Introduzione Quando il desiderio di sentirsi utili diventa un'aspirazione incontenibile e quando questa si condivide con altri, avviene che le risposte ai bisogni generino vere e proprie opere, associazioni, organizzazioni di volontariato, dei tipi più vari e nei luoghi più disparati del mondo, ma avendo all'origine una simile esperienza di gratuità. E tuttavia, la gratuità non è solo al principio di un'opera ma è ciò che continuamente la genera. Guardando i volontari, ciò che continua a sorprendere non è solo ciò che fanno – soccorrere i poveri, assistere i malati, rivendicare i diritti civili, valorizzare il patrimonio culturale e artistico di un territorio, ecc. – ma l'ideale che comunicano in ciò che fanno. Non si vuol dire che sono indifferenti le azioni che compiono, ma che da queste traspare la possibilità di un bene più grande di quelle stesse azioni, tanto per chi aiuta quanto per chi è aiutato, tanto per chi difende quanto per chi è difeso. Le risposte sono inevitabilmente limitate – è un'evidenza feroce nei tempi di crisi economica e nei paesi in via di sviluppo – eppure accade che, attraverso di esse, la comunicazione di quel bene permetta a uomini, donne, ragazzi, bambini in stato di bisogno di accorgersi di qualcosa di illimitato, vale a dire del loro valore, dato dal solo fatto che ci sono. Quando una persona si accorge di essere un tale valore, pur non eliminando la fatica della vita, non c'è crisi che tenga. È per questo che, vivendo pubblicamente la gratuità, i volontari incidono profondamente nella storia, nella cultura e nello sviluppo sociale ed economico di un paese. Eppure, l'evidenza di questo fatto, vale a dire di questa incidenza del volontariato, è oggi una grande novità. Non sono certo una novità le opere – la nostra civiltà sarebbe impensabile senza le opere di gratuità che l'hanno costruita – ma lo è il fatto che a queste bisogna guardare, che queste bisogna sostenere, se si vuole, innanzitutto, accettare la sfida di un nuovo welfare e in generale non restare bloccati nei meccanismi della crisi economica. La decadenza del tradizionale sistema di welfare è irreversibile e non riguarda solo l'Italia ma tocca anche i paesi dell'Europa che vantano gli Stati assistenziali più avanzati. Il Terzo settore è un cantiere di idee innovative. Indica uno spazio alternativo di risposta ai bisogni e di costruzione del bene comune che si colloca tra i due ambiti tradizionali, Stato e mercato, ed anzi segna più di ogni altra realtà la rottura di quella che si è creduta essere una simmetria esatta. Ci sono numerosi esempi di un miglioramento dei servizi pubblici in realtà che non appartengono ad una delle due alternative e che hanno al loro interno una forte, se non totale, componente volontaria. Nelle realtà come quelle del volontariato in cui è forte la motivazione ideale, il servizio prestato diviene più di una semplice risposta al bisogno. Diviene l'occasione dell'instaurarsi di relazioni attente e appassionate tra le persone. Si potrebbe dire, anzi, che in questo modo i servizi prestati cominciano ad adombrare la vera risposta di cui i "destinatari" hanno bisogno. In Italia vi è una gran quantità di casi in cui servizi pubblici offerti da associazioni del Terzo settore si sono qualificati al punto da raggiungere livelli che il pubblico non ha mai conosciuto. Lavorando gratuitamente al servizio di una organizzazione ormai da tre anni ho maturato la consapevolezza che la capacità di proposta culturale, sociale e anche politica delle associazioni è tutta racchiusa nell'esperienza di gratuità che queste vivono, nelle relazioni che sono in grado di stabilire prima al loro interno, poi con altre associazioni, con enti pubblici e privati e la cittadinanza tutta. Una consapevolezza che è il frutto dell'osservazione attenta e disincantata del territorio che ogni organizzazione serve, sostenendo il volontariato. Un territorio (il mio preso ad esempio, ma che vale per tutta l'Italia) pieno di contraddizioni ma che porta i segni, dove c'è un'esperienza di gratuità vissuta, di un cambiamento, nel senso di una rinascita di persone e di pezzi di realtà che sembravano dimenticati o perduti. Ma, se il volontariato comincia e permane con, e grazie, a delle persone. La ricerca che presento nasce dal desiderio di scoprire l'identità del volontario, di tracciarne il profilo. Quali bisogni incontra sul territorio, a quali di essi preferisce rispondere, in che modo si organizza per farlo, quali opere realizza; ma anche quanti anni ha, se è uomo o donna, giovane, maturo o anziano, se lavora, e se il suo desiderio di vivere l'esperienza associativa dura nel tempo o decade. Il volontariato e in particolare il mondo del Servizio Civile sta cambiando, perché sono cambiate le sfide che gli vengono poste. Si è già detto della sua capacità di rispondere ai bisogni, vecchi e nuovi, in maniera sempre più qualificata. La domanda che attraversa la ricerca è se si può cambiare senza perdere la propria identità; se il volontariato può cambiare senza perdere il suo principio culturale, cioè senza perdere la dimensione gratuita dell'esperienza che genera solidarietà e se il lavoro prestato può essere l'imput giusto al cambiamento di una società in crisi, sia a livello nazionale che internazionale. Da qui, è nata per me l'esigenza di legare la riflessione sul volontariato locale ad una più ampia riflessione sulle esperienze di volontariato sia nazionali che europee. La ricerca è diventata così un percorso di scoperta di tali esperienze, da un punto di vista storico, culturale, ma anche statistico. L'idea di questa tesi è nata quasi per caso, ADOC (Associazione Difesa e Ortientamento Consumatori) mi ha offerto la possibilità di seguire il corso da Progettista per il Servizio Civile in collaborazione con AMESCI nell'aprile scorso, pochi giorni dopo aver sostenuto gli esami del "Ciclo di Progetto" e "Legislazione del Terzo Settore". Un'esperienza che mi ha dato la possibilità di mettere in pratica quello che avevo appena studiato. Durante il corso, vedendo le persone e gli enti coinvolti mi sono meravigliata di quanto lavoro ci fosse alle spalle di un bando come quello per l'accreditamento di un Ente per il Servizio Civile. Così, unendo anche la mia esperienza da giornalista, maturata alla triennale nell'Ateneo parmense, ho voluto indagare sulle motivazioni che spingono i ragazzi al Servizio Civile, attraverso un questionario che ho distribuito a diversi volontari partecipanti a progetti già avviati nel mio territorio e ad altri che hanno scelto di prestare Servizio Civile in alternativa alla leva militare. La tesi è dunque suddivisa in otto capitoli secondo un'analisi che parte da una visione del volontariato a livello macro (Europa nel complesso) fino a giungere ad una visione micro (un caso personale). Nel secondo capitolo illustro il volontariato attivo a livello internazionale con particolare riferimento a quello organizzato in Europa, riportando come esempi l'esperienza dello SVE (Servizio Volontario Europeo) istituito dal Parlamento Europeo nel 2006 all'interno del Programma Gioventù in Azione; dello SCI (Servizio Civile Internazionale), un'organizzazione di volontariato fondata nel 1920 da Pierre Ceresole ed il progetto "EUROPEAN CIVIC SERVICE: A COMMON AMICUS" approvato dalla Commissione Europea e dall'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile italiano nel 2008 quale tentativo per la creazione di un unico modello di Servizio Civile europeo. Nel terzo capitolo, rimanendo sempre in ambito europeo, ho messo a confronto diverse tipologie di Servizio Civile scegliendo a campione cinque nazioni quali: Armenia, Grecia, Lussemburgo,Repubblica Ceca e Svizzera. La scelta di questi Stati non è casuale: risponde all'esigenza di mostrare come le differenti storie politico-sociali di essi hanno dato origine anche a diversi approcci e metodi di interpretazione del volontariato, in particolare del concetto di Servizio Civile. Ho dunque optato per analizzare stati di antica, media e nuova appartenenza europea ed altresì uno Stato neutrale come la Svizzera che viene comunemente considerata come modello da seguire. Nel capitolo seguente ho proseguito con un'analisi storica degli aspetti sociali, politici e culturali che hanno portato all'istituzione, nel nostro Paese, del Servizio Civile Nazionale, soffermandomi soprattutto sulle questioni legislative degli ultimi decenni. Negli ultimi due capitoli, la tesi ha preso poi un risvolto "pratico", nel quinto paragrafo racconto l'indagine svolta fra un campione di 93 candidati ai quali ho somministrato un questionario incentrato principalmente sull'attività in svolgimento e sulle reali motivazioni che hanno portato a tale scelta; un test che mi permesso, quindi, di capire il perché si vuole fare del volontariato e quali sono i limiti, ma anche i pregi, di tale attività. Nell'ultimo capitolo infine, ho raccontato, attraverso un'esperienza personale, l'altra faccia del volontariato, dalla parte cioè di chi si adopera ( nel caso specifico del Servizio Civile) per rendere possibile queste attività, ovvero i progettisti. Ho descritto pertanto passo passo come è avvenuta la realizzazione del progetto "RUMORE ROSA" per l'attivazione di uno sportello presso la sede nazionale dell'ADOC (Associazione Difesa e Orientamento Consumatori) rivolto alle donne vittime di violenza nel quale inserire cinque volontari che si dovranno occupare: dell'accoglienza delle vittime ed essere per loro un punto di ascolto; dei rapporti con altre realtà associative che operano nel solito contesto; contatto con le Istituzioni e partecipazione ai tavoli rotondi per la redazione di materiale informativo e la programmazione di eventi specifici. Traendo le conclusioni, nonostante l'estrema eterogeneità riscontrata non solo in un ampio spettro come quello europeo, ma anche a livello locale (all'interno magari della stessa realtà cittadina), il filo conduttore che unisce i differenti modi di interpretare il concetto di "fare volontariato" rimane l'opportunità di sentirsi utile verso gli altri, riscoprendo i valori di solidarietà sociale, i quali i più delle volte, emergono in fase di svolgimento dell'attività stessa. E' dunque un arricchimento del proprio bagaglio culturale, un passepartout verso nuovi orizzonti che non conoscono crisi ma anzi generano un vero e proprio arricchimento personale.
Il disturbo post traumatico da stress (Post Traumatic Stress Disorder, PTSD) è una condizione caratterizzata da un peculiare quadro psicopatologico, dovuto all'esposizione diretta o indiretta ad un evento traumatico di gravità oggettiva estrema, che supera le normali capacità di adattamento come ad esempio, attacchi terroristici, guerre, catastrofi naturali, gravi malattie, episodi di violenza sessuale o fisica, morte violenta e inaspettata di una persona cara. Contraddistinta da un decorso tendenzialmente cronico con scarsa risposta ai trattamenti farmacologici e un considerevole peggioramento della qualità della vita. (APA, 2013) Nel corso del tempo sono state effettuate numerose indagini sul PTSD per individuarne le eventuali basi neurobiologiche, le caratteristiche cliniche, le comorbidità e i potenziali fattori di rischio. Tra questi ultimi, i principali sono stati identificati nella gravità e tipologia dell'evento traumatico, nel sesso, età, condizioni di povertà e indigenza, professione lavorativa svolta e infine nell'anamnesi positiva per disturbi psichiatrici. Nonostante la storia del trauma psichico sia molto antica, al punto che la descrizione di quadri clinici, assimilabili alla moderna denominazione di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), possa essere già individuata nella letteratura del passato, soltanto nella terza edizione del DSM del 1980 (APA,1908), in seguito agli effetti catastrofici provocati dalla guerra del Vietnam, compare nella nosografia psichiatrica moderna. La novità sostanziale introdotta dai curatori del DSM-III, fu quella di voler consolidare l'idea di una patologia psichica in cui l'agente eziologico si trova al di fuori dell'individuo e corrisponde all'evento traumatico, piuttosto che una debolezza individuale intrinseca (cioè una nevrosi traumatica). Inizialmente, gli studi sul PTSD si incentrarono sui conflitti militari, tuttavia, nel corso del tempo, rientrarono in questa definizione anche le catastrofi naturali e un'ampia serie di esperienze quotidiane sperimentate dalla popolazione civile, come incidenti automobilistici, esplosioni di fabbriche, vittime di stupro, rapine, violenze e ritenute traumi psichici. In seguito, alcuni autori, sono riusciti ad evidenziare come un gran numero di persone, nonostante fossero state esposte ad un evento traumatico qualificante, non riuscivano a soddisfare i criteri sintomatologici proposti dal DSM e quindi non sviluppavano un quadro di PTSD completo. Per questo motivo è nata una collaborazione internazionale di ricerca che ha coinvolto la clinica Psichiatrica dell'Università degli Studi di Pisa e altri ricercatori di Università Americane, permettendo lo sviluppo di un nuovo modello di approccio clinico al PTSD: lo Spettro Post Traumatico da Stress o Trauma and Loss Spectrum (TALS). Il Trauma and Loss Spectrum (TALS) è stato sviluppato nell'ambito dello spectrum project e si basa su un approccio dimensionale alla psicopatologia che considera clinicamente rilevanti non solo le manifestazioni conclamate di PTSD ma anche i sintomi atipici e sotto soglia, talora espressione di tratti stabili comportamentali associati a costrutti diagnostici. Il TALS prevede sia l'intervista clinica strutturata, la Structured Clinical Interview for Trauma and Loss Spectrum (SCI-TALS), sia il relativo questionario, il Trauma and Loss Spectrum – Self Report (TALS-SR). Entrambi gli strumenti sono costituiti da 116 voci con risposta dicotomica (sì/no), raccolti in 9 domini che indagano, nell'arco della vita, la presenza di sintomi di spettro riconducibili ad una serie di eventi potenzialmente traumatici e/o di perdita e inoltre analizzano le caratteristiche individuali e/o i fattori di rischio per lo sviluppo del disturbo e di comportamenti maladattativi che potrebbero essere messi in atto dai soggetti. Nel 2013 è avvenuta la pubblicazione della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), che ha apportato una serie di revisioni ai criteri sintomatologici del Disturbo Post Traumatico da Stress, con importanti implicazioni sia concettuali sia cliniche. Il PTSD (APA, 2013) non è più classificato come Disturbo d'Ansia ma è stato incluso in una nuova categoria, ovvero i Disturbi correlati al Trauma e ad Eventi Stressanti - Trauma and Stress Related Disorders – dove il requisito fondamentale per fare diagnosi è rappresentato dall'esposizione all'evento stressante. In questa categoria diagnostica sono stati inclusi altri disturbi come il disturbo dell'adattamento, il disturbo reattivo dell'attaccamento, il disturbo disinibito dell'attaccamento, il disturbo acuto da stress e infine i disturbi correlati a trauma ed eventi stressanti non altrimenti specificati. Per fare diagnosi di PTSD è necessaria la presenza del Criterio A, riguardante l'esposizione al trauma, di quattro criteri sintomatologici (Criterio B, C, D, E), oltre alla durata (Criterio F) e alla compromissione significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Criterio G e H). Sebbene oggigiorno la definizione di trauma nel PTSD comprenda numerosi eventi come le catastrofi naturali e un'ampia serie di esperienze quotidiane traumatiche, nel passato è stato determinante il contesto militare, che ha permesso di studiare, classificare e analizzare a fondo i quadri psicopatologici evidenziati sui soldati. Infatti, in ambito psichiatrico, la Prima Guerra mondiale (1915-1918), ha rappresentato un'importante opportunità nel rilevare l'esistenza di una strana malattia, la nevrosi traumatica o da guerra, di fronte alla quale la psichiatria italiana iniziò a vacillare tra il vecchio e il nuovo. Il vecchio, era rappresentato dall'idea che la malattia mentale fosse determinata da una predisposizione ereditaria; il nuovo, indirizzava ad ammettere, seppur con fatica, che la possibilità del disturbo mentale potesse avere un'origine psichica, di natura emozionale. Sia per la durata sia per la violenza del conflitto, la psichiatria fu obbligata a far fronte ad un'enorme massa di malati mentali provenienti proprio dalle trincee del fronte, massa che necessitava di diagnosi e possibili cure, ancora sconosciute alla medicina di allora. La maggior parte del personale sanitario si trasferì in trincea, e nei manicomi rimasero pochi psichiatri e infermieri che dovettero far fronte al notevole aumento dei ricoveri di soldati, in particolar modo avvenuti successivamente alle vicende del 24 ottobre 1917 – battaglia di Caporetto. Lo scopo di questo studio è quello di investigare la correlazione tra le diagnosi e le caratteristiche sociodemografiche di una popolazione trattata fuori dal manicomio, ovvero in un reparto dell'ospedale universitario pisano del secolo scorso e di provare a fornire materiali utili per ricostruire una storiografia complessa e multifattoriale. L'obiettivo secondario è quello di provare a delineare la logica medica di gestione e dimissione dei ricoverati civili e militari, durante la Prima Guerra Mondiale. I dati analizzati nei registri clinici dal 1907 al 1918 hanno fornito un'immagine della pratica clinica psichiatrica di Pisa estremamente intrecciata con il contesto istituzionale di questa specifica area geografica. La Clinica pisana ha cercato, nel tempo, di neutralizzare i problemi sociali e legali legati alle malattie mentali, salvaguardando sia i pazienti, sia la società durante le fasi più acute della malattia. Il ricovero dei soggetti, che principalmente giungevano dalle aree rurali della provincia di Pisa, risultava essere piuttosto breve e molto spesso mirava ad identificare un membro della famiglia che si assumesse la responsabilità legale del paziente, allo scopo di evitare il confinamento in un manicomio; infatti attraverso questa modalità di gestione del malato, nettamente a sfavore della istituzionalizzazione, è possibile rilevare come la Clinica anticipi l'attuale condotta direzionale della psichiatria territoriale. Tuttavia, nel periodo di sovraffollamento manicomiale, va considerata la sua importante funzione di "filtro" che permetteva il trasferimento di pazienti più cronici presso il Frenocomio di Volterra. Sebbene la cura psichiatrica nella Clinica Pisana, era spesso orientata al trattamento dei disturbi acuti, analizzando i dati dal 1907 al 1918, è stato possibile individuare il razionale decisionale che spingeva a scegliere il trasferimento manicomiale piuttosto che la dimissione in prova. Al riguardo, solamente in alcuni casi, riferiti a pazienti privi di supporto famigliare o con disabilità cognitive (sia senili, congenite o acquisite) invasive e croniche, si optava per il trasferimento in manicomio. Ciò tracciava la realtà di come, nei primi anni del XX secolo, l'affollamento manicomiale fosse rappresentato da pazienti affetti da patologie, che oggi (e in parte anche allora), si potrebbero definire più neurologiche che non psichiatriche. Infatti, come sopra accennato, la tendenza della Clinica di Pisa, nei primi del Novecento, era quella di dimettere il paziente, valutando non solo la diagnosi clinica ma anche le contingenze individuali (demografiche e epidemiologiche) che al tempo stesso, consentivano un buon margine per le eccezioni. In conclusione, la Clinica sceglieva il trasferimento manicomiale, attraverso una attenta valutazione dei fattori clinici e dei fattori sociali, ovvero dando importanza sia alla cronicità del quadro clinico del paziente sia all'isolamento sociale/famigliare (rilevato dalla mancanza di coniuge) piuttosto che alla pericolosità e dall'acuzie. Tuttavia, sempre dall'analisi dei registri clinici, durante la Prima Guerra Mondiale, si evidenzia una logica gestionale dei pazienti differente rispetto al periodo non bellico. Nelle fasi più intense del conflitto, la cura psichiatrica nella Clinica, nei confronti dei malati ricoverati aumentò, così come aumentarono i trasferimenti in manicomio. Tra i pazienti ricoverati, i civili venivano maggiormente trasferiti in manicomio rispetto ai soldati; tuttavia, anche se il campione di soldati ricoverati risulta essere poco significativo, è possibile ipotizzare che l'assenza di un riconoscimento nosografico della patologia causata dall' evento bellico potesse esser la causa di un'assenza di istituzionalizzazione e conseguentemente costringeva i militari a riprendere subito servizio dopo il congedo. Questo dato fa riflettere sulle motivazioni che hanno portato la psichiatria italiana e non, a dubitare dell'eziologia traumatica del disturbo. Sempre nello stesso periodo, i pazienti ricoverati risultarono essere più giovani, in prevalenza uomini e soprattutto la durata dei ricoveri risultò essere più breve. Così, all'aumento dei ricoveri, la Clinica pisana rispondeva riducendo la durata dell'ospedalizzazione, probabilmente da una parte cercava di evitare un conseguente sovraffollamento, dall'altra, nel corso della guerra la Clinica attraversò un periodo di crisi finanziaria che si rifletteva sulla capienza effettiva e sulla capacità di trattenere i pazienti; confermando così la linea l'aumento dei trasferimenti manicomiali e/o del licenziamento dei pazienti. In conclusione, la Grande guerra, sia per la durata, sia per la violenza del conflitto, ha sicuramente fornito l'opportunità, ai medici del tempo, di mostrare l'esistenza di una malattia, fino ad allora priva di etichetta diagnostica specifica. Le analisi dei registri clinici della Clinica Pisana hanno mostrato in maniera coerente con la realtà del tempo, uno spaccato delle difficoltà rilevate dalla psichiatria italiana nella gestione del trauma ad eziologia bellica, dovute principalmente al mancato sviluppo della psichiatria dinamica nel territorio nazionale e alla visione organicistica lombrosiana del disturbo. È oltremodo importante riflettere su come fosse comprensibile, leggere questo disturbo come sabotaggio o scambiarlo per fenomeno che si manifestava in militari che non riuscivano a controllare i propri contenuti psichici. Prima di poter essere considerato in ambito psichiatrico, il concetto di trauma bellico subirà un processo di psicologizzazione lungo e complesso; sarà infatti necessario aspettare gli effetti devastanti della guerra del Vietnam, per permettere lo sviluppo di una nuova diagnosi e per riconoscere la patologia manifestata come Disturbo Post-Traumatico da Stress – PTSD.
