Zehn Jahre vertrauensbildende Maßnahmen: eine Bilanz
In: Aus Politik und Zeitgeschichte: APuZ, Band 36, Heft 13-14, S. 3-12
ISSN: 0479-611X
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In: Aus Politik und Zeitgeschichte: APuZ, Band 36, Heft 13-14, S. 3-12
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World Affairs Online
In: Internationale Politik: Politik, Wirtschaft, Recht, Wissenschaft, Kultur, Band 34, Heft 806, S. 13-16
ISSN: 0535-4129
Aus jugoslawischer Sicht + Einschätzung/Abschätzung
World Affairs Online
In: Aus Politik und Zeitgeschichte: APuZ, Band 27, Heft 44, S. 43-54
ISSN: 0479-611X
World Affairs Online
Nel romanzo francese degli anni Trenta, il naufragio del senso cui sembra andare incontro la realtà orienta la rappresentazione del personaggio romanzesco secondo due bisettrici opposte e complementari. Da una parte, l'opacizzazione dell'istanza paterna, quando non la sua assenza, dà luogo ad una vera e propria condizione di orfanità; dall'altra, l'eclissi delle radici individuali è implementata da una difficoltà di paternità che sfocia su un vertiginoso complesso di sterilità. Evidenziando l'inconsistenza individuale e storica dei personaggi, la ricorrenza obsédante di queste figure descrive la condizione - insieme inquietante ed euforica - di una generazione scopertasi priva di giustificazioni biologiche, sociali o culturali. In questa prospettiva, l'infittirsi di figure legate al tema dello sradicamento sembra essere surdeterminata da una definitiva esplosione dei paradigmi tradizionali, acuito dai traumi tutti novecentesche della prima guerra mondiale e della rapida osmosi dei codici sociali. Da qui, una letteratura che ben al di là delle convinzioni politiche del singolo autore esprime una visione del mondo oramai piccolo-borghese: una condizione priva dei punti di riferimento tradizionali, come il patrimonio o la proprietà, ma che non riesce ad edificare nuovi valori cui ancorare il proprio status vacillante. Proprio la coscienza di una marginalità individuale e storica costituisce la premessa più evidente di un paradigma della mediocrità, per utilizzare l'espressione con cui Jacques Dubois identifica la generazione letteraria degli anni Trenta. Beninteso, lungi dal definire una problematica sociale o materiale, negli autori più rappresentativi di questa generazione la mediocrità rinvia ad una più complessa esperienza esistenziale che sfocia sull'assoluta vacuità di una traiettoria priva di giustificazioni. L'ambivalenza di ogni costante letteraria permette tuttavia di rovesciare il polo negativo in polo positivo: se la crisi delle tradizionali forme di consistenza polverizza la consistenza dell'individuo, essa si afferma al tempo stesso come un mezzo privilegiato per assegnare un significato nuovo alla parabola individuale. Con gli anni Trenta, questa inversione reattiva si connette all'allestimento di un paradigma romanzesco alternativo: uscendo dalle secche della littérature d'analyse, l'inquietudine si orienta adesso verso problematiche di più ampio respiro, volte a stabilire i fondamenti di una letteratura nuova. La nuova prassi letteraria, rifiutando i connotati estetici e psicologici della generazione precedente, implica la presenza di un'interrogazione sul senso stesso della scrittura, volta a giustificare eticamente e politicamente la propria attività. Va da sé che un tale progetto conoscitivo comporti una nuova idea di soggetto romanzesco, adesso concepito come un'istanza autonoma rispetto ai vincoli tradizionali, e perciò capace di propugnare la condizione di orfanità e sterilità come garanzia di reazione. Alla sterilità del tessuto sociale e intellettuale la generazione degli anni Trenta oppone infatti una concezione autonoma del soggetto, chiamato ad individuare nuclei di senso alternativi rispetto a quelli dominanti: in quest'ottica, l'azione del singolo si carica di significati esplicitamente morali ed esistenziali, volti a veicolare una riflessione sul significato stesso dell'essere al mondo. Proprio la valorizzazione del piano riflessivo alimenta una particolare tipologia di personaggio che, prendendo a prestito la fortunata definizione di Brombert, può essere definito eroe intellettuale, orgogliosamente sganciato dalle tradizionali forme di consistenza. Proponendo un'indagine esistenziale estranea d ogni reificazione sociale o culturale, i moduli romanzeschi degli anni Trenta si orientano dunque, ognuno secondo modulazioni tematico-stilistiche peculiari, verso la rappresentazione di esseri umani privi di un senso aprioristicamente dato. Certo, questa indagine può sfociare nella constatazione inquietante di un horror vacui davanti ad un mondo privo di riferimenti stabili; ma la vertigine di uno scollamento tra l'io e il contesto, lungi dal tradursi in una visione deterministica dell'esistenza, evidenzia la libertà del singolo. Se la rappresentazione della mediocrità pervade la letteratura degli anni Trenta, nei rappresentanti più autorevoli di questa generazione tale tematica viene postulata e trascesa allo stesso tempo: la riduzione ai minimi termini del soggetto costituisce la premessa per l'elaborazione di un nucleo di senso alternativo. Da questo punto di vista, la letteratura degli anni Trenta costituisce l'ulteriore tappa di un processo che, a partire dall'Illuminismo, non si basa tanto sull'adesione ad un senso preesistente quanto sull'elaborazione di significati sostitutivi. In tal senso, il discorso letterario di questa stagione marca una rottura e insieme prova ad aprire nuovi percorsi di senso: a partire da uno scenario generazionale, è dunque interessante analizzare come tale impulso si manifesti nell'opera dei singoli autori, originando un articolato impianto di varianti. Un primo polo è costituito dalla tentazione fascista, fondata su un ripiegamento luttuoso e ideologicamente reazionario: in tal senso, la constatazione di una crisi individuale e generazionale individua nei postulati di razza e virilità l'occasione più feconda di risarcimento. Sia per Drieu La Rochelle che per Brasillach, la celebrazione letteraria del fascismo data 1939, rappresentando l'esito più coerente di una riflessione sul rapporto tra io e mondo che impegna i due autori fin dall'inizio delle loro carriere: a tal proposito, è emblematico che fin dalle primissime opere la rappresentazione del soggetto romanzesco ruoti attorno ad una pronunciata condizione di orfanità e sterilità. In entrambi i casi occorre pertanto rifarsi ad un arco narrativo più esteso, così da mettere in risalto l'evoluzione in senso politico-reazionario di queste problematiche. Nella narrativa di Drieu, la riflessione sulla decadenza francese, investendo i paradigmi borghesi, comporta un'opacizzazione dell'istanza paterna che apre, almeno potenzialmente, ad un processo di emancipazione dal modello generazionale. Tuttavia, l'operazione di autodeterminazione non riesce felicemente: in romanzi come Le Feu follet e Rêveuse Bourgeoisie, la critica ad una borghesia inefficace ed inconcludente si accompagna alla rappresentazione di un soggetto fallimentare, la cui mancanza di aderenza alla realtà impedisce di trasformare costruttivamente la diagnosi in reazione incisiva. Questa insufficienza costitutiva trova un canale privilegiato nella dimensione erotico-sessuale: il palliativo dell'erotismo riporta infatti l'individuo alla propria solitudine, rovesciando la frenesia in stasi. Connotata in tal senso, la quête identitaria dei personaggi larochelliani è costitutivamente condannata alla sterilità: proprio il complesso d'impotenza e sterilità cui sono destinati i personaggi, certifica la posizione marginale del soggetto nel tessuto sociale, dando corpo ai fantasmi di una classe improduttiva che, se non ha più niente da ereditare, non può fondare un ordine autonomo. Vera e propria summa di un itinerario narrativo quasi ventennale, Gilles presenta in maniera più complessa e relata tutte le componenti principali attive nell'opera di Drieu. I temi caratteristici tornano tutti e contemporaneamente, fino a formare un fitto reticolato tematico in cui la condizione di orfanità e sterilità è addirittura esasperata per mettere in risalto la nascita del nuovo soggetto fascista. Ancorando in maniera esplicita orizzonte individuale e orizzonte storico-politico, Gilles porta alle estreme conseguenze quel parallelismo tra crisi del soggetto e decadenza della società che è esplicito e insistito in tutta la sua opera: gli elementi tipici del romanzo individuale si sommano all'affresco ideologico della decadenza francese, con lo scopo di introdurre la professione di fede fascista con cui termina la vicenda. Squalificati i legami verticali in favore del concetto di razza, la condizione di orfanità può adesso essere esibita come un azzeramento euforico su cui elaborare significati autonomi. Ma il progetto di autodeterminazione è ostacolato dalla compromissione con una società malata e disordinata. Ancora una volta, è la dimensione erotico-sessuale ad assumere un ruolo primario per comprendere l'infiltrazione della decadenza nel soggetto: la dispersione erotica, lungi dal favorire un incremento identitario, sfocia su un complesso d'impotenza e sterilità che rischia di appiattire il soggetto sulle coordinate di un'esistenza piccolo-borghese. Sarà proprio l'identificazione con un tessuto sociale sterile e femminizzato a innescare una reazione, culminante con l'adesione al fascismo. L'inconsistenza individuale e storica che orfanità e sterilità trasmettono trova una sublimazione nel fascismo, percepito come unico medium per favorire la rigenerazione di un mondo privo di statura eroica: in una civiltà materialista e massificante, il fascismo non si afferma, più banalmente, solo come una forza di distruzione ma propone una condizione umana più alta ed orgogliosa, fondata su una restaurazione totale dell'uomo e, con esso, di un intero popolo. In questa chiave, il fascismo permette di ritrovare quei valori di forza e virilità frustrati dal contatto con una società civile agonizzante e passiva: la morale dell'azione, restituendo all'individuo la sua dimensione guerriera, consente infatti una dilatazione dell'io che riattiva quella fecondità negata dal piano fisico-biologico. Date le valenze spirituali di cui è caricato, il fascismo celebrato da Drieu assume una valenza meno politico-sociale che mistico-religiosa, capace di restaurare l'animo individuale e la coscienza collettiva. In questo senso, solo il ricorso ad un'istanza politica fortemente liricizzata consente di superare le insufficienze di un'attività intellettuale lontana dal mondo. Nella trasfigurazione estetica del gesto fascista sembra così potersi realizzare il sogno romantico tanto a lungo coltivato da Drieu: armonizzare azione e sogno, attività contemplativa e intervento concreto nella storia. Nell'itinerario narrativo di Brasillach il problema delle radici individuali è posto fin da Le Voleur d'étincelles: per sconfiggere lo sradicamento patito nella dimensione urbana, Lazare Mir deve emanciparsi da una dimensione individualistica e tornare alle regioni incantate dell'infanzia, dove potrà riconnettersi con gli spiriti della famiglia. Attraversando più o meno evidentemente tutta la produzione del decennio, la condizione di orfanità e sterilità raggiungerà il suo culmine ne Les Sept couleurs (1939). Normalmente si tende a mettere in risalto l'elaborazione formale del romanzo, basata sulla compresenza di codici narrativi eterogenei; in realtà, la ricerca di originalità formale è surdeterminata dall'illustrazione di un altro rinnovamento, rappresentata dalla nascita dell'uomo fascista. Attivo fin dal primo romanzo, il meccanismo di opacizzazione delle radici deflagra completamente ne Les Sept couleurs, dove il problema è oramai trattato solo in absentia: le origini che i personaggi precedenti avevano faticosamente cercato di riconquistare sono completamente eliminate. Implementata dalla difficoltà di interpretare costruttivamente un rapporto sentimentale, la condizione di orfanità è infatti sublimata – e nel caso di entrambi i protagonisti maschili - con il ricorso al fascismo. In tal senso, il processo di eradicazione di ogni legame sottintende una critica alla dimensione borghese, principale responsabile della mediocrità sociale e culturale in cui è precipitata la società: l'orfanità e la sterilità cui sono sottoposti i due protagonisti li colloca in una dimensione apertamente anti-borghese, l'unica suscettibile di essere fecondamente rovesciata in fascismo. Alla definitiva mozione di sfiducia verso la generazione dei padri segue l'esaltazione di una giovinezza eroica finalmente chiamata alla responsabilità dell'azione. Il problema della giovinezza, che nella generazione precedente era legato ad istanze erotico-oniriche, si fa dunque collettivo; d'altronde, la contingenza del momento storico impone di rimotivare l'ossessione per la fugacità del tempo in una chiave storico-sociale. Ma il gesto fascista non presuppone un superamento dalla giovinezza in favore della maturità; piuttosto, ne armonizza le istanze più caratteristiche in un ordine superiore che le conferisce una collocazione storica feconda. Enfatizzando il tono vitale e istintivo a discapito del piano razionale-logico, la valutazione estetico-sentimentale del fascismo ha la meglio su ogni disamina teorica: in tal senso, l'analisi del fascismo resa da Brasillach è estranea a qualsiasi approfondimento storico-sociale ma resta ancorata ad una visione lirica che mal si emancipa da un giudizio puramente estetico. Questa pulsione estetizzante comporta un movimento doppio, e solo apparentemente contraddittorio. Da una parte, l'esprit de jeunesse origina un impulso individualista atto a sorpassare il proprio statuto mediocre attraverso dilatazione euforica dell'io; dall'altra, il desiderio di fusione con una collettività più vasta attraverso il recupero dei morti e dello spirito della nazione testimonia la necessità di un ordine superiore che trascenda le esistenze singole e ne assicuri la coesione. Declinando verso gli stilemi dell'epopea, l'esistenza del singolo è garantita proprio dalla partecipazione ad una collettività che, riscattandone l'assenza di legami, lo completa come individuo. Celebrando la possibilità di armonizzare l'io in una pluralità più vasta, Brasillach propone una visione meno pessimistica rispetto a quella del tempo: la rappresentazione di un soggetto senza legami, passivo ai limiti dell'impotenza, trova nel fascismo le ragioni della gioia e della totalità. Al ripiegamento romantico-reazionario, fondato sul culto dei morti e su un'ipervalutazione mitica dell'identità nazionale, si oppone un polo etico, intento a trasfigurare nel valore della libertà e dell'autodeterminazione la condizione di orfanità e sterilità. Nelle opere di Malraux, Nizan e Sartre la crisi del rapporto tra io e mondo è sublimata euforicamente mediante la valorizzazione dell'autonomia individuale: i sottintesi etici che orientano questa tendenza demandano ogni risposta alle potenzialità concrete del singolo, teso a reperire nella dimensione tangibile della propria esperienza i mezzi della propria sostanziazione. In Malraux questa necessità si connette a quella proiezione eroico-avventurosa che è al centro de La Voie royale, dove l'azione si dà come l'unico modo per ribadire il valore autonomo dell'io. Momento di estremo confronto con il proprio essere, l'avventura ha come conditio sine qua non l'estraneità ai codici ritualizzati della società, fondati sulla mitologia borghese della continuità generazionale. Se la crisi dei legami verticali testimonia lo statuto deficitario del soggetto, il malessere resta qui motivo solo implicito, poiché la statura eroica rovescia la condizione di orfanità e sterilità in garanzia