinea il profilo in una delle riflessioni fatte nel corso di una serie di incontri tenutesi nel 1975 con il giornalista inglese Peter Dragadze e che lui stesso definisce un "testamento spirituale- intellettuale", mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura(mentre quella del borghese è volgare); perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente); perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda); perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta); perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del borghese dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa (mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese ironica), perché è pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca) . Pasolini non volge la tua attenzione alla caotica realtà del Nord dove le borgate sono popolate da immigrati spuri, fagocitati dal sistema neocapitalista industriale al quale hanno volontariamente aderito abbandonando le loro terre al Sud. Piuttosto trova analogie tra la cultura del sottoproletariato meridionale e la cultura contadina di quello che chiama Terzo Mondo. Individua l'errore dell'Italia nella rapidità del cambiamento e ricorda spesso nei suoi scritti come il passaggio nel secondo dopoguerra dalla società preindustriale agricola e commerciale a quella industriale sia avvenuta in soli venti anni. Il neocapitalismo è includente, unificante, tende ad inglobare creando una "unità del mondo". Tutto questo perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l'applicazione tecnologica della scienza. Sicché l'unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un'unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi . (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo) . Per Pasolini appare di precipua importanza rifondare i modelli culturali, teorici rinnovando l'analisi marxista e della sinistra del tempo. Il capitalismo cui si riferisce Pasolini non è più quello statico, meno interessato dagli effetti della tecnologia che caratterizzò la prima fase industriale; non a caso lui parla di "neocapitalismo", dominato da una classe borghese almeno potenzialmente egemone, che informa la società dei suoi peculiari valori e caratterizzato, a differenza del vecchio capitalismo, dalla mercificazione della cultura attraverso l'industria culturale e favorito in questo dalla nascita e dalla rapida diffusione su larga scala di mezzi di comunicazione di massa, tra cui domina la televisione. La crescita industriale schizofrenica non permette dunque alle classi sociali di sedimentarsi ma al contrario le obbliga a formarsi in brevissimi lassi temporali. Giulio Sapelli nel suo testo marca la distanza della realtà italiana sia da quella inglese dove, come Engels testimonia nella sua celebre opera del 1845, Condizione della classe operaia in Inghilterra, la formazione del proletariato prende corpo già nell'Ottocento, sia da quella francese e tedesca dove il proletariato è concomitante all'espansione della borghesia. Non siamo di fronte ad una lenta trasformazione culturale, dice Pasolini, ma ad una vera e propria rivoluzione, una "rivoluzione antropologica". Il rifiuto della modernizzazione è assoluto e disperato. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. La tolleranza è l'aspetto più atroce della falsa democrazia . Quello messo in atto dall'edonismo interclassista è in realtà un subdolo razzismo che ha il volto della discriminazione per cui l'unico modello accettato è quello della normalità piccolo- borghese veicolato dalla pubblicità. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico- mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. […] Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace . Ecco allora cosa rimpiange Pasolini, non l' "Italietta" ma l'universo gaio dei contadini e degli operai prima dello Sviluppo. Io credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell'Uomo. Una orrenda "Nuova Preistoria" sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell'antropologia classica, ora agonizzante. L'industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia . È un marxista sui generis Pasolini, non possiede l'elemento principale dei marxisti: la fede nel progresso sociale. "Illuminismo culturale". Il sacro è l'elemento dell'esperienza sottratto alla materialità della vita quotidiana, alla sua relazione immediata con la sfera della vita biologica, e soprattutto con quella della vita raziocinante […] una "sospensione della ragione" che affida l'uomo ad una potenza spirituale più grande e da lui separata […] rappresenta qualcosa di diverso dalla religione, che è diffusa a livello di massa . La crisi della chiesa diventa crisi del sacro. L'ideologia illuministica del capitalismo fa vacillare una delle due uniche possibili resistenze al suo trionfo, l'atavico sentimento cattolico italiano. Richiamandosi al concetto di Engels (Antiduhring, 1878) per cui il socialismo è l'affermazione del passaggio dell'umanità dalla preistoria alla storia, Pasolini ribatte al giudizio espresso dal suo intervistatore Alberto Arbarsino che valuta la diffusione della ricchezza e l'accesso di larghi strati popolari al benessere mai conosciuto prima un fatto positivo perché segna la "liberazione dal bisogno, dalla paura, dal ricatto della fame", con queste parole: Sai cosa mi sembra l'Italia? Un tugurio i cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione, e i vicini, vedendo l'antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge "Sono ricchi! Stanno bene!". Alla domanda di Arbasino "Tu cosa vedi?", la risposta è illuminante: Due Preistorie: la Preistoria arcaica del Sud, e la Preistoria nuova nel Nord. La consistenza delle due Preistorie (e la lenta fine della Storia, che si identifica ormai soltanto nella razionalità marxista), mi rende un uomo solo, davanti ad una scelta egualmente disperata: perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale, nei reami della Televisione. La marxista liberazione dell'uomo non avviene a seguito della serie di cambiamenti che l'avvento della tecnologia mette in atto, non si entra nella Storia ma in una nuova preistoria, quella del cupio dissolvi, dello stillicidio culturale ben rappresentato dalla televisione e voluto dal capitalismo "caro ai liberali", depositari di un'ideologia tipicamente borghese. Tutti i mali del mondo si identificano per me nella borghesia, intendendo naturalmente non il singolo individuo, ma la classe nel suo insieme e per quello che essa rappresenta . Questa borghesia per la prima volta nella storia della società italiana si pone non più come classe dominante, ma come classe egemonica. Per cui si forma una classe borghese avulsa dalle altre, contraddittoria in se stessa perché mentre dovrebbe essere protestante e liberale, nasce nel segno della Controriforma, in un mondo di contadini. Durante un intervento al congresso del partito liberale, delinea il profilo degli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale, quella tecnologica, consumistica, che non sono più identificabili come coloro che semplicemente producono merci ma "nuova umanità", nuovi rapporti sociali. b) è un medium di massa […] è manipolata per ragioni extra- culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli. Non può che dire, da intellettuale, "no" alla televisione (eccetto una collaborazione a Tv 7 che accetta perché la ritiene una forma di contestazione alla televisione fatta dall'interno) perché non individua in questo strumento un'autonomia propria, concreta tipica invece del giornalismo o del cinema o dell'insegnamento (in realtà Pasolini individua un momento autonomo della televisione, la "presa diretta", il cui linguaggio però stenta ad affermarsi). L'idiosincrasia di Pasolini è totale, viscerale. È per questo che Pasolini sente su di sé il dovere civico e intellettuale di proporre una radicale riforma al sistema televisivo e al suo "culturame": Bisogna rendere la televisione partitica e cioè, culturalmente, pluralistica. Ogni Partito avrebbe diritto alle sue trasmissioni […], al suo telegiornale […] e dovrebbe gestire anche altri programmi . La televisione inoltre mette in atto un altro cambiamento: avvia un processo di reificazione al ribasso della koinè linguistica. Pasolini si sofferma molto su questo aspetto perché nella sua analisi la lingua è un elemento imprescindibile dal momento che è dall'ordito del linguaggio che si studia la società nella sua immediatezza. L'ethos borghese tende ad essere introiettato dalla nuova società e ad informare di sé lavoro, disciplinamento sociale e selezione culturale. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle elites) è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità di vita . Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria- in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx)- e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggior repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini . Afasia intellettuale, falsa tolleranza, interclassismo edonista: questo il risvolto drammatico della nuova società neocapitalistica che si presenta inerme, come un re nudo agli occhi di Pasolini. Il pessimismo storico di Pasolini è totale (" […] sono disperatamente pessimista"). Nei teppisti meridionali non c'è un'inconscia protesta moralistica, ma un'inconscia protesta sociale: essi non appartengono […] alla classe borghese […] ma al popolo o al sottoproletariato […] non commettono reati gratuiti, ma reati ben giustificati dalla necessità economica e dalla diseducazione ambientale . Il più emblematico cambiamento nelle abitudini degli italiani, il più lento ma al contempo più parossistico, riguarda la sessualità, fino ad allora il più forte tabù sociale. Non si può tornare indietro, la tradizione ha ceduto alla modernizzazione, all'edonè consumista: Pasolini è apocalittico. Un'analisi dettagliata e chiara ce la offre Sapelli che ci richiama alla memoria l'"economia delle aspettative" scoperta dai grandi classici dell'economia, tra cui spicca Keynes i cui studi sulla logica del consumo descrivono a livello teorico i mutamenti individuati da Pasolini. Oggi, la mancanza di determinati beni privati porta addirittura ad una sorta di isolamento all'interno della società" . Troppo manichea, la posizione di Pasolini a tratti si lascia andare forse troppo al catastrofismo, la sua visione apocalittica inficia l'oggettività dell'analisi. Turba il sistema produttivo, è di ostacolo all'affermazione del neocapitalismo nelle sue diverse accezioni, "anzitutto l'omosessualità è totalmente distaccata dalla produttività puramente umana, quella della specie, nel senso che influirebbe piuttosto negativamente sullo sviluppo demografico se si generalizzasse" . Questo fomenta il disprezzo di Pasolini verso la borghesia, lo assolutizza. Il borghese non subisce questa anomia, non partecipa della sofferenza della classe proletaria e contadina, del disagio dei borgatari ma al contrario "non hanno fatto altro che aggiornare i loro modelli culturali" per cui può affermare stentoreamente di non nutrire alcuna pena per una classe sociale che non ha fatto altro, come afferma Marx nel Manifesto del 1848, che mostrare la sua natura solipsistica tesa ad assimilare tutto a se stessa. L'assoluta (apparente) libertà sessuale, ossia il libero arbitrio sul nostro corpo, è alla base di un pensiero complesso, se vogliamo anche distorto, di Pasolini che parte dall'analisi della "nuova donna" calata all'interno della rivoluzione delle classi medie: l'essere-nel-mondo è esattamente questo, sperimentare le nuove realtà e "codificarle" per farne, conformisticamente, delle abitudini. Il meccanismo di codificazione normativa che un tempo era della matrona, della padrona di casa, ora è della "nuova donna", istruita e colta, borghese e libera nelle sue scelte politiche e sessuali. Ecco il cambiamento antropologicamente drammatico indicato da Pasolini: la piccola borghesia fa propri i comportamenti tipici della destra più gretta e intollerante. Nel corso di un dibattito con la redazione di "Roma giovani" del 1974 alla domanda sul ruolo del Sessantotto nella sua critica all'alienazione della società capitalistica e di conseguenza sulla costruzione di un nuovo discorso politico e culturale, Pasolini risponde con un secco "no". La scissione avvenuta, per opera della classe dominante, tra "progresso" e "sviluppo" viene imputata da Pasolini anche alla sinistra e alla cultura cattolica le quali avrebbero dovuto assumere su di loro la responsabilità del momento, avvertirne l'urgenza e impegnarsi al fine di tutelare i valori. Questa esortazione si collega ad uno degli interventi più dissacratori e oracolari di Pasolini, intitolato "Bologna, città consumista e comunista", contenuto nelle Lettere Luterane, una raccolta di articoli e saggi politici molto pugnaci e demistificatori del sistema di potere italiano, usciti di volta in volta sul "Corriere della Sera", su "Mondo" e su "Vie Nuove" nel corso del 1975. Nel saggio sopracitato descrive il suo strazio nel constatare come anche sull' Emilia, e sulla sua amata Bologna nello specifico, si sia diffuso lo spettro della modernizzazione capitalistica che con la sua furia distruttrice ha demolito alla base la possibilità (ai suoi occhi un tempo concreta) di realizza
2008/2009 ; 1. Il mercato finanziario ed il risparmio costituiscono valori costituzionalmente significativi, data l'importanza che rivestono per il tessuto economico e finanziario di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata, come quella contemporanea, sempre più caratterizzata da un processo di finanziarizzazione della ricchezza. L'assetto normativo e regolamentare, che deve presiedere al funzionamento del mercato ed alla gestione del risparmio, è storicamente caratterizzato dal tentativo di ricercare un equilibrio tra due opposte esigenze: da una parte, quella di evitare il rischio di un'ipertrofia normativa e di un conseguente eccessivo soffocamento del mercato; dall'altra, quella di offrire ai risparmiatori un livello di protezione qualitativamente sufficiente per preservare la fiducia che gli stessi ripongono nell'integrità e nel corretto funzionamento del mercato stesso. Muovendo dalla consapevolezza che l'attività di intermediazione finanziaria deve essere promossa e valorizzata perché essenziale allo sviluppo di una moderna economia di mercato ma che, per la sua intrinseca fragilità e connaturata rischiosità, non può essere integralmente lasciata alla mercé delle dinamiche di quest'ultimo, necessitando invece di un intervento di eteroregolamentazione finalizzato alla protezione di interessi individuali e collettivi previamente selezionati. 2. A partire dagli anni novanta l'ordinamento dei mercati finanziari è stato interessato dal succedersi di vari interventi normativi, da ultimo quelli operati con le leggi n. 62 e n. 262 del 2005. Nel complesso, si è trattato di una produzione normativa tumultuosa e disorganica, sovente emanata sull'onda dell'emergenza per reagire ai ripetuti fenomeni di "abuso del risparmio e dei risparmiatori" che hanno duramente colpito la finanza italiana ed internazionale nell'ultimo decennio (si pensi, solo per citarne alcune, alle vicende Enron, Cirio, Parmalat, Giacomelli, Lehman Brothers ecc.). In questo frenetico ed estemporaneo procedere normativo, un ruolo di primo piano è stato svolto dal diritto penale, per la tendenza, ormai radicata, del legislatore nazionale di affidare la tutela del risparmio alla presunta forza deterrente della sanzione penale, spesso usata in chiave espressiva o simbolica, in una sorta di delega permanente conferita allo strumento penalistico a fungere da principale, se non spesso esclusivo, rimedio alla crisi del sistema finanziario ed ai fenomeni di dispersione della ricchezza. Si tratta, all'evidenza, di una visione miope e destinata all'insuccesso, prova ne siano i ripetuti tentativi di riforma occorsi nell'ultimo ventennio, dettati più dall'improvvisazione che da una logica di razionalità sistematica, tutti nel segno di un infittimento del corpo normativo e di una revisione al rialzo dei limiti edittali e tutti clamorosamente e prevedibilmente incapaci di impedire il verificarsi di casi di vero e proprio saccheggio e distruzione del risparmio gestito. La situazione è resa ancor più grave dal fatto che i tanti - troppi - fatti di dispersione della ricchezza dei risparmiatori non possono più essere considerati come scandali finanziari isolati, come semplici big apples, rappresentando, invece, l'espressione ed il risultato di una crisi di sistema che colpisce le fondamenta dell'ordinamento e della struttura finanziaria internazionale. Facendo apparire quanto mai illusoria l'idea di reagire affidandosi alle virtù salvifiche del mercato terapeuta di se stesso ed erronea la soluzione di continuare nel solco di un irrigidimento estemporaneo della normativa penalistica e della relativa cornice sanzionatoria, senza che ciò venga accompagnato da una diagnosi attenta ed analitica dei mali del sistema e da una ricognizione altrettanto puntuale dei rimedi da adottare. Quale, allora, la via d'uscita? 3. Quella di avviare, nell'immediato, un importante processo di riforma dell'ordinamento finanziario, facendolo precedere da una riflessione di fondo sul tipo di mercato finanziario che si intende prediligere: un mercato dove prevale, in termini assoluti e senza mediazioni, la necessità di una difesa del singolo risparmiatore, che si realizza garantendo un mercato contraddistinto da una tendenziale parità di condizioni tra gli investitori e da una tutela indistinta e piena delle funzioni di vigilanza, la quale verrebbe assicurata sanzionando le violazioni e le inosservanze a canoni positivi spesso solo formali od organizzatori? Oppure, un mercato inteso prioritariamente come luogo di libero scambio di informazioni e di capitali, che ha in sé e che vive e si nutre della speculazione, salvaguardandone nel contempo la fiducia, la trasparenza e l'integrità mediante la repressione di (e solo di) quei comportamenti di abuso che esauriscono il loro contenuto in una dimensione esclusivamente speculativa? L'attuale diritto del mercato finanziario risulta sostanzialmente conformato al primo dei due modelli sopra indicati: le regole sono spesso il frutto di interventi estemporanei e disorganici, dettate più dall'improvvisazione che da una logica di sistema, in ogni caso formalmente (ma con scarsa effettività pratica) finalizzate a reprimere - spesso stabilendo pene severe e con un uso frequente della strumentazione penalistica - quei comportamenti ritenuti lesivi della parità di condizioni tra gli investitori o di mera trasgressione a prescrizioni di natura prettamente formale ed organizzatoria. La realtà è dunque quella di un corpo normativo che, spesso in nome di un'eguaglianza fra gli investitori o di una simbolica ed eticheggiante difesa del risparmiatore, fa un uso massiccio della sanzione penale per reprimere comportamenti che, il più delle volte, si esauriscono in mere violazioni formali e di canoni organizzativi, esercitando una scarsa efficacia preventiva, com'è dimostrato dalla frequenza con cui si sono verificati, solo a guardare gli ultimi anni, scandali finanziari con gravi danni per i risparmiatori. E tutto questo viene realizzato avvalendosi (e piegando) il diritto penale ad un uso spesso simbolico, eticheggiante, puramente organizzatorio. 