Con questo lavoro, ho cercato di raccontare in che modo il movimento gay, lesbico, bisessuale e transessuale italiano ha contribuito a rendere la nostra società più laica, libertaria e nonviolenta. Per farlo, ho analizzato i tre aspetti principali che ne hanno caratterizzato l'agire: - la difesa della laicità dello Stato - La tutela e l'ampliamento delle libertà individuali - E, soprattutto, il carattere nonviolento delle lotte. La tesi si compone di sette capitoli. In quello iniziale, mi sono occupato delle origini del movimento glbt. Le prime notizie riguardanti l'attivismo politico della comunità glbt, arrivano da Firenze. Nel 1512, un gruppo di trenta giovani aristocratici, riuniti sotto il nome di Compagnacci, fece irruzione nel palazzo del governo, costringendo un alto funzionario alle dimissioni e chiedendo che il consiglio comunale abrogasse le condanne di quei sodomiti che erano stati costretti all'esilio o a cui era stato fatto perdere il posto di lavoro a causa della loro omosessualità. Nel 1432, infatti, era stato creato un corpo di guardie speciali (gli ufficiali di notte), incaricate di occuparsi delle accuse, delle prove e dei processi riguardanti i casi di sodomia. Le denunce contro gli omosessuali venivano presentate anonimamente, infilate in apposite cassette sparse per la città. Una delle vittime più illustri di questo sistema fu Leonardo Da vinci, il quale intratteneva una relazione con il giovane Jacopo Santarelli. Anche a Lucca, nel 1448, fu istituita una magistratura simile. Facendo un salto avanti nel tempo, arriviamo all'avvento del fascismo e notiamo che, rispetto al nazismo, viene adottata una strategia diversa contro i gay. Mentre in Germania, sulla base del paragrafo 175 del codice penale (che prevedeva il carcere per gli atti sessuali tra maschi), il nazismo fece arrestare e deportare nei campi di concentramento circa trentamila omosessuali, in Italia fu deciso in un primo tempo (nel 1936, sulla base delle leggi razziali) di prevedere la misura del confino per i gay, in quanto "nemici della razza". Tre anni dopo, però, ci fu un ripensamento, dovuto alla considerazione che perseguitare un gruppo sociale in quanto gruppo, richiedeva che lo si riconoscesse come tale. Quindi l'omosessualità venne depenalizzata non per indulgenza, ma per dimostrare che gli omosessuali non esistevano: gli italiani erano troppo virili per esserlo. Il controllo e la repressione di questo "problema" fu lasciato alla Chiesa cattolica: un sistema più efficace e meno costoso. Nel secondo capitolo ho illustrato come e quando il movimento glbt si è manifestato come gruppo politico. A livello internazionale, la realtà glbt appare per la prima volta in America, in un locale gay di New York (il bar Stonewall, nel Greenwich village), nella notte del 28 giugno 1969. E' lì che prende avvio "la rivolta di Stonewall", ricordata ogni anno in tutto il mondo con i cortei del Pride. Cosa accade? Per la prima volta, gay, lesbiche e trans decidono di ribellarsi ai soprusi della polizia, che frequentemente faceva irruzione nel locale picchiando e schedando i presenti. La rivolta fu generata dal gesto di una diciassettenne transessuale, Silvia Rivera: il lancio di una scarpa col tacco contro uno dei poliziotti. L'uso di quell'"arma" impropria, è l'emblema del carattere atipico e nonviolento che, fin dalle origini, ha caratterizzato l'agire del movimento glbt. In Italia, sulla scia della rivolta di Stonewall, si verificò la prima uscita pubblica del movimento glbt. Era l'aprile del 1972, e a San Remo il Centro Italiano di sessuologia, un organismo di ispirazione cattolica, aveva organizzato un congresso internazionale sulle devianze sessuali, inserendo nel programma una tavola rotonda e molti interventi specificamente dedicati a cause e terapie dell'omosessualità. Il timore di gay e lesbiche era che l'iniziativa servisse a promuovere un disegno di legge contro l'omosessualità, così com'era già accaduto in Spagna, dove la dittatura franchista, nel 1970, aveva prescritto l'obbligo di cura per questo tipo di "malati" attraverso l'internamento in apposite strutture. Così, la mattina del 5 aprile 1972, organizzarono una clamorosa e inedita contestazione, chiedendo aiuto anche a gruppi glbt di altri paesi. Una protesta decisa, ma allo stesso tempo ironica e gioiosa, per dimostrare che anche nel nostro paese si doveva e poteva lottare a viso aperto contro l'omofobia. Il capitolo 3, è dedicato al rapporto tra movimento glbt e nonviolenza. Secondo lo storico e attivista gay Giovanni dall'Orto, il movimento glbt ha scelto di adottare il metodo di lotta nonviolento "per convinzione, non per debolezza". Ho cercato di dimostrare la veridicità di questa affermazione, raccontando alcuni episodi concreti, ed analizzando il rapporto tra il movimento glbt e il movimento delle donne. Con le femministe, il mondo omosessuale ha condiviso la sperimentazione di pratiche e linguaggi nuovi, alternativi rispetto ai metodi di lotta politica tipici degli anni '70 (ma purtroppo in voga ancora oggi) caratterizzati dal ricorso all'uso della forza, allo scontro fisico e ad un lessico preso in prestito dal mondo militare. L'intento comune era di cambiare una società sessuofobica, fondata sul dominio del maschio, sul familismo e sulla morale cattolica. Nel corso degli anni, il movimento glbt ha avuto più di un'occasione per dimostrare che il proprio agire politico è basato interamente sul pensiero e sul metodo nonviolento. Ad esempio, A Padova, nel 2002, alla vigilia del Pride, gli organizzatori si trovarono stretti da specie di tenaglia: da un lato l'organizzazione di estrema destra "Forza Nuova", annunciava una contromanifestazione; dall'altro, i Disobbedienti del nord est, ribattevano che avrebbero impedito quel corteo. Gli esponenti del Pride, si liberarono da quella morsa esprimendo pubblicamente il rifiuto della comunità glbt di indossare l'elmetto e guerreggiare:"Ogni tentativo di arruolarci nella logica maschilista della violenza è sempre fallita. La violenza è l'arma dei nostri avversari, del maschio fallocratico, dell'esercito. Noi siamo l'alternativa a questo modo di essere e di pensare. Noi siamo l'altro mondo che è possibile. Un altro mondo in cui non sarà più la violenza a dettare legge, ma la nonviolenza, la ragione e le ragioni degli esseri umani". Viene espressa in questo modo la convinzione che per perseguire fini giusti, sia necessario adottare mezzi giusti, ossia nonviolenti. Nella storia dell'umanità, invece, si è costantemente trascurato questo rapporto tra mezzi e fini, con la conseguenza che anche certe rivoluzioni, nate per affermare ideali di libertà e giustizia, si sono trasformate in nuovi dispotismi. Nel capitolo 4 ho descritto come sono nate, in quale contesto storico, e come operano le principali associazioni glbt italiane: Arcigay, Arcilesbica e Movimento di Identità transessuale (Mit). L'ultima parte del capitolo, è dedicata invece ai gruppi glbt di Movimento, aventi posizioni più radicali rispetto alla politica dei "piccoli passi" portata avanti da Arcigay. Queste associazioni, presero parte nel 2001 al contro vertice del G8 a Genova e, l'anno seguente, alle manifestazioni contro la guerra in Iraq e al Social Forum Europeo di Firenze, dando vita (insieme a numerose sigle glbt europee) al workshop"Gay, lesbiche, trans e neoliberismo". Da quest'ultimo scaturirono critiche dure e articolate al modello liberista di sviluppo e di società, e la netta opposizione ad ogni guerra, dato che "non c'è differenza tra intervento in Iraq, in Jugoslavia, in Cecenia, quando si sia in grado di vederne le cause reali e gli effetti, che sono sempre morte e distruzione". Nel documento conclusivo, è resa palese la convinzione che la costruzione di "un altro mondo possibile" passa per l'unione di quanti contestano il modello attuale di società: un'aggregazione tra diversi che oltre ad aumentare la forza della lotta favorisce, allo stesso tempo, un interscambio continuo. Il capitolo 5 è dedicato alla soggettività transessuale. Ho cercato di spiegare i concetti di transessualità e di identità di genere, e di illustrare il percorso (molto lungo e impervio, stabilito dalla legge 164/1982), che una persona transessuale deve affrontare per ottenere l'autorizzazione a modificare i propri dati anagrafici in relazione al sesso prescelto. In Italia, a differenza di altri paesi europei, la giurisprudenza maggioritaria non ammette la rettifica dei dati anagrafici (nome e sesso), in assenza dell'intervento di riattribuzione sessuale. Ciò significa che per anni, una persona che ha assunto di fatto i caratteri tipici di una donna, è costretta ad esibire documenti che la presentano come uomo. Sono molti i casi di transfobia (in questo capitolo ho raccontato quelli originati e alimentati dai mass media), che spesso hanno un epilogo tragico: nel periodo 2008-2013, nel nostro paese le trans uccise sono state ventisei, un numero decisamente superiore a quello delle altre nazioni europee, e che fa dell'Italia il secondo paese per numero di vittime in Europa dopo la Turchia. Nel capitolo 6 mi sono concentrato sul World Pride di Roma del 2000, un caso che dimostra la capacità del movimento glbt di sperimentare e di trascendere i conflitti con grande creatività Nonostante fosse stata programmata e annunciata quattro anni prima, la manifestazione rischiò di essere vietata (o fortemente ridimensionata), a causa della concomitanza con il Giubileo della Chiesa cattolica. Il Presidente del Consiglio dell'epoca, Giuliano Amato, intervenendo sul tema nel corso di una seduta della Camera dei Deputati, disse: "purtroppo c'è la Costituzione, che impone vincoli e costituisce diritti", ma vi è il proposito del Governo di "limitare la manifestazione ad un luogo definito, di isolarla dal resto della città". Una precisazione che non soddisfò il cardinale Camillo Ruini, Presidente della conferenza episcopale italiana, che sottolineò: "La nostra richiesta continua ad essere che questa manifestazione non si faccia. Se non verrà accolta saremo dispiaciuti e adombrati". Il contesto era tutt'altro che favorevole, ma il movimento glbt riuscì a entrare in empatia con l'opinione pubblica e a suscitare sostegni significativi. Amos Luzzato, ad esempio, all'epoca presidente dell'Unione delle comunità ebraiche, affermò:"a una frazione minoritaria del paese, da sempre oggetto di discriminazione oggi si contesterebbe il diritto di organizzare, come qualsiasi altro gruppo, una manifestazione nei tempi e nei luoghi prescelti, nel rispetto della Costituzione e delle leggi dello Stato. Esprimiamo la nostra comprensione e solidarietà per questo gruppo umano(.). Nei campi di sterminio (noi con il triangolo giallo, loro con il triangolo rosa), hanno sofferto insieme a noi e con noi quell'indicibile orrore. Sottolineiamo come il rispetto delle minoranze sia sempre stato e e sia oggi più che mai un segnale e una misura dello stato di salute e della democrazia di una società civile". L'8 luglio del 2000, il corteo che si snodò per le vie di Roma, divenne (e lo è ancora oggi, a distanza di 14 anni) il Pride più partecipato che si sia mai svolto in Italia. Come ebbe modo di scrivere Natalia Aspesi su "La Repubblica" "Duecentomila, un milione, non ha importanza. Perché la folla era comunque immensa, e l'aria era quella di una grande festa di fratellanza, di un oceanico e colorato gioco di solidarietà, di un gigantesco raduno familiare"
I ) La Historia de los Tratados:Este año se conmemora los 180 años de la creación del Ministerio de Relaciones Exteriores del Uruguay, buen pretexto para realizar algunas reflexiones sobre la historia de los primeros tratados internacionales negociados y firmados por nuestros diplomáticos a partir de la independencia. Académicos y colegas diplomáticos mucho y muy bien han escrito sobre este tema. Baste recordar a Felix Polleri Carrio, Héctor Gros Espiell, Felipe Paolillo, José Luis Bruno, por citar sólo algunos. Por lo tanto nos limitaremos a dejar constancia en estas breves páginas, de algunas reflexiones sobre lo que significó la aventura extraordinaria de los primeros diplomáticos de la República, que pretendieron, a veces con éxito y otras no tanto, de alcanzar compromisos jurídicos internacionales con las grandes naciones de su tiempo, que le permitieron a la joven República insertarse en la comunidad internacional de la primera mitad del siglo XIX. Enrico Serra, en su "Introduzione alla storia dei Trattati e alla Diplomazia", nos decía que la Historia de los Tratados debía considerarse una materia histórica en cuanto examina el Tratado como un hecho histórico necesario para la valoración de una determinada situación política y social. El Tratado permite registrar un momento conclusivo en las relaciones entre los Estados, una relación de fuerza y de intereses entre dos o más miembros de la comunidad internacional, como lo fueron, por ejemplo el Tratado de Versalles o la Carta de San Francisco, en el siglo pasado, o , meses atrás, el Tratado de Unasur. Los tratados registran la dinámica del momento histórico en el que se negocian y se concluyen, y esta dinámica puede ser espiritual, económica, militar, demográfica, etc. Los tratados "congelan" la dinámica de ese momento histórico, por lo cual fatalmente, en algún momento deberán ser revisados y esa revisión podrá ser pacífica o cruenta, pero al final se culminarán con otro Tratado. Si consideramos estos dos tratados, confrontándolos y resaltando sus diferencias, se pueden valorar las mutaciones ocurridas en las relaciones entre dos o más miembros de la comunidad internacional. En este sentido el estudio de los Tratados se convierte en una fuente histórica, que nos conduce directamente al estudio de la política internacional, que se propone reconstruir el comportamiento de uno o más Estados en el área de la política exterior, comportamiento que encuentra en el Tratado (en su acepción más amplia) la sanción jurídica. Es en este sentido que encaramos la historia de los Tratados; no como un "hecho jurídico" (aunque demás está decir que el conocimiento jurídico y en particular del derecho internacional sean indispensables para valorarlo adecuadamente) sino como un "hecho histórico". En esta misma línea de pensamiento, el Profesor Felipe Paolillo ya afirmaba hace varias décadas, en su "Curso de Historia de los Tratados", que mientras que el Derecho Internacional estudia los tratados como fuente de obligaciones jurídicas internacionales, la historia de los Tratados investiga la realidad histórica que ha provocado la celebración de un Tratado determinado, y la realidad histórica sobre la que es Tratado ha actuado como elemento determinante. Es en esta perspectiva que trataremos de resumir el comportamiento internacional del Uruguay inmediatamente después de su independencia, en relación a los primeros Tratados negociados por una novel Cancillería que debutaba, en momentos muy inciertos y con enormes limitaciones, guiando los primeros pasos de una pequeña nación soberana ubicada en un sub-continente periférico a los centros de poder del mundo de la primera mitad del siglo XIX.II) La sociedad diplomática del siglo XIXEn el siglo XIX se dieron grandes cambios sociales y tecnológicos en Europa que inevitablemente tuvieron un impacto sobre la manera de conducir las relaciones diplomáticas. Tres de ellos parecen tener una relevancia particular. En primer lugar, la política exterior durante ese siglo se fue convirtiendo en tema de interés para la opinión pública, especialmente las clases medias. En segundo lugar, el desarrollo de los medios de comunicación vino a revolucionar las prácticas diplomáticas haciéndolas más rápidas y más seguras. Y con ello el diálogo diplomático se volvió más intenso y más "indiscreto". El tercer acontecimiento fundamental para entender la diplomacia en el siglo XIX, fueron las consecuencias políticas, sociales y económicas de la expansión de Europa. La transformación de un mundo centrado en Europa, a un mundo con fronteras cada vez más lejanas, se realizaba paulatinamente. Por un lado, los ingleses y los ibéricos se habían instalado en el Hemisferio Occidental, donde la mayoría de los Estados ya eran independientes, aunque seguían manteniendo importantes relaciones con Europa por su herencia cultural y comercial. La insaciable demanda de materias primas y de mercados generada por la revolución industrial, sumadas a la atracción ejercida por los productos europeos sobre los nativos de las colonias y de las ex colonias, a la supremacía marítima de Inglaterra y de Francia, y a la convicción de la superioridad moral e intelectual europea, se concretó en una colonización desenfrenada. El Concierto de Naciones, que nació del Congreso de Viena de 1815, y que se mantuvo hasta pasada la mitad del siglo, fue el principal instrumento para regular las crisis políticas de Europa, a través de un sistema de conferencias diplomáticas ad hoc entre las principales potencias y la aceptación del principio del equilibrio de poder entre las mismas. Fue en ese marco que la práctica diplomática europea fue burocratizándose y profesionalizándose a través de Ministerios dedicados exclusivamente a la conducción de las relaciones internacionales y al manejo de la diplomacia. Esas Cancillerías europeas, sin embargo, permanecieron siendo un coto reservado de la aristocracia, casi a todo lo largo del siglo XIX, a pesar de que la creciente democratización de la vida política en esos países comenzaba a abrir espacios a nuevas clases sociales para que pudiesen ser formadas y aspirar a ingresar al servicio diplomático. Aparecerán así en las principales capitales europeas las primeras academias diplomáticas, donde los jóvenes se formaban en derecho internacional, lenguas extranjeras, economía , etc.Los diplomáticos europeos y estadounidenses realizaron, después del Congreso de Viena de 1815, las primeras tentativas para regularizar mediante Tratados, sus inmunidades y privilegios, principalmente entre los nuevos Estados que nacían en América Latina y en el Medio y Extremo Oriente. Estos Tratados ya consagraban el principio de reciprocidad como la base de los privilegios e inmunidades, e incluían también la cláusula de la nación más favorecida. Esta cláusula sirvió como instrumento de los europeos para obtener mayores concesiones a los nuevos Gobiernos de América Latina o de Asia, a cambio del reconocimiento internacional de su independencia, tan necesario para estos nuevos países: la cláusula también fue utilizada para obtener privilegios territoriales por parte de las potencias europeas en los Tratados que ya negociaban con gran profesionalidad. Estos Tratados nunca eran equitativos y proporcionaban, casi siempre, pretextos para que las naciones más poderosas intervinieran a su voluntad en los países más débiles. La mayor parte de las intervenciones diplomáticas europeas exigiendo compensación por daño a sus intereses económicos en los países latinoamericanos, se basaban en violaciones al derecho de los Tratados, derecho de los Tratados siempre interpretado según la conveniencia de las grandes potencias. Sin embargo, los países latinoamericanos a lo largo del siglo XIX no sufrieron las consecuencias de los Tratados suscritos por las potencias europeas y los Estados Unidos con los países africanos y del Extremo Oriente (régimen de las Capitulaciones o Tratados impuestos después de una victoria), que perduraron hasta el siglo XX. Es en este contexto que la novel diplomacia oriental debe moverse para garantizar su identidad internacional, por supuesto que con medios infinitamente más precarios que los que disponían las diplomacias de las grandes naciones, y por ello digna de toda nuestra admiración.III) El Primer Tratado.A pesar de que estas reflexiones corresponden a los primeros Tratados negociados por la República después de 1830, no podemos dejar de recordar aquí el primer Tratado celebrado entre el "ciudadano" José G. Artigas, Protector de los Pueblos Libres, y el Delegado del Comodoro Bowler, jefe de las Fuerzas Navales de su Majestad Británica en América del Sur, el Teniente de Navío Edgard Frankland, y firmado en Purificación en agosto de 1817. El Tratado sobre seguridad del libre comercio entre Inglaterra y los "Puertos de la Banda Oriental del Río de la Plata" fue también firmado – como "testigo de honor", según el léxico que emplearíamos hoy en la Cancillería – por el Cónsul británico Robert Staples. El Tratado se negoció en un mes (julio-agosto de 1817) tiempo récord para un tratado de esta importancia. El texto del Tratado debió ser bilingüe dado que junto a Artigas había quienes conocían el idioma inglés lo suficiente como para una correcta interpretación. El profesor Simón Lucuix, que ha estudiado muy bien este Tratado, dice que estas personas podrían haber sido un médico inglés, llamado Allen, que acompañó un tiempo a Artigas, o su secretario Miguel Barreiro. El Tratado consagraba dos principios fundamentales: la libertad de comercio y la libertad de navegación de los ríos comprendidos en el dominio oriental de Artigas, principios que han perdurado en nuestra política internacional hasta hoy. Aunque se ignora si este Tratado fue aprobado por el Foreign Office, Artigas entendió que el mismo estaba íntegramente en vigor con la sola firma del Teniente Frankland y del Cónsul Staples. El hecho es que a partir de su firma, el intercambio comercial entre Inglaterra y la Banda Oriental, y aún otras del Protectorado Artiguista, se rigió por las normas establecidas en dicho Tratado. Más interesante aún, y es bueno recordarlo, es el hecho de que el entonces Cónsul de los Estados Unidos en Buenos Aires, Thomas Halsey, visitó a Artigas en Purificación en el momento de la firma del Tratado con Inglaterra y fue él quien seguramente lo difundió ante sus autoridades de Washington, por la importancia que dicho instrumento revestía para el comercio de la época y las consecuencias que el mismo podía provocar en las Provincias Unidas, España y Portugal. Lo curioso es que el propio presidente Monroe informó al Congreso de su país sobre este Tratado y poco después los periódicos de Boston, Baltimore y Filadelfia le dieron publicidad in extenso y formularon comentarios tendientes a propiciar la celebración de acuerdos similares para garantizar una relación comercial más permanente y beneficiosa de los Estados Unidos con estas regiones y no permitir que el comercio inglés conquistara un posición de privilegio en el Río de la Plata. En nuestro país no se le ha dado toda la importancia que este Tratado reviste para entender mejor las relaciones comerciales de Inglaterra con los pueblos que estaban bajo el Protectorado de Artigas. El hecho es que este Tratado de 1817 sirvió de modelo a los primeros Tratados de Paz, Comercio y Navegación que concretó Inglaterra con los demás países americanos a partir de 1825. Recordemos que el Uruguay, como Nación independiente, recién firmaría un Tratado de Comercio con Inglaterra en 1842, veintisiete años después del que firmara Artigas con esa nación en Purificación.*Prof. Embajador Agustín Espinosa Catedrático de Relaciones Internacionales e Integración. FACS - ORT