di autodeterminazione. Certo, l'eclissi dei valori fondativi espone l'individuo ad una vertigine d'inconsistenza ma, lungi dal risolversi in nichilismo o paralisi, esalta la lotta del singolo contro le forme del destino. Tuttavia, la morte su cui si chiude la parabola di Perken, rivelando l'assurdità dell'esistenza, non farà che consegnare il processo di autocostruzione del sé ad una impasse tanto storica quanto metafisica. Se l'emancipazione dai vincoli tradizionali innesca uno scatto conoscitivo, la dilatazione solitaria dell'io attraverso la proiezione avventurosa resta legata ad una concezione romantico-nichilista che non prevede esiti fecondi. Con La Condition humaine, il gesto eroico evolve da una tensione individualista verso significati etico-politici di valore collettivo. Se il dato di fondo è il racconto delle vicende rivoluzionarie, il testo apre ad una prospettiva più profonda, in cui la dimensione politica è proposta come ancoraggio ai turbamenti di una generazione di déracinés. Ecco perché, nel reticolato tematico del romanzo, la questione del rapporto con il modello paterno continua ad occupare un problema centrale. Tutti i personaggi del romanzo sembrano privi di radici, ma questa problematica concerne da vicino il rapporto tra Gisors e Kyo. Benché i due rappresentino istanze per certi aspetti complementari, ad emergere è un'opposizione inconciliabile: se Gisors incarna una dimensione contemplativa pronta ad alienarsi dalla realtà, Kyo si fonda come individuo grazie all'azione rivoluzionaria. Rifiutando ogni determinismo in funzione di un'esaltazione della scelta, il progetto di autodeterminazione politico-rivoluzionario illustrato da Malraux implica dunque una totale valorizzazione del presente: una volta cadute le tradizionali forme di consistenza, la dedizione ad una causa comune diventa l'unica forma di giustificazione. Proprio l'adesione dell'io ad una comunità più vasta ridisegna l'impianto metaforico cui ubbidisce la rappresentazione della sessualità: la fecondità dell'azione rivoluzionaria può ormai prescindere dalla sete di dominazione erotica cui cedeva la proiezione avventurosa-individualista. Beninteso, non manca la tematizzazione di una sessualità sterile, legata allo scatenamento del desiderio erotico; tuttavia, essa non è legata ai valori rivoluzionari ma a personaggi dediti ad un'impostazione esistenziale dedita all'individualismo. A differenza dei romanzi precedenti, con La Condition Humaine l'energia si espande in un movimento fraterno basato sulla condivisione costruttiva della solidarietà rivoluzionaria: solo in questo caso la sublimazione della propria inconsistenza individuale, cui orfanità e sterilità rimandano, sembra risultare veramente perseguibile. Ad un medesimo indirizzo risponde la parabola romanzesca di Paul Nizan, all'interno della quale la questione dell'orfanità e della sterilità si lega in maniera ancor più esplicita a problematiche politiche e sociali di sinistra. Coerentemente con i postulati che orientano la letteratura degli anni Trenta, i significati etico-politici diventano valori in grado di rimotivare la condizione di un soggetto fluido, privo delle giustificazioni tradizionali: in quest'ottica, la rivoluzione appare non soltanto una possibilità storica e sociale, ma l'unico modo con cui risarcire l'individuo dalla perdita delle tradizionali forme di consistenza legate alla famiglia e allo status sociale. Niente di strano che una simile riflessione sul nesso tra uomo e sfera politica si leghi ad una messa in questione dei legami verticali in quanto la tensione generazionale costituisce un elemento decisivo nel percorso di autodeterminazione politica del soggetto. Antoine Bloyé, romanzo d'esordio di Nizan, costituisce appunto una riflessione sui rischi di ogni percorso slegato da un orizzonte collettivo: attraverso l'ascesa professionale di Antoine, il romanzo restituisce la sterilità individuale e storica di un individuo che sceglie di tradire le proprie origini contadine per conformarsi ad un ideale di vita piccolo-borghese. Con Le Cheval de Troie, il ritratto individuale lascia spazio ad un quadro più ampio che trascende la singolarità in un ritratto collettivo dalle tinte epicizzanti. Pur nell'espansione delle implicazioni tematiche, il problema dei vincoli verticali resta un elemento determinante: in filigrana al nucleo narrativo principale emerge un tema portante, che vede i personaggi separarsi dalle tradizionali forme di consistenza per legare il proprio tragitto ad un impegno etico-politico totalizzante. In questa prospettiva, il processo di emancipazione dai vincoli generazionali costituisce un momento essenziale del processo conoscitivo, ma ancora insufficiente. La coscienza di un'ipoteca tragica gravante sul destino individuale deve costituire solo il primo tassello di un progetto edificante in cui la sterile fascinazione per il nichilismo sia superata attraverso l'adesione ad una causa collettiva. Si tratta di un'aspirazione che si realizza concretamente nei momenti di aggregazione plurale: la fusione nella causa comune sublima la solitudine dei singoli, rifecondando una condizione umana sterilizzata dalla sofferenza. Lo stemperamento delle istanze individuali dentro un quadro collettivo suggerisce la volontà di restituire una nuova epica, per eccellenza integrazione armonica del singolo all'interno di un insieme che lo giustifica e lo trascende: in questo desiderio, è evidente l'aspirazione a una fusione collettiva quasi pre-moderna ma mondata delle implicazioni religiose e rifunzionalizzata in un'ottica esistenziale e politica. Ben presto, la contingenza storico-sociale imporrà a Nizan di ripensare criticamente la possibilità di un collegamento fecondo tra l'io e la storia. Con La Conspiration, il tema della dialettica generazionale viene infatti convogliato all'interno di un'interrogazione autocritica sul malessere di una generazione fluida, priva di solidi punti di riferimento. Il nucleo del romanzo porta la perturbazione nella fluidità del modello familiare ad assumere ancora una volta il ruolo di linea guida all'interno dell'economia narrativa. Ma la sostanziazione dell'individuo, prima garantita dall'aggancio a significati politici costruttivi, è qui rovesciata nella condizione stagnante di una gioventù che non riesce ad agganciare il rifiuto dei valori borghesi a significati collettivi realmente concreti e incisivi. Ultima ed estrema tappa di questo polo, La Nausée di Jean-Paul Sartre descrive un'azione ormai ridotta alla sola dimensione intellettuale. La condizione di orfanità e sterilità è tematizzata fin dall'inizio come un tratto costitutivo di Roquentin, estraneo ad ogni collocazione sociale e collettiva. Da qui, uno statuto solitario su cui si innesta una doppia emarginazione: la prima ha una matrice filosofica e deriva dalla constatazione di una crisi nel rapporto con il mondo fisico; la seconda ha implicazioni sociali, e con odio misto a invidia separa Roquentin dalla classe borghese. Secondo un meccanismo di contaminazione tra assi tematici paralleli frequente nel romanzo, la rivendicazione dell'hic et nunc cui le figure di orfanità e sterilità rimandano assume un significato ideologico-sociale che porta a una contestazione dell'ordine borghese dominante. Se i salauds individuano nella dimensione familiare e nelle tradizioni una giustificazione esistenziale, il progetto di Roquentin mira ad assumere l'esistenza pura attraverso una radicale liberazione dai ruoli. Vincolata alla dimensione soggettiva, l'antropologia di Sartre origina infatti da un processo conoscitivo autonomo, che per definizione non può modellarsi su forme di giustificazioni imposte dai codici tradizionali. Demistificato ogni rapporto di necessità tra l'io e il mondo, l'indagine identitaria di Roquentin assume la contingenza a principio costitutivo dell'essere: sfociando sull'engluement nella coscienza pura, l'esistenza cola nel soggetto liberato dalla sua ipoteca alienante, fino ad invaderlo con la sua fluidità informe. L'indagine cognitiva proposta del romanzo arriva a formulare nell'esistenza l'unica qualità del soggetto, in opposizione alle tradizionali forme di consistenza legate alla famiglia e allo status sociale La celebrazione dell'esistenza come predicato ultimo del soggetto sottintende una libertà che, nella sua radicalità, non conduce tuttavia una euforica sostanziazione del sé ma all'assenza radicale di riferimenti: il momento della nausea apre alla tabula rasa di tutti i valori tradizionali per approdare alla certezza che l'esistenza non corrisponde ad alcune necessità ma solo alla contingenza. La questione della contingenza pone dunque il problema dell'essere umano nel mondo: l'angoscia esistenziale si lega alla constatazione d'una gratuità dell'essere, e quindi all'interrogazione senza risposta sulla propria identità. Ma la scoperta della contingenza non deve essere ridotta alle sue coordinate soggettive: nell'immagine di una Bouville sepolta dalla vegetazione, la gratuità del soggetto si lega all'esistenza gratuita della civiltà occidentale, assumendo un carattere storico e collettivo, oltre che ontologico e soggettivo. Beninteso, nella prassi sartriana la condizione di orfanità e sterilità ha un implicito risvolto etico-positivo: solo attraverso la vertiginosa esperienza del nulla, l'essere umano può mettersi in questione. Solo da questo processo di autonegazione può nascere una volontà di autocostruzione che testimonia d'una reale "libertà" del soggetto. L'analitica fenomenologica sfocia implicitamente su un'etica del soggetto che si fa nella misura in cui accetta di negarsi, riconoscendosi in una concezione dell'essere come perpetuo progetto. Ancora lontano dal legarsi a significati pienamente politici, il progetto su cui si chiude La Nausée si limita alla possibilità di un'opera d'arte che, risarcendo la virilità di Roquentin, possa fustigare la collettività borghese detestata e invidiata. Nella quarta parte si è preso in considerazione un terzo polo, particolarmente diffuso in questa stagione: una letteratura dello smarrimento, in cui la condizione di orfanità e sterilità restituisce un movimento cortocircuitale incapace di elaborare costruttivamente la percezione di un malessere tanto individuale quanto storico. Di questa tendenza, il furor liquidatorio di un Céline non rappresenta che la versione meno rassegnata e più anarchica, e perciò meritevole di essere considerata indipendentemente. Se l'opera di Céline si fa interprete di un'inquietudine generazionale, l'assenza di ogni elaborazione sostitutiva consente infatti di rilevarne lo statuto peculiare: alla possibilità di riscattare la condizione di orfanità e sterilità tramite una progressione identitaria, Céline oppone la visione di una condizione umana immodificabile. Si tratta di un dato che emerge con evidenza nel Voyage au bout de la nuit: muovendosi in un contesto socio-culturale in preda al disordine, Bardamu interpreta una condizione priva di ogni punto di riferimento e dunque condannato ad esperire una precarietà costitutiva. In questo senso, l'opacizzazione delle radici familiari riflette un più generale perturbazione delle istanze sociali o religiose tradizionalmente fondative per l'individuo. Se l'assenza di parametri stabili incrina il rapporto di conoscibilità tra l'io e il mondo, la bulimia esperienziale del personaggio risulta anzi accentuata: tuttavia, il movimento nel mondo, lungi dal suggerire un'acquisizione conoscitiva feconda, non fa che restituire l'ossessiva presenza di una morte che condanna il soggetto alla deflagrazione. Posto sotto l'ombra di un immobilismo metafisico, il romanzo esplicita una doppia tendenza all'anonimato cui è destinato l'individuo: il dominio della morte, lungi dal produrre uno scatto reattivo, è solo l'esito più coerente di quell'azzeramento già garantito dalla latenza di ogni giustificazione. Con Mort à crédit (1936), la crisi dell'istituzione familiare e dello status sociale, che nel Voyage è motivo solo implicito del discorso, viene affrontata alle sue radici: dopo aver illustrato una vasta fenomenologia del negativo, l'intento del romanzo è quello di un'immersione nella storia infantile e adolescenziale del personaggio, volto a recuperare le cause di una visione del mondo così radicalmente improntata al negativo. In effetti, l'accento sulla degradazione del microcosmo familiare è inestricabilmente connesso ad una compromissione con la morte e dunque sintomo di una visione radicalmente disperata. In questo senso, il focus sulla dimensione piccolo-borghese della famiglia resta solo un primo, elementare, livello attraverso cui Céline può veicolare rovelli ontologici di portata più ampia, operando, in maniera ancor più marcata, quello slittamento dal piano sociale a quello metafisico-esistenziale che già era stato l'architrave del Voyage. La riduzione ai minimi termini sociali e ontologici, lungi dal comportare una reazione, si risolve in un blocco che ostacola alla base ogni proposito di apprendistato: di fronte all'aggressività dell'esterno, l'unico progetto è un ripiegamento passivo che, abdicando ad ogni autonomia, si limita ad organizzare un labile calcolo difensivo. Si tratta di una chiusura replicata anche dal microcosmo sessuale, il quale, perduta ogni funzione euforica, obbedisce all'immobilismo che regola l'universo céliniano, tradendo in sé la crisi e non la fondazione dell'identità. Il binomio di orfanità e sterilità rimanda così ad una passiva chiusura al mondo, legata all'assenza di una felice progressione identitaria: lo schema del romanzo di formazione, cui lo scheletro del testo sembra alludere, si è oramai ridotto ad un accumulo disordinato e fallimentare di esperienze cui non soggiace più alcun paradigma interpretativo. In questo polo romanzesco rientra però una seconda linea, all'interno della quale le figure di orfanità e sterilità si legano ad un senso di stagnazione esistenziale caratterizzata dalla chiusura di qualsiasi orizzonte - sia esso intimo, sociale o esistenziale. Da qui, uno scenario particolarmente negativo, in cui lo statuto problematico dell'individuo resta alieno non solo da quella tensione reattiva che, pur nella polarità degli esiti, contrassegna il ripiegamento reazionario e la sublimazione etico-costruttiva, ma anche dall'inesausto moto conoscitivo di un Céline. Sulla base di questi tratti è dunque possibile astrarre un modello romanzesco comune, al quale possono essere ascritte le esistenze dimesse e rinunciatarie tratteggiate da Bove e da Montherlant, così come i pallidi calcoli difensivi che contrassegnano i romanzi di Guilloux, Thérive e Simenon. In questo senso, il crollo delle tradizionali forme di consistenza, lungi dal costituire un momento di fondazione dell'io, rimanda ad una paralisi aliena dal minimo progetto di reazione: se la riduzione dell'individuo alle sue forme minimali sfocia sulla constatazione di un divorzio con il mondo, esso non comporta l'elaborazione di significati sostitutivi ma solo un'involuzione solipsistica. Attraverso differenti modulazioni tematiche e stilistiche, questi romanzi illustrano dunque una ricerca di sostanziazione minata alla base da una duplice perturbazione: da una parte, la svalutazione preventiva dell'azione individuale squalifica ogni possibilità di conoscenza; dall'altra, l'opacizzazione di uno spazio fisico fattosi definitivamente illeggibile invalida il concetto stesso di esperienza. Si tratta di un binomio che, riflettendo una morale del fatalismo, preclude ormai ogni conquista identitaria: se molta letteratura degli anni Trenta ha insistito sulla libertà del soggetto, quest'orizzonte romanzesco sembra riaffermare una morale della predestinazione aliena da ogni spessore storico come da ogni contatto con l'hic et nunc.