4. Si ritiene, invece, quanto mai necessario procedere verso un sistema normativo idoneo a perseguire il fine ultimo di ogni realtà giuridica posta a protezione del mercato finanziario: coniugare efficacemente l'esigenza che il Paese benefici di un mercato libero, non ingessato, capace di attrarre i capitali e gli investimenti a sostegno del circuito produttivo, con la necessità, altrettanto fondamentale, che di quel mercato venga garantito il buon funzionamento, la trasparenza dell'informazione che in esso circola e dunque, in ultima istanza, la fiducia dei risparmiatori. Allontanando ogni istanza egualitaristica ed accettando la speculazione come condizione di esistenza del mercato stesso. Inquadrato l'obiettivo - dovendosi ritenere ormai abbandonata l'idea del mercato quale esclusivo terapeuta di se stesso e presidio migliore della stabilità finanziaria - il suo conseguimento richiede un serio e ponderato processo di ristrutturazione delle regole del gioco poste a presidio del buon funzionamento e dell'integrità del mercato, muovendo lungo alcune direttrici di fondo. 5. Una prima linea guida è nel senso di un definitivo abbandono della strada dell'ipertrofia penalistica, lastricata di norme dalla scarsa effettività pratica e che spesso si esauriscono nel punire mere disfunzionalità organizzative, dando vita ad illeciti di pura disobbedienza in nome di un'idea di funzionalizzazione dell'attività d'impresa. Vi è, dunque, la contingente necessità di porre termine ad una stagione, durata oltre un ventennio, che ha visto la giustizia penale svolgere un ruolo di supplenza rispetto alle lacune dell'ordinamento societario, della giustizia civile, del modello di vigilanza sull'operato degli intermediari, alimentando sovente delle tensioni rispetto ai principi cardine del diritto penale - in primis quelli di frammentarietà, tassatività ed offensività. L'opera di rifacimento delle regole del gioco deve dunque tendere, anzitutto, a restituire al sistema penale degli intermediari finanziari i crismi dell'effettività dei precetti e della coerenza con i principi generali del diritto penale e, da ultimo, la capacità di concorrere efficacemente alla diffusione e al mantenimento di un nucleo condiviso e fondante di valori in materia di gestione del risparmio collettivo. Vanno dunque superati i tradizionali limiti che oggi affliggono il diritto penale del mercato finanziario: l'antisistematicità, vale a dire le disarmonie e le ingiustificate differenze di contenuto e sanzionatorie intercorrenti tra fattispecie relative a settori diversi del mercato finanziario, mediante la creazione di figure di reato omogenee e tendenzialmente comuni ai vari segmenti del risparmio gestito; la tensione con i principi di necessità e sussidiarietà della pena: la sanzione penale dovrebbe essere l'extrema ratio, l'ultima spiaggia cui ricorrere, mentre nel nostro Paese da tempo sembra che sia anche l'unica spiaggia su cui si gioca la difesa del risparmio e degli interessi ad esso strumentali; il basso livello di osservanza dei canoni di tassatività ed offensività, a causa della formulazione spesso vaga ed indefinita delle fattispecie incriminatrici, anche a causa di continui rinvii a qualificazioni extrapenali, e della tendenza ad arretrare la linea di tutela disancorandola da elementi di concreta lesività e costruendola più su finalità di promozione etica che su interessi giuridici aventi i crismi della materialità e dell'afferrabilità, propri dell'oggetto giuridico nella sua c.d. concezione realistica. Ciò che, però, condiziona a monte la riforma del sistema penale finanziario - e con essa la scelta di selezionare i comportamenti da reprimere penalmente – è l'interrogativo su quali siano o, meglio, dovrebbero essere gli interessi giuridici oggetto di tutela nel diritto penale finanziario. 5.1. Analizzando la fattispecie dell'insider trading, erroneamente considerata l'architrave portante del diritto penale degli intermediari finanziari, sono state esaminate le diverse correnti di pensiero che hanno trovato origine attorno al problema dell'individuazione degli interessi giuridici, meritevoli di tutela, nei quali si declina il bene o valore superiore e costituzionalmente rilevante del "risparmio": dall'istanza egualitaristica della parità conoscitiva tra gli investitori al dovere di riservatezza facente capo agli esponenti aziendali delle società emittenti; dalla tutela della trasparenza informativa all'opinione, oggi prevalente, che identifica l'interesse tutelato - forse in parte confondendolo con la ratio puniendi - riassumendolo nella formula nota, ma vaga ed indeterminata, del "buon funzionamento, dell'integrità e dell'efficienza del mercato". E' fuor di dubbio che l'eguaglianza informativa, la trasparenza, la liquidità, la stabilità degli intermediari, l'efficienza ed il buon funzionamento del mercato finanziario rappresentano valori ed ideali da perseguire e difendere, ma essi si sostanziano in obiettivi etico-moralistici ed in valori macroeconomici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena e quindi assurgere al rango di effettivi beni giuridici di una fattispecie di reato. A patto, dunque, di non voler aderire alla tesi che qualifica la norma penale sull'i.t., al pari anche di altre norme del diritto penale finanziario, come "norme manifesto" - che stabiliscono divieti al solo fine di convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito e trasparente, assolvendo dunque ad una funzione di promozione etica del mercato, invero estranea al diritto penale -, non resta che ricercare aliunde il bene protetto da assurgere ad oggettività giuridica del sottosistema del diritto penale degli intermediari finanziari. 5.2. Un primo elemento su cui costruire le fondamenta di un valido percorso argomentativo è l'osservazione secondo cui il mercato finanziario, alla stessa stregua di altri interessi o valori di ampio respiro quali l'economia o il territorio o l'ambiente, non è oggetto di tutela ma oggetto di disciplina. L'affermazione sta a significare che il mercato finanziario è un luogo nel quale convergono interessi di varia natura, individuali e collettivi, tra loro talora convergenti, talaltra contrastanti: gli interessi delle imprese, dei piccoli risparmiatori, degli operatori od investitori professionali, ma anche l'interesse collettivo alla tutela del risparmio che rappresenta una risorsa indispensabile per lo sviluppo del Paese. La struttura funzionale del mercato, per definizione basata sullo scambio ed avente come sua componente ineliminabile il fattore "rischio" e la correlativa dimensione speculativa, non è in grado a priori di regolare la coesistenza, il bilanciamento o la prevalenza dei vari interessi che vi si rappresentano. Di qui, la necessità che il legislatore stabilisca delle regole volte a disciplinare il funzionamento del mercato sotto vari profili: accessibilità degli operatori ed intermediari, negoziabilità dei prodotti, organizzazione delle contrattazioni, circolazione dei flussi informativi ecc… Ecco, allora, che se il mercato è oggetto di una disciplina che ne regolamenta l'uso ed il funzionamento, dettando delle regole del gioco, il diritto penale del mercato finanziario altro non è che la sanzione della violazione delle "regole del gioco". 5.3. Il secondo passaggio del ragionamento, consequenziale al primo, consiste allora nel comprendere quali regole del gioco, tra le tante che compongono la disciplina positiva del mercato finanziario, possano o necessitano di essere presidiate anche da una sanzione penale e quali, invece, possano e debbano beneficiare solo di tutele extrapenali per l'impossibilità di rinvenire delle oggettività giuridiche ad esse sottostanti, meritevoli di ricevere una copertura penalistica. Risulta a questo punto evidente che l'unico criterio capace di fondare validamente una selezione di tal fatta è rappresentato dall'esistenza di un interesse giuridico meritevole di tutela penale, vale a dire di un bene che abbia un contenuto valoristico autonomo e che non si confonda nei valori generali ed etici più volti menzionati, né tanto meno nello scopo della norma, e che presenti quelle caratteristiche di afferrabilità e consolidamento sociale tali da poterne apprezzare la fondazione materiale. 