This thesis focuses on Lombard Southern Italy during the early middle ages and it analyses the history of political and social conflicts between the eighth and ninth century, taking into account the transformation of Lombard political power and social practices in this area. Starting from the eight-century judicial sources, this work explores political and social competition in the Beneventan region by taking into account its geographical position at the center of the Mediterranean see. Southern Italy was considered as a periphery, and sometimes as a frontier, by both the Carolingian and Byzantine empires, and endured almost a century of Muslims' attempts to conquer the peninsula. The first chapter focuses on the ducal period and investigates the formation and consolidation of the duke of Benevento's political authority before 774. During the seventh and eight centuries, the dukes developed a military and political autonomy in Southern Italy. This was due to the geographical position of the Duchy of Benevento in the Lombard Kingdom: it was far from Pavia, the king's capital city, and it was relatively isolated from other Lombard territories. Since a dynasty was established here as early as the seventh century, these dukes developed a strong and precocious political consciousness. As a result, they were particularly concerned with the formal representation of their authority, which is early attested in both coinage and diplomas. In this chapter, the analysis of the eight-century judicial records opens two important perspectives on the duke of Benevento's practices of power. Firstly, judicial assemblies were one of the most important occasions for the duke to demonstrate and exercise his authority in a public context. In contrast to all other Lombard dukes, who rendered judgement together with a group of officers, the duke of Benevento acted alone before the competing parties. By behaving exactly as the Lombard king would in Pavia, the duke was able to utilise the judicial domain as a sort of theatre in which to practice, legitimise and represent his own public authority in front of the local aristocracy. Secondly, the analysis of seven judicial case-studies suggests that the duke was not simply the sole political authority in Benevento but also the leading social agent in the whole Lombard southern Italy. Almost all the disputes transmitted by the twelfth-century cartularies implied a ducal action, donation or decision in the past, which became the main cause for later conflicts between the members of the lay élite and the monastic foundations of the region. Consequently, the analysis of judicial conflicts reveals more about the duke of Benevento's strategies and practices of power than about the lay and ecclesiastical élites' competition for power. Since there are no judicial records between 774 and the last decade of the ninth century, both conflicts and representations of authority in Lombard Southern Italy are analysed through other kinds of sources for this period. Chronicles, hagiographies, diplomas, and material sources are rich in clues about political and social competition in Benevento. By contrast, the late-ninth-century judicial records transmitted by cartularies and archives are quite different from the eighth-century documents: they have a bare and simple structure, which often hides the peculiarities of the single dispute by telling only the essentials of each conflict and a concise final judgement. In contrast to the sources of the ducal period, the ninth- and tenth-century judicial records often convey a flattened image of Lombard society. Their basic structure certainly prevents a focus on the representation of authority and the practices of power in southern Italy. On the contrary, these fields of inquiry are crucial to research both competition within the Beneventan aristocracy during the ninth century, and the relationship between Lombards and Carolingian after 774. After the fall of the Lombard Kingdom in 774, Charlemagne did not complete the military conquest of the Italian peninsula: the Duchy of Benevento was left under the control of Arechis (758-787), who proclaimed himself princeps gentis Langobardorum and continued to rule mostly independently. The confrontation and competition with the Frankish empire are key to understanding both the strengthening of Lombard identity in southern Italy and the formation of a princely political authority. The second account the historiography on the Regnum Italiae, the third section of this chapter focuses precisely on the ambitions of Louis II in Southern Italy and it analyses the implication that the projection of his rulership over this area had in shaping his imperial authority. Despite Louis II's efforts to control the Lombard principalities, his military and political experience soon revealed its limits. After the conquest of Bari in 871, Prince Adelchi imprisoned the emperor in his palace until he obtained a promise: Louis II swore not to return to Benevento anymore. Although the pope soon liberated the emperor from this oath, he never regained a political role in Southern Italy. Nevertheless, his prolonged presence in the region during the ninth century radically changed the political equilibrium of both the Lombard principalities and the Tyrrhenian duchies (i.e. Napoli, Gaeta, Amalfi). The fourth section focuses firstly on the competition between Louis II and Adelchi of Benevento, who obstinately defined his public authority in a direct competition with the Carolingian emperor. At the same time, the competition within the local aristocracy in Benevento radically changed into a small-scale struggle between the members of Adelchi's kingroup, the Radelchids. At the same time, some local officers expanded their power and acted more and more autonomously in their district, such as in Capua. When Louis II left Benevento in 871, both the Tyrrhenian duchies and the Lombard principalities in Southern Italy were profoundly affected by a sudden change in their mutual relations and even in their inner stability. The competition for power and authority in Salerno and Capua-Benevento also changed and two different political systems were gradually established in these principalities. Despite the radical transformation of internal competition and the Byzantine conquest of a large part of Puglia and Basilicata at the end of the ninth century, the Lombard principalities remained independent until the eleventh century, when Southern Italy was finally seized by Norman invaders. // --- // RIASSUNTO: La presente tesi si occupa dell'Italia meridionale longobarda durante l'alto medioevo e analizza la storia dei conflitti politici e sociali tra l'VIII e il IX secolo tenendo in considerazione le trasformazioni del potere politico longobardo e delle pratiche sociali in quest'area. Partendo dalle fonti giudiziarie di secolo VIII, questa tesi esplora dunque la competizione politica e sociale nella regione beneventana senza prescindere dalla sua posizione al centro del Mediterraneo. L'Italia meridionale fu considerata una periferia, talvolta una vera e propria frontiera, sia dall'impero carolingio sia da quello bizantino, e resistette per oltre un secolo ai tentativi musulmani di conquistare la penisola. Il primo capitolo si occupa del periodo ducale e indaga la formazione e il consolidamento dell'autorità politica del duca di Benevento prima del 774. Durante i secoli VII e VIII, i duchi svilupparono un'ampia autonomia militare e politica in Italia meridionale. Ciò era legato alla posizione geografica di Benevento nel quadro del regno longobardo: il ducato era lontano da Pavia, la capitale del re, ed era relativamente isolato dagli altri territori longobardi. I duchi di Benevento svilupparono una forte e precoce coscienza politica, forse anche in conseguenza dello stabilirsi di una dinastia al potere già a partire dal VII secolo. Essi erano conseguentemente particolarmente interessati nella rappresentazione formale della loro autorità pubblica, che è attestata precocemente sia nella monetazione sia nei diplomi. L'analisi dei documenti giudiziari di secolo VIII apre due importanti prospettive di ricerca sulle pratiche del potere nel ducato beneventano. In primo luogo, le assemblee giudiziarie erano per il duca una delle occasioni più importanti per dimostrare e esercitare la sua autorità in un contesto pubblico. Contrariamente agli altri duchi longobardi, che vagliavano le ragioni della disputa ed emettevano un giudizio insieme a un gruppo di ufficiali, quello beneventano agiva da solo di fronte alle parti. Comportandosi allo stesso modo dei sovrani longobardi a Pavia, il duca utilizzava l'ambito giudiziario come una sorta di teatro in cui praticare, legittimare e rappresentare la sua autorità pubblica di fronte all'aristocrazia locale. In secondo luogo, l'analisi di sette casi giudiziari permette di ipotizzare che il duca non fosse solo l'unica autorità politica a Benevento, ma anche il principale agente sociale in tutto il Mezzogiorno longobardo. Tutte le dispute riguardanti il secolo VIII e trasmesse dai cartulari del secolo XII implicano infatti un'azione del duca, una donazione o una decisione nel passato che in seguito diventa causa di conflitto tra i membri dell'élite laica e le fondazioni monastiche della regione. Conseguentemente, l'analisi dei conflitti giudiziari è capace di rivelare molto di più sulle strategie e le pratiche del potere dei duchi di Benevento che sulla competizione per il potere nelle élite laiche ed ecclesiastiche della capitale e del territorio. Poiché non vi sono documenti giudiziari riguardanti il periodo che va dal 774 alla fine del secolo IX, sia la conflittualità sia la rappresentazione dell'autorità pubblica nell'Italia meridionale longobarda sono analizzate per il periodo successivo attraverso altre tipologie di fonti. La cronachistica, i testi agiografici, i diplomi principeschi e le fonti materiali sono infatti ricchissimi di elementi sulla competizione politica e sociale a Benevento. I documenti giudiziari del tardo secolo IX trasmessi dai cartulari e dagli archivi meridionali sono però molto differenti dai documenti di secolo VIII. Essi presentano una struttura semplice e formalizzata, che spesso nasconde le peculiarità della singola disputa esprimendo solo l'essenziale di ciascun conflitto insieme ad un coinciso giudizio finale. Contrariamente alle fonti del periodo ducale, i giudicati dei secoli IX e X offrono spesso solamente un'immagine appiattita della società longobarda. La loro struttura e il loro contenuto formalizzato impediscono pertanto di portare avanti un'indagine della rappresentazione dell'autorità e delle pratiche di potere longobardo in Italia meridionale. Questi temi rimangono invece centrali per una ricerca sulla competizione all'interno dell'aristocrazia beneventana durante la metà del IX secolo e sulla relazione tra Longobardi e Carolingi dopo il 774. 8 Dopo la caduta di re Desiderio nel 774, Carlo Magno non completò la conquista militare della penisola italiana: il ducato di Benevento fu lasciato al controllo di Arechi (758-787), che nello stesso anno si proclamò princeps gentis Langobardorum e continuò a regnare in Italia meridionale pressoché indipendentemente. Il confronto e la competizione con l'impero franco sono una delle chiavi per comprendere sia il rafforzamento dell'identità longobarda in Italia meridionale sia la formazione dell'autorità politica principesca. Il secondo capitolo si concentra precisamente sulla transizione dal ducato al principato di Benevento e sul conflitto con i Carolingi tra il secolo VIII e IX. Da un lato Carlo Magno utilizzò il titolo di rex Langobardorum, implicando con quest'ultimo un'autorità politica che si estendeva sull'intero regno longobardo, quindi anche su Benevento. Dall'altro lato, Arechi present sè stesso come l'erede della tradizione longobarda agendo come un vero e proprio sovrano longobardo, totalmente autonomo, in Italia meridionale. Ciononostante, le relazioni tra il principe di Benevento e il re franco rimasero ambigue fino alla sottomissione formale di Arechi nel 787. Una nuova autorità politica, quella principesca, fu plasmata tra 774 e 787 sia in continuità con la tradizione beneventana di autonomia politica sia in opposizione a quella dei sovrani carolingi. La monetazione e i diplomi insieme con l'attività edilizia ebbero un ruolo di primo piano nel dare forma e affermare questo nuovo tipo di autorità politica in Italia meridionale. La seconda e la terza sezione del capitolo si concentrano specificatamente sul progetto politico di Arechi e di suo figlio, Grimoaldo III (787-806). Le fondazioni monastiche di Santa Sofia di Benevento e San Salvatore in Alife furono al centro della strategia di distinzione messa in atto da Arechia prima e dopo il 774. La storiografia ha già da tempo individuato la somiglianza tra la fondazione regia di San Salvatore di Brescia e quella di Santa Sofia di Benevento. Tuttavia, Santa Sofia è stata identificata non solo come una fondazione familiare ma anche come il "santuario nazionale dei longobardi" in Italia meridionale. Prendendo in considerazione il progetto politico di Arechi e la rappresentazione della sua autorità pubblica, la seconda sezione del secondo capitolo si pone come obiettivo quello di riconsiderare sia la dimensione familiare e politica sia il ruolo religioso di Santa Sofia nel principato di Benevento. La stessa sezione analizza anche la ri-fondazione della città di Salerno, che ebbe un ruolo davvero rilevante nel dare forma all'autorità politica di Arechi. Dopo il 774, Salerno divenne sostanzialmente una capitale alternativa a Benevento, in cui il principe poté rappresentare il suo nuovo ruolo politico in Italia meridionale in una cornice differente. Le ricerche archeologiche relative all'area del palazzo salernitano, del quale è sopravvissuta solamente la chiesa di San Pietro a Corte, hanno rivelato alcune importanti caratteristiche della rappresentazione pubblica a Salerno: l'autorità politica di Arechi intendeva combinare la tradizione longobarda con una dimensione locale e anche con il passato classico. Inoltre, sia Arechi sia Grimoaldo III affidarono a Salerno – e non a Benevento – la propria memoria familiare decidendo di essere seppelliti nella cattedrale di questa città. Una delle più importanti opere cronachistiche del Mezzogiorno longobardo, il Chronicon Salernitanum, pone peraltro in evidenza come la città di Salerno abbia conservato fino al secolo X (e oltre) la memoria della prima dinastia principesca nonché quella della nascita del principato longobardo, integrandola come parte della propria identità cittadina. Tra i secoli VIII e IX, le due abbazie più prestigiose dell'Italia meridionale longobarda – San Benedetto di Montecassino e San Vincenzo al Volturno – si ritrovarono nella zona di frontiera con i territori ora sotto l'autorità carolingia e furono gradualmente influenzate dal nuovo quadro politico. Entrambe le fondazioni incrementarono il loro prestigio durante il periodo di instabilità che seguì la conquista franca del regno longobardo (774-787). A cavallo tra i secoli VIII e IX i monasteri di Montecassino e San Vincenzo agirono in modo ampiamente autonomo, relazionandosi sia con le autorità politiche carolingie sia con la società e le autorità longobarde. In alcuni casi ciò portò a delle tensioni e a dei conflitti aperti all'interno delle comunità monastiche, come nel caso dell'indagine a carico dell'abate Poto di San Vincenzo al Volturno. L'ultima sezione del secondo capitolo si concentra su queste due comunità monastiche e su come si rivolsero alla protezione carolingia come una delle possibilità per attraversare questo periodo di incertezza politica mantenendo un ruolo prestigioso e rilevante. La relazione con i sovrani carolingi coesistette comunque sempre con il legame con la società longobarda, che rimase una parte essenziale nella vita e nella memoria dell'abbazia. Fu però solo alla fine del secolo VIII che queste fondazioni iniziarono a ricevere un numero di donazioni davvero ragguardevole da parte 9 longobarda. Dal canto loro i sovrani franchi cercarono di diventare il punto di riferimento politico per quest'area di frontiera conferendo diplomi di conferma e immunità a entrambe le abbazie, diplomi che in Italia meridionale avevano però un ruolo prevalentemente performativo: essi creavano, rappresentavano e memorializzavano l'autorità pubblica e il prestigio di coloro che emettevano questi documenti e di coloro che li ricevevano. La relazione instaurata da Carlo Magno e dai suoi successori con questi monasteri ebbe però conseguenze sul lungo termine sull'immagine che le comunità intesero dare di sé, che gradualmente si spostò dal passato longobardo al prestigio dei sovrani carolingi, quindi dell'impero. Dopo la morte di Arechi nel 787, gli ambasciatori longobardi richiesero il ritorno a Benevento di suo figlio, Grimoaldo, che era tenuto in ostaggio alla corte carolingia. Carlo Magno impose però due condizioni a questo proposito: i Longobardi meridionali dovevano tagliarsi barba e capelli ovvero liberarsi dei loro tratti identitari, e includere il nome del re franco nella monetazione e nella datazione dei diplomi. Grimoaldo III mise in atto quest'ultima richiesta, ma dopo un breve lasso di tempo iniziò a comportarsi come un sovrano indipendente. Le campagne militari condotte dal Pipino, figlio di Carlo Magno e re d'Italia, non riuscirono a portare il principato di Benevento sotto l'autorità franca e l'interesse dei Carolingi verso l'area scemò, perlomeno temporaneamente. L'Italia meridionale poté dunque rafforzare la propria identità longobarda e portare avanti politiche autonome. Il terzo capitolo si concentra sulla competizione politica all'interno dell'aristocrazia beneventana durante la prima metà del secolo IX. Dopo l'accordo con i Carolingi dell'812, l'élite locale rafforzò la propria posizione nella capitale espandendo la propria influenza sul palatium del principe. probabilmente, i membri dell'aristocrazia beneventana non intesero mai ottenere il titolo principesco per sé, almeno non in questo periodo. Essi preferirono cercare di influenzare le scelte del principe così da ottenere uffici pubblici e rendite, che avevano l'obiettivo di confermare lo status sociale dei membri dell'élite, di mantenere e di espandere il loro potere nel cuore del principato. La prima sezione si occupa del principato di Grimoaldo IV (806-817) e sottolinea la debolezza dell'autorità pubblica di quest'ultima a fronte delle pressioni e delle ambizioni dell'aristocrazia locale. Una congiura pose fine al suo regno nell'817, ma la competizione all'interno dell'élite beneventana continuò anche durante i principati di Sicone (817-832) e Sicardo (832-839), diventando peraltro più violenta. La seconda sezione di questo capitolo ha l'obiettivo di identificare le strategie familiari e la rete di relazioni attivata da questi due principi allo scopo di rafforzare il loro potere politico su Benevento e di bilanciare le aspirazioni delle aristocrazie locali. Il legame familiare di Sicardo con uno dei più importanti gruppi parentali di Benevento, quello dei Dauferidi, creò indubbiamente un'asimmetria significativa nell'arena politica dell'Italia meridionale longobarda. il suo matrimonio con Adelchisa fu cruciale nello stabilizzare il suo potere e anche nel legittimare la sua autorità nella capitale. Il sistema di alleanze di Sicardo cambiò però radicalmente le modalità della competizione politica locale: esso impediva a tutti i membri dell'aristocrazia beneventana che non facessero parte del network familiare principesco di accedere al potere. In tal senso, le alleanze ricercate da Sicardo furono direttamente responsabili della successiva guerra civile (839-849). Non fu comunque solo la lotta di fazioni longobarda a portare alla divisione del principato di Benevento nell'849, ma anche un rinnovato interesse dei Carolingi per il Mezzogiorno, che è al centro del quarto e ultimo capitolo della tesi. La terza sezione del terzo capitolo analizza la rappresentazione dell'autorità pubblica dei Siconidi e si interessa in particolare delle strategie di distinzione messe in atto da questi due principi nella città capitale. Contrariamente alla precedente dinastia di duchi e principi, Sicone e Sicardo costruirono una relazione privilegiata con la cattedrale di Santa Maria in Episcopio, che precedentemente aveva invece un ruolo politico limitatissimo a Benevento e anche religioso. Entrambi questi principi traslarono nella cattedrale tutte le reliquie che sottrassero a Napoli e ad Amalfi durante le loro campagne militari. Inoltre, Siconde decise di essere inumato in questa chiesa, che ospitò anche le sepolture dei principi successivi fino alla fine del secolo IX. I furta sacra compiuti dai Siconidi e la relazione stabilita con Santa Maria in Episcopio produsse una trasformazione devozionale nella capitale. Conseguentemente, anche il ruolo della fondazione arechiana, Santa Sofia di Benevento, cambiò tanto che questo monastero femminile perse parte della sua funzione sociale e religiosa a Benevento. Al contrario, la cattedrale accrebbe in potere e ambizioni, iniziando a presentarsi in associazione con il potere pubblico beneventano. Un testo 10 agiografico composto nella prima metà del IX secolo, la Vita Barbati episcopi Beneventani, sembra voler esprimere e affermare precisamente questo nuovo ruolo sociale e religioso del vescovo nell'Italia meridionale longobarda. L'ultima sezione del capitolo esamina brevemente l'ascesa di Landolfo di Capua e dei suoi discendenti secondo quanto già messo in evidenza dalla recente storiografia. Landolfo approfittò della debolezza principesca e della competitività propria di Benevento per costruire un potere locale autonomo nella circoscrizione da esso amministrata. Il quarto e ultimo capitolo completa l'esame della competizione politica beneventana analizzando nel dettaglio le dinamiche del conflitto di fazioni longobardo. La prima sezione presenta il contesto politico che l'imperatore Ludovico II dovette affrontare la prima volta che scese in Italia meridionale mentre il secondo si concentra sul progetto di conquista portato avanti durante il secolo IX nella penisola italiana da gruppi di guerrieri musulmani. Dopo il sacco di Roma dell'842, Ludovico II diresse cinque campagne in Italia meridionale per eliminare l'emirato di Bari e prevenire nuovi attacchi da parte musulmana via mare. Supportato dal papa e dall'aristocrazia romana, l'imperatore carolingio costruì la sua nuova autorità imperiale sul ruolo di protettore della Cristianità contro i musulmani. Le campagne militari di Ludovico II furono però connesse anche alle sue ambizioni politiche in Italia meridionale. Dopo essere intervenuto nella guerra civile longobarda e aver stabilito la divisione del principato di Benevento nell'849, egli volle esercitare un controllo maggiore su entrambi i principati longobardi imponendo la propria autorità politica attraverso la sua presenza fisica nel Mezzogiorno. Partendo da quanto già messo in evidenza dalla storiografia per quanto riguarda il Regnum Italiae, la terza sezione del capitolo prende in considerazione precisamente le ambizioni di Ludovico II in Italia meridionale e analizza le implicazioni che esse ebbero nella costruzione ideologica sottesa alla sua autorità imperiale. Nonostante gli sforzi di Ludovico II per controllare i principati longobardi, l'esperienza militare e politica del sovrano franco rivelò ben presto i propri limiti. Dopo la conquista di Bari nell'871, il principe Adelchi di Benevento imprigionò l'imperatore nel suo palazzo fino a che non ottenne da parte di quest'ultimo la promessa di non ritornare mai più a Benevento. Nonostante il papa liberò ben presto Ludovico II dal suo giuramento, quest'ultimo non riuscì più ad aver un ruolo politico rilevante nel Mezzogiorno. La sua prolungata presenza in questa regione durante il secolo IX cambiò radicalmente gli equilibri politici che governavano sia i principati longobardi sia i ducati tirrenici (Napoli, Gaeta, Amalfi). La quarta sezione si occupa in primo luogo del conflitto tra Ludovico II e Adelchi di Benevento, che cercò ostinatamente di definire la sua autorità pubblica in questa competizione con l'imperatore carolingio. Allo stesso tempo, la competizione interna all'aristocrazia beneventana cambiò radicalmente, approdando a un dissidio di piccola scala tra i membri del gruppo parentale di Adelchi, i Radelchidi. In questo stesso periodo alcuni ufficiali locali espansero il loro potere agendo in modo sempre più autonomo nel loro distretto, così come era già successo a Capua. Quando Ludovico II lasciò Benevento nell'871, sia i ducati tirrenici sia i principati longobardi in Italia meridionale subirono le conseguenze dell'uscita di scena dell'imperatore, sia per quanto riguarda le loro relazioni reciproche sia per la loro stabilità interna. La competizione per il potere e l'autorità a Salerno e Capua-Benevento cambiò a sua volta e due differenti sistemi politici furono gradualmente stabiliti in questi principati. nonostante la trasformazione radicale della competizione interna e la conquista bizantina di una larga parte di Puglia e Basilicata alla fine del secolo IX, i principati longobardi rimasero indipendenti fino al secolo XI, quando l'Italia meridionale fu infine conquistata dai Normanni.