BASE
In: http://zaguan.unizar.es/record/11732
El correcto funcionamiento de cualquier gobierno depende en gran medida de su capacidad para administrar, gestionar y abastecer a las gentes de los territorios que lo componen, por lo que, ante una extensión territorial tan vasta como la del Imperio Romano, la comunicación rápida y segura de todas las zonas se convirtió en una necesidad de Estado. La existencia de una red de comunicaciones eficaz, que facilitara el tránsito de informaciones, bienes y personas, se hizo imprescindible. El control de la información siempre ha sido una poderosa herramienta política. Pero este proceso necesitaba de la existencia de un conjunto de elementos fundamentales sobre los que asentarse. Estos puntos de apoyo eran: -la red viaria; -el sistema de la uehiculatio (posteriormente conocido como cursus publicus); -el conjunto de agentes humanos ocupados en las labores de mensajería, transmisión de informaciones, transporte, etc.; -los medios de transporte (que no llegaremos a tratar por haber sido objeto de estudio en otras monografías específicas cuyas conclusiones pueden adaptarse igualmente a la provincia de Hispania citerior); -y la red de estaciones viarias, que constituía el entramado de paradas que permitían llevar a cabo el cambio de monturas y la pernoctación de los viajeros. Queda patente la relevancia del entramado viario, que constituye el esqueleto sobre el que florecen las redes de comunicación y circulación, y que ha sido objeto de estudio por parte de numerosos autores. A lo largo de nuestra disertación pondremos de relieve la intrínseca relación entre estos factores, su dependencia en última instancia de las vías de comunicación y su transcendencia en la política imperial. A pesar de lo cual, no les dedicaremos a todos ellos la misma atención. La problemática de las comunicaciones y la transmisión de informaciones viene siendo uno de los grandes temas de interés de la historiografía actual. Contamos con monografías, coloquios y artículos muy variados que abordan la cuestión en sus múltiples facetas y desde perspectivas diversas. Sin embargo, la mayoría se centran en el funcionamiento de la administración central dentro del territorio itálico, por lo que se echaba en falta un estudio pormenorizado concerniente al marco hispánico. Las pautas generales de las comunicaciones oficiales no experimentarían cambios significativos en las distintas provincias imperiales, aunque las particularidades de cada zona hacían que algunos de los factores arriba señalados variasen de una provincia a otra. Por tomar como ejemplo dos de las obras que más han influido en nuestra metodología, C. Corsi (2000) y E. W. Black (1995) analizaron en su día uno de los aspectos menos conocidos del tema que nos ocupa: las estaciones viarias dentro de Italia y Britannia, respectivamente. En ambos casos se observaban elementos comunes definitorios de estas estructuras de parada donde tenía lugar el cambio de monturas. No obstante, las peculiaridades y condiciones de cada uno de los marcos geográficos en época clásica influyeron de manera decisiva en los rasgos propios de estas infraestructuras. Los trabajos de campo desarrollados en otros ámbitos provinciales, si bien no compilados en monografías similares, evidenciaron la misma circunstancia. Hasta la fecha, son muy pocos los yacimientos arqueológicos interpretados y publicados como estaciones viarias dentro de Hispania citerior. La complejidad intrínseca a los paradigmas arquitectónicos de estas infraestructuras ha llevado a los investigadores de nuestra Península a exhibir una extrema cautela a la hora de otorgar la catalogación de estación viaria a un yacimiento arqueológico. Y no cuestionamos que una cierta cautela es apropiada y necesaria en este caso pero, desde nuestro punto de vista, es la ausencia de un estudio pormenorizado del tema el freno principal al avance de las investigaciones en el campo de las comunicaciones dentro de Hispania. Es por ello que el aporte de nuestra tesis irá dirigido a tratar de solventar dicha situación. Sin embargo, no resultaba práctico tomar la totalidad del territorio hispánico como marco de estudio. Como ya comprobara Black (1995) en su trabajo sobre las estaciones de Britannia, la metodología más coherente dictaba elegir una vía en concreto sobre la que llevar a cabo las observaciones pertinentes, dado que calzada y posta constituyen un tándem inseparable. En consecuencia, la vía Augusta se convertía en el mejor escenario para la labor, puesto que no sólo abarcaba una gran amplitud geográfica (discurría por todo el eje Norte-Sur de la provincia y se adentraba hacia el interior por el Valle Medio del Ebro), sino que además constituía la arteria terrestre principal de comunicación con Roma. Los resultados de nuestra investigación son producto de la compilación de un catálogo que abarca las estaciones viarias dispuestas desde los Pirineos hasta Valentia y aquellas entre Tarraco y Caesaraugusta. Dichos resultados aparecen en el quinto capítulo de la disertación, bajo el título "Análisis conjunto de los resultados de la base de datos: estaciones viarias de la vía Augusta". Tomamos como enclaves delimitadores Summum Pyrenaeum (pues puede considerarse el punto de inicio de la vía en Hispania), Valentia y Caesaraugusta. No creímos oportuno continuar más al Sur de Valentia porque era perder de vista el marco nororiental propuesto para nuestra investigación, ni más al Oeste de Caesaraugusta, pues el seguimiento de la vía Augusta interior es complicado pasado el tramo Ilerda-Celsa. A este respecto, al tratar las comunicaciones entre la costa y Caesaraugusta, nos centramos en recoger las mansiones que aparecen en los itinerarios antiguos y en seguir el trazado de las vías a partir de los miliarios, los vestigios arqueológicos y la topografía. Además, tanto Valentia como Caesaraugusta constituían núcleos urbanos de gran relevancia en época antigua y focos de confluencia con otras vías. Incluyéndolas a ambas, conseguíamos aumentar el muestreo de mansiones con estatuto de colonia. Dentro de aquellas mansiones coincidentes con asentamientos poblacionales (22), aquellas conocidas como municipia superaban en demasía a las colonias y a los núcleos con estatuto jurídico indeterminado, por lo que consideramos suficiente cerrar el muestreo tras incluir a dos de las colonias más destacadas dentro del tramo seleccionado. De esta forma, el catálogo contaba con un número medianamente equilibrado de estaciones viarias de distinta naturaleza. En cualquier caso, cabe incidir, una vez más, sobre el hecho de que, aunque no existen dudas sobre el destacado papel que jugaron estas estructuras en el desarrollo de las comunicaciones imperiales, no sé tienen datos hasta la fecha sobre la situación jurídica de las mismas. Conocemos el estatuto de algunos de los lugares en los que se emplazaba la estación pero no el del propio edificio en sí: ¿Serían privados? ¿Estatales? ¿Públicos? El tramo seleccionado abarca un total de cuarenta y tres enclaves, conocidos con el nombre genérico de mansiones y recogidos en los itinerarios antiguos. Desde un primer momento dejamos establecido que cuando utilizamos el término "mansio" lo hacemos en el sentido latino de la palabra, es decir, con el significado de "parada en el camino" o "infraestructura de parada"; no como definición específica de un tipo concreto de estructura arquitectónica. De hecho, en la actualidad, los términos más utilizados en la clasificación de estas estaciones son mansio, mutatio y statio, pero como ya apuntara Chevallier, el vocabulario al respecto es múltiple y varía en función del momento histórico al que hagamos referencia y de las características o utilidades de estos enclaves. Los múltiples vocablos existentes en época antigua, la mayoría de los cuales fueron tratados en profundidad por Kleberg (1957), los examinamos uno a uno en el tercer capítulo, al hablar de la terminología clásica y moderna con la que se puede identificar a estas infraestructuras. El muestreo, debido al marco geográfico que comprende y a que ofrece la posibilidad de observar las características de mansiones emplazadas en medios físicos muy diferentes, ha resultado adecuado a la hora de establecer conclusiones generales que, consideramos, podrán aplicarse al resto de la vía Augusta y de la provincia. De esta forma, analizamos la disyuntiva uilla ¿ mansio dentro del marco hispánico, la vinculación de las estaciones a puertos, cauces de agua, puentes, cerros o elevaciones del terreno. Observamos la importancia estratégica de los enclaves en los que se ubicaron las postas, tanto en confluencia de vías o cruces de caminos, así como la posible relación con el ejército o el establecimiento de efectivos militares. Resultan muy curiosas también las conclusiones que pueden sacarse sobre el caso de los topónimos empleados en las fuentes antiguas (acusativos o ablativos) y que parecen no estar sujetos a la lógica lingüística de los mismos. Algo similar sucede con el posicionamiento de las mansiones, su relación con la calzada y las cuestiones que nos planteamos cuando nos encontramos ante núcleos urbanos definidos, en vez de ante simples edificaciones ubicadas en un punto concreto de la vía. No obstante, dos de los aspectos más relevantes son los que atañen al análisis de las distancias y a la cronología de los vestigios arqueológicos documentados. Con respecto a las distancias se observará con total claridad, que el terreno y las características del entorno por el que discurre la vía serán de gran importancia. Partíamos de la premisa de que los intervalos de separación se establecerían en función de las necesidades de los viajeros y de las características del terreno, pues lo habitual sería que un correo recorriese unas 5 millas por hora con una media de unas 50 millas por jornada de viaje. Y así veremos como en la zona costera de Cataluña se observan valores similares pero no iguales que en la zona valenciana o en la del interior, hacia Aragón. Por su parte, la cronología nos muestra una clara tendencia al abandono de las estaciones viarias hacia el Bajo Imperio. Esta circunstancia contrasta con el conocimiento que se tiene sobre el cursus publicus, ya que gran parte de la información que aportan las fuentes, especialmente las jurídicas, procede precisamente del Bajo Imperio. A partir de la arqueología, deducimos que es precisamente el siglo I d. e. el de mayor apogeo para estas infraestructuras en la zona hispánica analizada. No obstante, con posterioridad, dieciséis de las cuarenta y tres mansiones evolucionarían hacia edificaciones de carácter religioso, como ermitas y hospitales medievales, aunque también hubo algunas que derivaron en construcciones medievales de vigilancia o en edificaciones modernas y contemporáneas relacionadas con la acogida de huéspedes o identificadas como "hostales". Dada la novedad de nuestra iniciativa dentro de la provincia Citerior, nos hemos visto en la necesidad de centrar nuestros esfuerzos en la vertiente bibliográfica del asunto, con el objeto de calibrar hasta dónde exactamente ha llegado la arqueología y desde dónde debe continuarse la investigación. Es por esta razón que en el presente trabajo podría llegar a echarse en falta la realización de labores de campo inéditas. Sin embargo, no era nuestra prioridad llegar a proporcionar datos arqueológicos originales de un marco geográfico tan amplio como el seleccionado. Nuestra intención ha sido desde un principio recopilar todos los datos existentes, que hasta el momento no habían sido sometidos a un análisis exhaustivo, que permitiera determinar si la interpretación inicial de los mismos era correcta o si, por el contrario, era necesaria una revisión. Obras como las de Corsi (2000) y Black (1995) han puesto de manifiesto la necesidad de cuestionar el papel de algunas infraestructuras cercanas al paso de las vías, que hasta el momento se habían interpretado, en su mayoría, como uillae o estructuras rurales. La cuestión, por tanto, era: ¿no se han documentado apenas estaciones viarias en Hispania o han pasado desapercibidas por la falta de un paradigma definitorio? Como demuestran las fuentes clásicas, dichas infraestructuras se repartían por la provincia hispánica con la misma frecuencia que se observa en Italia y en el resto de las provincias imperiales. Nuestra primera hipótesis de trabajo, por tanto, era que algunas de ellas habrían sido excavadas en España, aunque no identificadas como tal. La segunda hipótesis de la que partimos fue que probablemente las estaciones viarias hispánicas compartirían una serie de rasgos comunes, consecuencia de las características físicas y administrativas del entorno en el que surgieron. A la par, esperábamos encontrar algunos de los factores más significativos documentados en los ejemplos itálicos y provinciales, tales como: -un acceso fácil desde la calzada, -un buen abastecimiento hídrico, -al menos un patio abierto en el que estacionar los vehículos y llevar a cabo labores de reparación, -estancias dormitorio para los huéspedes y el personal de servicio de la propia estación, -establos para las monturas y animales de tiro, -asociación entre infraestructuras de descanso y áreas termales. El análisis de las cuarenta y tres mansiones seleccionadas pondría de manifiesto que la arqueología, en numerosas ocasiones, ciertamente ha dejado de lado la posibilidad de encontrarse ante un complejo estacionario. Esto sucedería en gran parte de los ejemplos, aun cuando los testimonios de las fuentes corroborasen la coincidencia en las distancias o cuando la topografía y las condiciones del entorno fueran las apropiadas para encontrarnos ante una estación. Observaremos cómo la falta de excavaciones específicas y la parcialidad de algunos de los trabajos arqueológicos, por falta de medios económicos o de iniciativas estatales, dificultan terriblemente el avance de las investigaciones en el campo de las comunicaciones antiguas. Asimismo, demostraremos que la situación actual de la arqueología impide establecer un paradigma concreto y evidente con el que definir el esqueleto arquitectónico de estas infraestructuras. A pesar de ello, veremos que existen diversos factores reiterativos dentro de nuestro muestreo de mansiones, los cuales consideramos que deberán tenerse en cuenta en futuras investigaciones sobre el tema. Algunos de los más significativos: -confirmarán la importancia del medio físico y las características estratégicas del entorno en el establecimiento de estaciones viarias; -pondrán de manifiesto la relativa asiduidad con la que encontramos termas o necrópolis asociadas a este tipo de complejos; -evidenciarán la posible relación entre muchas de las uillae documentadas hasta el momento y las funciones de posta; -mostrarán la tendencia hispánica de establecer este tipo de infraestructuras durante el Alto Imperio, con una evidente evolución hacia la decadencia de las mismas en los siglos IV-V; -contribuirán a reafirmar la tendencia evolutiva de estos enclaves hacia poblaciones medievales y modernas y hacia núcleos cultuales cristianos. La escasez de testimonios epigráficos fuera de los núcleos urbanos documentados como lugar de parada invalidará la posibilidad de ofrecer datos certeros sobre la naturaleza civil o militar, oficial o pública de estas postas. No obstante, trataremos esta cuestión, así como la relativa al origen, funcionamiento y papel de las mansiones dentro del sistema de la uehiculatio, con la diversidad de opiniones que ello genera en la actualidad. Analizaremos las fuentes clásicas que dejan constancia del uso de la uehiculatio o de la simple transmisión de informaciones en territorio hispánico. En menor medida y siempre que sea posible, también examinaremos la carrera y los viajes de determinados personajes, documentados epigráficamente y susceptibles de haber hecho uso del sistema oficial de comunicaciones o de haber contribuido a la circulación de noticias y documentos. Dadas las características del presente trabajo y la amplitud de los temas a tratar, consideramos oportuno establecer una división en dos partes, que facilitase la exposición y el posterior análisis de los resultados. La primera de ellas, titulada "Circulación e información: introducción y elementos comparativos", comprende los capítulos I, II y III, y se ocupa de las cuestiones de índole general sobre las comunicaciones oficiales interprovinciales. En ella desarrollamos una síntesis: 1) Sobre el funcionamiento de la uehiculatio y su posterior evolución durante el Bajo Imperio. 2) Sobre el conjunto de personas que se servirían de dicho servicio o trabajarían para el mismo. 