La Corte costituzionale, pur ritenendo la disciplina dell'ergastolo ostativo - nella parte nella quale preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro - in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ha deciso di rinviare la trattazione delle questioni al giorno 10 maggio 2022, per consentire un intervento al legislatore. ; The Constitutional Court, while considering the discipline of life imprisonment - in the part in which it absolutely precludes, to those who have not usefully collaborated with the justice, the possibility of accessing the procedure to request conditional release, even when his repentance results safe - in contrast with articles 3 and 27 of the Constitution and with article 3 of the European Convention on Human Rights, has decided to postpone the discussion of the issues to May 10, 2022, to allow the legislator to intervene.
One of the ways by which the legal system has responded to different sets of problems is the blurring of the traditional boundaries of criminal law, both procedural and substantive. This study aims to explore under what conditions does this trend lead to the improvement of society's welfare by focusing on two distinguishing sanctions in criminal law, incarceration and social stigma. In analyzing how incarceration affects the incentive to an individual to violate a legal standard, we considered the crucial role of the time constraint. This aspect has not been fully explored in the literature on law and economics, especially with respect to the analysis of the beneficiality of imposing either a fine or a prison term. We observed that that when individuals are heterogeneous with respect to wealth and wage income, and when the level of activity can be considered a normal good, only the middle wage and middle income groups can be adequately deterred by a fixed fines alone regime. The existing literature only considers the case of the very poor, deemed as judgment proof. However, since imprisonment is a socially costly way to deprive individuals of their time, other alternatives may be sought such as the imposition of discriminatory monetary fine, partial incapacitation and other alternative sanctions. According to traditional legal theory, the reason why criminal law is obeyed is not mainly due to the monetary sanctions but to the stigma arising from the community's moral condemnation that accompanies conviction or merely suspicion. However, it is not sufficiently clear whether social stigma always accompanies a criminal conviction. We addressed this issue by identifying the circumstances wherein a criminal conviction carries an additional social stigma. Our results show that social stigma is seen to accompany a conviction under the following conditions: first, when the law coincides with the society's social norms; and second, when the prohibited act provides information on an unobservable attribute or trait of an individual -- crucial in establishing or maintaining social relationships beyond mere economic relationships. Thus, even if the social planner does not impose the social sanction directly, the impact of social stigma can still be influenced by the probability of conviction and the level of the monetary fine imposed as well as the varying degree of correlation between the legal standard violated and the social traits or attributes of the individual. In this respect, criminal law serves as an institution that facilitates cognitive efficiency in the process of imposing the social sanction to the extent that the rest of society is boundedly rational and use judgment heuristics. Paradoxically, using criminal law in order to invoke stigma for the violation of a legal standard may also serve to undermine its strength. To sum, the results of our analysis reveal that the scope of criminal law is narrow both for the purposes of deterrence and cognitive efficiency. While there are certain conditions where the enforcement of criminal law may lead to an increase in social welfare, particularly with respect to incarceration and stigma, we have also identified the channels through which they could affect behavior. Since such mechanisms can be replicated in less costly ways, society should first try or seek to employ these legal institutions before turning to criminal law as a last resort.
La conservazione, protezione e trasmissione alle generazioni future del patrimonio culturale ereditato dal passato ha conosciuto una crescente regolamentazione, a livello sia nazionale sia internazionale, a partire almeno dall'inizio del ventesimo secolo. Oggi temi quali il contrasto al traffico di beni culturali e la restituzione di oggetti illecitamente (o 'ingiustamente') esportati dai Paesi di origine presentano una rilevanza sempre maggiore nell'agenda politica e legislativa di molti Stati e organismi internazionali. Questo saggio vuole indagare come un approccio 'giusletterario' (con un'enfasi sul concetto di Giustizia) al diritto del patrimonio culturale possa giovare al dibattito attualmente in corso, il quale tocca, oltre a questioni giuridiche assai complesse, anche implicazioni simboliche, profondamente radicate e assai sfaccettate, di natura storica, politica e socio-economica, di estrema attualità. Attraverso l'analisi di alcuni rilevanti esempi di letteratura di viaggio e di narrativa del diciottesimo e diciannovesimo secolo, il presente contributo si propone di evidenziare l'importanza di una corretta 'contestualizzazione' per il raggiungimento di 'giuste' soluzioni ai conflitti che sorgono in esito a 'crimini' contro il patrimonio culturale, e di suggerire come un approccio più 'narrativo' a tali conflitti potrebbe favorire un'efficace applicazione di modelli di alternative dispute resolution e, più specificamente, di programmi di giustizia riparativa, ai sempre più numerosi casi di richieste di 'rimpatrio' di beni culturali. ; The conservation, protection and passing to future generations of the cultural heritage received from the past has known a huge increase in both national and international regulation since at least the beginning of the Twentieth Century. Currently, issues such as cultural property trafficking and the return and restitution of cultural objects illegally (or 'unjustly') taken away from their places of origin are of ever increasing relevance in the political and legislative agenda of many countries and international organizations. In this essay, we explore how a 'Law and Literature' – or, better, a 'Justice and Literature' – approach to cultural heritage law could benefit the ongoing debate, which involves, besides very complex legal issues, also deeply rooted and multifaceted symbolic implications of historical, political and socio-economical import and topicality. By discussing some relevant examples of Eighteenth and Nineteenth Century travel literature and narrative, this article suggests the importance of 'contextualization' for a 'just' solution of conflicts arising from 'crimes' against cultural heritage, and how a more 'narrative' approach to said conflicts could pave the way for a successful application of alternative dispute resolution techniques and, more specifically, restorative justice programmes, to questions of repatriation of cultural objects.
Nel sistema della tutela dei beni vita e incolumità individuale, predisposto dal codice penale, i delitti di abbandono di minori o incapaci previsti dall'art. 591 c.p. costituiscono delle figure indubbiamente 'minori'. Nondimeno, reclamano attenzione e sono degne di studio: non solo perché incarnano offese, sia pur in forma prodromica, di beni di primaria importanza, ma soprattutto perché manifestano una non trascurabile 'vitalità' in sede giurisprudenziale. L'ambito tradizionale e, a lungo, pressoché esclusivo di applicazione dell'art. 591 c.p., è stato costituito dalle relazioni familiari e domestiche. Da qualche decennio il raggio di azione dell'art. 591 c.p. si è, tuttavia, ampliato di molto. Anche per effetto dei mutamenti dei costumi familiari e sociali, nonché delle accresciute possibilità, e aspettative, di assistenza da parte di strutture pubbliche e private, i confini applicativi dei delitti di abbandono di minori o incapaci hanno decisamente travalicato le mura domestiche, sicché oggi la maggior parte di applicazioni dell'art. 591 c.p. concerne situazioni di ricoveri e presenze in case di cura o strutture ospedaliere. L'art. 591 c.p. è andato così a coprire, in un certo senso, il 'buco' costituito dall'assenza di un'apposita fattispecie criminosa di pericolo, sotto la quale ricondurre e dar rilevanza penale anche a malpractices mediche, infermieristiche o, più in generale, assistenziali, non produttive di un evento di danno. Simili condotte di 'mala-sanità', o di 'mala-assistenza', allorché fortunatamente non sfocino nella morte o nella lesione dell'assistito, non possono certo essere perseguite penalmente alla stregua delle 'classiche' fattispecie colpose di omicidio o di lesioni personali: lo vieta la non configurabilità del tentativo del delitto colposo! La magistratura ha fatto, perciò, talora ricorso alla figura del delitto di abbandono di minori o incapaci (che, come vedremo, è delitto di pericolo). Quantunque il legislatore storico non avesse pensato all'estensione di tale fattispecie anche ad un siffatto ambito, si tratta comunque di un'estensione senz'altro legittima, naturalmente a patto che vengano rispettati – senza forzature indotte da bisogni emotivi di punizione – tutti i requisiti sostanziali cui è subordinata l'applicazione dell'art. 591 c.p. La rilevata 'vitalità' giurisprudenziale dell'art. 591 c.p è stata finora oggetto di scarsa attenzione da parte della dottrina, che ha per così dire 'abbandonato' tale norma alle sole aule giudiziarie, cosicché la 'prassi' ha potuto (meglio: ha dovuto) interpretare ed applicare l'art. 591 c.p. senza il conforto di un controllo critico da parte della 'teoria'. Eppure, i profili controversi connessi all'interpretazione dell'art. 591 c.p., sono numerosi e tutti gravidi di rilevanti ricadute applicative. Si pensi, solo a titolo di esempio, alla qualificazione del delitto in termini di reato di pericolo (pericolo concreto, pericolo astratto, o – come insiste ad affermare la giurisprudenza, con formulazione tanto ambigua quanto inusuale – pericolo potenziale?); alla relazione di custodia o di cura, alla sua natura (giuridica o anche solo fattuale?), e alla dubbia necessità della sua presenza anche nell'ipotesi di abbandono di minori; al dolo e al suo contenuto (in particolare, per quanto riguarda la necessità che l'elemento volitivo abbracci anche l'evento di pericolo); alla natura permanente o istantanea del delitto, con quanto ne consegue in ordine alla disciplina della prescrizione; alla incerta qualificazione degli eventi morte o lesione di cui al terzo comma (circostanze aggravanti o elementi costitutivi di un autonomo delitto?). Fornire a questi e ad altri problemi applicativi posti dall'art. 591 c.p. una soluzione razionalmente sostenibile – non esposta, come bandiera al vento, alla molteplice variabilità dei singoli casi – è possibile solo sulla scorta di un serrato confronto tra 'prassi' giurisprudenziale e 'teoria'. In questo libriccino si tenterà, pertanto, di mettere gli strumenti concettuali e l'arsenale argomentativo offerti dalla 'teoria' del diritto penale al servizio della 'prassi', nell'auspicio, già formulato da Delitala, di fornire in tal modo un contributo – certamente minimo rispetto a quelli, di ben più ampie proporzioni, che da più parti stanno felicemente giungendo in questi anni – allo sforzo di "riaccostare la legge alla vita" e così di sanare, come si augurava Pisapia, quel "divorzio tra la teoria e la pratica" che aveva reso "gli studiosi sempre più insensibili alle esigenze della vita, facendo loro dimenticare che il diritto è posto innanzitutto e sopratutto per risolvere delle questioni concrete e non per affermare dei principi che siano fine a sé stessi".