Dottorato di ricerca in Storia d'Europa: società, politica, istituzioni (XIX - XX secolo) ; La ricerca realizzata ha inteso studiare, in un'ottica di lungo periodo e in una prospettiva complessiva, ciò che ha rappresentato l'esperienza del fascismo in un contesto territoriale periferico e non omogeneo, di cui è espressione quel segmento dell'Umbria meridionale costituito in provincia nel gennaio 1927. Tale area si è rivelata un case study esemplare, in grado di offrire interessanti spunti interpretativi. In effetti, all'unico grande polo industriale della provincia, compreso nel territorio della conca ternana, si contrappone la restante parte del territorio provinciale, comprendente città come Orvieto e Amelia, contrassegnate da consolidate relazioni con le regioni limitrofe, espressione di un'Umbria verde, agricola e mezzadrile, ma anche francescana, terra d'arte, di misticismo, ritenuta dalla pubblicistica di regime "cuore" dell'Italia fascista. A partire da ciò, si è creduto opportuno impostare la ricerca attorno a tre questioni principali, ritenute essenziali per cogliere aspetti e dinamiche della società locale nel ventennio mussoliniano. Per fare questo è stata definita una griglia interpretativa funzionale a verificare il ruolo del Pnf nel quadro del rapporto centro-periferia, continuità-rottura. Si è così puntato a esaminare come il fascismo abbia influito sui processi di formazione e consolidamento dei ceti dirigenti locali, verificandone la capacità di rapportarsi con le vecchie élites, di promuoverne di nuove o, magari, di fare coesistere entrambe. Si è poi cercato di approfondire il ruolo che il partito ha svolto in ambito locale, la sua capacità di inserirsi nelle diverse dinamiche territoriali, di creare e controllare reti clientelari e, soprattutto, di rapportarsi con le due realtà che rimangono fuori dal suo controllo, il grande gruppo polisettoriale rappresentato dalla "Terni" polisettoriale di Bocciardo e la Chiesa locale, il tutto al fine di conseguire i propri obiettivi totalitari. Infine, si è affrontata la questione del consenso. In questo senso, è stato preso in considerazione non soltanto il ruolo della violenza attuata dal fascismo per conquistare il potere e la stessa azione repressiva dispiegatasi negli anni del regime, che si dimostra concreta e reale come è normale in una situazione di dittatura, ma si è provato a fare luce sul dissenso e sulle aree di rassegnazione o di consenso tiepido che sembrano persistere nella società locale. Nel procedere si è poi cercato di coniugare la storia politicoistituzionale con quella sociale e in parte economica, attraverso un costante lavoro di analisi e incrocio delle fonti studiate, scelta ritenuta utile per conseguire gli obiettivi prefissati. Certamente, la riflessione sulle origini, l'affermazione, il consolidamento del fascismo in provincia di Terni, offre sostanziali conferme a quanto una parte della storiografia aveva proposto. Nell'Umbria meridionale il fascismo, nei suoi vertici, sorge e si afferma come punto d'incontro dei ceti dominanti tradizionali. Esso si afferma in quanto strumento della reazione agraria e dei gruppi industriali monopolistici di 2 fronte alla conflittualità contadina e operaia e al dilagare del socialismo. La sconfitta delle élites politiche tradizionali alle elezioni politiche del 1919 e a quelle amministrative del 1920, che seguiva l'effervescenza sociale del biennio rosso; la stipula del patto colonico del 1920 sfavorevole per gli agrari; la stessa esperienza, sebbene breve e contraddittoria, dell'occupazione delle fabbriche, sullo sfondo di una situazione economica difficile, ne determina la reazione, che si concretizza per l'appunto nell'adesione al fascismo. Dapprima nella versione squadrista, capace di sconfiggere sul piano militare gli oppositori, anche grazie al diffuso sostegno degli apparati di sicurezza dello Stato, quindi come blocco elettorale e nuova struttura politica in grado di conquistare il potere, il fascismo si configura come una sorta di union sacrée contro il "bolscevismo", in cui confluiscono conservatorismo agrario ma anche impulsi industrialisti e modernizzatori. Più concretamente, esso viene accorpando tutte quelle correnti politiche, contrapposte tra loro nel primo quindicennio del secolo, che avevano costituito il frastagliato universo giolittiano. In questo senso, come l'analisi dei vertici del Pnf provinciale e degli amministratori locali ha permesso di verificare, sino al 1927 a essere protagonisti sulla scena politica locale sono le forze che tradizionalmente facevano parte del blocco agrario. In primo luogo i proprietari terrieri, molti dei quali appartenenti alla nobiltà, a cui si affiancano esponenti della borghesia delle professioni, le cui proprietà erano cresciute a cavallo tra Ottocento e Novecento, nonché alcuni settori espressione diretta del mondo rurale, come gli agenti di campagna, i fattori, ma anche quei contadini che nei primi anni venti erano riusciti ad accedere alla proprietà della terra. In provincia di Terni quindi, dalla conquista fascista sino all'introduzione della riforma podestarile ma, in gran parte, anche dopo, la presenza ai vertici delle amministrazioni municipali e di quella provinciale di esponenti del notabilato locale, essenzialmente aristocratici, proprietari terrieri, professionisti, si rivela dato costante che permette di accomunare la provincia di Terni a realtà come la Toscana, l'Emilia-Romagna e, anche, a parte dell'Italia meridionale. L'attuazione della riforma podestarile, con le prerogative concesse al prefetto nella nomina dei vertici delle amministrazioni comunali, non sembra variare di molto la situazione, almeno nella prima fase di attuazione della riforma. Come è emerso nei comuni della provincia di Terni, il criterio seguito dai prefetti per l'individuazione dei podestà era connesso con la rilevanza sociale ed economica riconosciuta in una comunità ai candidati alla carica che, senza dubbio, un titolo nobiliare e una professione adeguata erano in grado di assicurare, anche magari a scapito della mancanza di qualche requisito previsto dalla legge istitutiva della riforma podestarile. In questo senso, sembra dunque perpetuarsi un modello burocratico e ottimatizio insieme, grazie al quale il fascismo intendeva presentarsi alle comunità locali con un volto rassicurante, al fine di accattivarsi il favore della popolazione. L'analisi prosopografica dei profili relativi a presidi, consultori provinciali, podestà, membri delle consulte municipali, per il periodo 1926-1943, ha reso possibile definire un quadro che vede sostanzialmente confermata l'analisi fatta in una prospettiva nazionale da Luca Baldissara ormai più di una decina di anni 3 fa1. E' cosi emerso il carattere di classe della rappresentanza politico-amministrativa fascista in questi anni, sebbene con alcune differenze effetto delle specificità socioeconomiche caratterizzanti l'area esaminata. Nello specifico, l'esame condotto sul corpus di 147 amministratori (78 podestà e 69 commissari prefettizi) che si succedono nei Comuni della provincia nell'arco di tempo considerato, ha permesso di tracciare l'identikit di un funzionario con un'età compresa tra i quaranta e i cinquanta anni; in possesso di un titolo di studio elevato (laurea o diploma di scuola superiore); in cui la proprietà della terra riveste un ruolo essenziale, coerentemente al tessuto socio-economico prevalente in provincia, e in cui dal punto di vista della professione esercitata appare predominante la figura del libero professionista (in genere avvocato e notaio). Forte è poi il legame dei podestà con il Pnf, più della metà del campione individuato risulta nel partito dal biennio 1920-1922; al tempo stesso, la maggioranza delle designazioni effettuate dai prefetti avviene in accordo con la federazione provinciale fascista. Sembra quindi delinearsi un quadro d'assieme che nel corso degli anni trenta, in gran parte della provincia, vede la predominanza delle gerarchie notabilari nella gestione del potere locale. Da tale situazione si discosta in parte l'area industriale compresa tra Terni e Narni, in cui come avviene in altri contesti urbani o regionali, attraverso il Pnf si assiste all'ascesa di personalità espressione della media e piccola borghesia urbana, per i quali l'istituto podestarile diventa uno strumento di promozione sociale e di affermazione nella gerarchia del potere locale. L'immagine del governo locale che si profila non è però statica, appare invece dinamica e contrassegnata da una forte conflittualità che, a vari livelli, si dimostra uno dei tratti comuni percepibili sotto l'apparente pacificazione realizzata dal fascismo. La forte instabilità presente nelle amministrazioni comunali della provincia di Terni, attestata dall'elevato numero di commissari prefettizi e di podestà retribuiti che si succedono, è testimonianza non solo delle difficoltà incontrate dai prefetti nella selezione di un ceto dirigente adeguato ma, soprattutto, del tentativo delle élites tradizionali, attraversate da interessi diversi e relazioni clientelari e familiari molteplici, di resistere all'azione omologatrice del regime. Indubbiamente, lo Stato fascista, attraverso la promozione di un modello di podestà fondato su competenza, capacità di agire, allineamento alle direttive dei vertici, in nome della proclamata modernizzazione puntava a ricondurre le periferie sotto il controllo del centro. Ecco allora che la ricerca di una concreta azione di governo delle amministrazioni locali, frequentemente sollecitata dal prefetto, da perseguire, ad esempio, attraverso la realizzazione di opere pubbliche funzionali alla mobilitazione di settori diversi della società, diventava il riferimento attraverso cui misurare l'efficienza e, soprattutto, "l'operosità" degli amministratori locali. L'elevato turnover dei podestà rappresenta pertanto una spia che si presta a misurare significativamente le difficoltà incontrate dal regime nell'affermare la propria azione in periferia. Non di rado tuttavia l'intervento del prefetto sui podestà si rendeva necessario per stroncare le lotte intestine e di fazione che si scatenavano all'interno delle élites locali per la gestione del potere. Le modalità attraverso cui tali scontri si manifestano sembrano esprimere dinamiche del conflitto omogenee a quanto accertato da altri studi 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 riguardanti realtà comunali, provinciali e regionali diverse. Esse assumono la forma di lettere, esposti, denunzie anonime, che divengono lo strumento di lotta principale tra le fazioni in una dimensione comunale ma, come è stato accertato in chiave provinciale, anche tra i rappresentanti dei diversi poteri locali, oltre che all'interno degli stessi vertici della federazione fascista ternana. A partire dal 1927, con la nascita della Provincia e l'insediamento di istituzioni politiche e amministrative nella città capoluogo, anche per il fascismo locale inizia una fase nuova, l'esame della quale ha permesso di meglio comprendere come in questa realtà si viene definendo il rapporto con il centro. La genesi della nuova entità territoriale è frutto di una serie di variabili legate, da un lato, alle esigenze politiche amministrative dello Stato fascista divenuto regime; a cui si sovrappongono le dinamiche conflittuali interne al fascismo regionale, che portano alla pacificazione dello stesso e alla nascita della federazione provinciale del Pnf. Infine, un ruolo determinante lo ha l'affermazione della "Terni" polisettoriale, vero e proprio potere forte nella nuova provincia, in grado di dare vita a un originale sistema di fabbrica a metà strada tra paternalismo assistenziale e truck-system. Con essa il regime dialoga direttamente, baypassando la neonata federazione provinciale del Pnf e, se necessario, intervenendo per normalizzarla, come dimostra esemplarmente la vicenda politica e personale di Elia Rossi Passavanti, primo federale e podestà di Terni. In questo senso, la ricostruzione dei percorsi personali e professionali dei vertici dell'amministrazione statale (prefetti e questori), degli organi politici (federali, vicefederali, segretari amministrativi, componenti del Direttorio della federazione fascista) ed economici (membri del consiglio provinciale dell'economia, di quello delle corporazioni e del principale istituto bancario del capoluogo), è stata preziosa per le riflessioni che permette di realizzare rispetto al ruolo avuto dal Pnf in provincia e, specialmente, alle dinamiche politiche che si innescano nei rapporti che il partito instaura con le altre autorità, a cominciare da quella prefettizia. Proprio con riferimento ai prefetti, si è potuto osservare che sui nove che si succedono in provincia di Terni nel periodo considerato, ben sei provengono dal Pnf. Tale fatto non sottende necessariamente un'automatica collaborazione con la federazione fascista, quanto piuttosto sembra rispondere all'esigenza del centro di superare i contrasti esistenti tra la federazione fascista e la prefettura che, invece, è situazione ricorrente in provincia. Nel contempo, il succedersi di dodici federali alla guida del partito è prova di una significativa instabilità, dato peraltro ulteriormente confermato dalla netta prevalenza di personalità estranee all'ambiente locale, ben nove. Questo fatto non esprime solo una certa debolezza del fascismo locale, incapace di fornire un ceto dirigente adeguato, ma dimostra la stessa evoluzione che subisce la figura del segretario federale, nei termini di una spiccata professionalizzazione inquadrabile nel più generale contesto di crescente burocratizzazione del Pnf funzionale a consolidarne il ruolo di mediazione e di intervento nell'amministrazione dello Stato, che si rivela uno dei tratti tipici del Pnf staraciano. In questo senso, le guerre che si scatenano tra prefetto e federale nel corso degli anni trenta, ad esempio per la questione delle nomine dei podestà, in cui ruolo determinante lo acquista ancora una volta l'arma dell'esposto e della lettera anonima, attestano il tentativo portato avanti dal partito di far sentire il proprio peso al fine se non di sovrapporsi, quanto meno di affiancare lo Stato in periferia. Affiora così quella di5 mensione policratica che si configura come uno degli elementi caratterizzanti la politica in periferia negli anni del regime. Nonostante i contrasti che si scatenano tra i poteri, le lotte intestine all'interno del Pnf, la cronica debolezza dimostrata dai ceti dirigenti, la federazione provinciale fascista nel corso degli anni trenta riesce comunque a essere vitale e in grado di esercitare il proprio ruolo ai fini della fascistizzazione della società locale. D'altra parte, ai vertici del partito se si escludono i federali e i loro più stretti collaboratori, le restanti cariche continuano a essere gestite in larga parte dal medesimo nucleo originario fascista, fatto di appartenenti al ceto agrario e alla borghesia delle professioni provenienti, per la maggior parte, dall'area ternana. Ciò attesta lo scarso ricambio generazionale esistente all'interno della federazione, ma anche il peso politico ed economico ricoperto dal capoluogo rispetto all'intera provincia. Questi dirigenti fanno parte dei diversi Direttori federali che si succedono e, talvolta, ricoprono contemporaneamente, laddove la legislazione lo consente, incarichi in organismi quali il Consiglio provinciale dell'economia o, anche, alla guida della principale banca locale. Ai vertici del partito il peso degli appartenenti a settori della piccola borghesia e del ceto operaio è invece minore. Soltanto con l'approssimarsi del secondo conflitto mondiale, si fanno strada figure espressione del ceto impiegatizio, ma anche tecnici e qualche sindacalista con alle spalle una carriera nell'apparato burocratico della federazione provinciale, i quali assumono incarichi di un certo peso, come quello di segretario amministrativo o di componente del Direttorio. In questo modo sembra prefigurarsi, sebbene in maniera timida e non paragonabile a quanto accade in altre province, l'affermazione «dal basso e dalle periferie [di] una nuova classe dirigente del regime totalitario»2. Nel corso degli anni trenta dunque, sebbene tra molteplici difficoltà di natura anche economica, il Pnf riesce a dare vita in provincia a una struttura organizzativa in grado di penetrare e inquadrare la società locale. Peraltro, l'afflusso costante di contributi concessi da enti pubblici diversi (amministrazioni provinciali, comunali, Consiglio provinciale dell'economia) e soggetti privati (la Società "Terni" in primo luogo, ma anche altre aziende) a un partito alla continua ricerca di risorse, che la documentazione amministrativa della federazione ternana ha permesso di verificare, rappresenta testimonianza esemplare degli sforzi profusi dal regime per rendere il Pnf un volano di sviluppo del peculiare welfare funzionale alla fascistizzazione della società locale. In questa prospettiva, il rapporto con la Società "Terni" si è rivelato una chiave di lettura che non è possibile trascurare se si vuole comprendere la natura dell'esperienza fascista in provincia di Terni. Si è visto che la stessa nascita della nuova Provincia è connessa alla questione del controllo delle acque del sistema Nera-Velino, presupposto essenziale per la creazione dell'impresa polisettoriale; così come la stipula della convenzione tra il Comune di Terni e la società guidata da Bocciardo, sanziona di fatto in maniera prepotente la forza non solo della grande azienda, ma l'affermazione dello stesso "centro" sulla "periferia". Da quel momento e anche dopo l'inserimento della "Terni" nel sistema delle partecipazioni statali attra- 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 6 verso l'Iri, operazione che garantì allo Stato il controllo pubblico sull'azienda e sul suo assetto produttivo, la grande impresa per il fascismo ma, più in generale, per la stessa società locale diventa emblematicamente una madre-matrigna. Essa viene percepita come un complesso capitalistico che invade la città e, con i suoi vertici, in grado di dialogare con il centro e, anche, direttamente con il duce, si pone rispetto al Pnf locale in una situazione super partes. Non è così casuale che i federali presentino come risultato della loro azione politica i buoni rapporti che riescono a intrattenere con i vertici aziendali, i quali peraltro si dimostrano costantemente impermeabili all'influenza della federazione fascista. D'altra parte, a partire dalla stipula della convenzione del 1927 e per tutto il decennio successivo la "Terni", insieme al partito, appare senza alcun dubbio uno dei pilastri del regime in provincia. Non soltanto sostiene la federazione provinciale con contributi costanti, essenziali per assicurargli la possibilità di svolgere la propria azione sul territorio; ma, più in generale, con tutto il suo peso di grande gruppo polisettoriale sposa in pieno le politiche economiche, sindacali, sociali del regime, garantendo allo stesso le condizioni per affermare «un sistema di aggregazione/costruzione del consenso/controllo sociale e politico che si adegua al modello del regime reazionario di massa»3. In queste dinamiche si inserisce anche, per quanto è stato possibile accertare in relazione alle fonti disponibili, l'atteggiamento tenuto dalla Chiesa cattolica locale nei riguardi del fascismo. L'analisi condotta con riferimento specifico alla diocesi di Terni-Narni e al vescovo Cesare Boccoleri che la guida nel Ventennio fascista, ha permesso di accertare che, come succede in altre diocesi italiane e coerentemente con le scelte fatte dai vertici vaticani, la Chiesa ternana sembra tenere una posizione di sostanziale appoggio al fascismo e di collaborazione con il Pnf. Ciò emerge in maniera evidente in alcuni momenti: ad esempio, in occasione delle campagne promosse dal regime sul terreno economico e sociale, come per la Battaglia del grano e, soprattutto, dopo la stipula del Concordato, o nel corso della guerra d'Etiopia e di Spagna. Al tempo stesso, anche quando si hanno tensioni nei rapporti tra Stato e Chiesa (per effetto della crisi del 1931 sulle prerogative dell'Azione cattolica o in occasione dell'introduzione delle leggi razziali), le conseguenze concrete per la Chiesa locale sono di scarso rilievo e, comunque, tali da non incidere sostanzialmente sulla natura dei rapporti esistenti con la federazione fascista. Anche la Chiesa locale quindi, sebbene con l'obiettivo di preservare e, per quanto possibile, incrementare la presenza cattolica nella società locale, contribuisce nella sostanza a consolidare e, anche, ampliare il consenso al regime. In particolare, essa si dimostra attiva nel favorire, specialmente nelle aree rurali, quell'azione di «modernizzazione politica» di natura reazionaria, conseguenza del tentativo di organizzazione della società italiana secondo criteri gerarchici e accentratori, che il fascismo è impegnato a portare avanti in periferia. Certamente, un ruolo essenziale ai fini della creazione e, soprattutto, del mantenimento del consenso lo esercita anche la costante opera di vigilanza e repressione di ogni forma di dissenso organizzato e di attività politica di opposizione, che si attua in provincia per opera degli apparati di sicurezza dello Stato fascista. Tale azione si rivela particolarmente efficace se negli anni del regime solo i comunisti, essenzial- 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 7 mente nell'area industriale ternana, riescono a mantenere in vita, per quanto a fatica e in misura ridotta, una forma di opposizione organizzata. E tuttavia, il fatto che continuamente le autorità, sebbene nell'ambito del riconoscimento di quanto fatto dalle diverse organizzazioni del partito a favore del ceto operaio, lamentassero l'inadeguato grado di "comprensione fascista", quando non la scarsa fascistizzazione dei lavoratori delle industrie ternane e la loro "pericolosità" politica, sembra essere la conferma implicita di come in provincia, non solo non scompare l'insofferenza e il dissenso, anche politicamente organizzato, ma, più in generale, sotto la camicia nera, a prescindere dalla propaganda e dall'attività delle differenti istituzioni del regime, non vengono meno nemmeno gli interessi molteplici che contrassegnano la società locale e le diverse realtà presenti sul territorio. In ultima analisi, il fascismo locale appare in grado di esercitare un ruolo attivo nel disegno di fascistizzazione della società, coerentemente con l'accelerazione nel processo di creazione dello Stato totalitario di cui è strumento il Pnf staraciano. Il partito si rivela dunque un vero e proprio centro di potere, espressione di un regime autoritario e tendenzialmente totalitario, con cui, inevitabilmente, tutti i cittadini si trovano a confrontarsi per le necessità della vita quotidiana: in altre parole, a dover essere, almeno una volta nella vita, fascisti. ; This research project is an in-depth study, in a comprehensive and long-term perspective, of what Fascism represented at a local level in a peripheral and non-homogeneous context, as in the case of the Southern Umbria areas, established as an administrative province in 1927. This specific geographical district flagged-up all the prerequisites for an exemplary