3) Y sobre la propia red de establecimientos que harían posible la realización de los grandes desplazamientos terrestres. El objetivo de compilarlos en un primer apartado es perfilar el marco en el que se desarrollaban las comunicaciones y los desplazamientos de carácter oficial en época imperial: sus generalidades y particularidades, la dependencia de los factores mencionados al inicio (red viaria, uehiculatio, mensajeros e informadores, medios de transporte y postas) y la importancia de los mismos. Aquí examinamos cuál era la situación en Italia y las provincias, a través de la historiografía precedente y de las fuentes clásicas, para así disponer de un paradigma comparativo cuando en la segunda parte pasemos a analizar yacimientos concretos de la vía Augusta. Los elementos de comparación son fundamentales para poder desarrollar un estudio sobre el caso hispánico, dado que hasta el momento no se había profundizado en este tema dentro del marco geográfico peninsular. En esta primera parte dedicamos especial atención a las comunicaciones oficiales, aunque tendremos en cuenta a lo largo de toda la investigación que no serán las únicas que influirán sobre la logística de los desplazamientos y de la circulación de informaciones. En el primer capítulo abordamos las características y el funcionamiento de la uehiculatio y el cursus publicus: pilar fundamental de las buenas comunicaciones estatales y, por ende, del gobierno del Imperio. Exploramos los pormenores del transporte de personas y su alojamiento durante los viajes, la velocidad a la que se moverían y las distancias que separarían las etapas de los desplazamientos; la planificación de los viajes imperiales; la utilización de las vías acuáticas, además de las terrestres, en los desplazamientos oficiales; y la evolución del sistema oficial de comunicaciones desde su creación, bajo el gobierno de Augusto, hasta los últimos momentos del Bajo Imperio. También profundizamos en el uso y abuso de los salvoconductos que permitían la realización de los viajes oficiales; en las graves cargas que supondría para las poblaciones provinciales el mantenimiento de un sistema como el de la uehiculatio y la abundante legislación que intentaría paliar los abusos y controlar el servicio oficial de comunicaciones. Vemos, asimismo, cuál era el procedimiento habitual por el que una noticia oficial publicada en Roma alcanzaría todos los rincones del Imperio y los procedimientos por los que solían transmitirse las noticias de carácter más personal. También hablaremos del funcionamiento de una parte de los servicios de inteligencia romanos, ocupados en hacer llegar al emperador información relevante para el control y el gobierno del Estado. En consecuencia, dedicamos el segundo capítulo a estudiar los agentes humanos que podrían hacer uso de los salvoconductos de la uehiculatio: su papel en las comunicaciones, su forma de proceder en sus desplazamientos y su evolución durante el Alto y el Bajo Imperio. Para ello tomamos como referencia tanto cargos de carácter administrativo, como otros de naturaleza militar al servicio del Princeps y del officium provincial. El emperador, el gobernador y algunos procuradores imperiales también formarán parte del elenco, ya que serían los más dados a hacer uso de las facilidades de la uehiculatio en sus numerosos desplazamientos por el Imperio (en el caso del emperador) y por la provincia (en el caso del gobernador y los procuradores). Barajamos, igualmente, la posibilidad de que determinados individuos con cargos importantes, sujetos a la necesidad de viajar por la provincia, se sirvieran de las ventajas de los diplomata. De esta forma, nos serviremos de la epigrafía municipal cuando en el catálogo de estaciones viarias de la vía Augusta busquemos evidencias de individuos que podrían haber utilizado el servicio de la uehiculatio dentro de las vías del Nordeste hispánico. El tercer capítulo lo dedicamos a tratar el tema de las estaciones viarias, punto esencial sobre el que basamos nuestra investigación en territorio hispánico. Son muchas las investigaciones llevadas a cabo sobre estaciones viarias en el resto del Imperio, especialmente dentro de Italia. En otras provincias se las conoce generalmente de manera individual, a través de publicaciones que se centran en algún yacimiento concreto. Pero para el caso de Hispania son muy pocos los ejemplos documentados hasta la fecha. Tampoco existe un paradigma definido que permita una identificación clara y fidedigna de sus infraestructuras. De ahí que fuera imprescindible hacer un repaso por todos los datos conocidos dentro y fuera de España referentes a esta tipología arquitectónica. Gracias a ello, seremos capaces de señalar sus características fundamentales para, más tarde, llevar a cabo una labor de reinterpretación de algunos de los datos arqueológicos existentes en el Nordeste peninsular. La segunda parte de nuestro trabajo engloba los capítulos "IV. Base de datos para el estudio de la uehiculatio y el cursus publicus en el Nordeste hispánico: estaciones viarias de la vía Augusta", "V. Análisis conjunto de los resultados de la base de datos: estaciones viarias de la vía Augusta" y "VI. Conclusiones finales". Tras exponer en la primera parte los elementos de comparación disponibles para nuestro estudio, el objetivo de esta segunda parte radica en centrar nuestra investigación en el marco hispánico seleccionado. Para ello comenzamos con una introducción sobre la vía Augusta, desde su origen en época antigua hasta el resultado de las investigaciones actuales sobre la misma. Recordemos que la elección de esta calzada y no otra fue motivada por razones metodológicas y por la importancia de la propia vía en época imperial. En el capítulo IV introducimos la verdadera novedad de nuestra investigación: el catálogo de estaciones viarias de la vía Augusta. Puesto que hasta la fecha no se había llevado a cabo ninguna iniciativa de similares características para la provincia de Hispania citerior, inevitablemente se hacía necesaria una recopilación de toda la información topográfica y arqueológica existente. Cada una de las cuarenta y tres mansiones seleccionadas cuenta con un dosier propio. En él se recogen y analizan las publicaciones sobre el enclave o su entorno llevadas a cabo hasta el momento presente, la identificación (en caso de haberla) que la historiografía ha establecido para la mansio y nuestra interpretación al respecto, a partir de la topografía, las fuentes clásicas y los vestigios arqueológicos documentados. Las observaciones derivadas de dicha compilación y su consecuente analogía con el resto de las provincias quedan plasmadas dentro del capítulo V, dedicado a las conclusiones resultantes del análisis de conjunto del catálogo. Las conclusiones finales, de carácter más general, se recogen sumariamente en el capítulo VI y se resumen en las siguientes: Al analizar las mansiones de la vía Augusta tuvimos especialmente en cuenta los factores que observamos en las estaciones del resto del Imperio: -el emplazamiento topográfico, -la relación de las estructuras con la calzada, -el abastecimiento hídrico, -la independencia de la estación para su mantenimiento, -y una ciertas coincidencias en las estructuras arquitectónicas, a pesar de la consabida falta de un modelo paradigmático. Ninguno de los ejemplos estudiados en Italia u otras provincias respondía a esquemas arquitectónicos definidos o unánimes. No obstante, casi todos parecían compartir algunos elementos comunes, que, por otro lado, no siempre se daban conjuntamente. Gracias al análisis de las estaciones viarias ya excavadas, pudimos observar que es recurrente la existencia de al menos un patio (generalmente abierto) en torno al cual se distribuían la mayoría de las dependencias restantes y en el que tendrían lugar los trabajos de forja y el estacionamiento de vehículos. Esta disposición del espacio no siempre se repetía, de igual modo que el patio no siempre iba acompañado de un pórtico o tenía un acceso claro desde la vía. Los recintos para dar cobijo y cuidar a los animales se presentaban con la misma relevancia que el mencionado patio. Igual sucedía con las dependencias destinadas al personal de trabajo de la estación. Sin embargo, otros elementos, como las estancias dormitorio para los huéspedes, las termas, los espacios de culto (casi siempre, difíciles de definir) o las zonas de almacenaje u horrea, no se daban siempre, aunque eran partes destacadas de las estaciones viarias. Tampoco la existencia de un segundo piso en madera, cuando el grosor de los muros lo permitía, era una característica incuestionable, aunque parece intuirse en un gran número de complejos estacionarios. En cualquier caso, dos circunstancias que observábamos en el resto del Imperio parecen haberse dado dentro del Nordeste peninsular. Por un lado, el gran abanico de posibilidades en la distribución del espacio de las estaciones, pues existen aquellas en que todas las facilidades de la estación se concentraban en un mismo edificio, como aquellas en las que un conjunto de estructuras separadas conformaban un complejo estacionario de posta. Por otro lado, las diferencias estructurales determinadas por el medio físico y el entorno. Veíamos que existían diferencias entre las estaciones viarias de Italia y aquellas de las provincias, a la vez que se daban similitudes dentro de una misma zona o provincia, aunque no de forma uniforme. Ambas circunstancias pueden aplicarse al conjunto de las mansiones estudiadas en la vía Augusta. Al menos a aquellas que no coincidían con núcleos poblacionales definidos, pues las poblaciones de importancia considerable contarían con mesones, posadas, albergues y termas donde los viajeros de paso pudieran satisfacer sus necesidades. Los restos arqueológicos analizados en la segunda parte de nuestro trabajo no tenían características idénticas a los presentados para la Península Itálica, pero compartían más similitudes con ésta que con algunos de los estudiados en otras provincias. Creemos que ello podría ser consecuencia principalmente del entorno mediterráneo. Por consiguiente, vemos confirmada una de las hipótesis de partida de nuestra tesis: las estaciones viarias, además de exhibir ciertas similitudes en todo el Imperio, compartirían rasgos comunes dentro de una misma zona, como consecuencia de las características físicas y administrativas del entorno en el que surgían. Es, por tanto, evidente la influencia del medio físico y geográfico y de la administración provincial en la creación de estas infraestructuras. La otra hipótesis de partida también se hizo evidente a través de la segunda parte, "Estaciones viarias de la vía Augusta": habría habido estaciones viarias en Hispania con la misma asiduidad que en el resto del Imperio y, aunque hasta el momento no se hayan identificado como tales, se habrían excavado más de las que la historiografía había considerado. La presente disertación pone de manifiesto el gran error que supone dar por hecho la ausencia o excepcionalidad de esta tipología arquitectónica en nuestra Península. Podemos concluir que no existen elementos homogéneos o intrínsecos a las estructuras de las estaciones viarias hispánicas. No obstante, los mismos factores que se tenían en cuenta a la hora de identificar estos complejos en el resto del Imperio pueden ponerse en práctica en Hispania. Falta, sin embargo, ampliar las perspectivas que reducen la mayor parte de las estructuras arquitectónicas rurales a uillae, e incluso aceptar la posibilidad de que algunas uillae pudieran ejercer funciones más complejas, en relación con las vías junto a las que se erigían, que las tradicionalmente aceptadas por la historiografía. No podemos afirmar que las estaciones viarias analizadas formarían parte de la uehiculatio o el cursus publicus, pues ya hemos subrayado en varias ocasiones que no es posible establecer esta relación con la información disponible hasta la fecha. Sin embargo, es evidente que este sistema extraordinario de comunicaciones se habría servido de los complejos viarios existentes siempre que hubiera sido necesario. El presente trabajo es prueba evidente de que todavía queda mucho por investigar, muchas incógnitas que desvelar, sobre el tema tratado dentro de nuestro ámbito geográfico. En cualquier caso, consideramos que el marco territorial seleccionado podrá tomarse como punto de partida para ampliar el análisis al resto de la Península Ibérica con el objeto de contrastar similitudes y divergencias, así como otras opciones y opiniones sobre la red de estaciones viarias que tan importante papel desempeñó en el mundo de las comunicaciones antiguas.
BASE
2008/2009 ; Lo studio si prefigge di indagare come la produzione normativa comunitaria abbia influenzato il diritto penale nazionale fino a delineare i tratti di un diritto penale di matrice europea. Ai fini dell'individuazione dei rapporti intercorrenti tra i due sistemi, è stata prescelta come chiave di lettura trasversale la materia ambientale. L'introduzione mira a porre le basi dell'analisi, ripercorrendo, seppur in forma riassuntiva le tappe dell'evoluzione dell'Unione europea, sotto il profilo del progressivo ampliamento delle finalità e delle competenze della stessa: nata con finalità prevalentemente economiche, quali la creazione di un mercato unico diretto alla libera circolazione delle merci, delle persone e capitali, l'Unione espanse le sue competenze verso la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, inaugurando nuove forme di cooperazione, prefissandosi finalità politiche generali e servendosi per questi fini di un solido quadro istituzionale. Al progresso economico e sociale, alla creazione di uno spazio senza frontiere interne ed ad un'unione monetaria si affiancò la prospettiva di una politica estera di sicurezza e di difesa comune, di una tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri, mediante una cittadinanza comune dell'Unione, nonché di una cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni. A fianco delle politiche comunitarie (primo pilastro) attuate per mezzo di una cessione di sovranità dei singoli Stati a vantaggio delle Istituzioni europee, sorsero nuove forme di cooperazione, di natura intergovernativa, in materia di politica estera e di sicurezza comune (secondo pilastro) e di giustizia e affari interni (terzo pilastro), poi mutata in cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale. La nascita e l'espansione delle Comunità Europee fece emergere, svilupparsi ed affermarsi una serie di beni giuridici meritevoli di tutela su più livelli, a carattere nazionale e sovranazionale. Se ne distinguono principalmente due categorie: i beni "istituzionali", c.d. comunitari, strettamente funzionali all'esistenza dell'Unione ed allo svolgimento dei compiti ad essa connessi, ed i beni "satellite" rispetto ai precedenti, c.d. di estensione comunitaria, originariamente tutelati dagli ordinamenti nazionali e solo recentemente attratti nei piani di tutela comunitaria, con la caratteristica di essere beni "normativi" e connessi ad un sistema giuridico di riferimento ma destinatari di una tutela integrata da parte del diritto comunitario derivato. Trova poi posto una nuova categoria di beni, nascenti dalla regolamentazione comunitaria e comprendente i diritti derivanti dalla cittadinanza comunitaria, il diritto di circolazione e soggiorno, nonché la tutela del consumatore e dell'ambiente. La domanda di tutela dei beni di rilevanza comunitaria si trasforma inevitabilmente in una richiesta di intervento effettivo che comprende, in base ad una valutazione qualitativa, di sussidiarietà, di meritevolezza della pena e di necessità della stessa, anche ipotesi di tutela penale. Infatti, la "necessità di pena" in queste ipotesi deve essere intesa quale necessità di pena sovranazionale, ai fini di evitare un inefficace e disarmonico intervento rimesso agli Stati. Un tanto ha portato nel corso degli anni ad una europeizzazione dei diritti penali nazionali, vincolando le scelte dei legislatori interni in ordine ai comportamenti da sanzionare, alla natura ed alla misura della sanzione, nonché alla prospettiva di un diritto penale europeo, che conferisse all'Unione, e poi anche alla Comunità, un effettivo e diretto potere di intervento. Ne è esempio il bene ambiente che si caratterizza per una significativa "bidimensionalità", possedendo rilevanza nazionale e sovranazionale e rientrando peraltro tra quei beni di rilevanza comunitaria per cui si richiede una efficace ed uniforme tutela. L'interesse giuridico in questa direzione si rinviene nella comunanza dei tipi di condotte illecite che pongono in pericolo o ledono il bene giuridico tutelato. Tali condotte sono la fonte dei c.d. spillowers o effetti transnazionali, eventi in senso naturalistico o giuridico che si riverberano all'interno dei paesi della Comunità Europea, senza che operino barriere politico-geografiche di sorta. Le conseguenze fisiche ed economiche che una tale criminalità transnazionale porta con sè rende necessario un intervento comunitario, non risultando invece efficace né possibile l'intervento del singolo Stato membro. E' per tali motivi che il diritto ambientale ha avuto anche storicamente una dimensione in primis internazionale ed europea e solo successivamente nazionale. La tutela ambientale ha rappresentato una costante dell'azione della Comunità che ha consentito una progressione verso la normativizzazione in materia ambientale, inizialmente attraverso convenzioni, decisioni quadro, regolamenti e direttive, poi in misura sempre più vincolante a livello dei Trattati, divenendo con il Trattato di Maastricht politica fondamentale dell'Unione e con Amsterdam un valore autonomo, indipendente dalle scelte economiche. L'interesse crescente a livello europeo e comunitario ha contribuito all'implementazione e all'armonizzazione delle normative nazionali, destinatarie degli impulsi di sensibilizzazione e di orientamento verso obiettivi comuni di tutela. La normativa interna ne ha subito gli influssi, presentando fattispecie costruite tramite il rinvio, in forma definitoria o di completamento, di norme extrapenali di derivazione comunitaria. Un tale meccanismo normativo, pur consentendo un agevole mutamento della norma penale, ha posto di fronte a problemi interpretativi e di legittimità costituzionale, le Corti nazionali ed europee. L'influenza comunitaria si è fatta ancora più evidente nella misura in cui le Istituzioni europee hanno formulato una specifica domanda di criminalizzazione, nella formulazione del precetto e della sanzione, aprendo il varco alla prospettiva di un vero e proprio diritto penale europeo. Sotto queste premesse, il primo capitolo si propone di indagare se, nonostante l'assenza di un'affermazione sulla potestà punitiva comunitaria possa esistere un'influenza dell'attività normativa delle Istituzioni europee nella formazione del precetto e della sanzione penale. Si prendono le mosse dall'attività di una cooperazione giudiziaria in materia penale", attuata attraverso "posizioni comuni" ed "azioni comuni" e la cooperazione in materia penale, nell'ambito, c.d. Terzo pilastro, che, seppure distinto da quello propriamente comunitario, rientra a pieno titolo nelle competenze dell'Unione europea. Gli strumenti del terzo pilastro sono espressivi di un sistema misto, lasciando ad ogni singolo Stato un ulteriore livello di discrezionalità sia nella fase della firma e della ratifica, con riserve o eccezioni, sia nella fase successiva alla sua adesione, consentendo la scelta di mezzi funzionali al raggiungimento del risultato, e rispettando così il principio di riserva di legge e di sovranità nazionale. Ma gli strumenti utilizzati, la mancanza di diretta efficacia degli stessi, la discrezionalità nella fase attuativa e il carattere facoltativo della competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia, hanno reso progressivamente necessario, o quantomeno auspicabile, nelle materie comunitarie in senso proprio, un intervento più cogente, con capacità di penetrazione nell'ordinamento interno e prerogative giurisdizionali affidate alla Corte di Giustizia, azionabile solo con gli strumenti del primo pilastro. Si ripercorrono, dunque, le tappe essenziali in base alle quali viene affermato e riconosciuto il principio di prevalenza dell'ordinamento comunitario, al quale, neppure il diritto penale, con la sua forza di resistenza, risulta impermeabile. Si è di fronte a due ordinamenti coordinati ma autonomi e separati per cui l'ordinamento comunitario è considerato come integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con la conseguente impossibilità per gli Stati membri di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore. Vi è dunque una modifica de facto dell'assetto costituzionale delle fonti del diritto, risultando una ritrazione degli ambiti normativi di pertinenza dell'ordinamento interno ed una contestuale affermazione di alcuni ambiti propri invece dell'ordinamento comunitario. La prevalenza del diritto comunitario deve però conciliarsi con il principio di legalità in quanto la valenza garantistica del principio, derivante dall'attribuzione all'organo democraticamente eletto del potere di individuare le condotte da sottoporre a pena, non risulta adeguatamente rispettata dall'attribuzione di una potestà penale ad un'entità, quale la Comunità, il cui assetto istituzionale ed operativo non soddisfa a pieno i criteri di democraticità e rappresentatività che tale potestà esige. Dal punto di vista nazionale, il mancato rispetto del principio di legalità, sotto l'aspetto della riserva di legge e di quello della determinatezza si pone come ostacolo primo all'applicazione diretta delle norme comunitarie al fine di comminare una sanzione penale: la potestà punitiva è sempre stata soggetta al rispetto dei limiti del principio di legalità nelle forme della riserva di legge e tassatività e non può cedere neppure di fronte agli interventi normativi diretti o riflessi della Comunità. La conclusione che sembra soddisfare tutte le istanze e conciliare le problematiche nascenti dall'incontro dei due sistemi punitivi, deve ricercarsi in una tutela mediata degli interessi, assicurata tramite l'intervento dell'apparato sanzionatorio degli Stati membri. Infatti, le fisiologiche lacune di tutela dell'ordinamento comunitario che appare sprovvisto di autonomi strumenti di tutela idonei ad assicurare il corretto funzionamento risultano colmate dal ricorso alle risorse sanzionatorie degli