2011/2012 ; L'imputabilità rappresenta uno degli istituti più importanti, ma anche più controversi del nostro diritto penale. Identificata come la capacità di intendere e di volere, essa non trova nel codice penale una definizione in positivo, ma viene descritta attraverso le c.d. cause di esclusione dell'imputabilità, di cui agli artt. 88 e seguenti del codice (vizio di mente totale e parziale, ubriachezza ed intossicazione da stupefacenti, sordomutismo e minore età). Uno degli aspetti più problematici dell'imputabilità è la sua collocazione nella sistematica del reato; la dottrina, infatti, non è unanime nel considerarla quale presupposto della colpevolezza in quanto vivide sono ancora le correnti di pensiero che, coerentemente con la scelta codicistica operata dal legislatore, identificano l'imputabilità con una condizione del soggetto, uno status dell'uomo. Ciononostante, accantonate le divergenze di opinione su questo primo snodo (ritenute, peraltro, da alcuni superate a seguito della presa di posizione della Corte di Cassazione), di difficile soluzione risultano anche i rapporti tra l'imputabilità ed il vizio di mente, che ne rappresenta la principale causa di esclusione. In particolare, il concetto di vizio di mente ha subìto nel corso dei decenni numerose interpretazioni: il suo legame diretto con la scienza psichiatrica ne ha inevitabilmente influenzato l'evoluzione. Ed analogamente, anche la crisi della scienza ha svolto un ruolo fondamentale nel dibattito relativo a cosa debba intendersi con il concetto di infermità mentale. Abbandonata la convinzione che la scienza sia connotata da infallibilità e paragonabile a verità assoluta, viene così a mancare quel sicuro punto di riferimento a cui era solito rivolgersi il giudice al fine di trovare ausilio in tema di vizio di mente. Oggigiorno, pertanto, le incertezze scientifiche si riverberano nel processo penale quando l'interrogativo è capire se un soggetto era capace di intendere e di volere al momento in cui ha commesso una fattispecie di reato. Tanto la crisi si è fatta sentire, tanto da trasformarsi in vera e propria crisi dell'imputabilità, al punto da far sollevare voci in merito alla possibilità di eliminarne dal nostro codice il concetto stesso. Proposte inaccettabili considerata in primis la valenza costituzionale dell'imputabilità (come presupposto della colpevolezza) ed, in secundiis, il contrasto con i principi di tassatività e determinatezza. In questo quadro, alcuni neuroscienziati propongono, quale strumento per sopperire alle lacune ed ai limiti delle metodologie tradizionali in tema di perizia psichiatrica, l'utilizzo delle recenti tecniche di neuroimaging. Trattasi di un gruppo di discipline scientifiche che studia il funzionamento del cervello e del sistema nervoso; vengono analizzati la comprensione del pensiero umano, le emozioni ed i comportamenti biologicamente correlati, attraverso cui si manifesta o non manifesta il pensiero stesso, mediante l'utilizzo di strumenti altamente scientifici, atti ad esaminare molecole, cellule, reti nervose. Queste nuove metodologie hanno permesso ai neurologi di giungere a scoperte che, da alcuni punti di vista non possono non dirsi davvero interessanti (e per certi versi anche sensazionali): si pensi alla correlazione tra comportamento aggressivo e geni o alla possibilità di prevedere le scelte che il paziente farà grazie all'osservazione del funzionamento dei suoi neuroni. Non con altrettanto entusiasmo, però, i giuristi hanno accolto le neuroscienze come nuove alleate nella risoluzione delle difficoltà interpretative legate al concetto di vizio di mente e, quindi, di imputabilità. Tutt'altro. Si può affermare che l'opinione dominante serba un atteggiamento diffidente ed alle volte anche di totale rigetto di queste nuove tecnologie. La motivazione risiede nella paura che le nuove scoperte, se amplificate e portate agli estremi, possano cancellare il principio del libero arbitrio dell'uomo, possano portare all'assurdo di considerare gli uomini come tutti inimputabili perché dominati dal cervello ed incapaci, quindi, di autodeterminarsi nel mondo esterno. Come sempre, il punto di vista più corretto per valutare gli effetti e le conseguenze di una novità è quello che non si arrocca agli estremi, bensì prende le medesime distanze dagli stessi. Così come nei confronti delle neuroscienze: nessuna rivoluzione copernicana, l'uomo resta sempre l'essere libero e capace di muoversi tra motivi antagonistici operando delle scelte consapevoli, senza essere dominato dal suo sistema nervoso. Le tecniche di neuroimaging, però, e questo non lo si può e non lo si deve negare, apportano un grande ausilio nella redazione della perizia psichiatrica. La complessità e particolarità dei nuovi test introdotti permette di avere una visione più completa e più attendibile sulle condizioni mentali dell'individuo. Se accostate ai metodi tradizionali, il giudice dalle stesse potrà fruire, in fine, di una perizia più attendibile e completa, giovandosene così in sede di decisione e successiva motivazione. ; XXIV Ciclo ; 1982
A partire dall'analisi dei più recenti approdi giurisprudenziali della Corte EDU e della Corte costituzionale in materia in regime ostativo penitenziario (art. 4-bis ord. penit.), il contributo si propone di fornire una lettura critica delle posizioni che con varietà di accenti suggeriscono l'abolizione o comunque un forte ridimensionamento della figura dell'ergastolo c.d. "ostativo". Muovendo dall'idea che alla sanzione penale sia ascrivibile una varietà di funzioni, la riflessione proposta intende motivare la legittimità di una prospettiva che pur rivendicando la necessità di temperare il rigore del regime ostativo vigente al fine di garantirne una piena conformità con il finalismo risocializzante della pena, tuttavia, riconosce a tale particolare forma di detenzione, quando riferita ai reati di associazione di stampo mafioso e di criminalità organizzata, un ruolo cruciale nel contesto degli interventi complessivamente messi in campo dal legislatore penale per il contrasto alle mafie.