case study, featuring several significant explanatory points. To this unique large provincial administrative industrial hub located within the Terni basin, other districts, part of the same province, remained juxtaposed. Within their respective areas, these districts included towns such as Orvieto and Amelia, which had strong links with the neighbouring communities, representing the rural, agricultural and mezzadrile aspects of Umbria, land of Saint Francis of Assisi, rich in art and religious meanings, which the Fascist Regime came to proclaim officially as the "heart" of Fascist Italy. On the basis of these introductory remarks, the study focuses its scope of research on three main points, all but essential to understand fully the aspects and dynamics of the local society during the Fascist period, also referred to as the ventennio mussoliniano. An interpretative functional grid has been designed with a view to describe the role of the National Fascist Party (Nfp) within the centre-periphery and continuity-innovation relationships with the previous regime. The study seeks to investigate how Fascism exerted its influence on the establishment and process of strengthening of the local ruling ranks, attesting its ability to relate with the old dominant élites, or promote the emerging of new ones or, in addition, facilitate and support the coexistence of both. Furthermore, the research focuses on the role exerted by the Nfp at a local level, its capability to affect the various localised dynamics of power, to create and control networks of affiliates and, above all, to relate with the two main subjects which remained independent from its control, the important industrial group represented by "Terni" of Bocciardo and the local Catholic Church, with an overarching aim to achieve its totalitarian objectives. Finally, the question of popular consent has also been scrutinised. At one level, the study analyses the 2 role of fascist violence deployed to obtain power and the repressive actions carried out under the Regime, which were highly effective, as one might expect under a dictatorship. At another level, it investigates the popular dissent and the grey areas of passive acceptance and weak consent which were common among strata of the local population. Additionally, in a broader perspective, political and institutional historical analysis has been coupled with social and economic investigation, through a systematic scrutiny and cross-examination of the main sources, as a methodological approach needful to the achievement of the final outcomes of the research. Findings on the origins, development, and strengthening of Fascism within the Terni province appear to concur with the conclusions reached by previous historical research. In the Southern areas of Umbria, Fascism, at its highest level, was brought into power and successfully established by the traditional ruling classes. The establishment of Fascism was supported and facilitated by the agrarian reaction and the monopolistic industrial groups threatened by the discontent of the rural and working classes and the rapid advancement of Socialism. The political defeat of the traditional ruling élites at the 1919 general election and the 1920 local elections, which followed the social turmoil of the so-called red biennium; the agreement of the 1920 patto colonico, disadvantageous to landowners; the occupation of factories, though a brief and contradictory experience, against a background of economic difficulty, caused their reaction and prompted their acceptance and support for Fascism. Firstly, Fascism, in the form of Fascist action squads and their capability of defeating its opponents militarily, with the extensive assistance of the State security services, then as an electoral block and political force capable to achieve power, presented itself as a sort of union sacrée against the threat of Bolshevism into which various groups appear to converge: the agrarian conservatism but also industrial and more modern forces. Undoubtedly, Fascism drew together different political forces, which during the first decade of the twentieth-century had been mutually antagonistic, and segments of the complex and divided political establishment of the Giolitti era. The scrutiny of the highest levels of the local Nfp and civil servants has revealed that, at least till 1927, the main political figures belonged to those forces already part of the agrarian block. Firstly, the landowners, many of whom belonged to the local nobility, supported by members of the professional bourgeoisie, whose estates and wealth had augmented during the nineteenth- and twentieth-century, and other sectors which were the direct expression of the rural milieus, such as the rural agents, farmers, but also those peasants whom, during the first two decades of the twentieth-century, had succeeded in becoming landowners themselves. Therefore in the Terni province, from the establishment of the Fascist regime to the introduction of the office of podestà and, for some time even after, 3 the highest offices of the municipal and provincial administration were held by members of the local nobility, primarily aristocrats, landowners and professionals. This is an invariable characteristic which put the Terni province in alignment with similar situations in Tuscany, Emilia Romagna and other areas of Southern Italy. The administrative reform and the establishment of the podestà authority, together with the prerogatives of the prefectures in appointing members of the highest offices within the municipal administrations, did not radically change, at least during the early phases of the reform, established practice. A survey of the municipalities located within the Terni province, shows that the prefects in the selection process to appoint the podestà took greatly into account the candidates' social and economic status of and, without doubt, a honorific title and tenure of highly considered profession were often sufficient criteria for a candidate to be nominated even when lacking some of the prescribed requisites as outlined by the administrative reform. The Fascist regime therefore, in perpetuating a bureaucratic and grandees system, showed an intention to reassure the existing ruling élites and obtain the support of the local population. A prosopographical analysis of the biographical profiles of headmasters, members of the provincial advice bureaus, podestà, members of the municipal advisory councils, during the 1926-1943 period, has made it possible to outline a summary framework which strongly corroborates the analysis carried out at a national level by Luca Baldissarra over a decade ago.1 What has emerged from this analysis is the class-based character of the Fascist political and administrative representation during those years, though presenting various differences linked to the social and economic specificity of the area scrutinised. In more depth, the study carried out on a corpus of 147 civil servants (78 podestà and 69 prefectural officers) employed by the municipalities of the province during the examined period, made it possible to draw up a profile of the typical officer: between forty and fifty years of age; highly educated (having achieved a high-school or university degree); often a landowner, a characteristic consistent with the social and economic structure prevailing throughout the province, and among whom the status of self-employed (generally lawyer or public notary) represented the most frequent professional position held. Relations between the podestà and the Nfp appear to have been particularly close, over half of the sample identified is composed by individuals who had joined the Fascist Party at an early stage, during 1920-1922; additionally, the majority of the appointments made by the prefects were agreed in advance with the Provincial Fascist Federation. It would therefore appear that during the 1930s, in 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 large areas of the province, the highest hierarchies of grandees were the prominent figures holding local high office. The industrial area comprised within the administrative territories of the two municipalities of Terni and Narni, however, appears to contrast with other districts of the province. In this area, as for similar cases in other municipalities or other regional administrations, the Nfp supported the emergence of members of the small and medium local urban bourgeoisie, as the office of podestà became a vehicle of social advancement and an opportunity to climb up the local hierarchy of power. Despite the apparent pacification established forcibly by the Fascist regime, the dynamics of power within the local government remained characterised by extreme unrest and strong conflict at various levels. The sizeable number of prefectural commissioners and remunerated podestà who succeeded in office, often in rapid succession, bears witness to the instability which marred almost all the municipal administrations of Terni province. This is evidence of the obstacles encountered by the prefects during the selection process of a qualified managerial class but, above all, of the resistance put up by the traditional élites of power, motivated by divergent interests and loyalty to various networks of familial and personal relations, to the process of homologation pursued by the Fascist regime. Undoubtedly, the Fascist regime, in implementing a model of podestà based on competence, on the energetic ability to act, on its alignment to official directives, and in order to achieve a modernisation of the administrative system, aimed at placing the local authorities under the prescriptive control of a centralised State. The actual administrative actions implemented by the local administrative offices, frequently under the guidance and pressure of the Prefects, as for example in the case of the accomplishment of public works functional to the civil mobilisation of various segments of the local community, became a measure of their efficiency and, above all, a measurement of how industrious the local administrators should be. The high turn-over of podestà is a clear indication of how difficult it was for the Fascist regime to implement its plans of action in peripheral areas. Additionally, direct intervention by the Prefects was often necessary to put an end to rivalries and internal power struggles which frequently broke out among local élites. These clashes and their manifestations appear to be similar in their dynamics, as pointed out by previous studies, to other cases occurred in different municipalities, provinces and regions. Resorting to anonymous letters, official complaints, accusations, came to represent the instrument to attack and weaken the opposite factions at a local level, within the municipalities, but also within the provincial administration, among the various representatives of the local administration and even the highest offices of the Terni Fascist Federation. From 1927, following the establishment of the 5 Province and the set up of political and administrative authorities in Terni, now seat of local government, a new phase emerged for the local Fascist Party too. The study of this new province has facilitated the understanding of its relations with central authorities. The establishment of this new local administration was the result of various circumstances linked to the political requirements of the Fascist State following the transition to a totalitarian regime. Additionally, the internal conflict dynamics of the regional Fascist Party played an important role. These led to the inner pacification of the Party and the set up of a Nfp Provincial Federation. Finally, the establishment of "Terni" had a pivotal role too. "Società Terni" (also referred to as "La Terni") came to represent the real "strong power" of the province, capable of imposing a factory regimen based partially on paternalistic assistance and partially on a truck-system model. The Fascist regime dealt directly with "Terni", bypassing the newly-established Nfp Provincial Federation and, where necessary, intervened to impose its authority, as the political and personal vicissitudes of Elia Rossi Passavanti, the first Federal secretary and podestà of Terni, exemplified. In this perspective, drawing together personal and professional career paths of the highest officers (prefects and police commissioners), of both political (federals, deputy federals, administrative secretaries, members of the Fascist Federation Federal Bureau) and economic authorities (members of the Provincial Economic Council, members of the Provincial Corporations Council and of the main bank) has represented an invaluable study, conducive to the understanding of the Nfp's role within the province and, in addition, of the political dynamics at play among the Fascist Party and other authorities, such as the prefectures. With specific reference to the prefects, it is worth noticing that of the nine prefects in office in the Terni province during the period under scrutiny, as many as six were Nfp members. This situation, however, did not necessarily imply a spontaneous collaboration between the prefectures and the Fascist Federation, but it would appear to have been a response to the need of overcoming the conflictual antinomy between the two authorities, which was a recurrent event throughout the Terni province. In addition, the succession of twelve Federals as leaders of the Fascist Party bears witness to a pervasive instability, a fact which is also confirmed by the noticeable preference given to individuals, as many as nine, unconnected with the local milieu. This is certainly a clear manifestation of the local Fascist Party's weakness - which appeared unable to express and produce capable managerial ranks - and of the evolution of the Federal Secretary's role, becoming more and more a professional one, in the context of the remarkable bureaucratisation of the Nfp, aimed at strengthening its mediatory and interventional role on the local administration, one of the main characteristics of the Nfp 6 under the leadership of Starace. Within this framework, the contrast between the prefects and the Fascist Federal secretaries during the 1930s, with regard, as a case in point, to the appointments of the podestà, and the crucial utilisation of official complaints and anonymous letters, bears witness to the Party's attempt to impose its decisions or, at least, to influence the administration at a local level. This, in turn, resulted in a situation of polycracy, which was one of the factors denoting local politics during the Fascist regime. During the 1930s, despite deep rooted conflict among the authorities, the internal power struggles within the Nfp and the endemic ineptitudes of the ruling class, the Fascist Provincial Federation was successful in exerting and promoting the fascistisation of the local community. It is manifest that the highest authorities within the National Fascist Party, with the exception of the Federals and their closest advisors, remained the domain of the original Fascist core, composed by members of the rural class and the bourgeoisie originating primarily from the Terni area. This explains the inadequate generational change within the Fascist Federation and, in addition, the political and economic importance of the Terni area in comparison to the entire province. These political figures were part of the various Federal Bureau and, in some cases at the same time, if the law permitted, held additional offices in different institutional bodies, such as the Economic Provincial Council or were in charge of the main local bank. On the contrary, the influence exerted on the high levels of the National Fascist Party by the small bourgeoisie or by members of the working class remained negligible. It was only with the approach of the Second World War that members of the clerical class, but also technicians and a few tradeunionists already employed within the bureaucratic structure of the Provincial Federation, acquired an enhanced importance and gained access to higher office, such as administrative secretaries or members of the Federal Bureau. The Terni area too, though in a more limited way, which bears not comparison with other provinces, saw the rising «from the bottom and the periphery of a new ruling class within the totalitarian regime»2. During the 1930s therefore, despite various difficulties, including economic issues, the Nfp was successful in creating at a provincial level an organisational structure capable of influencing and organising the local community. Additionally, the regular flow of financial contributions bestowed by various public authorities (provincial administrations, municipalities, Provincial Economic Council) and private companies ("La Terni", first of all, but other businesses too) to a political party constantly seeking financial backing, as thoroughly documented by records of the Terni Fascist Federation, bears witness to the outstanding efforts the Regime made to 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 7 successfully present the Nfp as a conducive mean to the development of this specific welfare model, with a view to promote the fascistisation of the local community. In this perspective, the Nfp's relation with the "Società Terni" is key to understanding the nature of the Fascist Regime and its role within the Terni province. The establishment of a Province was connected to the control of the water-system of the two rivers Nera-Velino, essential to create an industrial hub; similar reasons were behind the agreement stipulated between the Terni municipality and the Bocciardo Company, which came to sanction resolutely the importance of the Company and, additionally, the supremacy of the "centre" over the "periphery". It was from this period and following the inclusion of "Società Terni" within the system of state-controlled industries through the Institute for Industrial Reconstruction, a transaction which secured State control over the Company and its productive branches, that "La Terni" became firmly linked to Fascism and, more in general, to the local community, though in a controversial and ambivalent mutual relation. The Company was perceived as a capitalistic enterprise which took over the city, its directors being able to negotiate with the central Government directly and with the Duce himself, taking a super partes position in relation to the local Nfp. It was not a fortuitous occurrence that the Federal secretaries gauged their political influence against the effectiveness and strength of the relations they were able to maintain with the executive directors of "Società Terni", whom, on their part, appeared to be impenetrable to any influence exerted by the local Fascist Federation. Additionally, following the 1927 agreement and during the ensuing decade, "La Terni", in conjunction with the Fascist Party, appeared to become, without doubt, one of the main pillars of the province. At one level, it supported the Fascist Provincial Federation through a constant flow of financial contributions, vital to bankroll the Federation's activities within the province; but, at a more general level, asserting its influence as a large industrial group, it was capable of shaping the economic, trade-union and social policies of the Fascist regime, creating those conditions to establish «a system of aggregation/disaggregation of the social and political consensus/control conforming to the mass reactionary regime model»3. Within this dynamic interactions, and on the basis of documents available, the local Catholic Church played a significant role in relation to the Fascist Party. With reference to the specific case of the Terni-Narni dioceses and bishop Cesare Boccoleri, the Church's main leader during the Fascist ventennio, this research has showed that, as in the case of other Italian 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 8 dioceses and in alignment with the decisions taken by the Vatican, the Church authorities in Terni supported the Fascist apparatus and adhered to a policy of collaboration with the Nfp. This was particularly manifest on specific occasions: for example during the economic and social campaigns promoted by the Regime, as a case in point the so-called "Battle of the wheat" and, above all, following the 1929 Concordat with the Catholic Church, or during the Ethiopian and Spanish conflicts. At the same time, even when tensions arose and marred the relations between the Fascist regime and the Catholic Church (following the 1931 crisis caused by the limitations imposed on the prerogatives of Azione Cattolica or the adoption of the 1938 racial laws), the consequences for the local Church were negligible and did not appear to affect the on-going relations with the local Fascist Federation. The local Church therefore in pursuing the aim of preserving and, wherever possible, augmenting the Church's influence on the local community, contributed to reinforce and widen consensus for the Fascist regime. More specifically, the Church's actions were particularly effective in encouraging, especially in rural areas, that precise process of "political modernisation", though reactionary at its core, based on organising the entire Italian society on hierarchical and centralising criteria, which Fascism was promoting particularly at a local level. Additionally, and without doubt, the important function to create and, above all, to maintain a high level of consensus was exerted by the pervasive surveillance and repression of any form of dissent and political opposition, enforced within the province by the Fascist security services. A repressive action which was extremely effective and, during the dictatorship, only the Communist Party, despite being hemmed in to the Terni industrial area, was able to maintain, albeit with great difficulty and in a limited way, a form of organised resistance. The fact that the Fascist authorities continuously, though recognising what had been achieved by the Party's multifarious organisations to favour and support the working classes, lamented the feeble "fascistisation" of the Terni industrial workforce and their being "politically dangerous", would appear to confirm implicitly that throughout the province the opposition and political dissent had not completely ceased. More in general, under the "black shirts", despite the propaganda and the activities of various Fascist authorities and institutions, it remained evident that the diversified interests which characterised the local society and the different realities rooted at local level persisted. Ultimately, the local Fascist Party appeared capable of exerting an active role in the "fascistisation" process of society, in alignment with the creation and implementation of a totalitarian state, being the main objective of the National Fascist Party under the leadership of Starace. The Nfp was therefore a real centre of power, expression of an authoritarian 9 regime leaning toward totalitarianism. A regime against which all citizens had to relate for their everyday life needs: that is to say, all citizens had to act, at least outwardly, as fascists.