Stati membri che vengono chiamati a mettere il proprio sistema giuridico al servizio delle esigenze di tutela degli interessi dell'ente sovranazionale. Il diritto penale subisce, dunque, alla pari di tutti gli altri settori normativi, gli effetti scaturenti dal processo di integrazione europea fondanti sul principio di prevalenza e diretta efficacia del diritto comunitario. Allo stato attuale, ciò che può essere definito come diritto penale europeo, dunque, è caratterizzato "dall'incontro tra il principio di prevalenza del diritto comunitario e quello di riserva di legge del diritto penale, che determina un universo giuridico paradossale, composto per un verso da norme, quelle comunitarie, prevalenti ma incompetenti e per altro verso da altre norme, quelle penali nazionali, competenti in via esclusiva ma subordinate alle prime". Ad una domanda espressa del diritto comunitario a tutela dei beni creati dalle sue attività, deve corrispondere un'offerta di tutela del legislatore nazionale, formando in tal modo un diritto penale comunitario risultante dalla stratificazione di più livelli normativi. Nonostante le problematiche sottese all'intervento penalistico, non si può negare come si sia attuata una progressiva armonizzazione delle sanzioni nel quadro europeo, in seno alle organizzazioni internazionali, nell'ambito del terzo pilastro e dunque, nella sede comunitaria. In questo ambito la prima armonizzazione è avvenuta ad opera dell'attività creatrice della giurisprudenza, e solo successivamente a livello normativo. La Corte ha incrementato la domanda di tutela fino a giungere, non solo alla richiesta di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive ma anche di natura penale. La rivoluzionaria sentenza del 13 settembre 2005 ha legittimato, infatti, una competenza normativa comunitaria in materia penale, prevedendo la possibilità di una domanda esplicita di tutela penale per mezzo di direttive. L'assenza di una specifica indicazione in merito alla scelta del contenuto delle prescrizioni penali ha lasciato che si sviluppasse, in seno alla Commissione, l'idea che la Comunità potesse giungere fino ad indicare misura e specie delle sanzioni, vincolando il legislatore nazionale in limiti edittali predeterminati. E' però la Corte di Giustizia, in una successiva statuizione a chiarire il punto e specificare che il contenuto delle direttive oltre a segnalare agli Stati l'opzione della tutela penale in talune materie di rilevanza comunitaria, ed a descrivere i requisiti costitutivi delle fattispecie incriminatrici, garantendo uno standard di tutela penale, non possa giungere a stabilire la tipologia delle sanzioni penali e i correlativi minimi e massimi edittali. Riassumendo la questione ai minimi termini si può affermare che l'Unione europea diviene definitivamente competente a svolgere il giudizio di necessità di pena, ma non ad esercitare la potestà punitiva, concezione accolta anche dal neonato Trattato di Lisbona. Il secondo capitolo si occupa quindi di indagare quale sia la risposta nazionale a fronte della domanda operata in sede comunitaria e dunque di delineare quali mutamenti operino a livello normativo penale. Si distingue a tal proposito tra l'influenza diretta e l'influenza riflessa. La prima consiste in quegli obblighi di criminalizzazione espressa a cui l'ordinamento ha dato ingresso solo recentemente al fine di tutelare beni ed interessi riconducibili alla Comunità europea, con provvedimenti vincolanti e precisi. L'attività normativa comunitaria così strutturata condurrebbe alla creazione di vere e proprie norme incriminatrici e disposizioni sanzionatorie di produzione sovranazionale direttamente applicabili nell'ordinamento interno. Si è già sottolineato come questo rappresenti però il punto più problematico, nell'affidare ad Istituzioni non democraticamente elette il potere punitivo, tradizionalmente detenuto dallo Stato nazionale. Si ritiene che possa ricomprendersi nell'influenza lato sensu diretta anche quell'attività normativa di natura comunitaria che si concretizza in obblighi di criminalizzazione, sia a livello del precetto che della sanzione, contenute in atti vincolanti, seppur non direttamente efficaci. Le ipotesi di influenza riflessa, invece, indicano tutte quelle interferenze che non sono perseguite come scopo primario dal diritto comunitario ma che ugualmente si producono, senza alcun intervento dei legislatori nazionali, in forza del normale incontro del diritto sovranazionale col diritto penale interno. Il fondamento dell'efficacia riflessa è da rinvenire nel principio di preminenza del diritto comunitario secondo cui "le disposizioni del Trattato e gli atti delle Istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l'effetto, nei rapporti col diritto interno di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, nonchè di impedire la valida formazione di atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie". Spetterà, dunque, a qualsiasi giudice nazionale "applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore, sia successiva alla norma comunitaria". Il primo tipo di influenza riflessa del diritto comunitario è rappresentato dall'influenza c.d. interpretativa che, proprio in forza del principio del primato del diritto comunitario, comporta che il diritto interno debba essere interpretato conformemente alle fonti comunitarie: il giudice, dunque, ravvisato un contrasto tra norme nazionali e disposizioni comunitarie ha la facoltà di risolverlo, ricercando un'interpretazione comunitariamente conforme della norma nazionale senza giungere alla disapplicazione della stessa. Il secondo aspetto di incidenza riflessa del diritto comunitario sul diritto penale è da rinvenirsi negli elementi normativi della fattispecie. Vi è, infatti, l'ipotesi che le norme extrapenali che integrano la fattispecie punitiva nazionale siano norme comunitarie, antecedenti o successive alla norma nazionale: in tal modo la normativa interna subisce un processo di influenza comunitaria in forza della definizione degli elementi normativi da parte della norma sovranazionale. La normativa comunitaria, sostituendosi o integrando la normativa extrapenale richiamata ai fini definitori può determinare una diversa estensione dell'incriminazione. La forma maggiormente incisiva di influenza è operata in forza dell'integrazione ad opera della fonte comunitaria che, a fronte della tecnica del rinvio, completa con elementi specializzanti il precetto nazionale. Nell'ambito degli effetti riflessi del diritto comunitario, l'intervento maggiormente incisivo sul diritto interno è esercitato dall'influenza disapplicatrice, promanante da un'incompatibilità a livello normativo tra diritto interno e diritto comunitario. In forza del principio di prevalenza dell'ordinamento comunitario sull'ordinamento interno, è ormai consolidato che le norme interne, e, dunque, anche le fattispecie penali, debbano essere disapplicate se in contrasto con gli atti comunitari, dotati dei requisiti di efficacia diretta e di diretta applicabilità. In presenza di due norme contemporaneamente applicabili ed in contrasto tra di loro, il giudice nazionale dovrà procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante così operando una vera e propria modifica dell'ambito del penalmente rilevante. La disapplicazione produce, pertanto, il risultato di riplasmare e comprimere in maniera significativa gli ambiti del penalmente rilevante. Il contrasto della norma interna può derivare dall'incompatibilità con norme o principi, espliciti o impliciti, a carattere generale, con fonte nel diritto comunitario primario, sia con disposizioni più o meno specifiche, contenute in atti di diritto comunitario derivato, quali regolamenti e direttive chiare, precise, dettagliate e incondizionate. La disapplicazione può coinvolgere il precetto o la relativa sanzione e può essere di carattere totale, causando un'integrale inapplicabilità della fattispecie, o parziale, comportando l'incompatibilità solo di alcune fattispecie o soluzioni sanzionatorie. Ed ancora, la disapplicazione può produrre effetti riduttivi o espansivi del penalmente rilevante: nel primo caso la norma sovranazionale che riconosce un diritto, una facoltà legittima al cittadino, opera come esimente, riducendo l'area di applicazione della fattispecie sanzionatoria, diversa è l'ipotesi in cui l'influenza, ancora discussa su tal punto dell'ordinamento comunitario, comporti un'espansione dei comportamenti penalmente rilevanti. Più problematici risultano quelli che autorevole dottrina definisce "conflitti triadici" ove una norma nazionale in attuazione di un principio comunitario sia sostituita da una successiva norma nazionale più favorevole ma in contrasto con gli obblighi comunitari. Il contrasto tra la norma comunitaria e la norma nazionale sopravvenuta ha come effetto, in queste ipotesi, di provocare l'applicazione di un'altra norma nazionale e non la diretta applicazione della norma comunitaria, sprovvista di effetti diretti. Il terzo capitolo giunge infine al fulcro del problema trattando la materia ambientale come il fil rouge che consente di ripercorrere l'evoluzione del diritto penale europeo ed indagare sulle prospettive di un possibile intervento penale da parte degli organi comunitari. L'intervento europeo, proprio per la trasversalità della materia ambientale, si è manifestato con differenti intensità: a seconda dello strumento normativo prescelto è variata la discrezionalità lasciata agli Stati nell'attuazione delle previsioni comunitarie. La normativa europea ha, quindi, interessato anche il diritto penale nazionale, nell'ambito della costruzione della fattispecie ambientale, operando in chiave sanzionatoria di condotte definite altrove. La fonte sovranazionale, sia pure a mezzo del legislatore nazionale, contribuisce a delineare il nucleo di disvalore della fattispecie, in particolare quella ambientale eterointegrata da fonti di natura tecnicistica, e pertanto costantemente soggetta ai mutamenti normativi ed alle indicazioni delle Istituzioni comunitarie. Un tanto ha condotto ben presto ad affrontare numerosi problemi interpretativi, di compatibilità tra norme così ad evidenziare la costante incidenza degli effetti riflessi esercitati dal diritto comunitario sul diritto nazionale. Infine, di primario interesse, anche in un'ottica de iure condendo, sono gli effetti diretti, progressivamente più incisivi, che a partire dal perseguimento della finalità di armonizzazione dei sistemi penali con gli strumenti del terzo pilastro, hanno aperto un varco ad un sistema di tutela rafforzato a livello strettamente comunitario degli illeciti connessi alla protezione dell'ambiente. Si può legittimamente affermare che i più significativi passi per un'armonizzazione dei diritti penali nazionali, e per la creazione di un diritto penale europeo abbiano riguardato proprio la materia ambientale. La questione ambientale, quindi, è divenuta non solo punto cruciale della politica economica, ma ha segnato il dibattito istituzionale sulle competenze dei pilastri comunitari e sull'eventuale legittimazione al ricorso degli strumenti comunitari anche in campo penale. Nell'ambito degli effetti che l'ordinamento comunitario ha esercitato nel diritto interno in materia ambientale, deve aversi riguardo alla complicata evoluzione normativa e giurisprudenziale della definizione di rifiuto, fulcro della specifica disciplina di settore e di numerosissimi atti normativi che ad essa rinviano o che la presuppongono. Infatti, proprio in tema di rifiuti, vi è stata una delle prime concretizzazioni dell'esigenza di armonizzazione in materia ambientale, dettata dalla potenziale attitudine offensiva degli stessi, nei confronti dell'ambiente e della salute umana, in assenza di un apparato normativo che consentisse di disciplinarne la gestione e lo smaltimento finale. La delimitazione dei confini della nozione di rifiuto si rivela particolarmente determinante in quanto condiziona e determina l'operatività di tutta la normativa in materia, nonché l'efficacia della stessa, risultando nozione di riferimento dell'intero sistema giuridico di protezione ambientale. Il concetto di rifiuto concorre alla determinazione dell'illiceità penale delle condotte, delimitando, nel suo espandersi e comprimersi, i confini della protezione, in campo amministrativo e penale, dei beni ambientali. Accanto al meccanismo di influenza riflessa, è da ravvisare come in materia ambientale si sia sviluppata l'evoluzione di un possibile diritto penale europeo, e dunque di una esplicita influenza dell'ordinamento sovrannazionale nelle scelte di criminalizzazione nazionali. L'occasione di contrasto deve rinvenirsi nell'annullamento da parte della Corte di Giustizia della decisione quadro, adottata dal Consiglio il 27 gennaio 2003, sul presupposto che la Comunità ha un potere di armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri in tutte le materie nelle quali esista già una normativa comunitaria di settore extrapenale: i provvedimenti in materia penale possono pertanto essere adottati in ambito comunitario ove strumentali ad assicurare una maggiore efficacia alle politiche comunitarie. La competenza penale e la possibilità di istituire un espresso obbligo diretto di criminalizzazione comunitaria, si spostano dal terzo al primo pilastro in quelle materie di evidente interesse comunitario, quali appunto la tutela ambientale. L'argomento ha portata rivoluzionaria nella misura in cui indirettamente apre il varco al riconoscimento di una competenza "generale" della Comunità in funzione del ravvicinamento delle legislazioni di carattere penale, laddove questo miri all'effettività del diritto comunitario, minacciato da gravi violazioni. La decisione riconosce il potere alle Istituzioni comunitarie, sottraendolo ai settori di cooperazione intergovernativa, di obbligare gli Stati ad introdurre sanzioni penali armonizzate, proporzionali, effettive e dissuasive in risposta alle violazioni gravi delle proprie disposizioni. Non solo, dunque, viene riconosciuto alla Comunità un potere di incriminazione attraverso direttive, ma è altresì legittimato un ampio ricorso agli strumenti normativi del diritto comunitario classico, con un corrispondente ed inevitabile declino degli ambiti di operatività del terzo pilastro, per l'armonizzazione delle norme penali interne agli ordinamenti nazionali nelle materie rientranti nelle competenze comunitarie, provocando una conseguente comunitarizzazione delle misure volte a fissare gli elementi minimi delle fattispecie incriminatrici e delle correlative sanzioni. Pochi anni dopo la Corte ha ridimensionato in modo significativo il dictum della precedente statuizione, negando alla Comunità il potere di definire la tipologia e la misura delle pene attraverso atti normativi vincolanti: alle direttive compete la facoltà di obbligare gli Stati a garantire uno standard di tutela penale in taluni settori, attraverso l'apprestamento di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza avere la facoltà di vincolare la scelta del legislatore nazionale in relazione alla species ed al quantum. La decisione, seppur di compromesso segna un punto di volta nel riconoscere l'incidenza effettiva del diritto comunitario sul diritto penale: il divieto di indicare le sanzioni è limitato alle direttive, lasciando invece alle decisioni quadro la possibilità di prescrivere il quantum delle sanzioni penali da adottare a livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi comunitari, vincolando le scelte nazionali. Dal punto di vista degli obiettivi di criminalizzazione, non viene pertanto superata la frammentazione tra precetto e sanzione, permanendo, a causa della persistente resistenza degli Stati membri a detenere la potestà punitiva in materia penale, una divisione tra il momento precettivo, deferito alle istituzioni comunitarie, e quello sanzionatorio, di competenza nazionale. Le due statuizioni trovano la loro applicazione pratica, proprio nella direttiva 2008/99 sui reati ambientali risultando terreno di sintesi tra le spinte espansionistiche provenienti dalla Commissione e quelle conservatrici del Consiglio, nonché luogo di mediazione tra i diversi modelli di incriminazione degli ordinamenti nazionali, fornendo un minimo comune denominatore di tutela di fonte sovranazionale. Si è così configurato un sistema multilivello ove i legislatori nazionali sono condizionati nel loro potere discrezionale dalle indicazioni formalizzate dalle Istituzioni comunitarie. Dal punto di vista funzionale, l'obiettivo della direttiva è quello di ottenere che gli Stati membri introducano nel diritto penale disposizioni che possano garantire un adeguato livello di tutela ambientale. La direttiva presenta rilevanti elementi di novità, in primis appunto per gli obblighi formali di penalizzazione imposti, nell'ambito del primo pilastro . Il Trattato di Lisbona accoglie sotto alcuni aspetti l'evoluzione giurisprudenziale della Corte ma non ne sviluppa le problematiche in modo soddisfacente, deludendo le aspettative in merito al riconoscimento di una vera e propria potestà punitiva comunitaria. Il Trattato seleziona, come si è visto, tre ambiti di intervento per le direttive a contenuto penale per i fenomeni criminali tassativamente indicati al par. 1 dell'art. 83, per i fenomeni criminali diversi da quelli tassativamente elencati, per i quali occorre una decisione del Consiglio adottata all'unanimità e previa approvazione del Parlamento, ed in tutti i casi in cui la fissazione di norme minime su reati e pene risulti indispensabile per dare efficace attuazione alle politiche comunitarie, per i settori già oggetto di armonizzazione (art. 83 par. 2). L'ambiente, pur avendo avuto un ruolo nevralgico nell'evoluzione della competenza penale, e risultando oggetto di una incrementata tutela nel Trattato, non compare tra le materie tassativamente elencate, riscontrando un'evidente battuta d'arresto, deferendo inevitabilmente l'individuazione delle linee evolutive all'attività giurisprudenziale. Il quarto capitolo, infine, si ripropone di evidenziare le prospettive di un possibile penale europeo, unificato o quantomeno armonizzato, partendo dai pregressi tentativi di codificazione, quali il Corpus Juris, gli Europa delikte, il progetto alternativo, ed infine la Costituzione europea. I tentativi di armonizzazione e unificazione sopra citati hanno costituito banco di prova per un diritto penale europeo, seppur settoriale, ponendo, nell'esame dei pregi e dei limiti dei diversi progetti, le basi per un nuovo intervento sovrannazionale più mirato. La prospettiva che si deve prendere in considerazione al momento non riguarda solamente la possibile concretizzazione dei progetti qui delineati, quanto piuttosto l'esigenza che tale unificazione ed armonizzazione si spinga verso differenti ed ulteriori settori che progressivamente hanno acquisito una rilevanza comunitaria. I beni istituzionali della pubblica funzione europea, la moneta unica, gli interessi finanziari dell'Unione nonché l'ambiente possono già essere considerati, ad esempio, come un nucleo, condiviso, di interessi sovrannazionali per i quali sussistono in capo agli ordinamenti nazionali penetranti obblighi di tutela penale. Anche in ordine a tali beni si dovrebbero prospettare dei micro-sistemi di tutela penale ulteriore e sovraordinati che, proprio in ragione del carattere settoriale, pur rispettando le identità nazionali, si imporrebbero alla normativa nazionale, sostituendola o integrandola, nei settori di competenza. La finalità auspicata sarebbe quella