Anche per i più esperti conoscitori della materia penale, la tematica del "delitto di associazione mafiosa" risulta sempre fonte di un certo disagio: non si può, infatti, parlare, scrivere, ragionare di criminalità mafiosa – anche se lo si fa nel contesto di una rivista scientifica e in una prospettiva squisitamente giuridica – senza avvertire qualche brivido: il brivido che proviene dalla consapevolezza che stiamo parlando di una forma di criminalità che si intreccia con il destino del nostro paese; una forma di criminalità che ha segnato vicende, tragiche e fondamentali, della recente storia italiana; una forma di criminalità capace di compromettere seriamente la prospettiva di poter vivere in una società a democrazia matura, libera, solidale, con un mercato aperto e trasparente, in cui a tutti i consociati siano offerte reali chances di una vita felice e soddisfacente. Più forte di qualsiasi disagio è, tuttavia, la convinzione che della mafia bisogna parlare: la mafia va studiata, la mafia va conosciuta, la mafia va illustrata, nei suoi termini reali e concreti, ad un pubblico il più ampio possibile, perché una corretta conoscenza è un primo, fondamentale anticorpo contro la diffusione del letale virus mafioso. Ed il libro di Giuliano Turone, dedicato al "delitto di associazione mafiosa" offre indubbiamente un fondamentale contributo per una corretta conoscenza della mafia. Grazie alla sua completezza, all'organicità e alla profondità dell'analisi, questo libro ci aiuta, infatti, a guardare la mafia non da lontano, come si fa con le stelle, ma da vicino, come bisogna fare per la gramigna e le altre erbacce infestanti.
SOMMARIO: VI. Nozione, funzione e classificazione delle circostanze - VII. La distinzione tra circostanze ed elementi costitutivi del reato: rilevanza della distinzione e criteri di distinzione - VIII. (Segue) in particolare, la distinzione tra circostanze aggravanti ed eventi aggravatori dei c.d. reati aggravati dall'evento - IX. La riforma incompiuta dell'istituto delle circostanze: considerazioni generali - X. L'art. 59 co. 2: l'imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti - XI. L'art. 59 co. 1: l'imputazione oggettiva delle circostanze attenuanti - XII. L'art. 59 co. 3: l'irrilevanza delle circostanze putative - XIII. Tentativo e circostanze - XIV. Precedenti legislativi - XV. Casistica.
Il 17 dicembre 2018 l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza - l'Autorità nazionale di garanzia per i diritti delle persone minorenni in Italia - ha reso pubblico il documento di studio e di proposta intitolato "La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile". Si tratta di un lavoro che, sulla base delle competenze che la legge assegna all'Autorità garante, prende le mosse dall'urgenza di fornire agli operatori del settore - magistrati, avvocati, assistenti sociali e altri soggetti che intervengono nella giustizia minorile - alcune indicazioni utili a facilitare il ricorso a percorsi di giustizia riparativa la cui efficacia e positività è comprovata da decenni di esperienze sul campo in diverse parti d'Italia e che tuttavia ancora non godono di un riconoscimento normativo esplicito, nonostante le raccomandazioni internazionali, la più recente delle quali è costituita dalla Raccomandazione CM/Rec(2018)8 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa relativa alla giustizia riparativa in ambito penale. Un riferimento ai "percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato", i quali espressamente devono essere "favoriti", è presente nella norma di apertura del d.lgs. 2 ottobre 2018 n. 121 di attuazione della Riforma Orlando, laddove sono richiamate le "regole e finalità" che devono guidare l'esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità nei confronti delle persone minorenni. Tale riferimento rischia di rimanere ambiguo nel suo significato e dare adito a interpretazioni fuorvianti, non essendo la giustizia riparativa e la mediazione disciplinate nel decreto legislativo stesso e non essendo stata esercitata, a seguito di parere negativo delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato nell'attuale legislatura, la delega in questa materia contenuta nella legge 23 giugno 2017, n. 103 (A.G. n. 29). Sulla scorta di un ciclo di audizioni, condotte da una commissione appositamente costituita, è stato condotto un monitoraggio nazionale per raccogliere le buone prassi e le criticità in particolare in ordine, in particolare, al delicato rapporto tra giustizia riparativa e procedimento penale minorile. Si sono voluti in questo modo indagare, da un lato, i nodi problematici sollevati dall'ingresso della restorative justice nel sistema processuale minorile rispetto a garanzie e diritti nell'ottica della realizzazione della child friendly justice sollecitata da Unione Europea e Consiglio d'Europa e, dall'altro, far emergere e diffondere possibili soluzioni insieme all'indicazione di pratiche corrette. Tutto in attesa di una legge volta a legittimare in pieno, e orientare, l'apporto significativo della giustizia riparativa al sistema penale. Il documento, disponibile sul sito dell'Autorità garante, contiene, oltre ad alcuni approfondimenti e agli esiti del monitoraggio su scala nazionale, le raccomandazioni dell'Autorità garante rivolte alle istituzioni competenti in ordine ai seguenti temi: 1. Disponibilità e accesso alla mediazione penale e in generale alla giustizia riparativa; 2. Disciplina normativa (de iure condendo); 3. Modalità d'innesto dei percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale a normativa invariata; 4. Reti per la giustizia riparativa; 5. Sensibilizzazione, formazione e informazione. Destinatari delle raccomandazioni sono Parlamento, Governo, ministeri (Giustizia, Interno, Difesa, Istruzione, Economia e Finanze), regioni, comuni, Consiglio superiore della magistratura, Scuola Superiore della Magistratura, autorità giudiziaria, Consiglio Nazionale Forense, ordini degli avvocati, uffici e i centri di mediazione penale e di giustizia riparativa. Il documento riporta inoltre in allegato la traduzione non ufficiale in lingua italiana, ad opera dell'ufficio dell'Autorità garante, della citata Raccomandazione del Consiglio d'Europa CM/Rec(2018)8 sulla giustizia riparativa in materia penale, del 3 ottobre 2018. ; Study document issued by the Italian Authority Guarantor for Children and Adolescents concerning restorative justice in juvenile criminal matters. The document includes recommendations for legislators and practitioners (courts, prosecution, social services, advocacy and RJ centers and offices).
2006/2007 ; 1. Con la locuzione "detenzione amministrativa dello straniero" si fa riferimento alla misura prevista dall'art. 14, comma 1, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (c.d. Legge Turco- Napolitano), così come modificato dalla recente Legge 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo (c.d. Legge Bossi-Fini), ai sensi del quale «quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione [dello straniero] mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica». Si tratta di un istituto dal 'tasso di gradimento' estremamente basso. Frettolosamente disciplinato dal legislatore, mai sottoposto ad un vaglio critico profondo da parte della giurisprudenza (in particolare da quella costituzionale), quasi ignorato dalla dottrina. Il discorso, ad onor del vero, non riguarda solo l'istituto de quo, ma è estendibile all'intero diritto dell'immigrazione, una'provinciale' del nostro ordinamento, che non 'fa gola' ad alcuna categoria di studiosi. Vero è che si tratta di un diritto 'giovane', costantemente in fieri (anche per sua natura). Materia 'liquida', Difficile da affrontare, perché inadattabile alle categorie consolidate. Manca, in primo luogo, l'aiuto 'tranquillizzante' dei dogmi; manca poi una chiara delimitazione 'di campo'; mancano, infine, nomi esatti, precisi (L'istituto in esame è privo di uno specifico nomen iuris). Nonostante la tendenza degli operatori del diritto a relegare l'istituto nel dimenticatoio, la sua attualità è evidente, precipitato dalla decisività dello stesso sul piano politico e sociale: nella oramai passata legislatura una campagna a favore del superamento della detenzione amministrativa dello straniero era stata avviata e condotta sino ad un punto rilevante. Di riverbero il dibattito politico sui temi dell'immigrazione e sui contenuti di una nuova legge di riforma si era fatto fervente. La campagna elettorale in corso sta dimostrando ancora una volta come il tema dell'immigrazione, in quanto correlato (a dire il vero più nella retorica populistica del politica che nella realtà dei fatti) a quello della sicurezza, giochi un ruolo strategico. 2. Lo studio è diviso in due parti: la prima parte (profili istituzionali e costituzionali) è caratterizzata da un'impostazione tradizionale incentrandosi, principalmente, sul diritto positivo e sui suoi riflessi costituzionali. Nella seconda parte (profili politico-criminali) si è tentato l'inquadramento dell'istituto nei paradigmi (dottrinali) della 'differenziazione', vale a dire in quei modelli (talvolta descrittivi, talaltra prescrittivi e normativi) con i quali si da atto dell'esistenza di 'regimi' penali speciali, poco garantiti e di spiccato rigore, riservati a determinate categorie di soggetti. Su tutti l'oramai celebre «diritto penale del nemico». Nel caso di specie è l'immigrato, questa la tesi, ad essere percepito e trattato da nemico. Nella prima parte l'istituto viene studiato per quello che 'è' (piano onticodescrittivo ), e per quello che 'dovrebbe essere' (piano deontico-prescrittivo). Nella seconda parte per ciò che esso 'svela' (piano comunicativo). 