Editorial Aniversario y balance Por una renovación de la agenda historiográfica de las izquierdas Colectivo Editor Se han cumplido veinte años ya de aquel viernes 3 de abril de 1998 en que el CeDInCI abriera por primera vez sus puertas en el barrio porteño de Almagro. Poco antes de la universalización del correo electrónico, y a través del antiguo sistema de invitación por tarjeta de cartón, del rumor boca a boca y el llamado telefónico, más de doscientos asistentes desbordaron la vieja casa de la calle Sarmiento cuando todavía olía a pintura fresca. Más de la mitad de los concurrentes debió esperar en la calle a que salieran los primeros para poder ingresar. ¿Qué fue lo que convocó en aquellos años de reflujo de las izquierdas y de apogeo del menemismo a las más diversas figuras de la cultura argentina, desde David Viñas a Juan José Sebreli, desde Emilio J. Corbière a Mary Feijóo, desde José Sazbón a Abel Alexis Lattendorf? Sin lugar a dudas, la expectativa de que, finalmente, un centro de documentación concebido a la manera de las modernas instituciones europeas pudiera recoger en un espacio único y plural el patrimonio documental de los movimientos sociales y las izquierdas que hasta entonces se dispersaba, y a menudo se perdía. Sin embargo, esa fundación no vino, como suele decirse, a "llenar un vacío". Fue necesario librar a lo largo de los años una verdadera batalla cultural para introducir en la agenda pública y en la agenda social el concepto de patrimonio documental. Para entonces, cuando el primero de estos términos era apenas un sinónimo de patrimonio arquitectónico, el legado documental era una noción carente de sentido. En lo que a la cultura de izquierdas respecta, los fondos personales de militantes, dirigentes, sindicalistas, escritores y editores, o los acervos de pequeñas organizaciones políticas y sociales se volatilizaban; y con ellos, la posibilidad de escribir la historia de las izquierdas, de los movimientos sociales, de las clases subalternas. La fundación del CeDInCI conjuró para siempre aquel desdén, aquel olvido. Desde ese abril de 1998 su acervo creció exponencialmente. Veinte años después, se contabilizan con nombre y apellido casi dos mil donantes. A pesar de su fragilidad institucional —apenas una asociación civil sin fines de lucro, gestionado por un equipo de una decena de profesionales—, el CeDInCI apareció a lo largo de estos años como un espacio que ofrece a los donantes garantías de transparencia, estabilidad y pluralidad. La modernización que propuso el CeDInCI en el terreno bibliotecológico, hemerográfico y archivístico vino estrechamente ligada a una propuesta de renovación historiográfica. Poner a disposición de los investigadores un acervo documental cuantioso, rico y diverso era condición necesaria pero no suficiente para una actualización de los estudios sobre las izquierdas. Recordemos brevemente aquel contexto. Para fines del siglo XX el estudio de las izquierdas estaba fuera de la agenda historiográfica. La historia obrera, una de las ramas que se había desprendido de la historia social a mediados del siglo XX, había quedado reducida a un rol residual, apenas cultivada por un porfiado puñado de historiadores, entre los que sobresalía la figura tutelar de Alberto Pla, fallecido en 2008. El cierre del CICSO (un centro de investigación fundado en 1966 que había producido una obra colectiva de referencia a comienzos de la década de 1970),[1] la dispersión de sus investigadores más reconocidos y la donación de su archivo a una institución tan poco previsible como la SADE (Sociedad Argentina de Escritores) constituían un síntoma elocuente de aquel fin de ciclo. Algunos de los historiadores obreros más jóvenes apelaban por entonces a la renovación que había conocido la historiografía inglesa desde la década de 1960, pero a menudo sus referencias a las obras de un E. P. Thompson fueron, antes que un índice de lecturas fructíferas o una puesta en acto de sus aportes teórico-conceptuales, verdaderos modelos de citas de autoridad.[2] Mientras estos historiadores obreros resistían desde un paradigma historiográfico francamente conservador (una teoría de la clases sociales y de su conciencia de corte leninista, una reificación del conflicto social y una metodología positivista de recolección "objetiva" de "datos"), la historiografía conocía una renovación vertiginosa a escala global, que socavaba incluso muchos de sus supuestos epistemológicos. Desde el impacto del "giro lingüístico" hasta al correspondiente al "giro material" (por no hablar del más reciente "giro reflexivo"), tanto la microhistoria, la historia de las mujeres, la historia de lo cotidiano, la historia de la sexualidad, la historia social de la cultura como la nueva historia política conmovían los cimientos de la profesión, despertaban la vocación de los nuevos historiadores y reorientaban incluso los intereses muchos investigadores formados. De modo que para fines de la década de 1990 la mayor parte de los miembros del PEHESA,[3] un centro fundado en 1977 a comienzos de la última dictadura militar y que había venido a modernizar los estudios de historia social, habían abandonado la historia obrera stricto sensu. Si bien durante algunos años prosiguieron los trabajos de Silvia Badoza sobre la Sociedad Tipográfica Bonaerense, los de Mirta Lobato sobre las obreras de los frigoríficos de Berisso, los de Juan Suriano sobre el anarquismo argentino o los de Ricardo Falcón sobre la formación de la clase obrera en la segunda mitad del siglo XIX, buena parte de los investigadores fueron atraídos enseguida por otras demandas historiográficas. Suriano fue desplazando sus intereses desde el movimiento obrero anarquista hacia la cultura libertaria.[4] Leandro Gutiérrez —el principal inspirador de la historia y la cultura obrera, y su último cultor a tiempo completo, fallecido en 1992—, había iniciado junto a Luis Alberto Romero un desplazamiento de su objeto hacia los que entonces se designaban como "sectores populares".[5] Significativamente, la obra que reunía gran parte de los trabajos maduros de historia social y obrera de esa generación —nos referimos a Jeremy Adelman (ed.), Essays in Argentine Labour History 1870-1930— no encontró un editor en la Argentina.[6] Si la historia de la clase obrera se veía progresivamente desplazada de la renovada agenda historiográfica de fin de siglo, la historia de las corrientes de izquierda que no se encuadraba en lo que entonces llamábamos "historias oficiales", seguía siendo cultivada casi exclusivamente por el periodismo de investigación. La popularidad que gozaron en los años '80 y '90 las contribuciones sobre anarquismo, socialismo, comunismo y nueva izquierda de figuras como Osvaldo Bayer, Emilio J. Corbière, Isidoro Gilbert y María Seoane contrastaban con la reticencia de la historiografía académica frente a estos objetos. Sólo unas pocas obras clave nacidas entre esas dos décadas vinieron a dar una nota discordante en ese clima académico: nos referimos a Una modernidad periférica: Buenos Aires 1920 y 1930 (1988) de Beatriz Sarlo, Nuestros años sesentas. La formación de la nueva izquierda intelectual en la Argentina (1956-1966) (1991) de Oscar Terán, e Intelectuales y poder en Argentina en la década del sesenta (1991) de Silvia Sigal. Aunque respondían más a ejercicios de balance histórico por parte de intelectuales formados en las décadas pasadas que a la agenda académica de esos años, estas obras iban a abrir una brecha en la renovación historiográfica nacida con el nuevo siglo. Fue en ese contexto de innovación al mismo tiempo que de profesionalización de la historiografía argentina, que el CeDInCI postulaba en torno a 1998, además de la necesidad de un acervo documental, una agenda historiográfica para el estudio de las izquierdas y de las clases subalternas. Por supuesto, ya la propia organización de un centro que reuniera en forma integral y al mismo tiempo diferenciada áreas de biblioteca, hemeroteca y archivo, hablaba de una renovación respecto de las antiguas bibliotecas donde estas áreas solían estar confundidas. La hemeroteca adquiría en este proyecto un lugar central, poniendo a disposición de los investigadores un universo revisteril mucho más denso, diverso y proteico que el de las pocas revistas canónicas que había consagrado la historia literaria en el siglo XX. El archivo, centrado en los fondos de militantes, escritores y editores, venía a ofrecer un corpus hasta entonces apenas transitado por la historiografía. La novedad no estaba tanto en la diversidad de los soportes ofrecidos, como en el orden con que fueron organizados y presentados. La organización y la catalogación misma de los libros, los folletos, los afiches, los periódicos, las revistas, las cartas privadas, fueron concebidas desde un inicio para propiciar una historia renovada y multidimensional de las izquierdas. Borges decía que el orden de una biblioteca era un modo silencioso de ejercer la crítica. Para nosotros, el catálogo excedía su dimensión técnica, el orden de las piezas respondía a una perspectiva de la historia, el tesauro a un universo conceptual, la descripción se comprometía con la investigación. También el propio nombre de la institución, con su referencia expresa no a "la izquierda" lisa y llana, sino a una "cultura de izquierdas", sugería además de la pluralidad todo un abanico de dimensiones materiales, simbólicas e imaginarias de social y de lo político que connotaba el término cultura, excediendo con creces la clásica historia institucional centrada en pasar revista de los congresos, analizar la corrección de los discursos de los dirigentes y en contabilizar la cantidad de obreros que el partido controlaba entre los marítimos o los ferroviarios. El lanzamiento del CeDInCI fue acompañado de una serie de libros y de artículos de carácter programático elaborados por algunos de sus fundadores que en poco tiempo era asumida y enriquecida por una nueva camada de historiadores.[7] A contrapelo de un clima historiográfico en el que Marx y el marxismo eran sacrificados en el altar del "fin de las ideologías", esos textos, al mismo tiempo que celebraban la profunda renovación historiográfica en curso, se esforzaban en mostrar el estímulo intelectual y el provecho historiográfico que ofrecían ciertas figuras y conceptos forjados por el marxismo crítico de un Gramsci o un Benjamin, así como por historiadores marxistas extraacadémicos olvidados como Issac Deutscher, Arthur Rosenberg o Fernando Claudín. Pugnaban, asimismo, por mostrar los signos de renovación de la historia social británica a los que la academia argentina comenzaba a darle la espalda —desde los estudios clásicos de Eric Hobsbawm, E.P. Thompson y Raymond Williams hasta los de Raphael Samuel, Perry Anderson y Gareth Stedman Jones—, la innovación historiográfica que había representado en las décadas de 1970 y 1980 la obra de figuras como Robert Paris, Georges Haupt y Franco Andreucci para la historia del marxismo y las internacionales obreras, así como los aportes contemporáneos de la sociología de la cultura (Pierre Bourdieu y su escuela) y la sociología de los intelectuales revolucionarios (Michael Löwy). La nueva historia de las izquierdas y de las clases subalternas incluía y al mismo tiempo excedía la historia partidaria, la historia obrera o la historia del mundo del trabajo. Proponía, por ejemplo, otras claves para repensar la dimensión institucional (desde el socioanálisis de René Lourau y Georges Lapassade hasta la teoría foucaultiana de los micropoderes, pasando por la dimensión imaginaria teorizada por Cornelius Castoriadis),[8] incorporaba la perspectiva de género y el concepto de vida cotidiana para repensar las subjetividades militantes, dialogaba con los aportes conceptuales y metodológicos de la sociología cultural, de la historia intelectual y la historia del libro y la edición para reconsiderar dimensiones claves de la cultura de izquierdas, hasta entonces apenas exploradas en nuestro país por unos pocos estudios pioneros, como los de Dora Barrancos. El CeDInCI promovió un diálogo productivo de la historia de las izquierdas con la nueva historia intelectual, menos atento a ciertas prescripciones de la Escuela de Cambridge de Skinner y Pocock —sobre todo las que parecen "querer apresar las ideas de una época en sus marcos lingüísticos"[9] — que a las vertientes que ponen en el centro los soportes materiales de los procesos históricos de la cultura, aquellos que se resisten a ser simplemente reducidos a texto. Comprometida en un proyecto de historización radical de las ideas, Políticas de la Memoria promovió estudios y debates sobre la problemática de la recepción y la circulación internacional de ideas y saberes, poniendo sobre todo de relieve los problemas de "traductibilidad", los "desvíos" y "malentendidos" propios de las "ideas fuera de lugar". Dentro de la renovación que conoce la historia de los intelectuales, nuestra revista atendió antes que nada a la dimensión relacional de la historia social de la cultura, prestando especial atención a las redes intelectuales, las redes editoriales y las redes revisteriles. Siguiendo estas líneas, fue plataforma de difusión de diversos referentes de esa renovación historiográfica como Enzo Traverso, Bruno Groppo, Perry Anderson, Christophe Prochasson, Daniel James, Judith Revel, Roberto Schwarz, Ricardo Melgar, Claudio Batalha, Ricardo Piglia, Giselle Sapiro, Jean-Yves Mollier, Vivek Chibber, Philippe Artières y Dominique Kalifa, entre muchos otros. Una política de edición que anticipó y complementó una revista hermana del CeDInCI como El Rodaballo, menos acotada al campo historiográfico y más abierta a los debates intelectuales, que dio a conocer entre 1994 y 2006 textos inéditos en español de Toni Negri, Michael Hardt, Perry Anderson, Robin Blackburn, Michael Löwy, Boris Kagarlitsky, Nancy Fraser, Judith Butler, André Gorz, John Holloway, Frédrik Jameson, Robert Castel, Daniel Bensaïd, Richard Greeman, Terry Eagleton, Etienne Balibar, Régis Debray y René Lourau, entre muchos otros. Con el apoyo de estas renovadas lecturas, Políticas de la Memoria garantizaba la puesta en circulación de un amplio espectro de problemas referidos al mundo de la cultura de izquierdas en Argentina, Latinoamérica y Europa; participando, de este modo, de diferentes y entrecruzadas agendas historiográficas, debates político-académicos y temas de marcada recurrencia entre historiadores y cientistas sociales. A partir de la publicación de artículos, dossiers e intervenciones se abordaron cuestiones como la recepción argentina de Marx y la configuración de una cultura marxista en nuestro país, la formación y las derivas del socialismo argentino, las vicisitudes del anarquismo en América Latina, la historia intelectual del comunismo latinoamericano, el sindicalismo y sus diversas corrientes ideológicas, el antiimperialismo en los albores del siglo XX, el indigenismo y los latinoamericanismos, los intelectuales y su relación con la política revolucionaria, los avatares del trotskismo en la Argentina, del peronismo de izquierda, de las "nuevas izquierdas" y de los grupos armados a nivel continental. Asimismo, Políticas de la Memoria dio lugar a debates recientes sobre la historia europea contemporánea (guerras mundiales, revolución rusa, totalitarismos, guerra fría), ofreciendo estudios referidos al desarrollo de los partidos socialistas y comunistas a nivel mundial y a la historia de las Internacionales Obreras. La historia del marxismo europeo y latinoamericano ocupó en sus páginas un lugar sostenido, lejos tanto del desdén de la historia académica como de los abordajes trillados de los órganos semipartidarios. La serie sobre las sucesivas "crisis del marxismo", aún en curso de publicación, ofreció textos hasta entonces inéditos en español de Masaryk, Sorel, Croce, Gentile y Mondolfo, así como los sustantivos estudios introductorios de Daniel Sazbón, Miguel Candioti y Horacio Tarcus. Finalmente, debemos destacar al anuario como uno de los pioneros en la difusión de estudios y debates sobre los movimientos feministas y sobre la cuestión sexo-genérica en la cultura de izquierdas. En la construcción sostenida de esta singular agenda de temas y de problemas, no fue menor la exhumación de documentos inéditos (piénsese en la correspondencia cruzada entre Ingenieros, Darío y Lugones, en las cartas de Simón Radowitzky a Salvadora Medina Onrubia, en la correspondencia de Mario R. Santucho con Carlos Astrada, en la de José Aricó con Héctor P. Agosti, o en las Actas del Comité Obrero de 1890) así como la incorporación de trabajos que reconstruyen la trayectoria biográfica, política e intelectual de figuras clave en la historia de las izquierdas, como Germán Avé-Lallemant, Virginia Bolten o Ernesto Laclau. Por su parte, la publicación de reseñas críticas, fichas de libros y de revistas que ofrece cada año Políticas de la Memoria —secciones que fueron engrosándose hasta formar parte constitutiva del anuario—, constituyen un insumo fundamental de actualización bibliográfica para cualquier interesado en el mundo de las izquierdas. Pero el aporte de Políticas de la Memoria a los estudios sobre la cultura de izquierdas no es simplemente temático. Su contribución tampoco se resume en la incorporación y en la difusión de autores y de obras de reconocimiento internacional. El anuario interviene en el debate de ideas y se interesa por diferentes perspectivas historiográficas: a su modo, ha formado parte del cultivado campo de la historia intelectual argentina y latinoamericana, ha mostrado un interés sostenido pero también crítico por los modos en que a menudo se cultiva la historia reciente, dando lugar a debates sobre la relación entre historia y memoria, y señalando las potencialidades y los límites de la historia oral. Políticas de la Memoria ha sido pionera en difundir nuevas corrientes de investigación dedicadas a la historia del libro y la edición, a las políticas de archivo y a la relación entre historia cultural y nueva historia política. El mero enunciado de los ejes temáticos con que fueron convocadas las sucesivas Jornadas de Historia de las Izquierdas del CeDInCI a lo largo de los últimos 20 años ofrece un índice ilustrativo de su programa historiográfico, tal y como se fue desplegando a lo largo del tiempo: "Exilios políticos latinoamericanos y argentinos" (2005); "Prensa política, revistas culturales y emprendimientos editoriales de las izquierdas latinoamericanas" (2007); "¿Las 'ideas fuera de lugar'? El problema de la recepción y la circulación de ideas en América Latina" (2009); "José Ingenieros y sus mundos" (2011); "La correspondencia en la historia política e intelectual latinoamericana" (2013); "Marxismos latinoamericanos. Tradiciones, debates y nuevas perspectivas desde la Historia cultural e intelectual" (2015); "100 años de Octubre de 1917: Peripecias latinoamericanas de un acontecimiento global" (2017). El estudio de Juan Maiguashca incluido recientemente en Marxist historiographies. A global perspective tomaba justamente a las Jornadas del CeDInCI como un índice de la renovación historiográfica latinoamericana de izquierdas posterior a los años de la "crisis del marxismo".[10] El historiador ecuatoriano, actualmente profesor de la Universidad de York, Canadá, ofrecía un cotejo entre los que identificaba como los dos polos paradigmáticos de la renovación del marxismo historiográfico de inicios de siglo: la revista mexicana Contrahistorias. La otra mirada de Clío, que fundó en 2003 Carlos Antonio Aguirre Rojas, y las jornadas bianuales del CeDInCI. Maiguashca reconocía como notas distintivas del caso argentino la creciente voluntad de exceder los límites de la historia nacional para abrazar un horizonte latinoamericano; la consolidación de un espacio de diálogo que vino a reemplazar "las actitudes solipsistas de antaño"; el rigor en el tratamiento y el citado de las fuentes; la apertura hacia los diversos marxismos y más allá de los marxismos; y la ampliación del universo de la cultura de izquierdas hacia problemáticas antes negadas o desconocidas como el feminismo, los movimientos sociales o la memoria histórica. "La preocupación obsesiva con las clases se ha ido y los participantes están comenzando a explorar con una mente abierta las importaciones analíticas de otras variables: etnia, género, territorio, entre otros".