di giungere ad una "mise en compatibilité" degli interventi nazionali con quelli sovrannazionali in determinati settori, diretta ad instaurare un "pluralisme juridique ordonnè" ed a garantire la coesistenza di una pluralità di norme di natura e valenza differenti, regolata da un sistema di criteri ordinatori ispirati alla flessibilità ed alla complessità che consentano di tradurre le inevitabili interferenze ed i reciproci rinvii da un ordinamento istituzionale all'altro. La politica criminale europea dovrebbe, dunque, risultare come un sistema misto e graduato su diversi livelli di incidenza, con forme di normazione sovrannazionale direttamente vincolante, per quei beni che risultino meritevoli e necessitanti una tutela penale esaustivamente definita a livello sovrannazionale ed, invece, forme di normazione armonizzatrice di diversa intensità sui sistemi nazionali, nel caso di beni di interesse comune o di beni sovrannazionali non necessitanti la predisposizione di una tutela accentrata e unificata a livello sovrannazionale. Sarebbe necessario, piuttosto, a tal fine far ricorso ad alcuni principi generali in materia penale che possano ispirare l'intero ordinamento sovrannazionale, chiamati ad orientare, vincolandoli, gli interventi europei di penalizzazione diretta e di armonizzazione, nonché le misure nazionali di tutela ed assicurare una coerenza complessiva della politica criminale europea. In tale prospettiva gioca un ruolo di prim'ordine la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione in quanto referente primario dei valori fondanti l'Unione e dunque, per ciò stesso, condivisi. La formalizzazione dei principi ivi contenuti, in particolare di quelli relativi alla materia penale potrebbe fornire la base per costituire una teoria generale dell'intervento penale, quale consacrazione e concretizzazione a livello sovrannazionale di quel patrimonio comune di ideali e tradizioni politiche, di rispetto delle libertà e di preminenza del diritto. La prospettiva più realistica, nel breve periodo è proprio quella di procedere ad un'unificazione ed un'armonizzazione riguardo a beni e interessi condivisi, lasciando un margine di discrezionalità al legislatore nazionale. Prendendo le mosse dal Trattato di Lisbona, non si può escludere, invece, come, accanto alle misure di armonizzazione fin ora attuate col tramite delle direttive, vi possa essere la prospettiva sul lungo periodo della creazione di un diritto penale di tipo federale, accanto ai codici penali nazionali, demandando alla Comunità la definizione di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in alcune determinate materie in sfere di criminalità particolarmente grave. Allo stato, quindi, si può ritenere che vi sia stata un'opera visibile di armonizzazione, anche a livello normativo, evolutasi nella scelta degli strumenti del primo pilastro, maggiormente vincolanti, e nelle materie da sottoporre a tutela. Ne abbiamo l'esempio visibile in materia ambientale con tre direttive in settori differenti che hanno imposto norme minime, definizioni, fattispecie incriminatorie e obblighi di penalizzazione, proprio accogliendo i presupposti di una normativa comunitaria settoriale. Il riscontro a livello nazionale, che si attende in tempi brevi, dovrebbe portare ad una chiarificazione, seppur parziale, del diritto interno ambientale, introducendo modifiche in linea con gli standards europei e consentendo, anche a livello processuale "di usare efficaci metodi di indagine e di assistenza, all'interno di uno Stato membro o tra diversi Stati membri". E' indiscutibile come il diritto penale non sia più una materia riservata in modo esclusivo al legislatore di ciascuno Stato membro, e si stiano delineando dei campi di azione in cui il diritto europeo può concorrere alla effettiva configurazione del sistema penale nazionale. ; XXII Ciclo ; 1981
BASE
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Ukrainian President Volodymyr Zelensky chided NATO states this week for their unwillingness to directly join the fight against Russia."What's the issue with involving NATO countries in the war? There is no such issue," Zelensky told the New York Times in a fiery interview. Western planes could simply "shoot down what's in the sky over Ukraine" without leaving NATO territory, he argued, thus mitigating escalation risks.Zelensky added that he would welcome any plans to send NATO soldiers to support Ukraine's war effort on the ground. The Ukrainian leader also asked Western states to allow Ukraine to use their weapons to target military sites within Russian territory.Zelensky's increasingly desperate pleas come at a difficult time for Ukraine. It has now been over a year and a half since Kyiv made any substantial gains on the battlefield. As political scientist Graham Allison recently pointed out, Russia took more territory in the past two months than Ukraine liberated in its entire 2023 counteroffensive.Ukraine has attempted to regain an advantage through a campaign of attacks on Russian infrastructure, including fuel depots and power plants. The tactical shift is in part a response to Moscow's long-standing campaign of strikes on Ukrainian energy infrastructure, which forced Kyiv to impose rolling blackouts this week for the first time since Russia's 2022 invasion.In this moment of crisis, the U.S. has chosen a Goldilocks approach. American officials have long opposed Ukrainian strikes on Russian territory, in part due to fears of escalation and in part due to the potential impact on global oil prices. But Secretary of State Antony Blinken appeared to soften that stance in comments last week."We have not encouraged or enabled strikes outside of Ukraine, but ultimately Ukraine needs to make decisions for itself on how it conducts this war," Blinken said. "We will continue to back Ukraine with the equipment it needs to win."From Ukraine's perspective, such comments are far too ambiguous. But American actions have been somewhat more direct. Just a few weeks ago, Washington revealed that it had secretly given long-range missiles to Kyiv that are capable of striking deep within Russian territory.The U.S. has been firmer in its opposition to sending troops to Ukraine or directly helping to shoot down Russian missiles. While some NATO states have warmed to the idea of deploying soldiers to the country, Gen. C.Q. Brown, the chairman of the Joint Chiefs of Staff, said Monday that "right now, there are no plans to bring U.S. trainers into Ukraine.""Once this conflict is over and we're in a better place, then I would suspect we would be able to bring trainers back in," Brown said.As Zelensky plays down fears of nuclear escalation, the Kremlin is taking a different tack. Russian President Vladimir Putin ordered drills this week in which his troops practiced using tactical nukes. While these battlefield weapons are smaller than strategic warheads, certain variants can pack a bigger punch than the bombs that flattened Hiroshima and Nagasaki in 1945.Russia said the drills, which took place near the border with Ukraine, were a response to "provocative statements and threats of certain Western officials regarding the Russian Federation."The escalatory move highlights a diplomatic tension that the Biden administration has yet to address. While Ukraine and the U.S. have a strong shared interest in making Russia pay for its invasion, Washington's superseding goal is to prevent nuclear escalation by avoiding a direct conflict with Moscow. Ukraine, for its part, has every reason to drag the U.S. into a war that Kyiv views as existential.European states are stuck in the squishy middle. Europe has stronger incentives to back Ukraine to the hilt, hence why countries like France and Britain have floated plans for more direct involvement in the war. But any sudden move would naturally implicate their most powerful ally, the United States, which has strongly discouraged any efforts to drag NATO into the conflict.The West has largely papered over these divisions by insisting that it will continue to back Ukraine "as long as it takes." But, as Kyiv's battlefield position worsens, that approach could have an expiration date.In other diplomatic news related to the war in Ukraine:— Ukraine could enter formal talks to join the European Union by the end of June, according to Politico. The main obstacle to this step is Hungary, which has long been skeptical of bringing Ukraine into the bloc, in part due to controversies surrounding Hungarian minorities in the country. But, with Budapest taking over the rotating presidency of the European Council in July, some diplomats speculate that Hungarian officials would rather get the issue out of the way as soon as possible, especially given that there will be plenty of future opportunities to derail Kyiv's accession in the coming years.Ukraine's larger and longer-term impediment will be bringing its political system in line with the standards for EU membership, which will require efforts to root out corruption and strengthen democratic systems in the country.— Last Friday, the EU moved to ban four Russian media outlets that the bloc described as "essential and instrumental in bringing forward and supporting Russia's war of aggression against Ukraine," according to Reuters. The decision to block the Russian-language outlets followed a previous move to ban Russia Today and Sputnik, both of which have broadcasts in English. The Kremlin pledged to "respond with lightning speed and extremely painfully for the Westerners" without revealing exactly what that means.— In this week's edition of "who's mad at France," American and European officials fumed over French President Emmanuel Macron's decision to invite a Russian representative to D-Day commemorations next month, according to Politico. "Perhaps this will remind the Russians that they actually fought real Nazis once, not imaginary ones in Ukraine," an anonymous U.S. official told Politico. The event will provide a rare scene: Biden, Macron, and even Zelensky will stand side-by-side with a Russian official for one of the first times since Russia's 2022 invasion.— In part deux of "who's mad at France," Zelensky chided Macron for suggesting a worldwide truce during the Paris Olympics this summer, according to Agence France Presse. "Let's be honest... Emmanuel, I don't believe it," the Ukrainian leader said. "We are against any truce that plays into the hands of the enemy." Chinese leader Xi Jinping threw his support behind the idea, but Putin has yet to say if he would endorse a truce.— Ukraine is now offering parole to prisoners who sign up to fight Russia, with the exception of those convicted for particularly serious offenses, according to Reuters. Ukrainian officials say the decision could allow as many as 20,000 prisoners to join the war effort, providing a much-needed boost in manpower as the war drags on. Russia has faced harsh international criticism for its own policy of granting clemency to inmates who join the war on Moscow's side, a policy that has given the Kremlin more than 50,000 extra soldiers.U.S. State Department news:In a Monday press conference, State Department spokesperson denied that the U.S. is using a double standard for International Criminal Court cases against Russian and Israeli officials. "There is a fundamental difference here and it's that Israel said they were going to cooperate with the investigation. Russia did not," Miller said. "Israel said they were going to cooperate with the investigation, talk to them about the charges that they were preparing to bring. And the ICC short-circuited that cooperation by bringing these charges."
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Russia's "Fundamentals of the State Policy of the Russian Federation in the Area of Nuclear Deterrence," a high-level strategic document, says that Russia "hypothetically" could allow the use of nuclear weapons only "in response to aggression using WMD [weapons of mass destruction]" or if there is "aggression using conventional weapons, when the very existence of the state is threatened."Responding to France's President Emmanuel Macron's February 6 statement that "no option should be discarded" in ensuring the defeat of Russia, including "troops on the ground" in Ukraine, Russia's President Vladimir Putin said that "we are ready to use any weapon, including [tactical nuclear weapons], when it comes to the existence of the Russian state and harm to our sovereignty and independence. Everything is spelt out in our strategy, we have not changed it."Macron replied that France is also a nuclear power. "We must first and foremost feel protected," Macron said, "because we are a nuclear power." He then added, "We are ready; we have a doctrine [for the use of nuclear weapons]."France is ready to send troops into Ukraine "to counter the Russian forces" and even to prepare for nuclear war. In a March 19 opinion piece in the French paper Le Monde, General Pierre Schill, Chief of the French Army Staff, declares that "nuclear deterrence safeguards France's vital interests." Reminding the world of France's "international responsibilities" and "interests" and "defense agreements," he says that "the French army is preparing for the toughest engagements, making this known and demonstrating it."But what do the French really mean by saying they are "preparing for the toughest engagement" and that Europe must be "ready" to have "troops on the ground" in Ukraine?Macron has said that NATO must not discard the option of "troops on the ground" to ensure that "Russia does not win." But win what? Does Macron want to ensure that Russia does not defeat Ukraine for Ukraine's sake, or does he mean that Russia should not win in Ukraine for the subsequent defense of Europe?Macron said that the time was coming "in our Europe where it will be appropriate not to be a coward" and that it is time for a "strategic leap." He pressed Germany to send their long-range Taurus missiles, reminding them that they once said, "'Never, never tanks; never, never planes; never, never long-range missiles'…. I remind you that two years ago, many around this table said: 'We will offer sleeping bags and helmets.'"When it came to the option of sending troops into Ukraine, Macron said that anyone who advocates "limits" on how the West helps Ukraine "chooses defeat." He insisted that "if the situation should deteriorate, we would be ready to make sure that Russia never wins that war." Europe must be "ready," he said, "to reach the means to achieve our objective, which is that Russia does not win."It sounded as if Macron was talking about Russian victory in Ukraine again when he considered the threshold for sending troops. "We're not in that situation today," he said, but "all these options are on the table." Following a March 7 meeting with parliamentary parties, Fabien Roussel, national secretary of the French Communist Party, reportedly said that "Macron referenced a scenario that could lead to intervention [of French troops]: the advancement of the front towards Odessa or Kiev." Macron's objective again seemed to solely be Ukraine when he said in a March 14 interview, "We are doing everything we can to help Ukraine defeat Russia, because I will say it very simply: there can be no lasting peace if there is no sovereignty, if there is no return to Ukraine's internationally recognized borders, including Crimea."But, against all these apparent narrow references to Ukraine, Macron's subsequent discussions of the threshold for troops sounded more as if they were about the defense of Europe than of Ukraine. He said that "war is back on our [i.e. Europe's] soil" and that Russia is "extending every day their threat of attacking us even more, and that we will have to live up to history and the courage that it requires."On March 14, Macron, again expressing his position that sending troops from NATO countries is an option that should not be discarded, said that "to have peace in Ukraine, we must not be weak." This time, he gave as his reason that Russia's invasion of Ukraine was "existential for our Europe and for France."He proceeded to say that "it wouldn't be us" who would trigger such a move and that France would not lead an offensive into Ukraine against Russia. "It would be Russia's sole choice and sole responsibility," he said. And then he added, "If war was to spread to Europe," it would "be weak, to decide today that we would not respond."But even if Macron means defending Europe from Russia, does he mean from an actual attack or simply a potential attack?With several of his aforementioned statements, Macron sounds like he means that Europe must be ready to defend against an actual attack from Russia after it defeats Ukraine. Yet elsewhere, Macron sounds like he is referring only to a potential attack, saying that Russia must not be victorious in Ukraine because that "would reduce Europe's credibility to zero" and would mean that "we have no security."Interpreting Macron's motives may be even more difficult than ascertaining his statements' bare meaning. Why would Macron express the previously inexpressible and risk crossing the red line of a third world war?It is of course impossible to know Macron's mind, so any analysis is speculative. But there are at least three possibilities.The first is that the intended target of his comments is not Russia at all, but the U.S. and Germany. With American war funding struggling against a congressional dam and Germany refusing to send Taurus long-range missiles, Macron may be trying to apply psychological pressure to his allies to send Ukraine more money and weapons assuming they would find that option more palatable than going even further and sending troops.The second is that the intended target of his comments is Russia. In this possibility, the goal is to create "strategic ambiguity." The purpose would be, as explained by one French diplomat, so that Russia, as it advances west in Ukraine, cannot rely on the assumption "that none of Ukraine's partner countries will ever be deployed" to Ukraine. The French newspaper Le Monde reports that "Macron's office explained that the aim is to restore the West's 'strategic ambiguity.' After the failure of the Ukrainian 2023 counter-offensive, the French president believes that promising tens of billions of euros in aid and delivering—delayed—military equipment to Kyiv is no longer enough. Especially if Putin is convinced that the West has permanently ruled out mobilizing its forces."The third possibility is that the intended target of his comments is Europe. Europe must prepare for the possibility of a Trump administration weakening its commitment to Europe and NATO. That would leave Europe with more responsibility for the defense of Ukraine and of itself. While Germany has been the economic leader of Europe, France has seen itself as the security leader.One diplomat told Le Monde that while Germany "is afraid of escalation…. France wants to give the impression that it isn't afraid." Macron "may have wanted to make it clear to Scholz that their two countries are not in the same league" as Macron positions France to be the security leader of Europe in a post-Biden Trump-led world. Macron has opened the door to the discussion of Western troops on the ground in Ukraine. With the risks that come with opening that door, it will be important for everyone to clarify both Macron's threshold and his motivation for sending troops to Ukraine.This piece has been republished with permission from The American Conservative.