3. La prima parte si apre necessariamente (come tradizione esige) con una introduzione nella quale si è delimitato l'oggetto dell'indagine e si è altresì cercato di chiarire il significato del bagaglio terminologico utilizzato in tutto lo scritto. Un tanto premesso si è proceduto ad un'analisi sistematica, alla ricerca nella legislazione vigente di istituti che presentino caratteri analoghi od omologhi a quelli dell'istituto de quo. Successivamente si è passati allo studio dell'istituto nella sua dimensione storica, partendo da un inquadramento della disciplina italiana dell'immigrazione nelle sue principali linee evolutive, soffermandosi in particolare sul passaggio da una legislazione frammentaria ad una legislazione organica avvenuto tra il 1998 ed il 2002. Si è andati così, à rebours, alla ricerca dei 'possibili' precedenti, in qualche modo dei 'progenitori', dell'istituto. Entrando, per così dire, nell'oggetto materiale della riflessione per porlo in una dimensione concreta, in the facts, si è passati ad illustrare la disciplina positiva dell'istituto come contenuta originariamente nel D.Lgs. n. 286 del 1998, come successivamente modificata dalla Legge n. 289 del 2002 e come infine risultante dagli interventi interpretativi e correttivi della giurisprudenza costituzionale. Successivamente si è cercato di dimostrare che, contrariamente alle 'etichette' legali, la misura ha una natura sostanzialmente penale, vuoi perchè incide sulla libertà personale del soggetto e vuoi perché crea attorno allo stresso uno stigma. Si è poi esaminato il Centro di Permanenza Temporanea, il luogo in cui la misura trova esecuzione, confrontandolo con la struttura penitenziaria tradizionale e, soprattutto, con quelle che Erving Goffmann chiama istituzioni totali, un tanto al fine di far emergere la sostanziale coincidenza della misura de qua con le 'tradizionali' detenzioni carcerarie. Il 'nucleo forte', ma anche il più delicato, della ricerca è senz'altro rappresentato dalla riflessione circa la compatibilità dell'istituto con i principi costituzionali. Relativamente a tale momento si è suddivisa la riflessione in due momenti sulla scorta del modello fatto proprio da un illustre Maestro quale Franco Bricola, più di trent'anni or sono, in una celebre relazione avente ad oggetto le misure di prevenzione, forme di tutela ante delictum le quali presentano, in aggiunta, rilevanti analogie con l'istituto qui in esame. Così in un primo momento si è dato per ammesso, in linea di ipotesi e sulla scorta dell'orientamento della Corte Costituzionale, prevalente anche in dottrina, che la detenzione amministrativa in generale e, in particolare, quella forma di detenzione amministrativa rappresentata dal trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed accoglienza sia, alla radice, costituzionalmente legittima: si sono così esaminati i singoli profili di attrito con i principi costituzionali della disciplina positiva della misura. In un secondo momento si è affrontato, per così dire, 'alla radice', il problema dell'ammissibilità costituzionale di forme di detenzione amministrativa e dei limiti entro i quali, eventualmente, queste possano concretamente trovare residenza nel nostro ordinamento. 4. Dall'analisi costituzionale si è tratto il 'materiale grezzo' dal quale è poi mossa la riflessione politico-criminale che connota la seconda parte della ricerca. Il 'modelli differenziati' si caratterizzano infatti per un allontanamento (non solo formale, ma anche e soprattutto) sostanziale dai principi costituzionali in tema di reato e di libertà personale. Si è cercato di dar conto dell'esistenza nel sistema penale italiano (ma il discorso potrebbe valere anche per altri ordinamenti occidentali) di un altro diritto penale, caratterizzato dalla presenza di elementi di spiccata eterogeneità rispetto modello garantistailluministico- liberale. Successivamente si è passato in rassegna alcune categorie dottrinali (perlopiù) descrittive (ma, almeno in un caso, anche prescrittive) del modello differenziato: in particolare ci si è soffermati sui c.d. sotto-sistemi penali come elaborati da Luigi Ferrajoli, nonché, in specie, sul già citato diritto penale del nemico, teorizzato da Günter Jakobs. Infine si è allargato il campo d'indagine, prima ai rapporti tra la differenziazione e le teorie della giustizia, muovendo da quei «paradigmi delle ingiustizie» magistralmente descritti da Federico Stella, in uno dei suoi ultimi scritti, poi agli studi criminologici in particolare con un breve excursus nel pensiero di David Garland. Lo studio attorno al diritto penale differenziato ed in particolare alla categoria nemico nell'ordinamento in genere e nel diritto penale in particolare è oggigiorno al centro di un ampio e trasversale dibattito. La letteratura formatasi sul punto ha in più occasioni affermato l'appartenenza della legislazione sull'immigrazione, in particolare di quella penale, a tali modelli differenziati. Ma l'attenzione della dottrina si è solo sporadicamente soffermata sulla detenzione amministrativa, interessata, più spesso, alle fattispecie penali finalizzate al contrasto dell'immigrazione clandestina. Invero la detenzione amministrativa, anche per il suo forte significato simbolico, manifesta, forse ancor più delle norme incriminatrici, la tendenza del nostro ordinamento alla realizzazione di un doppio binario, incentrato sulla dialettica amico/nemico. In conclusione le prospettive de lege ferenda: in questa sede solo si anticipa l'adozione di un punto di vista 'forte', che non ammette compromessi laddove sono in gioco libertà fondamentali quali la libertà personale. I 'diritti di libertà' sono, per gli ordinamenti non meno che per i filosofi, un valore, non quindi un istituto giuridico. Il rifiuto di ogni approccio 'debole', tendente al bilanciamento tra beni ed interessi così disomogenei da non poter trovare posto entrambi su una stessa bilancia, diviene così, la pregiudiziale (ideologica), la petitio principii, delle conclusioni tratte e, in qualche modo, la chiave di lettura dell'intero lavoro. ; XX Ciclo ; 1980
La presente ricerca ha avuto ad oggetto l'analisi della criminalità culturale di matrice immigratoria nel contesto europeo contemporaneo. Tradizionalmente con il termine reato culturalmente orientato o motivato si intende quel comportamento realizzato dal membro di una cultura minoritaria che è considerato reato dall'ordinamento giuridico della cultura dominante, ma che viene accettato, condonato, o addirittura incoraggiato all'interno del gruppo culturale del soggetto agente. Dedicare la ricerca esclusivamente alla criminalità culturale di matrice immigratoria significa restringere il campo dell'analisi ai reati culturali commessi da immigrati, escludendo i reati culturali commessi da minoranze autoctone. Esulano, tra l'altro, dall'analisi i reati riconducibili all'immigrazione clandestina e le forme di terrorismo transnazionale di matrice ideologica. Il particolare tipo di reato culturale di cui si è occupata la presente ricerca può dunque essere definito come il comportamento che l'immigrato pone in essere in quanto normale, approvato, o incoraggiato dalla propria cultura e che, invece, è considerato reato nello Stato di residenza. Alla nozione di reato culturale e di cultural defence, nonché alla delimitazione dell'ambito di indagine è dedicato il primo capitolo della tesi, nell'ambito del quale vengono spiegate le difficoltà che si incontrano nel definire il concetto di cultura e di pratica culturale. La ricerca è volta a valutare la possibile rilevanza penale da riconoscere al condizionamento esercitato sul reo dall'appartenenza a una determinata cultura, ossia al c.d. fattore culturale. La definizione di reato culturale è tale da comprendere situazioni molto diverse tra loro, rispetto alle quali è necessario trovare un equilibrio tra tutela dei diritti fondamentali e diritto – o, meglio, diritti – alla specificità. Vengono alla mente pratiche riconducibili alle tradizioni di determinati gruppi etnici, quali la mutilazione degli organi genitali femminili, lo stupro che precede il matrimonio, l'impiego di minori nell'accattonaggio, o i matrimoni poligamici. Con ogni evidenza, si tratta di comportamenti che – ammesso e non concesso che siano (ancora) legittimamente praticati nei Paesi di provenienza dell'immigrato – rappresentano un problema nel momento in cui vengono posti in essere in uno Stato ospitante che ne riconosce la rilevanza penale. I flussi migratori che negli anni hanno accompagnato il processo di integrazione europea ed internazionale hanno messo in contatto persone portatrici di tradizioni culturali estremamente distanti tra loro, facendo della c.d. criminalità culturale uno dei temi più complessi, discussi e controversi del panorama giuridico contemporaneo. Dal punto di vista comunitario, tra l'altro, la nascita dell'area Schengen e il progressivo enlargement europeo hanno incrementato il fenomeno migratorio, imponendo anche a Paesi che non avevano vissuto in passato esperienze immigratorie di confrontarsi con le sfide del multiculturalismo. Spesso si pensa all'immigrazione e alla società multiculturale come una sfida per il diritto penale statale. L'area penale è, infatti, la più resistente alla sottrazione della sovranità che il processo di integrazione europea ed internazionale comporta perché rappresenta uno degli ambiti in cui maggiormente si riflette l'identità costituzionale degli Stati. La norma penale è una delle più