5.4. Ad avviso di alcuni commentatori ed anche di chi scrive, l'interesse giuridico che qualifica (o che dovrebbe qualificare) l'intero settore del diritto penale degli intermediari finanziari, rappresentandone il vero fulcro normativo, è dato dalla relazione tra la tutela dell'interesse ad una corretta allocazione del risparmio e la tutela delle funzioni delle autorità di vigilanza. Più precisamente: la funzione di vigilanza e di controllo del mercato, svolta da varie autorità nei diversi segmenti ma concettualmente riconducibile ad unità, è l'elemento specializzante e coessenziale del diritto penale finanziario. Ciò posto, l'intervento di penalizzazione è legittimo solo laddove la tutela delle funzioni di vigilanza è strumentale all'osservanza di quelle regole del gioco poste a protezione delle esigenze nelle quali si estrinseca la tutela del risparmio e dei valori ad esso connessi e consequenziali: l'interesse privatistico del risparmiatore ad una corretta allocazione del risparmio e l'interesse pubblico alla stabilità e protezione del mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo che ne possano compromettere la funzione di insostituibile fattore di produzione e sviluppo quali, ad esempio ed in primis, il riciclaggio di danaro di provenienza illecita. L'epicentro del diritto punitivo degli intermediari finanziari è pertanto rappresentato dalle funzioni di vigilanza e dalla tutela delle stesse. Vi è dunque una relazione strettissima tra le disfunzioni della vigilanza e l'instabilità del mercato, a conferma che la tutela del risparmio filtra e passa attraverso la tutela della vigilanza. Il risparmio, dunque, anche quando non viene direttamente ed immediatamente raggiunto dall'offesa racchiusa nel fatto incriminato, costituisce pur sempre la "fonte di legittimazione sostanziale" dell'avanzamento dell'intervento penale verso le "strutture" e le "funzioni" della vigilanza. La tutela del valore costituzionale del risparmio permette, dunque, al modello di anticipazione della tutela sul piano delle funzioni di vigilanza di superare indenne il giudizio di bilanciamento: posto a confronto con il risparmio, il principio di offensività deve cedere le posizioni necessarie per realizzare una tutela del primo che sia razionale ed efficace. Si ritiene pertanto non azzardato affermare che la tutela delle funzioni di vigilanza rappresenta o, meglio, dovrebbe rappresentare, l'oggetto giuridico dell'intero micro-sistema del diritto penale finanziario. Salvo poi far assumere alla stessa un sostrato materiale più concreto ed una più evidente afferrabilità sociale laddove essa è destinata ad operare, vuoi nella tutela dell'interesse privatistico alla corretta e conforme allocazione del risparmio, vuoi nella tutela dell'interesse pubblicistico alla difesa del mercato da fenomeni di criminalità organizzata o, comunque, da pratiche manipolatorie che ne distorcono i meccanismi di funzionamento. Un'impostazione, quella sopra esposta, estranea agli schemi del diritto penale classico, per cui l'oggetto giuridico è sempre identificato in beni socialmente riconosciuti e coincidenti con interessi individuali della persona. Si tratta, tuttavia, di un'opzione valida sotto il profilo sistematico ed assiologico, atteso che il diritto penale moderno è da tempo attraversato da un processo di smaterializzazione dell'oggetto giuridico e dalla contemporanea utilizzazione della strumentazione penalistica per la tutela della funzionalità dei meccanismi di intervento dello Stato e della pubblica amministrazione in diversi campi, per lo più in quelli condizionati dall'evoluzione tecnologica e degli assetti sociali e caratterizzati dalla presenza di interessi adespoti e collettivi: la salute, l'ambiente, senza dubbio l'economia, la finanza ed il risparmio. E' indubbio, da un lato, che la tutela (anche penale) delle funzioni di vigilanza è condizione indispensabile ed irrinunciabile per assicurare una protezione efficace del mercato finanziario e del risparmio e, dall'altro, che le tradizionali forme di tutela del patrimonio si rivelano, all'evidenza, insufficienti allo scopo. Ma, d'altro canto, è parimenti vero che non è accettabile quella fuga dalla concezione realistica del bene giuridico (e dalla sua insopprimibile funzione di limite al legislatore), che si è ormai sovente verificata ogni qualvolta sono state coniate delle figure di reato nelle quali si punisce la mera inosservanza di norme di organizzazione e non di fatti socialmente dannosi, scambiando gli oggetti di tutela penale con le rationes di tutela, il tutto in nome di esigenze di controllo efficientista del sistema. E' innegabile che il diritto penale svolge un ruolo di coesione e di credibilità dell'ordinamento giuridico nel suo complesso e che di esso si tende spesso a fare un uso c.d. "interventista" e "simbolico", caricandolo di un compito di profilassi della società e di una funzione di rassicurazione sull'efficienza e moralità del sistema normato. Questo è accaduto anche e soprattutto nel campo dei reati economici ed in materia di tutela del risparmio e del mercato. In sé, quella di assumere ad oggetto di tutela penale un'attività o funzione giuridicamente autorizzata - nella fattispecie la funzione di vigilanza - è una scelta necessitata, se si vuole assegnare una protezione efficace a beni di interesse collettivo, ma al tempo stesso compatibile con i canoni del diritto penale, a patto che si tratti di attività giuridicamente regolate dietro la cui lesione o messa in pericolo sia possibile cogliere ed afferrare la dimensione sociale e materiale dell'interesse tutelato e la concretizzazione dell'offesa ad esso arrecata. Declinando l'assunto, in tanto la tutela penale delle funzioni di vigilanza del mercato è compatibile con la concezione realistica del bene giuridico solo in quanto la sfera repressiva riguardi esclusivamente comportamenti che siano materialmente afferrabili e di cui si possa cogliere la dannosità sociale: ciò che, ad avviso di chi scrive, si verifica allorché la violazione delle regole del gioco si traduca in una situazione di danno o di pericolo per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione del risparmio e per l'interesse pubblico alla protezione del mercato da fattori esterni di pregiudizio. In difetto di queste condizioni, l'intervento penale si espone al rischio di creare illeciti di pura trasgressione, di tutelare non vittime ma meri obiettivi di organizzazione od istanze socio-politiche di eticità ed efficienza del sistema, addivenendo, per questa strada, alla costruzione di un assetto normativo compatibile con una concezione c.d. metodologica del bene giuridico, vanificando così le garanzie formali e sostanziali proprie della concezione realistica ed affidando alla norma penale una funzione meramente sanzionatoria, destinata, non a punire comportamenti di danno o di pericolo, bensì a rafforzare, col deterrente penale, una disciplina preventiva e di organizzazione già strutturata dal diritto privato o dal diritto amministrativo. 5.5. Tanto premesso, occorre ritornare alla questione posta, osisa quella di identificare, alla luce dell'oggettività giuridica sopra configurata, quali "regole del gioco", facenti parte della disciplina del mercato finanziario, debbano essere presidiate da una sanzione penale. In questo senso può aiutare la suddivisione operata dal Padovani tra regole poste a garanzia della neutralità del mercato finanziario e regole poste a tutela della identità del medesimo: il primo gruppo di regole è costituito da presidi organizzativi e da tecniche operative volte a delimitare il perimetro del gioco, affinché il mercato si ponga come strumento neutrale rispetto a tutti gli attori interessati e determini, per questi, pari opportunità e condizione di partenza (si pensi alle regole che disciplinano l'accesso degli intermediari a certi ambiti di operatività, alle autorizzazioni alla prestazione di certi servizi o, ancora, alle norme che prescrivono limiti nella gestione degli investimenti, a quelle che sanzionano il mancato o non corretto invio delle segnalazioni di vigilanza ecc); il secondo gruppo di regole è funzionale ad assicurare l'identità del gioco stesso, ossia a garantire che questo non sia truccato, cioè a dire contaminato da forme e comportamenti di abuso che possono determinare un'indiscriminata ed ingiustificata distribuzione del rischio tra gli operatori (vi rientrano il comportamento penalmente sanzionato di chi manipola il mercato diffondendo notizie false su determinati strumenti finanziari, il fenomeno del riciclaggio nel mercato di danaro di provenienza illecita, per molti Autori anche la condotta di insider trading). L'opinione largamente dominante tra gli studiosi del diritto penale è quella per cui ambedue i gruppi di regole sopra menzionati meritano di essere assistiti da un presidio penale. Ciò, anzitutto, sotto il profilo della proporzione in quanto, se è pur vero che queste regole realizzano, per lo più, una tutela anticipata rispetto alla possibile produzione dell'evento lesivo, è anche vero che esse dispiegano la loro utilità proprio nel pervenire ad una neutralizzazione tempestiva dei possibili effetti dannosi e pregiudizievoli di una determinata condotta. Secondariamente, il giudizio di favor trova poi conferma anche sul fronte della sussidiarietà od extrema ratio, in considerazione della mancanza di valide alternative sanzionatorie, adducendo la necessità di una tutela preventiva e forte a difesa del buon funzionamento, dell'efficienza e dell'integrità del mercato, che solo il deterrente penalistico è in grado di offrire. 5.6. Si ritiene di discostarsi in parte dalla soluzione generalmente condivisa e di proporre una riforma del diritto penale finanziario che, muovendo da una ricostruzione dell'oggettività giuridica e recuperando una dimensione rafforzata dei canoni di proporzione, sussidiarietà e tassatività, pervenga ad un assetto regolamentare ispirato alle seguenti linee guida: - il ricorso alla sanzione penale solo come presidio alla violazione delle regole poste a tutela della c.d. identità del gioco, preferendo mezzi sanzionatori alternativi con riferimento all'inosservanza delle regole poste a tutela della c.d. neutralità del mercato; per queste ultime, infatti, la sanzione penale è sproporzionata e priva di una reale efficacia deterrente, venendo a configurarsi illeciti penali di stampo meramente organizzatorio, che si sostanziano in una tutela eccessivamente anticipata rispetto alla possibile lesione dell'interesse privatistico alla corretta allocazione del risparmio. E' indubbio che l'accertamento della violazione di queste regole dipende dal corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti agli organi di controllo e vigilanza, di tal guisa che, con la sanzione criminale, si vuole che anche la possibilità di accertamento risulti anticipata rispetto ad ogni eventuale futuro evento lesivo. Ma, così ragionando, si arriva a piegare lo strumento penale ad una funzione, per così dire, sostitutiva della tempestività dell'esercizio delle