Blog: Responsible Statecraft
United States policy toward Israel's war in Gaza was neatly summarized by Secretary of State Antony Blinken on November 30: "Israel has one of the most sophisticated militaries in the world. It is capable of neutralizing the threat posed by Hamas while minimizing harm to innocent civilians. And it has an obligation to do so." This posture — destroy Hamas but do so in observance of the laws of war — is not that of the administration alone. It has been widely embraced by official Washington. A key defense of what would emerge as the hallmark of the Biden administration's Gaza outlook came from Jo-Ann Mort and Michael Walzer in the New Republic on October 18. "A just war requires the defeat of Hamas," they wrote. "It is a maxim of just war theory that the rules of war cannot make it impossible to fight a just war. There has to be a way to fight."In their view, the best way was "to fight with restraint, to reject indiscriminate bombing and shelling, to respect enemy civilians (many, many Gazans are opposed to Hamas), and take necessary risks to reduce their risks, and finally to maintain a clear goal: defeat for Hamas. Nothing more."Walzer is the author of Just and Unjust Wars, a hugely influential treatise on morality in war that has gone through successive editions since its publication in 1977. Walzer's meditation on the just war was especially impressive for taking on a wide range of historical examples, but it was written under the shadow of the war in Vietnam. Walzer condemned that war not only as an unjustified intervention but also as one that was "carried on in so brutal a manner that even had it initially been defensible, it would have to be condemned, not in this or that aspect but generally." In his treatise, Walzer closely considered both jus ad bellum (the right of going to war) and jus in bello (the law governing its conduct). As Walzer noted, "considerations of jus ad bellum and jus in bello are logically independent, and the judgments we make in terms of one and the other are not necessarily the same." But in the case of Vietnam, he argued, they came together. "The war cannot be won, and it should not be won. It cannot be won, because the only available strategy involves a war against civilians; and it should not be won, because the degree of civilian support that rules out alternative strategies also makes the guerillas the legitimate rulers of the country." Do not these strictures apply to Israel's war in Gaza? Hamas hides behind civilians, or is rather closely intermingled with them, as the Viet Cong once were. It has enjoyed an equal or greater amount of support from the local population. Its acts of assassination and terrorism fall far short, numerically, of those committed by the VC. Walzer was rightly shocked by the civilian toll in Vietnam, which saw a civilian-combatant fatality ratio of approximately two to one. In Gaza, the proportion of civilian-to-combatant deaths is at least five to one and probably much greater. Israeli leaders have made clear that their war is on the whole population. Their criteria for when to bomb, aided by AI, has blown past previous restraints. Another case taken up by Walzer in Just and Unjust Wars was America's atomic destruction of Hiroshima and Nagasaki in 1945. The decision was justified at the time as the only way to avert the far larger casualties likely to ensue were the United States to have attempted an invasion of Japan. Walzer rejected this argument. "It does not have the form: if we don't do x (bomb cities), they will do y (win the war, establish tyrannical rule, slaughter their opponents)." Instead, the U.S. government in effect argued that "if we don't do x, we will do y." The real problem, Walzer argued, was the policy of unconditional surrender — that is, it had to do with U.S. war aims. Walzer approved the policy of unconditional surrender when applied to Germany — Hitler's regime represented a "supreme emergency" — but not when applied to Japan. "Japan's rulers were engaged in a more ordinary sort of military expansion, and all that was morally required was that they be defeated, not that they be conquered and totally overthrown," he wrote. Walzer's treatment of Vietnam and Hiroshima suggests that there are imperative reasons to stop short of total victory as a war aim, if the result of pursuing it is a moral enormity. If you have to commit wickedness on a titanic scale in order to achieve total victory, you should accept limited war and seek the containment of the enemy, not his obliteration. This is especially so, one might add, if the enemy one aims to annihilate elicits widespread sympathies elsewhere, making probable some kind of over-the-top retribution in the future. There are 2.2 million Gazans. There are 1.8 billion Muslims. Germany and Japan were friendless in 1945. It is obvious that Israel's war in Gaza bears no relationship to the war that Mort and Walzer recommended on October 18. Israel has not fought with restraint, has not rejected indiscriminate bombing and shelling, has not respected enemy civilians. Operation Swords of Iron has been instead the most elaborate and twisted application yet of the Dahiya Doctrine, Israel's longstanding war plan that makes a virtue out of wildly disproportionate retributions. That Israel intended to do this was apparent from the outset — 6,000 bombs were dropped in the war's first six days — but went strangely unnoticed by Mort and Walzer when their piece appeared. The authors stressed the need to get humanitarian aid into Gaza but didn't mention the Israeli blockade on all things requisite to life, a radical policy totally opposed to laws of war and imposed by Israel on the war's first day. In a subsequent interview on October 30, Walzer conceded that there was no justification for Israel's blockades of Gaza's electricity, water, and food supply, but also questioned the idea that a humanitarian pause would be justified before Hamas was defeated. "Acts that shock the moral conscience of mankind" was one of Walzer's most resonant phrases in Just and Unjust Wars. He meant by that "old-fashioned phrase" not the solipsistic prevarications of political leaders, but "the moral convictions of ordinary men and women, acquired in the course of their everyday activities." Clearly, Israel's war in Gaza has entailed a profound shock to these sensibilities. It is this revulsion, not sympathy for Hamas, that explains world-wide public opposition to what Israel is doing. From the beginning of the crisis, the Biden administration's approach to the war ran closely in parallel with the course recommended by Mort and Walzer. Eliminate Hamas. Do so while sparing civilians as much as possible. Then be sweet to the Palestinians and give them an independent state. Israel was happy to take the first part of this formula and to contemptuously reject the rest. Meanwhile, alongside these homilies to humane war, the United States has undertaken a vast effort to resupply Israel's stock of bombs. Confronting the escalating death toll, U.S. policymakers are dazed and confused. They're still on autopilot in support of Israel's war aim, while ineffectually shrieking in horror at the cost to Gaza's civilians. The truth is that there is no way to destroy Hamas without destroying Gaza. Contrary to Secretary Blinken's words (and Walzer's advice), Israel does not know how to destroy Hamas while minimizing harm to innocent civilians. Monumental harm to civilians follows from Israel's war aim of destroying Hamas, which the Biden administration and Walzer continue to endorse. That war aim stands in urgent need of reconsideration.Dear RS readers: It has been an extraordinary year and our editing team has been working overtime to make sure that we are covering the current conflicts with quality, fresh analysis that doesn't cleave to the mainstream orthodoxy or take official Washington and the commentariat at face value. Our staff reporters, experts, and outside writers offer top-notch, independent work, daily. Please consider making a tax-exempt, year-end contribution to Responsible Statecraft so that we can continue this quality coverage — which you will find nowhere else — into 2024. Happy Holidays!
Blog: Saideman's Semi-Spew
It was already a year for which I have much to be thankful for, and then I received word that one of my applications for my sabbatical plans came through: spending time in Berlin in 2024 and 2025! So, as is my ritual here, I'd like to express my thanks (dankes?) for the past year.So far, no one fell during the horasI have seen the pastfew years but....First, I am most thankful that my family has made it through intact in a supposedly post-pandemic year. Some had bouts with covid, some sprained various body parts (that would be Mrs. Spew), my mother-in-law had a health crisis that ultimately led her to moving from her four floor townhouse to a senior retirement place, and many of the next generation moved. The last few years have taught us not to take anything for granted, so as I prepare to see the west coast kid and the rest of the family as we eat too much food, I am very grateful. We had a great time at the Florida Saideman-fest with Samantha's Bat Mitzvah, just as loud as the NY version but with twice the alligators. Jon out-dappered me. He and I ran the placeas the rare eight-weekers.Second, I am very thankful for the support, humor, and friendly abuse my friends are so generous giving to me. I have accumulated a far spread silly bunch of sweet people who put me in my place when I need it, encourage me when I am frustrated, and ski with me. A key highlight was a trip back to the past--the 100th anniversary of the summer camps that were so important to me from age 10 to age 20: Camp Airy and Camp Louise (I didn't go to the latter as a camper, as it is a girls camp, but it was a place I spent much time acting and ... other stuff).Third, 2023 has been a great skiing year (2024 may be better, it will be different-er). I had a nice trip with JC Boucher and his family, as we airbnb'ed in Canmore and skied the various places near Banff. This was an excellent scouting opportunity for my anniversary trip to Banff with my daughter, sister, and wife (who couldn't make it to due to her mother's illness and big move). I have one last trip this year to ski with my sister in Utah at a place I haven't been since 2001--Alta!I haven't skied with my daughter since probably 2014 as we didn't ski when she came back from college each winter break or spring break, as far as I can recall. So, it was a blast to hang out with her for a short time as she didn't have a lot of paid time off.Fourth, I am very grateful that my travel schedule went into overdrive, much like the pre-pandemic: Carlisle PA for a civ-mil conference, Fort Lauderdale for Samantha's Bat Mitzvah, Latvia for a Department of National Defence tour, SPAIN with Mrs. Spew for our first Eurotrip together (really!), LA for the APSA and to see our daughter in our new digs (she and her roomie and their cats keep moving around LA), Reston for another conference and to see my wife's family, Seoul and Copenhagen, Toronto, and now Philly. Still two! trips left this year: Alta and Virginia for a new kind of winterfest--air bnb rather than crashing at my mother-in-law's. I got to see a lot of great people, eat fantastic food, and do a heap of tourism. Fifth, I am so very thankful for the CDSN Team. This past year, I have been able to delegate more, worry less, and watch the team rock a series of activities and efforts. Last year, we hired Sherry to handle our money and our event planning. She has been incredible--today's emails were her answering various queries and me just loving that I didn't have to enter the fray at all. Of course, Melissa is the key to all of this--as our chief operating officer, she runs the shop, generates a heap of ideas for future efforts, and engages our partners and participants. Racheal has been our PhD research assistant for several years now and is handling more and more stuff so well that I don't have to do much revising. Mourad is our new PhD RA and he is super enthusiastic. The CDSN continues to grow and excel, going from 2 podcasts to 6 programs in our podcast network. Our Summer Institute was the best yet with 1/3 of the participants from the military, 1/3 from the policy world, and 1/3 from academia. Our various research teams are producing important results and great publications, and we are very much making progress on our various objectives. I am so grateful to all those who contribute to our stuff--it would not be possible without so many generous, creative, fun, sweet, sharp folks lending their expertise and time.I am so thankful for our new kitchen. I spent a lot of time working on the design and plans and then figuring out ways to eat when the oven and sink were out of commission. It came together so very well, and now this season's cookie baking extravaganza is easier and more fun. It was a year full of baking, eating, and then treadmilling so that I could eat some more. 2024 will have less of that in the first half as whatever kitchen I have in Berlin will not compete with the great setup I have in Ottawa.Oh, and I am most thankful for this sabbatical. Getting a break from teaching after the worst of the pandemic has been a great relief. We did manage to finally finish the Legislatures and Armed Forces book and send it off to presses--I am pre-emptively thanking kind reviewers (pretty please!). I got started on the next big thing, and I have gotten a bunch of smaller projects started or finished. I haven't read as many books as I had planned...yet. Oh well. I passed the midway point in my time at Carleton as this is my 12th year at Carleton, and I am pretty sure that I will retire before I hit 24. I am very, very grateful for this place and these people. I have had more support than at any previous spot, I have enjoyed the students (two of whom who defended their dissertations this year!), it has given me a great perch to do all kinds of stuff including public engagement, government exchanges, defence ministers in my classes (via zoom), and more. It has been a fantastic place to work, and getting better as we keep hiring sharp, sweet young folks who make me see things in different ways. I am pretty sure 2024 is going to be even better, as I have some pretty fantastic plans, so I am thankful for what is about to be as well. I hope you and yours have much to be thankful for. Enjoy your huge meals and many pies.
Blog: Responsible Statecraft
The Israeli incursion into Gaza has begun though we do not know yet how full or advanced it will become. But it is reminding us already that war, especially urban combat, is indeed hell.So what will this ground invasion actually look like on a tactical level? Gaza proper is roughly 25 miles long and on average 5.5 miles wide. This is a tiny amount of space in which to conduct a large-scale military operation. Most modern artillery can almost shoot the length of Gaza. Most modern anti-tank missiles can shoot half its width. Israeli F-16s can fly the length of the strip in under three minutes and will find it necessary to be in a constant turn to maintain position over Gaza City. To make the range issue worse is the urban nature of the battlefield. While it might only be around five miles wide, it's highly unlikely that you have line of sight that far due to man-made obstacles — better known as buildings. What this means is no one has superior range. If you can see it, it's in range. If it's in range, so are you.The majority of this space in fact is covered in buildings — shops, offices, schools, hospitals, and residences. Each one provides cover and concealment for fighters. The structures also create natural channels funneling attacking forces into pre-designated fire zones for ambushes or over top of improvised explosive devices. Israeli armor can't conduct maneuver warfare on this battlefield. Armor will be sitting ducks without infantry support. Infantry are vulnerable to everything. The Israelis will take losses, and already have, according to the New York Times on Wednesday. Urban areas pose difficult tactical problems. Fortified urban areas are worse. Over the past decade Hamas has developed a labyrinth of tunnels that are fortified and connected literally across the entirety of the strip, and especially heavy in Gaza City. They use these underground structures for command and control, movement, logistics, shelter, and as a way to "out flank" and ambush an enemy. Fortified urban areas with significant population density pose the biggest challenges. The majority of combat will take place in Gaza city proper which has a greater population density than New York, Chicago, Boston, Philadelphia or San Francisco. There are over two million people living in an area roughly twice the size of Washington D.C. This means civilians, or non-combatants, are everywhere. Even if half the population has moved south it will still cause the Israelis immense targeting problems. In addition, the densely populated area compounds the Israeli problem of target identification. Hamas intentionally blends in with the civilian population. The bottom line for the battlefield is that it helps Hamas and hinders the Israelis. In urban warfare, the defender, in this case Hamas, has the advantage. An advantage that can be mitigated if the attacker has overwhelming firepower, and the will to use it. How Hamas will fightHamas will use the urban terrain to cause excessive Israeli casualties while forcing them to injure civilians to limit those casualties. They will make every block a fortress and every street corner an ambush site. By using the "subterranean flank" they will pop out of tunnels and hiding places in buildings to shoot at Israeli vehicles with missiles, launch grenades, or even throw Molotov cocktails.While they may not be using Javelin anti-tank weapons (although the threat of Hamas having those weapons shouldn't be dismissed, given what may have been captured or "lost" in Ukraine), their weapons will be more than sufficient to at least disable a tank and cause casualties. The short ranges decrease Israeli reaction time and increase lethality. Hamas fighters are commingled with the civilian population most likely both intentionally and unintentionally, and will take full advantage of that. They know the world watches what the Israelis do and are counting on pressure to make them stop. Again, they see this war as existential, so they will use any and all means to win. How the Israelis will fightFirst, Israelis must find the Hamas fighters, then engage them in their fortified positions.They must do this without taking unreasonable casualties, all the while trying not to kill civilians. To find Hamas fighters the Israelis will use a variety of sources. They will have already scanned the electromagnetic spectrum for everything from cell phones, computers, to radios looking for an electronic signature to identify a potential target. They will pour over social media for anything identifiable.They will use drones, manned aircraft, and human reconnaissance teams to confirm and verify what they think they know. They will do all this and more to listen, collect, and build a targeting picture of command centers, logistics sites, artillery positions, and order of battle — who is who, who has what, and where it is. This process is called intelligence preparation of the battlefield. This is what the Israelis have been doing — in truth some of their targets were most likely derived long before Hamas attacked just as most certainly Hamas had/has a robust target list of Israeli targets — since the start of hostilities. The ground incursion of course changes this process. With Israeli tanks and infantry "closing" with the enemy, finding and subsequently engaging Hamas fighters will most likely devolve into merely returning fire — often with zero time to figure out how to limit civilian casualties. It's one thing to take a breath and disengage in sparse open terrain, it's another thing to figure out who is shooting at you.Once located, the Israelis have a host of options to engage the Hamas fighters. But it's not a simple task of deciding what weapon is best to use. They have to measure what they do by three metrics: 1) does it achieve the desired effect on the enemy? 2) Can they accomplish the task without losing too many Israeli soldiers? 3) Can they limit civilian casualties, which in excess can be a war loser for Israel? If civilian casualties weren't a concern, the Israelis would use their massive firepower to destroy any and all Hamas targets or potential targets. They have the potential to literally level Gaza City using 2,000-pound satellite guided bombs with delayed fuses to smash the known tunnel complexes or at least seal them for eternity. This would meet the goal of destroying Hamas and limiting Israeli losses. But in reality this approach would cause unacceptable civilian casualties. The inverse would be to advance for a close quarter battle that seeks a more "surgical" path. In a close quarter battle, you do nothing to mitigate the defender's advantage in urban warfare and you take losses — lots and lots of losses. Storming a building can be like storming a trench. We have seen what that is like in Ukraine. So how will the Israelis fight? Their best option for destroying Hamas (which is the first priority), managing their own losses (second priority), and limiting civilian casualties (last priority), will be to strike hard when they have known, verified targets, advance to make contact with the enemy, then choose the weapon to engage. Moving slowly, deliberately, a block at a time.This is why the prime minister said it would be a long war. This grinds Hamas down through attrition and loss of supply. The longer it takes, the more food, water, and fuel Hamas uses with no hope of real re-supply. The Israelis proclaim this war is existential. They will keep that consideration as they manage the tension of their losses and civilian casualties. Some suggest this will look like the battle for Fallujah between U.S. forces and Iraqi insurgents. Perhaps. But I suggest it will be more like Stalingrad or Berlin. Like in those battles, both sides see the war as existential and will conduct themselves accordingly. One thing is for certain, for the populations on both sides, this war is truly hell.
Blog: Between The Lines
With all but one contest at the state and local
levels resolved, elections this cycle in Bossier Parish demonstrated that to come
close to beating its political establishment, you had to have a pretty organized
effort behind you.
At stake were all the seats on the Police Jury as
well as two state Senate and two state House of Representative slots, with a
couple of House posts already decided when House District 10 incumbent
Republican Wayne
McMahen and House District 5 newcomer Republican Dennis Bamburg didn't draw
opponents, as well as a few juror positions with just incumbents filing. Among
the others, in all but one Jury and one House seat establishment forces had a
rooting interest in, if not intense involvement supporting, a particular candidate.
The House race it didn't particularly care about
was the District 2 matchup between Caddo Parish Democrats Terence Vinson from
the School Board and Steven Jackson from the Parish Commission. It offered a contrast
in styles both in terms of candidates and campaigns: Vinson utilizing
traditional canvassing methods and with a steady record in office, while
Jackson spent more overall and more on media to go with his more controversial
personality, most recently being convicted
for impersonation of a police officer. That apparently didn't faze enough
voters, who gave him a narrow win.
Bossier political powers-that-be did care about
the House District 9 race between Republicans state Rep. Dodie Horton and
businessman Chris Turner, with them backing the challenger. Horton decisively
turned him back, in part because of the assistance she received from the Louisiana Freedom Caucus through its
political action committee, a group of consistent conservative House
members of which she is a member and is led by another area House member,
Republican Alan
Seabaugh.
Seabaugh himself was on the ballot and in the
crosshairs of the establishment – not just Bossier's but of other big government,
get-along-go-along politicians and special interests across the state – for
Senate District 31. Those forces aggravated at his reform and smaller
government agenda propped up to oppose him retired basketball coach Mike
McConathy running under the GOP label. Seabaugh prevailed in a contest that,
when all is said and done, likely in terms both of dollars spent by the campaigns
and by others on their behalf, will end up as the most expensive in state
history.
Thus, strong candidate organizations and allied
interests could maintain their foothold against the establishment. That lesson
also was the case in the other Senate contest, District 36, that turned into a
big establishment win, but not so much because of its efforts. There, GOP
incumbent Robert Mills lost
handily to Republican Bossier Parish School Board member Adam Bass.