alte manifestazioni dei valori prevalenti in una determinata area culturale. Da un lato, questo significa che l'ordinamento nazionale si riserva gelosamente la potestà di decidere quali comportamenti costituiscono reato all'interno del proprio territorio. Dall'altro lato, proprio per questo suo essere espressione della cultura di appartenenza di un determinato soggetto, la norma penale fa parte del bagaglio del migrante: l'individuo percepisce come reato ciò che per la propria cultura è reato e potrebbe non comprendere, e magari neanche percepire, le fattispecie vigenti nel territorio in cui emigra. Sullo sfondo dei reati culturali vi è una forma di conflitto culturale tra Paese ospitante e individuo ospite, che porta con sé la necessità di stabilire come devono essere giudicate le condotte poste in essere da chi appartiene a culture diverse da quella ritenuta dominante. Nell'ambito della ricerca che ha portato alla presente tesi è stato analizzato il trattamento dei culturally motivated crimes con particolare riferimento al sistema italiano e a quello del Regno Unito. L'Italia, alla quale è dedicato il secondo capitolo della tesi, storicamente è stata il punto di partenza dei migranti; soltanto nell'ultimo trentennio è divenuta una meta per gli immigrati e si è dovuta confrontare con la criminalità culturale di matrice immigratoria. Il modello italiano di gestione della diversità culturale, oltre ad essere particolarmente giovane, è considerato di stampo assimilazionista. La legislazione italiana non chiarisce la rilevanza penale da attribuire al fattore culturale, né tantomeno codifica una qualche forma di cultural defence. La strategia che, soprattutto negli ultimi anni, il nostro legislatore penale sembra portare avanti è quella di introdurre alcuni singoli reati culturalmente orientati, spesso con interventi caratterizzati da una decisa reazione sanzionatoria. In questo senso dal punto di vista legislativo vengono in particolare in rilievo due recenti interventi normativi: la legge n. 7 del 2006, con la quale è stato introdotto il delitto di mutilazioni genitali femminili e la legge n. 94 del 2009, con la quale è stato innalzata a delitto la contravvenzione di impiego dei minori nell'accattonaggio. Dal punto di vista giurisprudenziale in Italia si registra una mancanza di coerenza nelle decisioni che hanno ad oggetto i reati culturali. Per quanto attiene il sistema italiano vengono inoltre analizzate le sentenze pronunciate da tribunali esteri nell'ambito di procedimenti che hanno riguardato italiani accusati di reati culturalmente motivati. Si tratta di un'ottica molto interessante perché permette di superare l'atteggiamento paternalista mascherato da tolleranza che spesso accompagna il tema della diversità culturale. Il Regno Unito è stato scelto come secondo modello di riferimento e gli viene dedicato il terzo capitolo della tesi. Oltre ad aver vissuto un'esperienza immigratoria precedente rispetto all'Italia, la Gran Bretagna nel contesto europeo è considerata portatrice del modello c.d. multiculturalista di gestione della diversità culturale, che si contrappone al modello c.d. assimilazionista, al quale è invece riconducibile il sistema italiano. L'approccio multiculturalista è ispirato da una logica di uguaglianza sostanziale e tradizionalmente si caratterizza per il riconoscimento delle diversità culturali e l'elaborazione di politiche volte alla loro tutela. Nel Regno Unito l'appartenenza a una determinata minoranza culturale giustifica un diverso trattamento giuridico: si pensi al Road Traffic Act e all'Employment Act, che esonerano gli indiani sikh dall'uso del casco nei cantieri di lavoro e in moto, consentendo loro di indossare il tradizionale turbante. Espressione del multiculturalismo all'inglese sono anche gli Sharia Councils, pseudo-Corti formate da membri autorevoli della comunità islamica alle quali può rivolgersi la popolazione britannica musulmana affinché determinate controversie vengano risolte in applicazione della shari'a, la legge islamica. Lo studio degli Sharia Councils è stato una parte fondamentale del percorso di ricerca, svolto anche grazie alla partecipazione all'attività del Council di Londra. Questi organismi operano nell'alveo dell'Arbitration Act e sono oggi al centro di un fervente dibattito per due principali motivi. Prima di tutto nel Regno Unito si discute molto di parallel legal systems, ossia della possibilità di istituire per soggetti culturalmente diversi degli ordinamenti paralleli. Alcuni Autori ritengono che gli Sharia Councils esercitino una vera e propria competenza di carattere giurisdizionale. Assumendo questa tesi - invero minoritaria - il multiculturalismo all'inglese raggiungerebbe il cuore dell'ordinamento, all'interno del quale creerebbe una vera e propria spaccatura: ogni cittadino avrebbe la "sua" legge e il "suo" tribunale. Un altro problema fondamentale è quello dell'esercizio da parte dei Councils di una competenza di carattere penale: l'accusa rivolta a queste istituzioni è, infatti, quella di essersi arrogate una competenza in tema di violenza domestica forzando le maglie delle decisioni in tema di divorzio. Accanto all'analisi dedicata al sistema italiano e a quello inglese, per la ricerca si sono rivelate fondamentali anche le esperienze di Francia, Stati Uniti e Canada. Il sistema francese è considerato nel panorama europeo il principale modello assimilazionista: a questo proposito si parla di processo di francesizzazione degli immigrati, o anche cittadinizzazione senza integrazione. Gli Stati Uniti, spesso considerati la società multiculturale per eccellenza, sono la patria del dibattito sulla cultural defence, la strategia difensiva fondata sul fattore culturale come causa di giustificazione o come causa di diminuzione della pena. Il Canada, infine, è il portatore nel contesto internazionale del modello multiculturalista inglese: il multiculturalismo è espressamente previsto come principio nella Carta dei diritti e delle libertà, a partire dall'inizio degli anni novanta è stato reintrodotto per gli Inuit il circle sentencing, grazie al quale le decisioni, anche in materia penale, vengono adottate da una sorta di collegio composto dal giudice e da membri delle comunità interessate. Tra l'altro, è stata la Corte costituzionale canadese a formalizzare per la prima volta il c.d. test culturale, negli anni novanta. L'analisi del modello italiano, giovane e di stampo assimilazionista, e di quello multiculturalista inglese consente, anche grazie ai continui riferimenti ai sistemi adottati negli Stati Uniti, in Canada e in Francia, di assumere un punto di vista più generale sul trattamento dei reati culturali. I processi che riguardano vicende di criminalità culturale testimoniano spesso una difficoltà di integrazione degli immigrati che non è solo culturale, ma prima di tutto sociale. Sotto questo punto di vista ciò che accade nelle aule dei tribunali diventa il metro di valutazione della politica legislativa statale in tema di immigrazione. Obiettivo della ricerca è stato quello di identificare gli strumenti per gestire la criminalità culturale, individuando le strade che si possono concretamente percorrere per superare le tensioni tra società multiculturale e sistema penale, alla ricerca di un equilibrio tra tutela dei diritti fondamentali e diritti alla diversità che non metta in discussione principi cardine dell'ordinamento penale quali quello di eguaglianza e quello di proporzionalità della pena. Preso atto della complessità del problema, la prima conclusione cui si giunge all'esito della ricerca è l'impossibilità di conferire una rilevanza penale generale al fattore culturale. Non è possibile introdurre nella parte generale del Codice penale una causa di giustificazione culturale, così come non è possibile codificare una circostanza attraverso la quale dare un rilievo sanzionatorio predefinito e generale alla componente culturale che porta il reo a delinquere. Più volte tra le pagine del lavoro si sottolinea che rientrano nella nozione di reato culturale condotte che non sono neanche lontanamente paragonabili dal punto di vista del disvalore sociale che le connota e rispetto alle quali non è possibile fare un discorso di carattere generale. Così come non è possibile lavorare sulla parte generale del Codice penale, anche la scelta di introdurre fattispecie di reato create ad hoc per incriminare specifiche pratiche culturali non è condivisibile. Ed infatti, da un lato identificare e tipizzare una pratica culturale è spesso realmente difficile – e nel codice penale non c'è spazio per l'indeterminatezza – e dall'altro le esperienze italiana e inglese rivelano che l'operazione è alquanto inutile. A livello legislativo l'unica strada valutabile sembra essere quella di prevedere delle specifiche cause di non punibilità che permettano di dare una rilevanza – in maniera controllata – al fattore culturale in determinate ipotesi. Questa opzione consente di prendere in considerazione determinate pratiche culturali e di cucire su di esse la non punibilità, senza che questo implichi una scelta ordinamentale di carattere generale. Sembra, tuttavia, che sia una strada difficilmente praticabile: tra l'altro, un tema delicato come quello della criminalità culturale potrebbe non trovare facilmente una maggioranza parlamentare tale da consentire di legiferare e, comunque, ciò potrebbe avvenire in tempi decisamente lunghi. Ebbene, allo stato la chiave della questione è nel trattamento delle singole e concrete vicende di criminalità culturale e, dunque, nel ruolo del giudice. Anche in