[11] Además de sus jornadas bianuales, el CeDInCI organizó o promovió la coorganización de encuentros académicos sobre campos de estudio más amplios, como los Coloquios Argentinos de estudios sobre el libro y la edición (2012, 2016 y 2018), los Encuentros de Investigadore/as del Anarquismo (2007, 2009, 2011, 2013 y 2015), el Primer Congreso de Investigadorxs sobre Anarquismo (2016), o las Jornadas de Archivo (2015 y 2017) así como el Encuentro nacional de Teoría Crítica José Sazbón (Rosario, 2010), las Jornadas Internacionales José María Aricó (Córdoba, 2011) y las Jornadas A 100 años de la Reforma Universitaria. Historia, Política, Cultura (Rosario, 2018). Además, en los últimos años, se han creado en el marco del CeDInCI dos nuevos espacios específicos que han mancomunado archivo e investigación. Primero, el Programa de Investigación del Anarquismo que animó, junto a otros colegas, un proceso de intercambio que culminó con la organización del Congreso de 2016 cuya continuidad, en un Segundo Congreso Internacional de Investigadorxs del Anarquismo, se celebrará en Montevideo en 2019. A su vez, en el año 2017 se creó el Programa de memorias políticas feministas y sexogenéricas que, con una notable Colectiva asesora, lleva adelante un intenso trabajo de recuperación, preservación y disposición a la consulta pública de un invaluable material que se encontraba en riesgo de pérdida, disperso o inaccesible. Finalmente, el CeDInCI fue parte activa de las sucesivas Jornadas de Trabajo sobre Historia Reciente, librando batallas, desde sus primeras manifestaciones en el año 2003 y hasta el presente, a favor de esa historia crítica que se resiste a ser avasallada por la memoria; el CeDInCI protagonizó asimismo las primeras manifestaciones pluralistas de los Congresos de Historia Intelectual Latinoamericana (CHIAL) realizados en Medellín (2012) y Buenos Aires (2014), tomando luego prudente distancia de un espacio que fue adquiriendo en México (2016) y más gravemente en Santiago de Chile (2018) contornos elitistas y conservadores. * * * A lo largo de estos 20 años, la producción historiográfica sobre las izquierdas conoció una expansión inédita, no sólo en nuestro país sino en toda América Latina. En los textos programáticos de la década de 1990 que anunciaban el nacimiento del CeDInCI, la bibliografía argentina sobre las izquierdas apenas superaba una carilla. Hoy contamos con una masa de estudios sobre el anarquismo, el socialismo, el reformismo universitario, el comunismo, el antifascismo, el trotskismo, el peronismo revolucionario y las diversas expresiones de la nueva izquierda que se ha tornado prácticamente inabarcable. El espectro tradicional de las izquierdas se fue complejizando con la indagación focalizada en ciertos cruces, préstamos e hibridaciones poco antes impensados, como los "anarcobolcheviques" o los "comunistas liberales". A su vez, estas corrientes son atravesadas diagonalmente por estudios innovadores sobre los intelectuales revolucionarios, las políticas editoriales, la prensa y las revistas, el papel de las juventudes, el rol de las mujeres militantes, las micropolíticas, las prácticas sexuales y las biopolíticas de las organizaciones de izquierda. El CeDInCI acompañó y contribuyó a modelar este vasto proceso de producción con su acervo siempre enriquecido, con sus jornadas y sus seminarios de posgrado, con su revista Políticas de la Memoria, con sus ediciones de fuentes y sus diccionarios biográficos. Basta repasar los centenares de agradecimientos que muchos investigadores estampan en las primeras páginas de sus tesis o de sus libros para reconocer al menos el umbral más básico de esta deuda. Además, las obras que fueron elaborando los propios hacedores del CeDInCI se han ido instalando como referencias en el campo de estudios sobre las izquierdas en Argentina y América Latina. Ahora bien, el CeDInCI ha sido apenas un propiciador de este campo. El notable dinamismo desplegado en la Argentina de los últimos veinte años ha respondido a demandas múltiples y diversas. Una de las mayores fue la que podríamos llamar la "demanda de verdad" respecto de la militancia revolucionaria de los años '60 y '70 así como de las condiciones de su represión y su derrota. Poco antes, la "demanda de justicia" propia del movimiento de derechos humanos tendía a poner a los sujetos de la política en el lugar de víctimas de la represión. En un segundo momento, el periodismo de investigación y la historiografía académica después, vinieron a reponer a esos sujetos en su condición de militantes. El auge de estudios sobre la militancia de las dos décadas de gran movilización social y radicalidad política (1955-1976) tuvo un efecto dinamizador sobre otras experiencias y otras figuras militantes de pasados algo más remotos. Esta demanda social de "verdad" fue inicialmente satisfecha por un periodismo de investigación abiertamente tensado por sus posicionamientos políticos, desde las contribuciones de Isidoro Gilbert y María Seoane hasta las de Ceferino Reato y Tata Yofre. En el campo específicamente historiográfico, algunas de las primeras respuestas surgieron de una cierta perspectiva académico-militante, de espíritu defensivo y reivindicativo, cuyo afán por exhumar documentos o recabar testimonios que probaran las correctas posiciones de las izquierdas en el pasado, o bien su profunda implantación social e incluso la aprobación social de sus acciones militares, los empujaba de modo concomitante a invisibilizar sus límites, a desproblematizar sus dilemas y a sublimar sus fracasos. En buena parte de esta literatura, la perspectiva historiográfica quedaba, así, capturada por el sistema de creencias de los propios actores que estudiaba. Estas formas de teleología obrera y de sobrepolitización de la historia apenas si se vieron neutralizadas por las exigencias de profesionalización propias de fines del siglo XX. Ciertamente, el ciclo de estudios sobre las izquierdas coincidió con un profundo proceso de profesionalización de las ciencias sociales y las humanidades que tuvo lugar a lo largo de estos veinte años: esto es, la significativa ampliación de cupos de ingreso a carrera de investigador de CONICET; la gran expansión de becas de especialización e investigación en universidades y diversas entidades científicas y académicas; y la proliferación de espacios de formación, producción y circulación de saberes disciplinares. Este proceso significó, sin duda, una necesaria y justa democratización del universo académico, fundamentalmente en lo relativo al establecimiento de condiciones materiales para la producción intelectual. Sin embargo, la normativización y objetivación —la más de las veces cuantitativa— de los criterios de acreditación, evaluación y legitimación del quehacer intelectual implicaron en contrapartida una penalización a la historiografía más elaborada, crítica y original. La producción en serie de papers y artículos en los que prima la descripción —a veces minuciosa o erudita, otras no tanto— por sobre la interrogación y la construcción de objetos-problema; las escrituras que en su afán de productividad han abandonado todo debate, toda pretensión teórica o cuanto menos reflexiva, es la que predomina hoy en nuestros campos disciplinares. La cuestión excede con creces, por supuesto, a la historiografía de izquierdas, pero es ésta la que nos interesa aquí. Este sistema cuantitativo de evaluación y legitimación ha sido incluso perfectamente funcional para el crecimiento de esas versiones de la historia obrera tradicional o de la historia partidaria, permitiéndoles acomodarse perfectamente a unas reglas que exigen alta productividad antes que problematización de los objetos y avances reales en la construcción social del conocimiento histórico. El balance de conjunto de la producción de estos últimos veinte años sobre las izquierdas aún está por hacerse. Aquí sólo quisimos avanzar en algunos señalamientos que hacen al específico posicionamiento del CeDInCI, entre los riesgos de partidización de la historia reciente, por un lado, y ciertas derivas elitistas y despolitizadoras de la nueva historia intelectual, por otro. Nos propusimos incitar a un debate colectivo que sirva como balance de lo producido y como actualización de una agenda historiográfica para el estudio de las izquierdas, que tal como había sido formulada veinte años atrás, ya ha quedado en cierto modo realizada, y por lo tanto anticuada. El aniversario, además de la congratulación, puede ser una excelente oportunidad para barajar y dar de nuevo, para debatir colectivamente cuál es hoy el mapa de la historiografía de izquierdas; cuáles sus dispositivos teórico-metodológicos y sus redes conceptuales más destacadas; cuáles sus imbricaciones y apuestas político-intelectuales; cuáles son sus tensiones; qué tradiciones político-ideológicas se perpetúan en las escrituras actuales; cuáles han sido desechadas, cuáles olvidadas, cuáles actualizadas; cuáles son sus puentes, cuáles sus distancias con el espacio más general de la memoria. Incluso cabe preguntarse: ¿Puede hablarse de un campo de estudio de las izquierdas?, o incluso: ¿qué sería hoy una historiografía de izquierdas? Para ello, invitamos a colegas y amigos a participar de las próximas Xas Jornadas de Historia de las Izquierdas Dos décadas de historia de las izquierdas latinoamericanas. Aniversario y balance, los días 20, 21 y 22 de noviembre de 2019. Beba Balvé, Miguel Murmis, Juan Carlos Marín, Lidia Aufgang, Tomás J. Bar y Roberto Jacoby, Lucha de calles, lucha de clases. Elementos para su análisis (Córdoba, 1961-1969), Buenos Aires, La Rosa Blindada, 1973. ↑ Tan sólo a modo de ejemplo: en sentido opuesto a la expresa declaración de su autor, el enfoque de Oposición obrera a la dictadura (Buenos Aires, Contrapunto, 1988) de Pablo Pozzi era escasamente thompsoniano. Lejos de tomar la dimensión de la experiencia como constitutiva de la clase obrera, no hacía más que evaluar las prácticas de resistencia obrera construidas empíricamente con el rasero de una conciencia de clase previamente establecida (en un sentido, justamente, pre-thompsoniano). ↑ Programa de Estudios de Historia Económica y Social Americana. ↑ Juan Suriano, Trabajadores, anarquismo y Estado represor : De la Ley de Residencia a la Ley de Defensa Social (1902-1910), Buenos Aires, CEAL, 1988; y Anarquistas. Cultura y política libertaria en Buenos Aires. 1890-1910, Buenos Aires, Manantial, 2001. ↑ Leandro Gutiérrez, Luis Alberto Romero, "Los sectores populares y el movimiento obrero: un balance historiográfico", en Sectores populares. Cultura y política, Buenos Aires, Sudamericana, 1995. ↑ Jeremy Adelman (ed.), Essays in Argentine Labour History 1870-1930, Londres, Macmillan Press, 1992, incluyó estudios de Juan Suriano, Hilda Sábato, Silvia Badoza, Mirta Lobato, Ofelia Pianetto, Ruth Thompson, Colin M. Lewis, Eduardo A. Zimmermann, Leandro H. Gutiérrez, Luis Alberto Romero y el propio Jeremy Adelman. ↑ Horacio Tarcus, El marxismo olvidado en la Argentina: Silvio Frondizi y Milcíades Peña, Buenos Aires, El Cielo por Asalto, 1996; Horacio Tarcus, Mariátegui en la Argentina, o las políticas culturales de Samuel Glusberg, Buenos Aires, El Cielo por Asalto, 2001; H. Tarcus, J. Cernadas y R. Pittaluga, "Para una historia de la izquierda en la Argentina. Reflexiones preliminares", en El Rodaballo nº 6/7, Buenos Aires, otoño/invierno 1997, pp. 28-38; Íbid., "La historiografía sobre el Partido Comunista de la Argentina: un estado de la cuestión", en El Rodaballo. Revista de política y cultura nº 8, Buenos Aires, otoño/invierno 1998, pp. 31-40. ↑ Horacio Tarcus, "La secta política. Ensayo acerca de la pervivencia de lo sagrado en la modernidad", en El Rodaballo. Revista de política y cultura, nº 9, Buenos Aires, verano 1998/99, pp. 13-33. ↑ Enzo Traverso, La historia como campo de batalla, Buenos Aires, Fondo de Cultura Económica, 2012, pp. 22; véase una crítica semejante en el estudio de Michael Heinrich que ofrecemos en este mismo número. ↑ Q. Edward Wang and Georg G. Iggers (eds.), Marxist historiographies. A global perspective, New York, Routledge, 2016. El estudio de Juan Maiguashca apareció inicialmente como "Latin American Marxist History: Rise, fall and resurrection", en Storia della Storiografia nº 62, Pisa, 2012, pp. 105-120. Hay una versión española de Isabel Mena: "Historia marxista latinoamericana: nacimiento, caída y resurrección", en Procesos. Revista ecuatoriana de historia nº 62, Quito, segundo semestre 2013, disponible en: http://revistaprocesos.ec/ojs/index.php/ojs/article/view/6/24 ↑ Juan Maiguashca , "Historia marxista latinoamericana: nacimiento, caída y resurrección", op. cit., p. 106. ↑
Invariablemente, y aunque no haya sido su propósito, en muchas ocasiones, en distintos estudios que hay sobre narrativa criminal, policíaca, el espionaje y el thriller se observa un hecho innegable: una confusión teórica sobre lo que son estas cuatro literaturas. Esto ha derivado en una prolongada discusión que no ha ayudado a disipar dicha confusión, sino todo lo contrario, la ha acentuado. Como bien apunta Rodríguez Joulia Saint Cyr (1970: 9) gran parte de los críticos y teóricos reúnen bajo la denominación de una serie de géneros y subgéneros que no corresponden a él. De ahí que dentro de la literatura hispanoamericana se considere novelas policíaca a Ensayo de un crimen (1943-1944) de Rodolfo Usigli, El túnel (1948) de Ernesto Sábato, Yo maté a Kennedy (1972) de Manuel Vázquez Montalbán, La cabeza de la hidra (1978) de Carlos Fuentes o Linda 67: historia de un crimen (1995) de Fernando del Paso, cuando ninguna de ellas lo es. Pero ¿por qué se da esta situación de confusión? Este conjunto de textos, junto a otros más, poseen un gran intercambio de tipologías discursivo-textuales criminales, policíacas, de espionaje y del thriller traspasando las fronteras de estas cuatro literaturas y provocando la ruptura del límite entre lo criminal, policíaco, espionaje y thriller, lo que, finalmente, lleva a toda una serie de confusiones y dudas: si un texto tiene como investigador a un criminal ¿es policíaco? Es indudable que la confusión entre estas cuatro narrativas tiene causas que van más allá de una lectura inadecuada por parte de los lectores: el problema se encuentra a un nivel profundo, en la enorme dificultad por delimitar las fronteras genéricas de ellos y de analizar debidamente las fluctuaciones de los elementos genéricos de cada una. Por tanto, se abre la posibilidad de estudiar el problema del límite entre lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller. Sin embargo, ¿es necesario un estudio de este problema? El problema de la ruptura de las fronteras de las literaturas criminal, policíaca, de espionaje y thriller ha sido estudiado de manera secundaria y casi desapercibida, ya que el denominado «género policíaco» ha «monopolizado» buena parte de los estudios como podemos ver a continuación "The Art of the Detective Story" (1924) de Austin Freeman, Le detectitte novel, et l'influence de la pensée sciéntifique (1929) de Regis Messac, Le roman policier (1941) Roger Caillois, The Art of the Mystery Story (1946) de Howard Haycraft, Petite histoire du roman policier (1956) de Fereydoun Hoveyda, Breve storia del romanzo poliziesco (1962) de Alberto del Monte, Le roman policier (1964) de Thomas Narcejac y Pierre Boileau, "Typology du roman policier" (1966) de Tzvetan Todorov, The Pursuit of Crime (1981) de Dennis Porter o Histoire du roman policier (1996) de Jean Bourdier, entre muchos otros. Mientras tanto, en lengua española se observan trabajos como "Leyes de la narración policial" (1933) y "Los laberintos policiales y Chesterton" (1935) de Jorge Luis Borges, Ensayo sobre la novela policial (1947), el prólogo a Los mejores cuentos policiales mexicanos (1955) y "Qué es lo policíaco en la narrativa" (1987) de María Elvira Bermúdez, Biografía de la novela policíaca (1956) de Juan José Mira, La novela policíaca: síntesis a través de sus autores, sus personajes y sus obras (1973) de César E. Díaz, De la novela policíaca a la novela negra (1986) y La novela policíaca en España (1993) de Salvador Vázquez de Parga, La novela policíaca actual (1990) de Carmen García Pardo, La novela criminal española (1991) de José Valles Calatrava, así como su prólogo "La novela criminal" que realizó Sánchez Trigueros, La novela policíaca española. Teoría e historia crítica (1994) de José T. Colmeiro, El cadáver en la cocina: la novela criminal en la cultura del desencanto (1997) de Joan Ramón Resina, Los héroes de la novela policíaca (2006) de Sergi Echaburu Soler o Poética del relato policíaco: de Edgar Allan Poe a Raymond Chandler (2006) de Iván Martín Cerezo, entre otros. Sin embargo, es posible apreciar investigaciones sobre lo criminal, el espionaje y el thriller: La novela de intriga (1970) de Carlos Rodríguez Joulia St.- Cyr, Bloody Murder. From the Detective Story to the Crimen Novel (1972) de Julian Symons, Thrillers, la novela de misterio (1978) de Jerry Palmer, Le Roman d'espionnage (1983) de Gabriel Veraldi, Panorama du roman d'espionnage contemporain (1986) de Jean-Paul Schweighaeuser, Diccionario de la novela negra norteamericana (1986) y La novela negra (1986) de Javier Coma, The literature of crime and detection: an illustrated history from antiquity to the present (1988) de Waltraud Woeller y Bruce Cassiday o La novela de espías y los espías de novela (1991) de Juan Antonio de Blas. Ahora bien, ya sea en lo criminal, policíaco, espionaje o thriller una gran parte de estas investigaciones se orientan a revisiones historiográficas –sobre todo de lo policíaco– e intentos por definir estas literaturas. Si bien, es cierto que en algunos de ellas existen análisis socio-críticos, semánticos y pragmáticos, sin olvidar algunos hermenéuticos, intertextuales o paratextuales. Realmente son pocos los estudios, y algunos muy desconocidos, respecto a las continuas fluctuaciones de elementos entre lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller. Su evolución ha propiciado que los límites establecidos en ellos se hayan ido desdibujando, en gran medida por el «realismo noir norteamericano», el polar y «neopolar francés» y por disrupciones entre las cuatro narrativas que ha llevado a la aparición de vertientes como la literatura policíaca metafísica, la narrativa psicológica crimino-policíaca, el nuevo realismo socio-crítico criminal o policíaco, el thriller político o la nueva narrativa de espionaje, pero también por narrativas nacionales como la alemana, la escandinava, la italiana, la española, la japonesa, la mexicana, la argentina, entre muchas otras, las cuales han aportado o variado los elementos de lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller a tal punto que difícilmente se percibe una marca divisoria clara y precisa entre ellos cuatro. El hecho concreto es que con estas nuevas vertientes en lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller, los distintos elementos discursivo-textuales que los componen van a transitar libremente entre uno y otro género, violando continuamente la «frontera genérica» entre ellos. El enigma ya no se referirá exclusivamente a quién era el asesino o si el espía/agente secreto podría trastocar los planes del enemigo. Las motivaciones psicológicas, la crítica social, lo fantástico o la metafísica influirán notablemente en ellos. Ahora bien, el propósito de esta investigación se centra en varios objetivos. Primero, un estudio que incluya lo criminal, policíaco, espionaje y thriller dentro de un concepto que hemos denominado «narrativa sensacional de suspense», aunque este esfuerzo no es el primero que se realiza. Ya en el 1970, Carlos Rodríguez Joulia St.- Cyr lo había intentado con La novela de intriga, un estudio de lo policíaco, lo criminal, el espionaje y el misterio, en el cual el propio investigador deja ver un hecho indiscutible: la confusión en torno a qué es lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el misterio, y la cercanía que hay entre estas cuatro narrativas. Sin embargo, Rodríguez Joulia St.- Cyr se concentra de manera exclusiva en buscar los orígenes literarios, así como su desarrollo a nivel histórico. Dos años más tarde, el británico Julian Symons en Bloody Murder realiza interesantes apuntes y acotaciones en torno a lo que llama «sensational literature» y que engloba a textos con "violent ends in a sensational way" Symons (1992: 4) y en el que encontramos textos criminales, policíacos, de espionaje y thrillers, así como nuevos híbridos literarios. Desgraciadamente, Symons no lo estudió con mayor detalle. Hay que precisar que son los estudios de este investigador y autor británico los que sirven como punto de arranque de este estudio. El diseño y empleo de un término como «narrativa sensacional de suspense» no es al azar, responde a una necesidad que aparece debido a una serie de confusiones que se dan alrededor de las definiciones que hay en torno a lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller. En más de una ocasión se hace mención al denominado «género negro» sin especificar debidamente qué es o confundiéndolo: ¿Se trata de la literatura sensacional norteamericana de la primera mitad del siglo XX que incluye la obra de autores como Dashiell Hammett, Raymond Chandler, James M. Cain o Mickey Spillane? ¿O, tal vez, es un híbrido literario, producto de las fluctuaciones y combinaciones tipológicas criminales, policíacas, del espionaje y del thriller? El hecho es que ese clima de confusión ha llegado a tal punto que, incluso, se ha llegado a considerar la obra de autores clásicos, como Sir Arthur Conan Doyle, como olvidando el verdadero significado que Todorov (1966) acuña y que se relaciona directamente con la literatura norteamericana sensacional de la primera mitad del siglo XX. Es decir, se cae en un grave error al denominar la obra de Poe, Gaboriau, Christie o Wallace como novela negra, ya que no poseen ninguna característica de esta. A esta confusión se le suma el desconcierto que plantea la narrativa de espionaje y el thriller: ¿dónde incluirlos, en lo policíaco o en la llamada «novela negra» como varios estudios hacen, o es posible plantear que se trata de narrativas con características históricas, semánticas, pragmáticas y genéricas propias? El segundo objetivo es dejar de lado las confusiones en torno al empleo del término «novela negra» al cual sustituiremos por «realismo noir norteamericano». El primero hace referencia a esa literatura norteamericana sensacional que comienza a gestarse a principios de los veinte, y se ajusta al concepto de «realismo» que Raymond Chandler señala en su artículo The Simple Art of Murder (1950) y hace referencia directa a la denominación noir acuñado en la Série Noire, dirigida por Duhamel, a finales de la década de los cuarenta del siglo pasado. El tercer objetivo se centra en una serie de necesidades de la teoría literaria que solo en ocasiones, y de manera secundaria y casi desapercibida, han sido analizadas: la distinción conceptual entre lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller que lleva, inexorablemente a otro objetivo: al problema del límite y las fluctuaciones fronterizas en la «narrativa sensacional de suspense», es decir entre lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller, sin olvidar los nuevos híbridos literarios tales como el thriller de espionaje o policíaco o la narrativa psicológica crimino-policíaca. A través de un grupo de obras estudiadas observaremos cómo lo que denominamos «límites fronterizos genéricos» son traspasados en dichos textos por las continuas fluctuaciones comunicacionales de los elementos genéricos canónicos que componen lo criminal, policíaco, espionaje y al thriller. No obstante, es necesario establecer ciertos límites al conjunto de textos por analizar, ya que de lo contrario se correría el riesgo de exceder la propia investigación. Son siete las novelas elegidas: El complot mongol (1969) de Rafael Bernal, Noviembre sin violetas (1995) de Lorenzo Silva, Plenilunio (1997) de Antonio Muñoz Molina, Deudas pendientes (2005) de Antonio Jiménez Barca, Ojos de agua (2007) de Domingo Villar, El baile ha terminado (2009) de Julián Ibáñez y La soledad de Patricia (2010) de Carles Quílez, las cuales comparten un elemento temático en común: la investigación. La obra del mexicano Rafael Bernal se extiende a lo largo de más de veintiocho años de trabajo y en él queda constancia de sus grandes inquietudes: el mar, al cual plasma en el libro de relatos Gente de mar (1950) y en El gran océano –inédito hasta 1992–; la selva, la cual cobra vida en el libro de relatos Trópico (1946), en las novelas Su nombre era muerte (1947), Caribal, el infierno verde (1955) y en Tierra de gracia (1963); y lo policíaco, aunque, paradójicamente, este fuera una simple distracción para este autor, ya que solo le dedicaba ciertos momentos para descansar de proyectos más serios, desde su punto de vista. No obstante, Bernal puede ser considerado, con toda justicia, como una de las piedras fundamentales en la aparición y desarrollo de la narrativa policíaca mexicana, sin olvidar el crimen, el thriller y el