funzioni di vigilanza: altrimenti detta, si rafforza la (supposta) funzione specialpreventiva della pena per compensare le lacune ed i ritardi di un sistema di vigilanza sull'operato degli intermediari. Siffatto modus operandi si rivela, prima di tutto, inutile perché non perviene ad alcun risultato sul terreno della prevenzione, che richiede per contro di rivedere il modello di vigilanza prefigurando meccanismi di costante dialogo tra gli organismi di controllo e i soggetti vigilati, così da favorire una sorta di accompagnamento dei secondi ad opera dei primi, condizione indefettibile per garantire la neutralità del mercato finanziario rispetto agli interessi in gioco, Dall'altro, si dimostra in contrasto con i principi di offensività, proporzionalità e sussidiarietà, atteso che si tratta di fattispecie formali od organizzatorie rispetto alle quali non è dato rintracciare un oggetto giuridico consolidato ed afferrabile e che, in più, esprimono un grado di lesività tale da giustificare il ricorso alla meno severa e più duttile sanzione amministrativa. - l'introduzione di una nuova fattispecie di infedeltà patrimoniale, la cui mancanza nel vigente ordinamento è il riflesso di un evidente stato di contraddizione, incoerenza e lacunosità dell'attuale assetto del sistema penale finanziario, posto che oggi si sanzionano, con pene anche gravi, comportamenti che violano mere regole di organizzazione spesso prive di un'effettiva carica offensiva, oppure si promuovono crociate verso fenomeni la cui lesività è tutta da dimostrare (il riferimento è all'insider trading), nel mentre manca una fattispecie ad hoc idonea ad incriminare quella variegata e complessa serie di comportamenti con cui, sempre più diffusamente, gli emittenti o gli intermediari/gestori realizzano vere e proprie forme di abuso a danno dei risparmiatori. Si è detto che il nucleo centrale della tutela penale del mercato finanziario è rappresentato, oltre che dall'interesse pubblicistico di difendere il mercato da fenomeni criminali provenienti da fattori esterni, dall'interesse del singolo risparmiatore/investitore ad un'allocazione e gestione del proprio risparmio fedele al mandato fiduciario conferito, alle disposizioni di legge e ai principi di prudenza, stabilità ed integrità patrimoniale e buona fede. Non potendo applicare lo statuto penale della pubblica amministrazione alle banche, e tanto meno ad altri intermediari, non resterebbe che ricondurre quei comportamenti ai paradigmi della truffa ex art. 640 c.p. e dell'appropriazione indebita ex art. 646 c.p., con tutti i limiti che ne derivano, trattandosi di figure generaliste e spesso inadatte a dare copertura a fatti molto specifici e dal complesso tecnicismo. S'impone, a questo punto, la necessità, già espressa dal Pedrazzi, di introdurre nell'ordinamento la figura autonoma del reato di infedeltà patrimoniale, capace di reprimere, non solo quei comportamenti nei quali è evidente l'appropriazione di un vantaggio patrimoniale a danno di un terzo, ma anche quelle condotte caratterizzate da una connotazione in termini di rischio eccessivo od anomalo dell'operazione perfezionata, oltre i limiti del mandato fiduciario ovvero per gestione infedele o in conflitto di interessi. - la configurazione di una soluzione ad hoc per il fenomeno dell'insider trading che, nonostante si possa ascrivere al gruppo di regole poste a presidio della c.d. identità del mercato, si ritiene necessiti di essere depenalizzato in difetto di un solido fondamento socio-economico sottostante all'attuale divieto, prevedendo, per converso, l'adozione di presidi infrasocietari nell'ambito del rapporto privatistico insider/emittente. 6. Al di là delle divisioni che emergono dal dibattito sull'individuazione dell'interesse giuridico protetto dalla fattispecie di incriminazione dell'insider trading, si registra un generale favor per l'opzione penale, sostenendo che il rango dell'interesse da proteggere e la gravità dell'offesa giustificano l'impiego dello strumento penalistico alla luce dei due criteri che devono guidare la scelta della sanzione penale: la proporzionalità e la sussidiarietà. 6.1. Si ritiene di dissentire dall'opinione comune, prima di tutto per la mancanza del connotato della dannosità sociale del fenomeno, capisaldo del garantismo illuminista che esprime l'istanza per cui la legge penale deve punire solo quei comportamenti che effettivamente turbino le condizioni di una pacifica coesistenza e che siano avvertiti dalla collettività come generatori di danni ad interessi significativi e meritevoli di protezione. Anche se ad avviso dei più è dato registrare, oggi, un consenso sociale sulla repressione della pratica de qua, si ritiene quanto meno legittimo porre in dubbio che il fenomeno dell'insider trading sia davvero sentito come socialmente dannoso dalla generalità dei consociati. Basti porre mente al fatto che la diffusione della pratica dell'i.t. nei mercati finanziari non sembra avere affatto minato la fiducia degli investitori, se si guarda all'evoluzione che ha caratterizzato i mercati azionari nell'ultimo ventennio. Si è, invece, dell'opinione che la società avverta fortemente la necessità di colmare il vuoto di tutela che esiste avverso quelle forme di indebita sottrazione e sperpero della ricchezza risparmiata, poste in essere da intermediari ed operatori che agiscono secondo logiche poco trasparenti e permeate da situazioni di conflitto di interesse, mentre non appare per nulla diffusa nell'opinione pubblica la convinzione circa l'immoralità della pratica di insider trading, di cui spesso non si conosce neppure il significato. 6.2. Ritornando sulla vexata quaestio della ricerca del bene giuridico offeso dall'i.t., si è detto che l'opinione dominante fra gli interpreti, sostenuta dai Considerando del legislatore comunitario e dalle dichiarazioni di intenti di quello nazionale, è nel senso di qualificare l'insider trading alla stregua di un reato plurioffensivo, lesivo di interessi generali dell'economia quali la fiducia degli investitori, il buon funzionamento e l'efficienza del mercato, la trasparenza, la potenziale parità di condizioni tra gli investitori ecc… I commentatori si dividono dando prevalenza ora all'uno ora all'altro dei valori testé menzionati, ma le loro posizioni convergono nel ritenere che l'interesse da difendere non vada ricercato nella sfera privatistica della società emittente o del privato controparte dell'insider, quanto in un interesse generale e collettivo, adespota, riferibile alla regolarità del mercato mobiliare nel suo insieme, declinata talora in termini di efficienza, liquidità e buon funzionamento, talaltra in termini di parità di condizioni, ovvero ancora adducendo la lealtà e l'eticità delle contrattazioni e l'immagine di un mercato pulito e trasparente quale stimolo agli investimenti. La sussistenza di un interesse generale di ampia e significativa portata e di rilievo costituzionale, unitamente alla riconosciuta inefficacia delle sanzioni extrapenali, conduce dunque la maggioranza degli interpreti a ritenere che la scelta repressiva dell'i.t. è coerente con i canoni di proporzione e sussidiarietà: se in forza dell'art. 47 Cost., la Repubblica incoraggia il risparmio, l'insider trading lo scoraggia, frustrando l'aspettativa dei risparmiatori ad un comportamento leale e trasparente degli operatori. 6.3. La tesi sopra esposta, nonostante incontri il sostegno del pensiero dominante tra gli interpreti e della volontà della maggior parte dei legislatori europei e non, risulta per una serie di argomentazioni poco convincente ed in parte anche incoerente con il sistema. In primo luogo, occorre ricordare che il fondamento economico del divieto di i.t. è tutt'altro che dimostrato. L'analisi delle diverse scuole di pensiero, riportata nel capitolo che precede, rende alquanto evidente la mancanza di un chiaro fondamento politico e socio-economico del divieto o della liceità dell'insider trading. La legislazione penale sull'i.t. sembra quasi assumere un connotato di autoreferenzialità e di status symbol: punisce il fenomeno perché rappresenta una pratica costante e diffusa nei mercati finanziari, perché è sanzionata nella maggior parte dei paesi, perché così facendo il legislatore è messo nelle condizioni di reagire ai ripetuti scandali finanziari e lanciare un messaggio forte sulla pulizia e moralità del mercato, veicolate attraverso le etichette del buon funzionamento, della trasparenza e dell'efficienza del mercato stesso. Certo è che si tratta di espressioni generiche e tautologiche che non possono rappresentare la motivazione sociale ed economica della scelta punitiva. Un punto fermo dell'indagine è quello per cui l'informazione rappresenta una componente essenziale per l'efficienza del mercato: maggiore è la quantità e la qualità dell'informazione disponibile, più il mercato si caratterizza per una facile convertibilità dei titoli negoziati, e più le quotazioni di questi ultimi ne rapprentano il reale valore intrinseco, sicché il giudizio di ammissione o di riprovevolezza del comportamento dell'insider dipende dalla verifica se lo sfruttamento di notizie riservate contribuisce o meno all'efficienza del mercato, se accresce o pregiudica l'efficienza informativa del mercato. Sul punto non vi sono chiare evidenze scientifiche sul fatto che l'uso di informazioni riservate pregiudichi la trasparenza del mercato, impedendogli di perseguire l'efficienza informativa. Un secondo motivo di riflessione è che la scelta di reprimere il fenomeno dell'i.t. non può addivenire al risultato di ingessare il mercato privandolo del contributo essenziale dato, alla propria efficienza informativa, dall'attività di ricerca, studio ed analisi. Se, come si ritiene, si deve privilegiare una concezione del mercato come luogo la cui funzione principale è quella di elaborare e produrre informazioni che si riflettano sul meccanismo di determinazione dei prezzi per favorire, in ultima istanza, l'investimento del risparmio nel capitale delle imprese, ne consegue che va incoraggiato il lavoro degli analisti che producono e divulgano informazioni, anche consentendo loro di sfruttare economicamente dette informazioni perché altrimenti verrebbe a mancare lo stimolo alla ricerca, all'analisi ed alla diffusione delle stesse. L'attività di produzione, diffusione e sfruttamento delle informazioni va difesa ed incentivata rappresentando l'ossatura del mercato finanziario, che deve pertanto rifuggire da ogni mozione di livellamento informativo e di concorrenza perfetta tra gli investitori propria del market egualitarism, riconoscendo invece che la speculazione - intesa come ricerca di un profitto eccedente quello medio di mercato - è la caratteristica saliente ed ineliminabile di ogni sistema finanziario basato su un'economia di scambio. 