questo caso sorgono dei problemi: basti pensare che nel momento in cui il legislatore penale si astiene dal prevedere in via generale una forma di cultural defence, il fattore culturale potrebbe anche essere preso in considerazione contra reum, ad esempio a fini deterrenti, per chiarire inequivocabilmente l'intollerabilità di un determinato comportamento, o per prevenire una vendetta da parte del gruppo di appartenenza culturale della vittima. Il dato è preoccupante perché, come sottolineano gli Autori che si occupano di criminalità culturale, in presenza di un reato culturalmente orientato o motivato il grado di rimproverabilità dell'autore si attenua in conseguenza di una minore esigibilità della conformazione al precetto penale. Per arginare il rischio che il fattore culturale venga preso in considerazione per aggravare il giudizio di responsabilità del reo è dunque indispensabile sensibilizzare i giudici e munirli degli strumenti adatti per gestire la diversità culturale. In tale ottica la ricerca presenta l'analisi di alcuni strumenti che vengono utilizzati nei Paesi analizzati e dai quali è possibile prendere spunto: vengono così in rilievo l'Equal Treatment Bench Book inglese, il circle sentencing canadese, e la possibilità, sul modello francese, di integrare l'organo chiamato a giudicare un reato culturale. Di queste strade quella concretamente più praticabile è l'Equal Treatment Bench Book, un vademecum destinato agli operatori giudiziari nell'ambito del quale si rinvengono linee guida per la gestione pratica delle diversità culturali. Si tratta di un prodotto non immediatamente importabile, poiché non sarebbe sufficiente tradurlo per applicarlo, ad esempio, in Italia. È dunque necessario che i singoli Paesi adottino il proprio Bench Book; in quest'ottica la ricerca presenta alcune indicazioni da prendere in considerazione sia per quanto attiene chi potrebbe essere chiamato a scrivere il vademecum, sia per quanto attiene il contenuto del documento. In conclusione va richiamata una riflessione di carattere più generale: il modo corretto di affrontare la criminalità culturale di matrice immigratoria si basa sulla consapevolezza che prevenire è meglio che reprimere. Sicuramente, l'attenzione al ruolo del giudice e agli strumenti di concreta gestione della diversità culturale sono molto importanti, ma lo sono ancor di più le politiche per l'integrazione della società multiculturale, nella quale si assiste a un processo di scambio e di fusione culturale che si rivela il momento privilegiato per determinare l'equilibrio tra valori indiscutibili e diritti alla diversità. ; The research focuses on culturally motivated crimes related to migratory flows in the European area. A cultural offence is defined as an act by a member of a minority culture, which is considered an offence by the legal system of the dominant culture; that same act is nevertheless, within the cultural group of the offender, condoned, accepted as normal behaviour and approved or even endorsed and promoted in the given situation. The specific focus on immigration means that the research does not analyse crimes committed by native minorities. Moreover, crimes related to illegal immigration and transnational terrorism are not part of the dissertation. Thus, the specific type of cultural offences analysed in the research can be defined as the immigrant's behaviours that is normal, approved or promoted in his/her culture, but is considered offences in the State where he/she lives. The first chapter of the thesis is devoted to defining the notion of cultural crimes and cultural defence, and to outline the research analysis. This chapter acknowledges the difficulties encountered in defining the concepts of culture and cultural custom. The purpose of the research is to evaluate to what extent the fact that the defendant based his/her actions on a cultural norm can be taken into account in determining his/her responsibility within the criminal legal system of the country where the action takes place. Many different behaviours can be linked to cultural crimes and in all these circumstances there is the need to find a balance between fundamental rights protected by the domestic legal system and the specificity rights of minority groups. Consider the case of female genital mutilations, rape before wedding, or polygamy. These acts – even if they are (still) permitted in the country of the immigrant – may be considered offences in the country where the immigrant lives. Due to the immigration phenomenon related to the process of European and international integration, people coming from really different cultural backgrounds live together and nowadays the cultural crime rate has become one of the most problematic and debated legal issues. Furthermore with the gradual European enlargement more and more countries have had to face with problems related to multiculturalism. Immigration and multicultural society are often considered as a challenge for the criminal law, which is one of the more resistant areas of the whole legal system and opposes the process of European and international integration. This happens because the criminal law mirrors the essential nature of a country through the choice of the acts that are considered offences in the national territory. This choice is deeply influenced by the cultural background of the country and the criminal law is part of the cultural baggage of the immigrant. When people immigrate they bring with themselves the awareness that a behaviour is considered an offence in their country and they may not know or understand what is considered an offence in the country where they decide to live. Culturally motivated crimes stem from a conflict between the immigrant and the legal system of the country where he/she decides to live, between a cultural norm and a legal standard. With this regard, Van Broeck noted that the cultural offence has to be caused directly by the fact that the minority group the offender is a member of uses a different set of moral norms when dealing with the situation in which the offender was placed when he committed the offence: the conflict of divergent legal cultures has to be the direct cause of the offence. The research analyses how legislator and judges deal with cultural offences in Italy (Chapter II) and in the United Kingdom (Chapter III). For a long time Italy has been the starting point for immigrants and only in the last thirty years it has become their destination. For this reason the problem of determining the relevance of the cultural factor on the structure of an offence is more recent in Italy than in the United Kingdom, where the multicultural society is the result of the long story of the colonialism and the Commonwealth of Nations. Furthermore, the Italian system of handling cultural diversity is basically considered an example of assimilationism while the English one is considered an example of multiculturalism. This means that in the United Kingdom, more than in Italy, the legislation aims at preserving minority customs. In addition to the analysis of the Italian and the English systems, also the experience of France, of the United States and of Canada has been essential for the research. In the European context the French system is considered the best example of assimilationism. The law banning the wearing of a niqab or full-face veil in public is the clearest instance of this approach to different cultures which is usually regarded as gallicization of immigrants. The United States, often considered the multicultural society par excellence, are the birthplace of the debate about the cultural defence. In the international context Canada is considered an example of a multicultural system: multiculturalism is mentioned in the Canadian Charter of Rights and Freedoms of 1982 and since the 90's the circle sentencing can be used to solve disputes in the Inuit group with the participation of members of the community in addition to the judges. Furthermore, in the same period the Canadian court formalized for the first time the distinctive cultural test. The comparison between the Italian and the English systems in handling cultural differences deriving from immigration and all the references to the American, Canadian and French systems allow the research to adopt a more general point of view in analysing cultural crimes. Trials concerning culturally motivated crimes often give evidence of a difficulty in immigrants' integration; an issue that is not only a cultural problem, but primarily a social dilemma. From this point of view what happens in courtrooms becomes a device to evaluate a state immigration policy. The purpose of the research is to identify useful tools to manage cultural offences, finding a balance between victims' fundamental rights and the cultural specificity of a minority group. The first conclusion reached in the dissertation regards the impossibility to provide a general relevance to the cultural factor in the criminal system, so that it is not possible to introduce a cultural defence. Many different behaviours can be considered cultural offences and it is not possible to treat as homogeneous a broad range of acts. At the same time, also the introduction of type of offences to criminalize a specific cultural practice is not the right way to solve the problem of the cultural factor in the structure of the offence. First of all there would be many problems in identifying a cultural practice, because it is really hard to recognize which behaviour can be related to the cultural background of the