espionaje, comenzando su periplo en la revista mexicana Selecciones Policías y de Misterio, fundada en 1946 por Antonio Helú, donde se publicarían relatos suyos como La muerte poética o La muerte madrugadora, sin olvidar otros cuentos como Un muerto en la tumba (1946) y La media hora de Sebastián Constantino (1946). Asimismo, Bernal nos presenta a uno de los primeros personajes investigadores amateurs mexicanos: Teódulo Batanes. En Un muerto en la tumba (1946) se descubre en la zona arqueológica Montealban el cadáver de un senador con un puñal de pedernal clavado en el pecho. Uno de los antropólogos, Batanes, es el encargado de resolver el misterio. Resulta curioso observar a este detective miope, desgarbado y que tiene el vicio de usar sinónimos de cuanta cosa dice. Un personaje basado, indudablemente, en la figura del padre Brown de G.K. Chesterton y que aparecería, nuevamente, en la novela corta De muerte natural (1948), en donde Batanes esclarece el homicidio, en un hospital, de una adinerada viuda. Otros textos policíacos de Bernal son El extraño caso de Aloysius Hand y El heroico Serafín, ambas incluidas, junto a De muerte natural, en el libro Tres novelas policíacas, las cuales observan ese estilo clásico de la «novela enigma». Es en 1969 cuando Bernal cambia radicalmente su estilo, alejándose de los esquemas clásicos gracias a la influencia del «realismo noir norteamericano», ofreciendo la obra maestra del thriller de espionaje mexicano: El complot mongol. Respecto a Lorenzo Silva su nombre es ya reconocido dentro de la literatura policíaca gracias a la pareja de guardias civiles conformada por el brigada Rubén «Vila» Bevilacqua, y la sargento Virginia Chamorro, una singular pareja de frustrados: el primero, un psicólogo que jamás logró ejercer como tal; la segunda, hija de un militar, que no logró acceder a ninguna de las academias de los ejércitos –tierra, mar y aire– y que encontró en la Guardia Civil el único resquicio para salvar la tradición militar familiar. El lejano país de los estanques (1998) es el nacimiento de la sociedad conformada por el entonces sargento «Vila» y la novata guardia Chamorro que deberán esclarecer el asesinato de una adinerada joven austriaca en los ambientes nocturnos de un pequeño centro turístico de Mallorca. La pareja aparece de nuevo en El alquimista impaciente (2000) en donde exploran el tema de la corrupción urbanística. En La niebla y la doncella (2002) Vila y Chamorro parten hacia la isla canaria de La Gomera para resolver el asesinato de un joven y que destapará un escándalo para la Guardia Civil. En la antología de cuentos Nadie vale más que otro (2004) Vila y Chamorro se enfrentan a cuatro distintos asesinatos que lo único que les demuestra es que el crimen se da por las situaciones más simple y absurdas. En La reina sin espejo (2005) la pareja de guardias civiles se enfrentan a un caso multipublicitado: el asesinato de una célebre periodista de Barcelona casada con un consagrado escritor catalán. Un caso que abandona los terrenos del crimen pasional y que lleva a Vila y Chamorro por los entresijos de la pornografía, la prostitución y la trata de blancas en Barcelona. La estrategia del agua (2010) nos enseña a un Rubén Bevilacqua ya ascendido a brigada, pero también profundamente decepcionado del sistema judicial español, que tiene que investigar, junto a la también ascendida sargento Virgina Chamorro, el asesinato de un criminal de poca monta y que entraña profundos lados oscuros que deberán averiguar los dos guardias civiles, acompañados de un nuevo compañero: el guardia Arnau. Sin embargo, el contacto de Lorenzo Silva con lo policíaco, y en general con la , no se da exclusivamente con la serie protagonizada por Vila y Chamorro. En La sustancia interior (1996) observamos un thriller histórico, mientras que en Muerte en el "reality show" (2007) dos nuevos investigadores aparecen: la juez Tortosa y el comisario Fonseca, los cuales deberán esclarecer un asesinato cometido «en directo». Asimismo otro texto del escritor madrileño sobresale enormemente: su primera novela Noviembre sin violetas (1995) la cual mantiene un pulso intertextual con La llave de cristal (1931) de Dashiell Hammett. Beatus Ille (1986), la primera novela de Muñoz Molina, recorre ampliamente los terrenos policíacos gracias a su discurso de investigación. No obstante, el texto no pertenece al género policíaco. La interdiscursividad que se presenta en este caso, por sí sola, no es elemento de peso para considerar Beatus Ille una novela policíaca. Hacen falta personajes, temática, ambientación, atmósfera y otros elementos para considerar el texto dentro de lo policíaco. Todo lo contrario sucede en El invierno en Lisboa (1987). Esta novela presenta características mucho más cercanas a lo criminal y a lo policíaco: hechos, acciones, personajes y temática, entre otros elementos, van construyendo una historia que, sin embargo, presenta serias dificultades: ¿es criminal o policíaca? Indudablemente la novela recuerda mucho los antiguos textos del «realismo noir norteamericano», como Cosecha roja o El halcón maltés de Dashiell Hammett, que, en muchas ocasiones, son tan difíciles de definir y clasificar. Una situación que se repetirá en Beltenebros (1989) solo que con mayores dificultades: el texto discurrirá entre lo policíaco, lo criminal, el thriller político y la narrativa de espionaje. En el caso de Los misterios de Madrid (1992) Muñoz Molina ofrecerá una parodia de lo policíaco a partir de un investigador –Lorencito Quesada– que poco o nada tiene que ver con los legendarios private eyes del «realismo noir» o del polar francés. El dueño del secreto(1994) regresa a la problemática presentada en El invierno en Lisboa y Beltenebros: ¿es un texto criminal o policíaco? Cualquier afirmación tajante puede estar errada, ya que, aunque posee algunos elementos propios de ambos géneros, como el discurso, la ambientación y la atmósfera, la novela está en estrecho contacto con la narrativa de espionaje y el thriller político, haciendo muy difícil una clasificación. Dentro de la obra de Muñoz Molina relacionada con lo criminal y lo policíaco, así como con otros géneros afines, encontramos los cuentos Te golpeare sin cólera (1983), El hombre sombra (1983), La colina de los sacrificios (1993), La poseída (1993), Borrador de una historia (1993), La gentileza de los desconocidos (1993) y la novela corta Nada del otro mundo (1993). Pues bien, con Plenilunio (1997) el escritor giennense explora el relato criminal y policíaco de un modo complejo: se adentra en el conflicto psicológico del investigador y del criminal, como lo lleva a cabo el norteamericano Thomas Harris en El dragón rojo (1980-1981) y El silencio de los corderos (1988), pero enlazando también elementos del thriller, el espionaje y el terrorismo. Por lo que se refiere al periodista Antonio Jiménez Barca su obra literaria se traduce en una sola novela: Deudas pendientes (2006), un texto que encierra ciertas complejidades propias del thriller y de lo policíaco. Domingo Villar es un autor gallego que saltó a la palestra en el año 2006 con la publicación de Ojos de agua, protagonizada por el inspector de policía Leo Caldas. Un texto que, como la siguiente aventura de Caldas, La playa de los ahogados (2009), mantiene un esquema clásico: un crimen se ha cometido y es necesario investigarlo y solucionarlo. No es de llamar la atención que este esquema siga siendo popular en la narrativa policíaca en general, ya que dicho esquema es actualizado por los escritores y adaptado a las necesidades de cada texto. Finalmente, la narrativa policíaca en este siglo XXI sigue manteniendo la máxima clásica de . Así pues, tanto en el caso del asesinato del músico Luís Reigosa como el del marinero Justo Costelo, el inspector Caldas continúa con los esquemas clásicos, pero lo interesante es que Domingo Villar le ofrece al lector una visión del complejo entramado psicológico gallego. Es interesante señalar dentro de la obra de Villar el cuento Las hojas secas, incluido en la antología de cuentos La lista negra (2009), compilada por Àlex Martín Escribà y Javier Sánchez Zapatero. En pocas ocasiones se tiene la oportunidad de escribir sobre el personaje-arquetipo del testigo. Pues bien, Domingo Villar es de los pocos que logra hacerlo a través de un ex-presidiario, testigo involuntario de un crimen que lo acosará hasta el día de su muerte. El santanderino Julián Ibáñez comienza en 1980 su andadura por el «sensacional de suspense» con la novela La triple dama, protagonizada por Ramón Ferreol, una antigua estrella de fútbol, un texto que se mueve entre el thriller y lo policíaco. Al año siguiente Ibáñez entregaría La recompensa polaca, pero es en 1983, con No des la espalda a la paloma, cuando Ramón Ferreol vuelve a aparecer en medio del suicidio de un agente de aduanas. En 1986, con Tirar al vuelo, Ibáñez sorprende con un investigador que se aleja totalmente de las convenciones policíacas respecto al personaje del investigador, ya que Novoa no se acerca en lo mínimo a ello. Él es un simple ciudadano común y corriente, un contable, que ve cómo el peligro se aproxima y tiene que tomar cartas en el asunto. Un personaje que protagonizaría Llámala Siboney (1988), Mi nombre es Novoa (1994) y ¿Y a ti, dónde te entierro, hermano? En la década de los noventa, Julián Ibáñez abordaría el espionaje gracias a Bar Babilonia (1991) y continuaría con otras dos novelas policíacas: Doña Lola (1991) y No hay semáforos para los pumas (1995). Ya en el año 2001, Ibáñez ofrece dos nuevos textos. En Manuela Scarface el escritor santanderino aborda la temática criminal de los asaltos bancarios a través de Paco Peña, un joven que trabaja en una sucursal de la Caixa, que una mañana de finales de agosto se ve sorprendido, junto al resto de empleados y clientes, por unos atracadores, por una banda de asaltantes. Pero la verdadera sorpresa de Paco será la de reconocer, a pesar de los disfraces de los delincuentes, a su novia Manuela. Una situación que puede hundirlo, ya que la policía y sus compañeros lo considerarían un cómplice. Mientras tanto, en Entre trago y trago observamos el bajo mundo del crimen, con sus ambientes turbios y corruptos, a través de Maza, un delincuente de poca monta que regenta El Oasis, un club de mala muerte perdido en una carretera de la Mancha. Un texto que nos recuerda los ambientes sórdidos del «realismo noir norteamericano» y el polar francés de los cincuenta. Resulta interesante ver esos ambientes deprimentes en la siguiente novela de Ibáñez: La miel y el cuchillo (2003), de la mano de otro delincuente menor, Florín, un cuarentón con humor crudo perteneciente a ese Madrid tenebroso, por el que este personaje deambulará golpeando y robando. En Los gorilas no bromean con la corbata (2006) observamos a Viriato Ansorena Ruiz, un chico común y corriente que por las noches se transforma en un fotoperiodista de sucesos que busca la noticia que lo encumbre a él y a su padre, sin pensar siquiera que ese descubrimiento puede costarle la vida. Por su parte, Que siga el baile (2006) es un regreso a esa temática policíaca híbrida, en la que el policía Barquín, testigo directo del extraño robo al bar Boom Boom, se verá implicado en una peligrosa investigación, en la búsqueda de las dos extrañas atracadoras. Con Crimen supertranquilo (2007), Ibáñez parece adoptar las convenciones del best-seller: quinientos años después de la expulsión de los judíos de Sefarad –la España hebrea– Rebeca viaja con su padre a Toledo en busca de la casa de sus antepasados. Pero, sorpresivamente, el hombre muere en el Servicio de Urgencias del Hospital. La historia se complica ya que existe la posibilidad de que el padre de Rebeca haya sido asesinado por causa de una antigua llave de oro que se encontraba entre sus pertenencias, robadas, supuestamente, por Pedro, el celador del hospital donde murió el viejo judío. El baile ha terminado (2009) muestra a Ruano Peredo, un policía del Grupo de Localización de Fugitivos, con sede en Gijón, que se verá envuelto en una compleja trama de espionaje en el que estarán involucradas la Guardia Civil, la Ertzaintza y ETA. En El beso del samurái (2009) la temática policíaca continúa dentro de la obra de Ibáñez. Pedro, el ayudante del detective de un hotel, se hace amigo de Helga, una joven alemana. Una amistad que le llevará a involucrarse en una misteriosa trama criminal. La búsqueda de Julián Ibáñez por romper los esquema y paradigmas policíacos la encontramos en Perro vagabundo busca a quién morder (2009) un extraño relato policíaco que, aparentemente, no encierra ningún crimen dentro de la forzada investigación que realiza el misterioso . En 2010, Ibáñez entrega tres nuevos textos en donde la investigación y el crimen se entrelazan de la mano de policías corruptos y delincuentes pragmáticos: Giley, un relato que explota al personaje del sospechoso, encarnado en el policía Cobos; Calle intranquilidad, un viaje hacia ese Bilbao testigo del tráfico de inmigrantes y el negocio de la prostitución y El invierno oscuro, la visión de un joven inmerso en el peligroso mundo de la kale borroka etarra. Por lo que respecta al barcelonés Carles Quílez, su acercamiento a lo «sensacional de suspense» comienza con Atracadores (2002) una antología en la que se observan once distintos cuentos basados, en clave periodística, en los crímenes de las principales bandas de atracadores de Barcelona en los últimos veinticinco años. Una interesante antología que nos enseña una ciudad oculta y sombría, que nada tiene que ver con el destino turístico que de ella se presenta. En Asalto a la virreina (2004), Quílez saca a relucir su identidad periodística al reconstruir un evento criminal sucedido en Barcelona en 1991: el intento de robo de la colección de monedas del Gabinet Numismàtic de Catalunya, instalado en el palacio de la Virreina. Ese rasgo del escritor barcelonés por reconstruir historias a partir de una visión periodística se repite en dos de sus siguientes novelas: Psicópata: un relato basado en personajes y situaciones (2005), en donde un periodista recibe el encargo de componer la historia de un psicópata encarcelado, un trabajo que se transforma en un sombrío reto que nos acerca a la problemática psiquiátrica de los asesinos seriales y su complejo mundo interno y La soledad de Patricia (2010), un texto que se mueve entre el espionaje y el thriller. Piel de policía (2006) se ajusta más a lo policíaco. Lacruz, ex policía que regenta un bar de mala muerte en Barcelona, ve cómo su vida cambia radicalmente a partir del asesinato de Castán, su ex compañero en la policía. Así pues, la elección de El complot mongol (1969), de Rafael Bernal, Noviembre sin violetas (1995), de Lorenzo Silva, Plenilunio (1997), de Antonio Muñoz Molina, Deudas pendientes (2005), de Antonio Jiménez Barca, Ojos de agua (2007), de Domingo Villar, El baile ha terminado (2009), de Julián Ibáñez y La soledad de Patricia (2010), de Carlos Quílez, no es al azar, sino meditada. En estas novelas se puede observar el traspaso de las diferentes fronteras que «separan» lo criminal, lo policíaco, el thriller y el espionaje, es decir la «narrativa sensacional de suspense», lo cual plantea la posibilidad de que no exista alguna frontera. Y, aunque en Ojos de agua se aprecia el esquema policíaco clásico, esto se debe a una razón: es necesario un texto policíaco para que pueda compararse este con uno criminal, un thriller o uno de espionaje y se ponga en evidencia las diferencias entras estas narrativas. Ahora bien, ante la situación de traspaso de fronteras genéricas por parte del grupo de novelas seleccionadas, surge una duda en especial ¿cómo llevar a cabo esta investigación? Una gran cantidad de hipótesis aparecen de inmediato, pero lo cierto es que lo más importante es poseer un método. Generalmente, muchos estudios de lo criminal y lo policíaco, sin olvidar los del espionaje y el thriller, son históricos, compendios a través de los cuales observamos la historia literaria de ambos géneros, así como su desarrollo y evolución. Investigaciones interesantes y valiosas, dado que rastrean obras y autores que habían sido olvidados o estaban ocultos bajo algún seudónimo. Sin embargo, una visión histórica no es suficiente para abordar un problema como el del límite entre lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller que se plantea a partir de El complot mongol, Noviembre sin violetas, Plenilunio, Deudas pendientes, Ojos de agua, El baile ha terminado y La soledad de Patricia. Para ello son necesarias más herramientas de investigación y por eso emplearemos directrices y pautas de análisis histórico, pragmático-hermenéutico, discursivo-textual, semántico y de la teoría del género. En el primer capítulo reflexionaremos sobre los aspectos históricos y para eso se llevará a cabo una revisión histórica literaria de lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller, solo que de una manera algo distinta: separando estas cuatro narrativas Como ya hemos señalado, existe una confusión entre ellas que puede llevar a pensar, como de hecho ocurre, que criminal es sinónimo de policíaco o viceversa, o que el espionaje está supeditado a lo policíaco, todo esto falso. A partir de esta visión histórica apreciaremos cómo se gesta cada narrativa de manera independiente haciendo ver que se trata de manifestaciones literarias distintas. Esto nos permitirá, por un lado, ver dónde se sitúan las novelas estudiadas, es decir, de dónde vienen, cuáles han sido los antecedentes históricos, sus antepasados literarios. Por otro lado, vamos a observar cómo una idea que venimos gestando desde hace varios años ve la luz. La inmensa mayoría de los críticos e investigadores consideran a Edgar Allan Poe como el padre de la novela policíaca, pero se olvidan o no le dan la importancia a un nombre clave sin el que el género, muy probablemente, no habría comenzado a popularizarse y establecerse: Charles Dickens. La labor de Dickens es enorme y, aunque desgraciadamente no podemos analizar su obra criminal y policíaca, es un objetivo claro revalidar su enorme labor haciendo mención de su trabajo. En el segundo capítulo emplearemos la pragmática-hermenéutica como uno de los pilares de análisis del problema del límite de la «narrativa sensacional de suspense» y la fluctuación tipológica en las novelas estudiadas, lo cual hará ver cuáles de estos textos se acercan más a formas híbridas. De igual modo, la pragmática-hermenéutica nos ayudará en otros dos objetivos: analizar las relaciones intratextuales de las novelas de Rafael Bernal, Lorenzo Silva, Antonio Muñoz Molina, Antonio Jiménez Barca, Domingo Villar, Julián Ibáñez y Carles Quílez, pero también las extratextuales, aquellas en las cuales se puede generar la confusión, en las relaciones que mantendrá el texto no solo con el lector, sino con mediadores que pueden resultar nocivos en el proceso comunicacional al generar dicha confusión. Asimismo, y aunque no realizaremos un profundo análisis comparativo, estableceremos relaciones comparativas entre los siete textos elegidos con el fin de evidenciar las diferencias entre lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller. Por lo que se refiere al capítulo dedicado al discurso y al texto es necesario aclarar que se transita por terrenos en los que no hay acuerdos respecto a la definición de ambos conceptos. No es nuestro propósito buscar una definición de ellos, sino reflexionar sobre ambos en base a las definiciones de un grupo de especialistas, y de este modo abordar el problema del límite en base a una confusión ya algo antigua: ¿existe un discurso policíaco, uno criminal o uno de espionaje? ¿Si es así ¿por qué un texto con un discurso policíaco como El maestro de San Petersburgo (1994) de Coetzee, no puede ser catalogado como policíaco? Nuestro interés se centrará en analizar el discurso criminal, policíaco, de espionaje y del thriller y ponerlo en referencia a El complot mongol, Noviembre sin violetas, Plenilunio, Deudas pendientes, Ojos de agua, El baile ha terminado y La soledad de Patricia junto a otros textos para observar cómo aparece el problema del límite, de la mano de una serie de elementos textuales que se mueven de una narrativa –lo policíaco– a otra –el thriller–. Otro pilar fundamental para esta investigación es la semántica. Empleando la semántica de «mundos posibles» y dos teorías de ella, la de Tomás Albaladejo y Lubomír Doležel, se observará cómo se va construyendo un texto ficcional, en este caso las novelas estudiadas, a partir de parámetros comunicacionales. Gracias a este análisis se confirmarán las impresiones pragmáticas: las novelas de Bernal, Silva, Muñoz Molina, Jiménez Barca, Villar, Ibáñez y Quílez se construyen a partir de eventos diametralmente opuestos: el crimen e investigación, terrorismo y espionaje contraterrorista, amenaza y seguridad, pero no bajo regímenes estrictos, sino como un texto en el que dos submundos, de acuerdo a la terminología de Albaladejo, el de los protagonistas y antagonistas de las obras estudiadas se enfrentan. Es imposible cerrar esta investigación sin tocar un tema espinoso en el que no hay grandes acuerdos: el del género. En el último capítulo tenemos el propósito de señalar los elementos genéricos de lo criminal, lo policíaco, el espionaje y el thriller y ver cómo se combinan, ofreciendo las señales del desplazamiento de la frontera entre estas narrativas y el problema de la confusión. También, y gracias a dos modelos genérico-comunicacionales, el de Kurt Spang y el de Jean Marie Schaeffer, tendremos la ocasión de vislumbrar cómo, de manera genérica, tratamos de ubicar las obras estudiadas y de confirmar su carácter híbrido. No obstante, es inevitable que en este capítulo hagamos mención al problema de la definición del género. Es claro que no se pretende dar una respuesta a dicho problema, ya que esto es imposible, pero lo que sí se llevará a cabo será, gracias a las propuestas de Spang, Schaeffer, García Berrio y Huerta Calvo, construir una definición que sea práctica para esta investigación. Igual de importante será observar en este último capítulo un concepto diseñado para esta investigación: el «sensacional de suspense». En ningún momento buscaremos defenestrar a la «novela negra», pero sí analizaremos el problema que aparece al utilizar dicho término, y las bondades que hay en torno al concepto «sensacional de suspense». Hay que aclarar que este estudio no está divido en dos secciones, una de metodología y otra de aplicación. Por el contrario, lo llevaremos a cabo in sito, es decir realizando la metodología y la aplicación conjuntamente. El motivo de esta elección es de carácter práctico, pues en anteriores trabajos de investigación nos ha funcionado correctamente.