6.4. Resta, sullo sfondo, l'unico possibile profilo di criticità che si ritiene possa anche esaurire un'eventuale ragione incriminatrice: è giusto riconoscere il diritto di sfruttare economicamente le price sensitive anche a coloro che non hanno contribuito alla loro produzione ed analisi, ma che ne sono venuti a conoscenza in modo occasionale ed estemporaneo, in virtù della carica societaria ricoperta all'interno della società emittente? La logica, prima che il diritto, ci porta ad affermare che il possessore di informazioni privilegiate ha il diritto di utilizzarle se, per ottenerle, ha sopportato un costo di produzione tanto da esserne divenuto proprietario (è il caso degli analisti finanziari), mentre i managers e gli altri insiders aziendali non possono considerarsi acquirenti dell'informazione essendone entrati in possesso in modo del tutto casuale ed in virtù della sola carica ricoperta. Di qui la conclusione per cui l'obiettivo di una regolamentazione anti insider trading (a livello non solo penale) deve essere il contenimento e il contrasto di quelle forme di speculazione abusiva originate dall'approfittamento di una situazione di superiorità informativa, che ricorrono nel solo caso in cui l'informazione riservata sia stata acquisita senza sostenere alcun costo e solo attraverso un collegamento privilegiato con la società emittente. Resta tuttavia l'interrogativo di fondo se lo strumento, per così dire di contenimento e di contrasto a pratiche di siffatta natura, debba essere rappresentato dalla sanzione penale. Il quesito merita una risposta negativa, per una ragione prima fra tutte: l'impiego della strumentazione penalistica deve escludersi ogni qual volta il divieto non presenti un chiaro ed evidente fondamento economico e faccia difetto l'esistenza di un determinato ed afferrabile oggetto giuridico. Non solo, infatti, il divieto di i.t. non è sorretto da una lucida motivazione economica, anche per la debole confutazione che si è fatta degli argomenti che sostengono gli effetti benefici dell'i.t. sul mercato, ma nella fattispecie incriminatrice non è dato neppure rintracciare un bene giuridico materialmente afferrabile e socialmente consolidato. Non è un caso che, nelle intenzioni del legislatore, il divieto di i.t. miri a sanzionare il comportamento ritenuto immorale di chi lo tiene (unfairness), allo scopo di rassicurare gli investitori sulla eticità e correttezza delle contrattazioni di borsa ed incoraggiarli così ad operare. Salvo poi chiamare in causa, nel tentativo di conferire un'oggettività giuridica ad una scelta incriminatrice decisa a priori prescindendo da essa e per obiettivi che attengono al piano dell'etica e della moralità, interessi generali connessi al buon funzionamento ed all'efficienza del mercato, alla sua trasparenza, alla parità di condizioni tra gli investitori che, pur rappresentando valori positivi da promuovere e da difendere, restano pur sempre obiettivi etico-moralistici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena. 6.5. Ritornando all'impostazione concettuale da cui siamo partiti, si è detto, in chiave riformatrice, che la struttura del sistema penale degli intermediari finanziari dovrebbe essere rappresentata dalla tutela delle funzioni di vigilanza, limitando tuttavia il ricorso alla sanzione penale ai casi in cui detta tutela è prodromica a difendere, o l'interesse del risparmiatore ad una corretta allocazione delle risorse patrimoniali affidate in gestione, o l'interesse pubblico a proteggere il mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo ed alterazione. Il fenomeno dell'i.t. non si pone in relazione di danno o di pericolo con nessuno dei due interessi succitati. Non con l'interesse pubblicistico atteso che, a differenza del riciclaggio e dell'aggiotaggio, dell'i.t. non è stata affatto provata la sua dannosità per il mercato, se non adducendo motivazioni di ordine etico e morale che tuttavia, quando rappresentano il solo fondamento del divieto, piegano il diritto penale ad una funzione simbolica, pedagogica ed eticheggiante, estranea alla cornice costituzionale dell'ordinamento. Tanto che la vigente norma penale di incriminazione dell'i.t. è stata qualificata da alcuni esponenti della dottrina come una "norma manifesto", che vieta perché deve convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito, trasparente, è un luogo in cui le contrattazioni avvengono lealmente. Si dirà di più. Con la riforma del 2005 il legislatore, se per un verso si è spinto fino a prevedere una sanzione draconiana per il fatto di i.t., per altro verso è pervenuto alla decisione di depenalizzare i fatti di i.t. compiuti dai c.d. insiders secondari. Ma se l'obiettivo di fondo è quello di difendere l'integrità, l'efficienza e il buon funzionamento del mercato finanziario e la fiducia dei risparmiatori, perché depenalizzare dei fatti comunque muniti - se ci si pone nell'ottica, non condivisa da chi scrive, del legislatore - di quelle potenzialità aggressive tali da meritare comunque una risposta sanzionatoria penale? La depenalizzazione di siffatta forma di insider trading (c.d. tippee e tuyautage trading) è infatti sufficiente ad ingenerare il dubbio su quale sia l'oggetto giuridico che il legislatore intende tutelare: va sempre ravvisato nella trasparenza, nell'efficienza e nel corretto funzionamento del mercato finanziario e nella fiducia degli investitori sull'integrità del medesimo (ma se così fosse, non si coglie il perché della non punibilità di chi, assunte informazioni privilegiate da soggetti qualificati, le diffonde e le usa a proprio profitto: condotta, questa, al pari delle altre, capace di pregiudicare il bene ultimo della trasparenza e integrità del mercato), oppure - più modestamente - la volontà legislativa è quella di punire chi è tenuto a doveri fiduciari di riservatezza per la posizione ed il ruolo qualificato rivestito all'interno (o nei confronti) della società emittente? Si ritiene meritevole di accoglimento la seconda ipotesi. La parziale abolitio criminis realizzata sul previgente art. 180 D.lgs. n. 58/1998 ha comportato un parziale mutamento dell'interesse tutelato dalla fattispecie in esame, perché, riducendo l'ambito di rilevanza penale della fattispecie - ossia abolendo l'ipotesi del c.d. tippee trading -, ha ridisegnato i contenuti dell'interesse tutelato, identificandolo più nella lesione di un interesse privatistico rappresentato dall'inosservanza di un dovere fiduciario tra l'insider e la società emittente, piuttosto che nella difesa di un interesse pubblicistico - in ogni caso a parere di chi scrive poco afferrabile - costituito dall'integrità dei mercati e dalla fiducia degli investitori, istituzionali e non. Ma se così è, ci sembra del tutto sproporzionato, oltre che in spregio al canone di sussidiarietà, il ricorso alla sanzione penale. 6.6. Del pari, non sembra condivisibile l'assunto secondo cui l'i.t. rappresenterebbe unaa minaccia per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione dei propri investimenti, giustificando il ricorso alla sanzione penale in ragione della lesione che il fenomeno de quo arrecherebbe al patrimonio conoscitivo dell'investitore. Il mercato finanziario è senza dubbio un luogo giuridico che va regolamentato e dove l'informazione esercita un ruolo fondamentale. L'efficienza allocativa del mercato presuppone la sua efficienza informativa. Quest'ultima richiede che gli investitori possano poter contare sulla massima quantità possibile di informazioni, che queste vengano diffuse e fatte circolare nella maggiore quantità e con la maggiore tempestività possibili. Il mercato finanziario è profondamente influenzato dalle informazioni e dal sentiment sui più svariati temi macro e micro economici, relativi al sistema Paese come alla singola società emittente, capaci di incidere ed impattare sull'andamento borsistico di un determinato titolo. E questo perché l'investimento nel mercato finanziario è sostanzialmente speculazione e - per citare Keynes nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta - "la speculazione è la capacità di scoprire cosa l'opinione media ritiene che l'opinione media sia". I canali attraverso i quali l'informazione viene reperita, elaborata, creata, analizzata e poi diffusa, sono tanti e diversi, la loro efficacia è legata a così tante variabili - costi di investimento sostenuti per l'attività di ricerca e studio, capacità di analisi ecc. - che il configurarsi di situazioni di vantaggio o svantaggio informativo è condizione fisiologica propria del mercato