minority group of the defendant. Moreover, as can be noticed when problems concerning the criminalization of the female genital mutilation in Italy and the United Kingdom are analysed, this way seems almost useless. A good option is to adopt methods which do not impose a penalty to the defendant, taking into account his/her cultural background in certain circumstances. This can be done using the absolute discharge of the English legal system or the category of the cause di non punibilità of the Italian one. In this case the chance not to impose a penalty to an immigrant defendant can be achieved without any consequence on the nature of offence of the behaviour in the legal system of the country where he/she decides to live. In a similar way in the Italian system it could be difficult to find the parliamentary majority to approve a legislation introducing the specific causa di non punibilità. Thus, the more practicable solution concerns the judges' activity. In this case, there is the need to avoid that the cultural factor is used contra reum worsening, for instance, the penalty. This modus operandi would not be fair because in the case of actions determined by a cultural norm commonly accepted by a minority group, the degree of reproach of these behaviours should be alleviated. In order to avoid that the cultural factor could be taken into account contra reum the first thing to do is to sensitize judges to the problems of the criminal law in a multicultural society. With this regard, the research analyses some tools used in the analised systems: in particular, the English Equal Treatment Bench Book, the Canadian system of the circle sentencing and the possibility, as in the French legislation, to integrate the judging body with lay judges in trials concerning cultural offences. The most workable solution is the Equal Treatment Bench Book, a guide for judges, magistrates, and all other judicial office-holders to handle cultural differences in trials. This English vademecum is not immediately importable in other European countries. In fact, it is not enough to translate it to solve the problem of sensitizing judges in so different legal systems. Thus, it is necessary to adopt a document like the English Bench Book in every country where immigration puts cultural offences on the agenda. From this point of view the research gives some hints about the drawing up of this vademecum. In conclusion it is possible to affirm that the correct way to approach cultural offences committed by immigrants is to understand that prevention is better than cure. Surely, it is important to pay attention to the role of judges and to the tools they can use in handling criminal offences. It is even truer that all the policies for the integration of the multicultural society are the most important instrument to determine the balance between fundamental rights and specificity rights of minority groups, that is also the key to handle cultural crimes.
Nell'attuale contesto della prevenzione ante delictum – caratterizzato dall'incertezza sulla legittimità e sull'efficacia delle misure di prevenzione personale, dall'inerzia del legislatore nell'emanare una disciplina organica e moderna, e dal conseguente divario che si è venuto a creare, negli ultimi tempi, tra previsioni normative e rielaborazione giurisprudenziale – può risultare utile esaminare empiricamente la concreta prassi applicativa di tali misure. Ciò può consentire, infatti, di gettare uno sguardo sul "diritto vivente" in tema di prevenzione personale e, quindi, di verificare quali aspetti del sistema della prevenzione possano essere considerati validi e vitali, e quali, invece, necessitino al più presto di una ridefinizione da parte del legislatore o, in caso di sua perdurante inerzia, da parte della Corte costituzionale. A tale scopo, in questo lavoro verranno presentati i risultati emersi da una ricerca criminologica, di tipo quantitativo e qualitativo, effettuata in relazione all'impiego delle misure di prevenzione personale sia c.d. "questorili" (foglio di via obbligatorio, avviso orale, ammonimento, D.A.SPO), sia c.d. "giurisdizionali" (sorveglianza speciale, con o senza divieto di soggiorno o obbligo di soggiorno), nel territorio della Provincia di Milano, nell'arco di tempo che va dal 2012 al 2016. Sulla base dei principali esiti della ricerca verranno effettuate, poi, alcune considerazioni de iure condendo sulla possibile trasformazione del sistema della prevenzione personale.
La Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato introduce, in capo a una platea potenzialmente assai ampia di operatori (del diritto, sociali, sanitari) che possano trovarsi a entrare in contatto con 'vittime di reato' il dovere di effettuare una valutazione individuale delle specifiche esigenze di protezione da rischi di vittimizzazione secondaria o ripetuta, intimidazione o ritorsione, che ciascuna vittima possa presentare in concreto. Né la Direttiva stessa, né il legislatore nazionale all'atto della sua trasposizione, hanno dettagliato modalità e soggetti specificamente deputati a effettuare tale valutazione. I ricercatori del progetto internazionale 'Victims and Corporations. Implementation of Directive 2012/29/EU for victims of corporate crimes and corporate violence' hanno elaborato uno specifico insieme di linee guida utili a indirizzare gli operatori nell'individuazione degli elementi da prendere in considerazione nello svolgimento di tale valutazione, con particolare riferimento a una tipologia di soggetti potenzialmente 'vulnerabili', ma spesso neppure percepiti come vittime di reato: le vittime di 'corporate violence', ossia di reati commessi da imprese commerciali nel corso della loro attività lecita, e implicanti danni per la vita, la salute e l'integrità psico-fisica delle persone. ; Directive 2012/29/EU establishing minimum standards on the rights, support and protection of victims of crime sets down the duty to make an individual assessment of each victim's specific needs of protection from secondary and repeat victimisation, from intimidation and from retaliation; a duty which is potentially incumbent on a wide range of professionals (be they legal, social or health workers). Neither the Directive, nor the Italian transposition law, provide details about the specific individuals charged with the task and the specific ways to perform it. The researchers of the international project 'Victims and Corporations. Implementation of Directive 2012/29/EU for victims of corporate crimes and corporate violence' have developed a set of specific guidelines which may help all interested professionals in identifying the elements to be taken into account while performing said individual assessment, with specific reference to a typology of potentially vulnerable people, who, however, often fail even to be recognised as victims. They are the victims of corporate violence, i.e. people having suffered harms to life, health or personal integrity due to crimes committed by corporations in the course of their legitimate activity.
La ricerca si propone di approfondire il tema delle "irregolarità" nelle procedure di adozione internazionale. Questa espressione è utilizzata dalla normativa nazionale di settore, con particolare riferimento all'attività degli enti autorizzati allo svolgimento delle procedure di adozione di minori stranieri. Con questo elaborato si è cercato di ricostruire una nozione di "irregolarità" più ampia di quella presente nella legislazione vigente, privilegiando un approccio interdisciplinare. Lo scritto si apre con una prospettiva storica delle "irregolarità", ovvero della morfologia che esse hanno assunto nel corso del tempo, in relazione alla disciplina vigente nel nostro Paese a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Il cuore dell'elaborato è dato dalla presentazione delle "irregolarità", comprendenti sia alcune illiceità di natura penale ed amministrativa che le criticità della prassi. Chiude l'indagine l'illustrazione di alcune buone pratiche di prevenzione delle "irregolarità" nelle procedure di adozione internazionale e di proposte de iure condendo della disciplina vigente. Particolare attenzione è stata posta al tema della riforma dei delitti in materia di adozione, disposizioni rimaste sostanzialmente disapplicate dagli anni Ottanta ad oggi. ; The research aims to delve into "irregularities" in the procedures of the International adoption. The previous mentioned phrase is used in the National specific provisions in reference to activities carried out by accredited bodies, entitled to apply adoption procedures of foreign minors. The thesis is an attempt to reconstruct a broader notion of "irregularity" than those one in the legislation in force, favoring an interdisciplinary approach. Firstly, the dissertation offers an historical perspective on "irregularities", or rather upon the morphology which they have assumed for years, referring to the discipline which has been in force in Italy since the Sixties of the Twentieth Century. The gist of the thesis is the presentation of such "irregularities", including both some criminal, administrative, unlawfulness and criticality in standard procedures. Finally, the research presents some good practices in order to prevent such "irregularities" in the International adoption procedures, as well as some de iure condendo proposals of the legislation in force. A specific attention has been paid to the matter of the reform of crimes of adoption, or rather disposals that basically has ceased to be applied since Eighties in the Twentieth Century.