Mills had angered conservatives by voting in the
Senate this year not to hold back surplus money to pare down pension
obligations and deposit more into the state's Budget Stabilization Fund savings
account, against the preferences of Horton, Seabaugh, and the Freedom Caucus.
The politically ambitious Bass, who had been testing the waters for Bossier
City mayor in 2025 with establishment backing, stepped into an ideal situation where
he could have that support and benefitted from some conservatives deserting
Mills (for example, Seabaugh, busy with his own campaign, didn't aid Mills as
he had in 2019). Despite the Mills campaign gaining an advantage monetarily in
the closing weeks of the campaign, conservative acceptance of Bass and local
powerbroker backing (in a district that had changed to his favor through
reapportionment) was more than enough to make Mills the only incumbent senator
to lose this cycle.
That establishment success, minus reformist or small
government conservative backing with one possible exception, was more pronounced
in Jury races. All but one incumbent ran again, and in the District 10 exception
former School Board member Democrat Julius Darby, the incumbent's brother, qualified,
with most finding success without great difficulty
Given their level of campaigning, resources
committed, and district demographics, three Republican challengers – all reformers
and conservatives – had the best shot to win of all challengers. In District 1,
small businessman Mike Farris took on GOP incumbent Bob
Brotherton; in District 5, former juror Barry Butler faced off against GOP
incumbent Julianna
Parks; and in District 12, small businessman Keith Sutton squared off against
GOP incumbent Mac
Plummer.
Brotherton looked vulnerable given his health that
made him difficult for him to attend Jury meetings, much less campaign. He and
Parks both served, likely
illegally, on the parish-appointed Library Board of
Control and certainly illegally had appointed Parish Administrator Butch
Ford as interim director of libraries for several months. They and Plummer had
made Ford administrator in full knowledge legally he didn't qualify, a matter still
in doubt nearly two years later.
Yet Brotherton supporters are dug in like ticks in
a district that swings north to south along the eastern edge of the parish –
his wife represents a very similar district on the School Board – and his
surrogates campaigned well enough for him to win without a runoff. And Parks
was able to draw upon her connections – her husband Santi is Bossier City's
elected judge – to seal a comfortable win.
However, Sutton knocked off Plummer and did so because
of superior organization. South Bossier has gained a reputation as the most
rebellious part of the parish to the existing power elite, with reformist political
activism from a handful of elected (past and present) officials that are allies
of Sutton's, including former School Board member Shane Cheatham (his podcast
partner), Bossier City Councilor Brian Hammons,
and Bamburg (Republicans all), as well as from others not in office. Sutton
also aggressively canvassed the district on foot and by mail.
As things turned out, he might be the only
reformer on the new Jury. One other incumbent lost, but that came from District
9's tilt between two establishmentarians, Democrat incumbent Charles
Gray and Republican former Bossier City chief administrative officer Pam
Glorioso. Demographics favored Gray with a Democrat voter registration advantage
of 2:1 and a near-majority black registration (Gray is black).
Perhaps
overconfidently given those demographics, Gray concentrated on outdoor
advertising while Glorioso ran a more retail-oriented campaign. Also hurting
Gray was dispirited turnout by black Democrat voters, who weren't excited by
their party's offerings at the state level, and possibly reputationally in being
a Library Board of Control member likely serving illegally who also approved of
Ford's illegal service in two different capacities. So, Glorioso won a
low-turnout contest, but she won't join any reformist efforts Sutton might
back.
Sutton
might get help from an unlikely source. In District 10, despite the Darby's
family hold over that area of town (brother Jeff is on the Bossier City Council
and sister Samm is on the School Board), Julius got pushed into a runoff by Democrat
military retiree Mary Giles, who herself courted controversy with careless
placement of campaign signs. It's the only legislative or local race left
to be decided on Nov. 18.
Even if
Sutton remains the only juror not tied into the Bossier good-old-boy-and-girl
network, at least citizens will have one voice on the Jury to question
orthodoxy and bad decisions such as those surrounding the library and Ford's
employment. And that this
cycle attracted more competition than any since 1987, even if most challengers
lost, foists more pressure for accountability onto the nine returning
incumbents, knowing that questionable actions will provoke a need to campaign
ending possibly in losing.
Blog: Responsible Statecraft
October 3, 2023 marks the 30th anniversary of the Battle of Mogadishu, when American forces engaged in a pitched battle with a Somali militia in a densely populated residential neighborhood in Mogadishu, Somalia. This battle has become popularly known as "Black Hawk Down" in reference to the several UH-60 Black Hawk helicopters shot down during the battle, leading to the deaths of 18 U.S. soldiers and at least 300 Somali casualties, including militia and civilians. Much has been written about how this event, and the wider U.S. military intervention in Somalia, was a watershed moment heralding a new "world order" led by the U.S. in the aftermath of the Cold War. However, one of the most consequential impacts of U.S. interventions in Somalia has been the hindrance of local socio-political processes that might have, with time, provided an exit from the condition of permanent conflict. In so doing, these interventions have contributed to the continuation of conflict and historical paralysis in Somalia. The Battle of Mogadishu was the culmination of a U.S.-led UN intervention in Somalia which went through several iterations that progressively became more militarized. It began in April 1992 with United Nations Operations in Somalia I (UNOSOM I), which was mandated to monitor a ceasefire agreement between the warring parties in Mogadishu following the fall of the Somali state in early 1991. The ceasefire, however, never took hold, gravely hampering the delivery of humanitarian aid in the midst of an appalling famine. The harrowing images of starving children broadcasted across the globe partly informed the U.S. decision to offer to organize and lead a multinational force, United Task Force (UNITAF). The UN accepted the offer and UNITAF forces arrived in Somalia in December 1992 with the objective and mandate to provide security and facilitate humanitarian relief efforts. UNITAF was succeeded by UNOSOM II in March 1995 with a force of about 30,000 from 27 countries. The U.S. contributed a little over 1,000 personnel to this force, but exercised significant control over the operations. UNOSOM II not only took over the mandate of UNITAF in terms of securing and facilitating aid delivery, but was further tasked with nation-building, including forcible disarmament. This led to a confrontation between UNOSOM II and one of the militias, Somali National Alliance (SNA) led by General Mohamed Farah Aidid. U.S. forces led this confrontation carrying out raids against SNA militia and Aidid. After a series of increasingly violent reprisal attacks, U.S. forces raided a hotel in Mogadishu October 3, 1993 to capture high ranking SNA personnel. The disastrous result of the raid ultimately led the Clinton administration to change course and withdraw U.S. forces from Somalia in the spring of 1994. The U.N. followed suit and was out of Somalia by early 1995. There has been widespread criticism of various aspects of the U.S./UN intervention: the militarization of the intervention with the inevitably high civilian casualties, the racist violence and abuse of Somali civilians, the caricature and reduction of the crisis to images of starving children and drug-crazed militias, the UN's insistence that its failure to act quickly to avert the famine was entirely due to security concerns and not bureaucratic inertia, and the claim that 80% of food supplies meant for famine victims were being looted. Despite the criticism of the intervention, many also felt that the withdrawal of U.S. forces and the termination of UNOSOM II would lead to a resumption of violence and upsurge in the suffering of the population. The fact that this did not happen is a testament to the dynamics of the conflict and social processes that worked to overcome the conflict. Subsequent to the U.S. and UN withdrawal in early 1995, Somalia not only did not return to a cycle of violence, but experienced relative stability in what one commentator referred to as "governance without government." This period lasting about a decade, 1995-2004/05, was characterized by the formation of various self-governance arrangements based on locality and kinship relations as well as the emergence of conflict adjudication/arbitration centers in urban settings like Mogadishu.The best examples of the autonomous and semi-autonomous local administrations that emerged are Somaliland and Puntland in the north and northeast of the country. While no similarly successful administration emerged in the central and southern regions of the country, large-scale conflicts dissipated there as well as conflicts became localized. With the localization of conflicts, it became easier for communities to find locally-grounded solutions led by a mixture of traditional elders, business people, and civic groups. In some urban centers, meanwhile, there emerged adjudication/arbitration centers that utilized a mixture of sharia and Somali customs (heer) to resolve disputes. The most well-known and successful of these are the sharia courts of Mogadishu. These courts emerged within a year of the disintegration of the central government in 1991 as an expression of neighborhood residents' desire to address the disorder and anarchy. Given the centrality of sharia to the very idea of justice and law in Somali society, the centers began to be referred to as sharia courts. The sharia courts of Mogadishu brought a certain level of security to some neighborhoods in Mogadishu throughout the 90s and early 2000s despite the opposition of warlords and militias. The return of large-scale violence to Somalia coincided with the next U.S. intervention. The sharia courts of Mogadishu attracted the attention of American officials in Nairobi starting in the early 2000s because of a suspicion that individuals associated with some of the sharia courts might be harboring suspects in the 1998 U.S. East African embassy bombings. To help find and capture these suspects, the CIA started funneling money to warlords in Mogadishu. This strategy backfired as the sharia courts, with the massive support of Mogadishu residents, defeated the warlords. Whether perpetrators of the bombings were in Mogadishu or not, it was short-sighted to enlist the support of the warlords and target the sharia courts, as the State Department's political officer for Somalia pointed out at the time, because the courts were not a homogenous entity. They were an assortment of independent adjudication centers reflecting the entire spectrum of Islamist views in Somalia. Moreover, the warlords had a terrible reputation and were disliked by the people. When the warlords failed, the U.S. then supported an Ethiopian invasion of Mogadishu in mid-2006 that eventually disbanded the sharia courts. This invasion also backfired because it conferred legitimacy to the most radical elements within the sharia courts, thus, setting the stage for the rise of al-Shabaab and transformation of Somalia into a frontline state in the global war on terror. These American interventions in Somalia can be critiqued from many angles, but what is often overlooked and more damaging in the long run is the impact they had on local historical processes that might have led to Somalia overcoming its protracted conflict. Every time the U.S. intervenes directly or indirectly, through local or regional proxies, it reshuffles the decks, putting an end to organic political and social processes, thus contributing to the perpetuation of the Somali conflict that is now over three decades old. This is not to suggest that local processes of adaptation and governance will necessarily lead to a centralized government or a liberal democracy. But the presumption that this is the only way for Somalia to exit from conflict is part of the problem.
In: Puti k miru i bezopasnosti, Heft 2, S. 150-174
ISSN: 2311-5238
Mainland China's policy towards Taiwan demonstrates a high degree of continuity. As new problems arise, new priorities are put forward. During Xi Jinping's tenure as China's leader, the goal of reunifying the country has been proclaimed a necessary component of the national revival, while the search for a Taiwanese version of the "one country, two systems" model has been launched and the approach to independence supporters has become markedly tougher. Mainland China's past hopes to achieve reunification primarily through Beijing's material strength and prospects for economic integration are facing unforeseen obstacles, while political and cultural issues are becoming increasingly important. The reunification scenarios offered to Taiwan are increasingly rigid and are reduced to a choice between retaining limited powers in the case of a peaceful scenario or losing even those powers if military force is applied. Chinese experts continue to look for ways to facilitate rapprochement between the mainland's and Taiwan's societies to win over supporters of unification and to attract a wide range of opponents of independence. Meanwhile, Beijing is seriously concerned about the ongoing "de-Sinicization" of the Taiwanese identity. Mainland China has not yet learned how to project the Chinese cultural tradition outward, and its efforts to achieve social integration of Taiwan continue to focus on material incentives. Experts from the mainland China increasingly agree that Beijing's old instruments of non-conflict rapprochement with the island are rapidly losing their effectiveness, while new mechanisms are slow to emerge. Mainland China's politicians and experts are concerned about the prospect of irreversible changes in the identity of the island's inhabitants and believe that it is unacceptable to postpone the reunification endlessly. 从统一到民族复兴:当前中国看待台湾问题的视角 中国政府对台政策具有高度连续性。随着形势的变化,中国政府对台政策有了新的首要目标。习近平执政后,国家统一上升为民族复兴的必要组成部分,同时开始积极探索"一国两制"的台湾方案,对台独支持者的态度明显变得更加强硬。中国大陆曾希望依靠物质实力和经济一体化促进两岸统一,现在这一可能面临难以预知的困难,而政治和文化问题变得越来越重要。大陆提供给台湾的统一方案越来越严格,其实质在于,在和平统一情况下,台湾当局可保留有限权力,而通过武力统一后,台湾将不会再拥有这些权力,台湾当局需在两者之间做出选择。中国专家学者继续寻求大陆与台湾社会和解的方式,以赢得统一派之心并吸引广泛的台独反对者。与此同时,北京对台湾岛内人群身份认同的持续"去中国化"深感震惊。中国大陆尚未学会如何将中国文化传统向外传播,其融入台湾社会的努力仍然继续集中在物质激励上。越来越多的中国专家认为,大陆使用的与该岛建立非冲突和解的旧工具正在迅速失效,而新机制的建立滞后。中国大陆的政界人士和专家学者担心岛内居民的身份认同可能发生不可逆转的变化,所以认为无休止地推迟两岸统一是不可接受的。
A7 重磅:世界首个真数字器件开创4D数字电路和d4数字时代 New civilization: First True Dynamic Digital Device Initiating True Digital Circuits and d4 Times Legislator of Mathematics The first true dynamic digital device initiating the true digital circuits and d4 times. Heretofore, all the electronic devices and circuits are not the true digital ones but basing on the analogous circuit. Now the new dds end the fake of digital circuits. We will develop the unlimited charging technologies for military and civil. New technology, new civilization. All the reporters and investors contact me by email: puipowfri@gmail.com. Thank you. 人类经历蒸气动力文明、电气文明、半导体文明、信息文明,但它们都是模拟的、至多是伪数字的;现在,我们要经由人类第一个真数字器件进入真正的数字文明,一个IC取代一个30多吨的ENIAC将再次发生,一包香烟大小的真数字计算机取代Summit(148.6PFlops)和Sierra将再次发生,因为DDS(真动态数字信号)支持无限叠加和无限运算而令功率降低可忽略不计的水平,人类将进入真正的超大型运算时代。与此同时,人们将享受无限充电的动态数字充电技术,从而最大限度节约能源;使用无极性辐射的智能手机和通讯设备而远离电磁干扰,等等,美好的生活随之展开。 迄今为止,人类的数字电路、数字通讯、数字信息处理、AI等都是通过模拟电路实现的,自然不可能是真正的数字层面,也就是说,人类从未进入真正的数字时代,今天,纯数字的数字起源令全世界首次进入真正的数字时代,遵循傅里叶逆变换(Fourier inversion)等的以属于虚数的波动(振动)为前提的动态数字信号及其处理,从而构成真数字(动态数字)波动(振动、波振)原则。台积电的半导体技术再厉害也都只是属于模拟层面,用一个指甲的真数字电路取代一台超模拟伪数字的超级大电脑只有在无限叠加运算的纯数字电路时代才有可能实现。 复数空间中的真数字信号(全显数字)、全相干空间的无形数字(隐性数字)信号(负压数字)、负阻(十字)空间中的半隐性数字信号(负阻数字)、根(天线)空间中的开放性标准化数字信号(无障碍表达于不同介质中之负温度数字)、(真)数字四大金刚,统称为四层真数字技术(系统),从而构成(真)数字四大金刚原则,由此而来,人类将要进入四大数字时代:全显真数字时代、准化数字时代、半隐性数字时代、隐性数字时代。 二层单极晶体管(基极二极管UJT)为全人类有史以来第一个数字电子器件,让人们从此开启四大数字时代:全显真数字时代(d1)、准化数字时代(d2)、半隐性数字时代(d3)、隐性数字时代(d4),统称为4d时代,从而构成真数字(纯数字)4d原则,真正的数字电路、数字通讯、数字信息处理、AI等随之扬帆起航。 模拟先于数字非数字原则、数字通讯、全世界首次进入数字时代、负阻连续性定理、负阻相位原则 我们以一个单极晶体管(基极二极管UJT)T、射极电容C、射极电阻Re、基极电阻Rb1和Rb2、电源E(电动势等于ε=U)作一个简单的负阻回路L,单极晶体管T的两基极的电阻分别为rb1和rb2,rbb=rb1+rb2,单极晶体管T上的两基极之间的电压为Ubb、rb1的电压为Ub1、rb2的电压为Ub2、i为基极电流、u=Ubb为单极晶体管上两基极之间的压降、r为单极晶体管上两基极之间的动态电阻、Δμ为与负阻rbb上电压增量Δu对应的补偿电压、Δw为rbb上的电压总增量、E为负阻rbb上的电场强度、E'为负阻rbb上电场强度E的补偿电场强度、E''为负阻rbb上总电场强度、dℓ为电场强度E或E'的分布长度(先假设ℓ为直线段)、t为时间、Δu为单极晶体管T上的双基极总电压增量、Δi为单极晶体管T上的双基极电流增量,我们于是有如下方程: ε=Ub1+Ubb+Ub2=i(Rb1+Rb2+rbb) du/di=dUbb/di=-r dUbb=du=-rdi ……(Eq.UJT01) dμ=dw+du=dw-rdi=0 ……(Eq.UJT02) u=∫E·dℓ ⇒ du=E·dℓ=d(E·ℓ) w=∫E'·dℓ ⇒ ...
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