e della sua dimensione speculativa e competitiva, tanto da rifiutare ogni logica propria della teoria del c.d. market egualitarism. Nel caso dell'insider trading, come detto, la sola nota di criticità che può legittimare un intervento sanzionatorio è data dall'ipotesi in cui il vantaggio informativo viene conseguito sfruttando, abusando della posizione fiduciaria rivestita in seno alla società emittente e, quindi, senza sostenere i costi correlati all'acquisizione o alla produzione dell'informazione. In tale ipotesi, l'asimmetria informativa non è il risultato dell'opera di ricerca di un analista, ma di una forma vera e propria di abuso funzionale ad una successiva speculazione, non compensata da un investimento iniziale. Appare pertanto corretta la distinzione tra informazioni ottenute sostenendo costi di investimento ed informazioni conseguite a costo zero in virtù di una rendita di posizione: le prime devono essere sottratte all'obbligo di disclosure; per le seconde è corretto stabilire un divieto di utilizzo perchè, se utilizzate e sfruttate, realizzerebbero una ripartizione dei costi economicamente inefficiente, favorendo lo speculatore, a discapito di chi l'informazione l'ha prodotta. Ora, se non si può non convenire sul fatto che le informazioni del secondo tipo non possano essere utilizzate e che dunque debbano essere eliminate o neutralizzate le asimmetrie informative che non sono espressione di un'attività di ricerca e di investimento, si è per contro scettici sull'utilità del ricorso alla sanzione penale per perseguire tale obiettivo. Un punto fermo del percorso logico-argomentativo che si intende sviluppare è il seguente: scevri dalle enunciazioni di principio a sfondo etico-moralistico, il solo ed unico schema economico cui poter ricondurre il divieto di i.t. è quello dell'asimmetria informativa e degli effetti che la stessa - nell'ipotesi in cui sia il risultato di una speculazione abusiva e non di un investimento - può produrre sul piano allocativo e distributivo delle risorse. Gli effetti distorsivi generabili da un dislivello informativo, frutto di una condotta di abuso di posizione, sono sostanzialmente due. Da una parte, quello che porta i risparmiatori/investitori a richiedere un rendimento più elevato a fronte di un rischio che aumenta oltre la normale alea dell'investimento, appunto in ragione della presenza di un fattore estraneo allo stesso rappresentato dall'esistenza di una superiorità informativa, dall'agire di operatori insider. Dall'altra, quello per cui la pratica di insider trading è un modo per estrarre benefici privati sfruttando informazioni di proprietà della società emittente, fenomeno tanto più negativamente impattante sull'immagine del mercato quanto più questo sia composto da società proprie di un capitalismo familiare con meccanismi di governance sbilanciati a favore degli azionisti di controllo. Di qui, la considerazione per cui troppo insider potrebbe nuocere al mercato ed il conseguente auspicio che il fenomeno venga regolato al fine di contenere o neutralizzare i due effetti negativi che ne possono derivare. Poiché entrambi i succitati effetti vedono come danneggiato finale la società emittente, la quale è la sola proprietaria delle informazioni price sensitive, ecco allora che la questione relativa alla regolamentazione dell'insider trading diventa una questione di regolamentare l'uso dei diritti di proprietà sull'informazione. L'assunto poggia su due presupposti meritevoli di adeguata verificazione. 6.7. Il primo è che l'informazione è un bene economico, idoneo ad essere sfruttato economicamente da chi ne è proprietario. Non possiamo certo trascurare l'antico ed ancora non sopito dibattito sulla natura giuridica del bene "informazione", in particolare se questa sia qualificabile come bene privato o come pubblico. Secondo una prima teoria, l'informazione è un bene pubblico che non può essere oggetto di proprietà privata, configurandosi come un bene indivisibile e non escludibile: l'indivisibilità sarebbe legata al fatto che ogni individuo può utilizzare l'informazione senza sostenere alcun costo aggiuntivo; la non escludibilità discederebbe dalla difficoltà di circoscrivere la cerchia dei soggetti che se ne possono appropriare, ovvero dalla difficoltà di apporre vincoli di riservatezza. Sul versante opposto si schierano quegli economisti che sostengono la divisibilità e l'escludibilità dell'informazione, ritenendo che l'accesso al bene può essere circoscritto e che, pertanto, è possibile appropriarsi a pagamento dei suoi vantaggi, acquisendone così la titolarità prima che l'informazione diventi pubblica. E' chiaro che il riconoscimento al bene informazione di una natura pubblica o privata si riflette sulla definizione dell'assetto regolamentare che ne deve disciplinare la produzione, l'uso e la divulgazione. Se aderissimo alla tesi liberista - per cui l'informazione è un bene che può essere fatto oggetto di proprietà privata -, addiverremo a respingere qualsivoglia intervento esterno di regolamentazione dei meccanismi di produzione e circolazione dei flussi informativi, che i sostenitori di questa tesi ritengono controproducenti perché aventi l'effetto di scoraggiare la produzione di nuove informazioni, riducendo in tal modo il contributo dell'informazione al miglioramento della capacità segnaletica dei prezzi. Se, per contro, riconoscessimo all'informazione la qualifica di bene pubblico, si dovrebbe ammettere un impianto regolamentare ispirato alla logica del market egualitarism, caratterizzato da obblighi di disclosure e dal divieto di insider trading in capo agli operatori. Una posizione intermedia è quella per cui l'informazione è un bene privato che, tuttavia, genera delle esternalità, degli effetti aventi ricadute su soggetti esterni e sul mercato in generale, assommando in sé - il riferimento è nello specifico all'informazione societaria - esigenze di riservatezza (proprie del soggetto proprietario che quelle informazioni ha creato e prodotto) ed obblighi di trasparenza verso il mercato a tutela della comunità di investitori. Di qui la necessità di predisporre un sistema di regole che possa contemperare questi due termini del contendere. Con il risultato, innanzitutto, di ammettere che chi crea e produce l'informazione risulti anche assegnatario esclusivo del diritto di sfruttarne economicamente il contenuto (un diritto che non può essere negato, pena l'inefficiente allocazione delle risorse ed il conseguente scoraggiamento dell'attività di analisi e ricerca, condicio sine qua non per un mercato finanziario efficiente e trasparente). Prevedendo, in secondo luogo, un sistema di tutele per il proprietario dell'informazione e per il mercato in generale, avverso quelle possibili esternalità negative derivanti da comportamenti di terzi che, abusando della posizione rivestita, facciano un uso scorretto dell'informazione price sensitive. 6.8. Quanto al secondo presupposto, si è sostenuto che i diritti di uso e sfruttamento delle informazioni devono essere assegnati a chi quelle informazioni le ha create attraverso un'attività di ricerca ed analisi ovvero, nel caso di informazioni già esistenti in seno alla società emittente, a questa stessa. Non si può d'altronde negare che gli effetti negativi dell'i.t., poco sopra delineati, vanno ad impattare proprio sulla società emittente in termini di deprezzamento del pricing del relativo titolo quotato, che, proprio perché sospettato di essere oggetto di operazioni insider, vedrà gli investitori disposti ad acquistarlo solo a fronte di un premio aggiuntivo (implicitamente espresso nella disponibilità ad acquistare a prezzi che scontino l'effetto insider). L'informazione, però, a differenza degli altri beni che vengono prodotti e consumati, viene scoperta, e quindi diffusa, tramite la trasmissione o divulgazione al mercato, la quale, tuttavia, se da un lato incrementa il livello informativo del mercato e dunque la sua efficienza, dall'altro riduce le opportunità di profitto per chi ha creato quell'informazione. In altri termini: la divulgazione del bene-informazione è, al tempo stesso, fattore di trasparenza ed efficienza allocativa del mercato e disincentivo alla produzione delle informazioni, perché riduce in capo a chi le ha prodotte la possibilità di estrarne profitto. Da questo tratto peculiare dell'informazione nasce una sorta di conflitto, di trade off tra produzione ed uso dell'informazione: la regolamentazione di questo trade off, si ritiene, debba rappresentare l'obiettivo esclusivo di una normativa anti-insider. Un obiettivo che si ritiene debba essere perseguito per mezzo di un sistema regolamentare fondato su alcuni punti chiave: i diritti di proprietà sul bene informazione devono essere assegnati alla società emittente ovvero a chi, sostenendo costi di investimento e di ricerca, ha creato e prodotto l'informazione; una ridefinizione della normativa sulla trasparenza societaria, che sappia più efficacemente coniugare l'esigenza dell'emittente di tutelare istanze di riservatezza e l'interesse del mercato alla divulgazione delle informazioni; obbligare le società emittenti a dotarsi al proprio interno di processi operativi finalizzati alla mappatura delle informazioni e alla disciplina sull'uso, sulla trasferibilità e sulla divulgazione delle medesime, acconsentendo che il diritto allo sfruttamento economico di esse venga trasferito esclusivamente a managers e dipendenti della società e non a soggetti terzi, perché questo impedirebbe di esercitare un controllo sull'uso del flusso informativo e sulla profittabilità dell'attività (autorizzata) di insider. Quanto, infine, all'aspetto repressivo, si ritiene che