La prevenzione della criminalità, ritenuta fondamentale già da illustri studiosi del passato, è oggi considerata da una parte importante della dottrina nonché dalla giurisprudenza sia della Corte costituzionale che della Corte europea dei diritti dell'uomo una componente ontologicamente necessaria di ogni società organizzata: prevenire la commissione dei reati è un compito imprescindibile, un obbligo positivo dello Stato, un prius rispetto alla potestà punitiva. Riconosciuta la piena legittimità, anzi la doverosità costituzionale e convenzionale della prevenzione dei reati, si tratta allora di individuare mezzi che siano, da un lato, scientificamente e tecnicamente idonei ad attuare questa finalità e, dall'altro lato, conformi ai principi di un ordinamento democratico. Molteplici, invero, sono le modalità che potrebbero essere utilizzare per prevenire la commissione di illeciti penali. Esse vanno da interventi di tipo sociale ed individuale, che mirano a rimuovere le cause remote della criminalità, fino all'adozione di misure di prevenzione con contenuti afflittivi e limitativi della libertà personale o patrimoniale di persone ritenute pericolose. Il legislatore italiano sta impiegando in modo preponderante quest'ultimo tipo di misure, più semplici e forse – a prima vista – più economiche da adottare rispetto ad interventi extrapenali di più ampio respiro. Tuttavia, la disciplina e l'utilizzo di tali misure – nonostante i vari aggiustamenti normativi e giurisprudenziali che si sono susseguiti negli anni ed il riconoscimento della loro legittimità da parte della Corte costituzionale e, con l'esclusione di alcuni aspetti, della Corte europea – sollevano ancora forti dubbi in dottrina, principalmente per la loro asserita qualità di "pene per il sospetto", di fatto impiegate quale surrogato di una repressione penale inattuabile per mancanza dei normali presupposti probatori, e per la loro riconosciuta inefficacia rispetto allo scopo preventivo. Il raggiungimento dell'equilibro tra l'obbligo di protezione dei consociati e quello di garanzia dei diritti fondamentali dei destinatari delle misure di prevenzione è sicuramente di difficile realizzazione, ma non è del tutto impossibile, ove vengano impiegate misure che abbiano anche contenuti positivi, che siano utili alla (ri)socializzazione del soggetto. Partendo da tali premesse, con questo lavoro si vuole, innanzitutto, effettuare una ricognizione delle possibili forme di prevenzione della criminalità, compiere un esame delle misure di prevenzione personale ante delictum, sia tipiche che atipiche, che vengono al presente impiegate nel nostro paese e delle categorie di individui alle quali esse sono rivolte, svolgere una disamina delle problematiche che il sistema vigente solleva in relazione alle attuali fattispecie di pericolosità, alle modalità di accertamento in concreto dell'effettiva pericolosità del singolo soggetto ed alle limitazioni della libertà imposte con la misura preventiva, realizzare un'analisi delle indicazioni che vengono fornite dalle scienze umane in merito ai criteri (metodi, strumenti e fattori prognostici) più efficaci per effettuare un'attendibile prognosi di pericolosità ed in merito alla validità ed ai limiti dei giudizi predittivi. In un lavoro che si occupa di variabili di carattere non strettamente giuridico, quali sono i processi decisionali dell'individuo ed il concetto stesso di pericolosità sociale, infatti, non si può prescindere dalle acquisizioni del sapere criminologico. Si intende, poi, operare un confronto tra previsioni legislative, applicazioni giudiziarie concrete ed indicazioni scientifiche, allo scopo di verificare la validità e l'efficacia dell'attuale sistema della prevenzione. Tale confronto sarà favorito da una ricerca empirica, di tipo quantitativo e qualitativo, che è stata realizzata in relazione alla prassi applicativa delle misure di prevenzione personale nel territorio della Provincia di Milano, nell'arco di tempo che va dal 2012 (2010 per le misure di competenza del questore) al 2016. L'intento del presente studio è, infine, quello di formulare qualche ipotesi di riforma del sistema vigente che lo renda affidabile e legittimo allo stesso tempo. In un'ottica de iure condendo, si tenterà di individuare più moderne e più adeguate situazioni di pericolosità criminale, attraverso l'ausilio delle scienze psichiatriche e criminologiche, e di identificare alcuni contenuti, anche positivi e risocializzanti, che le misure di prevenzione potrebbero possedere. Nel bilanciamento tra interessi contrapposti si vorrebbe intendere il concetto di "difesa sociale" non come tutela di un'astratta ed 'autoritaria' società dai soggetti pericolosi, ma come protezione di tutti i singoli individui che tale società compongono: come tutela delle potenziali vittime di reato nel maggior rispetto possibile dei diritti dei potenziali autori. In questa prospettiva si vorrebbe, dunque, fare leva su un diverso modello di prevenzione che riduca il profilo negativo-afflittivo (isolamento dal contesto sociale e limitazione di alcune libertà), oggi caratterizzante le misure preventive tipiche, ed impieghi con sempre maggior ampiezza un profilo positivo (cura, rieducazione, reinserimento), attraverso misure di carattere non esclusivamente penale. ; The prevention of crime, considered fundamental already by illustrious scholars of the past, is today considered a necessary component of every organized society by an important part of the doctrine and by the jurisprudence of both the Constitutional Court and the European Court of Human Rights. Preventing crimes is an unavoidable task, a positive obligation for a Government, with priority on punitive authority. Recognized the full legitimacy, or even better the constitutional and conventional duty of preventing crimes, it is then necessary to identify means that are, on one hand, scientifically and technically suitable to implement this purpose and, on the other hand, comply with the principles of a democratic legal system. Many, in fact, are the methods that could be used to prevent criminal offenses. They range from social and individual actions, which aim to remove the remote causes of crimes, to the adoption of preventive measures that limit personal or patrimonial freedom of people that are considered dangerous. The italian legislator is focusing on these type of measures that are considered easier and - at first sight - cheaper to be adopted than non-criminal interventions. However, the discipline and use of these measures - despite the various legislative and jurisprudential adjustments that have taken place over the years and the recognition of their legitimacy by the Constitutional Court and, with the exclusion of some aspects, by the European Court - still raise strong doubts within the doctrine. This is mainly due to their alleged quality of "penalties based on suspicion", as used as a surrogate for an unworkable penal repression for lack of the normal probative grounds, and for their recognized ineffectiveness with respect to the preventive purpose. The achievement of a balance between the obligation to protect people and the obligation to guarantee the fundamental rights of people subjected to preventive measures is certainly difficult; however it is not completely impossible, as long as measures that have positive contents and useful for (re)socializing the individual are used. Based on these assumptions, with this work, first of all, we want to give an overview of the possible forms of crime prevention, to carry out an examination of the ante delictum personal preventive measures, both typical and atypical, which are currently used in our country and of the categories of individuals to whom they are addressed, to carry out a review of the problems that the current system raises in relation to the current categories of dangerousness, to the methods of concrete assessment of the actual dangerousness of the individual and to the limitations of freedom imposed with the preventive measure, to carry out an analysis of the indications provided by the human sciences on the most effective criteria (methods, tools and prognostic factors) to carry out a reliable prognosis of dangerousness and on the validity and limits of the predictive judgments. In a work that deals with variables that are not strictly legal, like the decision-making processes of the individual and the concept of social dangerousness, in fact, we cannot ignore the acquisitions of criminological knowledge. We then want to make a comparison between law, practice and scientific indications, in order to verify the validity and effectiveness of the current system of prevention. This comparison will be helped by a quantitative and qualitative empirical research, which was carried out in relation to the use of personal preventive measures in the Province of Milan, in the period from 2012 (2010 for the measures of competence of the police) to 2016. Finally, the intent of the present study is to formulate some hypotheses for the reform of the current system to make it reliable and legitimate at the same time. We will try to identify more modern and more suitable situations of criminal dangerousness, through the help of the psychiatric and criminological sciences, and to identify some contents, even positive and re-socializing, that preventive measures may have. In balancing of opposite interests we would like to consider the concept of "social defense" not as protection of an abstract and 'authoritarian' society from dangerous people, but as protection of every single person that form that society: as protection of potential victims of crime in the greatest possible respect of the rights of the potential offender. Therefore, in this perspective, we would like to focus our attention on a different model of prevention that reduces the negative-afflictive profile (isolation from the social context and limitation of certain freedoms), which today characterizes the typical preventive measures, and uses more and more a positive profile (care, re-education, reintegration), through measures that are not exclusively criminal.