qualsivoglia forma di sfruttamento non autorizzato di informazioni societarie, ovvero con modalità difformi dal sistema adottato di compliance aziendale, dovrebbe esporre l'autore della violazione a sanzioni di tipo civilistico a tutela della società e dei suoi azionisti ma anche del mercato in generale, abbandonando in questo modo lo strumento penalistico. Si ritiene, a tale riguardo, che il diritto degli investitori ad operare in un mercato integro possa trovare adeguata ed efficiente tutela, non nella sanzione penale - per i limiti e le tensioni che la caratterizzano - , quanto piuttosto in rimedi privatistici esperibili nei confronti dell'insider dalla società emittente, tanto nell'interesse proprio e dei suoi azionisti (per il danno che il comportamento insider reca all'immagine della società e per l'impatto sull'andamento del titolo in termini di liquidità, pricing e percezione di una sua maggiore rischiosità), quanto anche nell'interesse del mercato e dei risparmiatori quale ente esponenziale che più rappresenta l'interesse diffuso alla stabilità del mercato, alla sua efficienza (intesa primariamente come remunerazione delle sole informazioni privilegiate ottenute sostenendo un costo di investimento e non per mero abuso di posizione) e al fairness (per la funzione di rassicurare gli investitori sulla trasparenza ed il buon funzionamento del mercato). Facendo peraltro coesistere sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza, sia nei confronti delle società emittenti e degli esponenti aziendali per inosservanza dei sistemi interni di compliance disciplinanti la produzione e l'uso delle informazioni sensibili, sia nei confronti degli autori di condotte di tipping e tuyautage. In conclusione, muovendo dall'assunto secondo cui lo scopo di una disciplina sull'insider trading deve essere identificato nella prevenzione e nel contrasto di quelle forme di abuso di situazioni di vantaggio informativo, e comprovata l'ineffettività e difformità costituzionale della via penale, non resta che accogliere la soluzione che impone, in primis, di revisionare i meccanismi societari di produzione, uso e divulgazione delle informazioni price sensitive, in nome di una maggiore trasparenza sulla titolarità del diritto di sfruttamento delle stesse e di una maggiore responsabilizzazione degli amministratori, agendo sul piano della corporate governance e sui programmi di compliance aziendale. In secundis, combinando un enforcement fatto di sanzioni e rimedi civilistici (nei termini meglio specificati nel prosieguo) esperibili dall'emittente nei confronti dei soggetti insiders, nonché di sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza contro l'emittente (per la mancata inosservanza dei programmi di compliance sull'uso delle informazioni societarie) e gli insiders societari e non, all'esito di un'attività di indagine e di controllo che si auspica possa essere rafforzata e resa più incisiva. Nella convinzione che la pratica di i.t. lede in modo diretto la società emittente deprezzandone il titolo e gli investitori che su quel titolo operano e che potrebbero risultare danneggiati dal dislivello informativo, di talché l'unico rimedio efficiente per il contenimento di siffatta pratica è quello di prevedere, a carico dell'insider autore della condotta di abuso, un costo aggiuntivo (dato ad es. ma non solo dalla restituzione del profitto conseguito sfruttando la notizia riservata) tale da rendere l'abuso, se scoperto, economicamente inutile o addirittura svantaggioso. Nella convinzione che la maggiore responsabilizzazione di chi riveste posizioni di vertice all'interno delle società emittenti, congiuntamente all'adozione di un sistema di autodisciplina che renda trasparente l'uso delle informazioni rilevanti e l'assegnazione dei vantaggi insiti nel loro sfruttamento, costituisca il maggior antidoto all'opacità ed all'inefficienza del mercato. 7. Occorre poi prendere contezza del fatto che qualsivoglia progetto di riforma dell'ordinamento finanziario e di revisione degli strumenti di tutela del risparmiatore che si intenderà mettere in cantiere, non porterà i risultati attesi, se non sarà accompagnato da quel plesso di riforme dei vari apparati tangenti e complementari all'organizzazione del mercato finanziario: la riforma dell'amministrazione della giustizia per assicurare, anche istituendo una magistratura specializzata, tempi rapidi nell'accertamento degli illeciti e nell'irrogazione delle sanzioni; nuove regole in materia di informazione societaria al fine di migliorare la trasparenza informativa; l'introduzione di sistemi di governance più chiari ed indipendenti, capaci di presidiare e risolvere le tante, troppe, situazioni di conflitto di interesse di cui oggi è intrisa la catena dell'intermediazione finanziaria e che rappresentano, ad un tempo, la molla dell'agire economico nel mercato capitalistico e la principale causa di disgregazione e polverizzazione di ricchezza; regole chiare sulla circolazione dei prodotti finanziari; un ridisegno generale dei sistemi di controllo, vigilanza e di revisione contabile all'interno delle società di intermediazione del risparmio; da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, un intervento correttivo della disciplina del c.d. falso in bilancio, che rappresenta a tutti gli effetti un presidio a tutela del risparmiatore. Senza queste riforme complementari, anche una buona legge di riforma del mercato finanziario non coglierebbe appieno il risultato sperato. E' chiaro, infatti, che il mercato, come pure il suo grado di efficienza e trasparenza, sono il risultato della convergenza di una pluralità di fattori, esogeni ed endogeni, che agiscono su piani diversi ed incidono su differenti meccanismi di funzionamento del mercato stesso, cercando il non facile equilibrio tra i valori in gioco. 8. La ri-configurazione di un nuovo assetto di regolamentazione del mercato finanziario è condizione necessaria ma non sufficiente per alimentare un processo di prevenzione generale e di orientamento dei modelli comportamentali, che possano rappresentare un efficace argine al dilagare dei fenomeni di market abuse e di market failure. Serve, in parallelo, anche un processo di revirement culturale che porti ad una sorta di rifondazione etica della business comunity, nella consapevolezza che anche il migliore sistema normativo non ha presa sulla realtà effettuale, se questa non è a priori innervata da un insieme di regole etiche generalmente condivise. Il contesto attuale mostra un mercato finanziario caratterizzato dall'assenza di regole di condotta e di principi tali da costituire un governo etico, prima che giuridico, al lavoro dei suoi operatori. La grande ondata di deregolamentazione finanziaria che si è avuta nell'ultimo decennio ha favorito il dilagare dei conflitti di interesse in cui si trovano ad operare gli intermediari finanziari. Si pensi, per fare qualche esempio tra i tanti, al caso delle banche che hanno collocato ai propri clienti titoli tossici presenti nel loro portafoglio, al fine di dismetterli evitando perdite già prevedibili al momento del collocamento; agli effetti perversi del sistema degli incentivi ai vari operatori presenti nella catena dell'intermediazione finanziaria, che hanno favorito la diffusione di pratiche ad elevato rischio pur di conseguire l'obiettivo di lauti compensi; senza dimenticare il caso delle società di rating che hanno senza dubbio concorso a favorire l'occultamento di situazioni di difficoltà, attribuendo giudizi "a tripla A" a società che di lì a poco sarebbero state dichiarate fallite. La cultura di illegalità diffusa e di abuso di cui oggi è permeato il sistema del risparmio gestito va contrastata, non con norme cariche di una minaccia sanzionatoria severissima ma con bassa probabilità di trovare un'effettiva ed efficace applicazione, bensì con una revisione normativa ad ampio spettro, funzionale ad assicurare maggiore trasparenza nei meccanismi di corporate governance, razionalizzazione e rafforzamento del sistema dei controlli interni ed esterni alle società. Una considerazione è d'obbligo: la causa prima dei tanti, troppi, dissesti finanziari che hanno provocato nell'ultimo ventennio una dispersione gigantesca di ricchezza collettiva è da individuare nei conflitti di interesse di cui è profondamente permeato l'ordinamento societario, finanziario ed istituzionale, tanto da far affermare, all'illustre Guido Rossi, che "il risparmio di massa galleggia letteralmente sui conflitti di interesse e la sua salvaguardia dipende, anzitutto, dalla corretta impostazione di tali conflitti, la cui esistenza è peraltro fisiologica all'agire economico". Occorre pertanto ripartire dal male oscuro dell'ordinamento finanziario, lavorando ad una revisione dei meccanismi di corporate governance, dei processi decisionali interni alle società, troppo spesso affidati ad amministratori che agiscono alla stregua di monarchi assoluti, al di sopra ed a prescindere da ogni forma di controllo. Nel procedere in quest'opera di riscrittura delle regole del gioco, è corretto immaginare che il primo intervento del diritto nell'ambito economico e dell'impresa debba avvenire sul piano della prevenzione, avvalendosi degli strumenti propri del diritto civile, del diritto amministrativo e dell'autoregolamentazione. Arrivando, per questa strada, alla configurazione di un diritto penale minimo ma efficace e severo, nel sanzionare quei comportamenti ritenuti immediatamente offensivi di quegli interessi meritevoli di protezione, perché in diretta e stretta relazione con la tutela della funzione di vigilanza, epicentro del complesso normativo a difesa del risparmio. ; XXI Ciclo ; 1972