Lectio brevis 2016/2017
In: Lectio brevis 2016/2017
In: Memorie serie 9, volume 38, fascicolo 2
In: Atti della Accademia mazionale dei lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche anno 415 (2018)
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In: Lectio brevis 2016/2017
In: Memorie serie 9, volume 38, fascicolo 2
In: Atti della Accademia mazionale dei lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche anno 415 (2018)
2011/2012 ; "I giornali italiani a Fiume dal 1813–1945. Analisi e linee di sviluppo" vuole essere un'immersione nella cultura fiumana della carta stampata, inteso a offrire una chiara immagine della grande mole di giornali italiani pubblicati nella città quarnerina nell'arco di due secoli. L'arte della cultura stampata a Fiume ha una storia ricca e molto interessante. Come ogni terra di confine, questa è stata il testimone di una lotta nazionale, economica e sociale che ha interessato la città lungo i secoli. Fiume – sia per la posizione geografica, sia per le vicende storiche –, ha avuto un suo ruolo proprio e ha conservato a maggior fatica la integrità della sua anima e componente italiana. Il giornalismo fiumano ha ospitato i piccoli e i grandi fatti del proprio popolo, le paure e le preoccupazione della gente semplice, registrando i momenti più importanti delle comunità. La finalità generale di questa ricerca è quella di scoprire la scena editoriale ponendo in evidenza tutta una serie di protagonisti – giornalisti, letterati, intellettuali, ma anche persone comuni – che hanno caratterizzato la città per lunghi decenni. La ricerca non intende essere un repertorio della cultura giornalistica a Fiume, bensì un'analisi della sua nascita, sviluppo, fortuna e rovina. Il lavoro si è basato principalmente su due aspetti che sono stati svolti contemporaneamente: quello della ricerca bibliografica e quello più ampio della ricerca d'archivio. L'attività di ricerca bibliografica è finalizzata non solo alla costituzione della bibliografia espressamente relativa al tema oggetto della ricerca stessa, ma anche all'identificazione di nuove fonti da cui reperire notizie importanti per la ricostruzione della storia del giornalismo fiumano. La scelta del periodo 1813–1945 per un'analisi della stampa fiumana è stata suggerita da una serie di considerazioni di carattere storico, sociale e culturale. Il primo giornale che uscì a Fiume fu "Notizie del Giorno" risalente al 1813. Da questa data in poi, si avrà un vera e propria crescita del giornalismo fiumano che darà origine, nell'arco di centotrenta anni, a più di 50 testate, di cui 30 in lingua italiana che ho avuto il piacere di analizzarle e di presentarle in questo lavoro. Sono creazioni spesso effimere ma talvolta anche durature che saranno espressione della battaglia politica e culturale della città. La conclusione della ricerca con il 1945 è dovuta, invece, al cambio politico che interessò la città con i nuovi governanti. Nuovi reggenti che imposero il comunismo e socialismo a un popolo che da secoli aveva ben salda la tradizione commerciale di stampo liberista. La ricerca, dedicata al giornalismo fiumano tra il 1813 e il 1945, prende in considerazione tutte le pubblicazioni di carattere giornalistico, e quindi con funzione informativa, apparse in quegli anni, senza tenere conto delle pubblicazioni in lingua ungherese, croata o altra. La premessa metodologica di tale ricerca è di natura letteraria con particolare riferimento agli influssi della cultura italiana a Fiume. Ogni scheda delle singole testate fiumane è composta da due parti. La prima, attraverso un'introduzione analitica, comprende tutte le notizie essenziali riguardanti il genere, tiratura, data di pubblicazione, sede proprietà, tipografia, fondatori, direttori, caporedattori, orientamento politico, eventualmente il formato, la periodicità e il prezzo. La seconda parte prevede un approfondimento più attento che comprende un excursus storico e analisi dei contenuti. Le schede, costruite secondo uno schema costante permetteranno al lettore di avere una prima idea del carattere del giornale, la sua posizione politica e ideologica, la sua tendenza sociale e culturale. Vengono inoltre riportate, a piè di pagina una breve biografia con notizie bibliografiche di alcuni noti, e anche meno noti, giornalisti e pubblicisti fiumani. L'Appendice offre, invece, una scelta degli articoli raccolti dai giornali. Una selezione che è stata condotta cercando di isolare quei testi che indichino novità tematiche, letterarie e momenti storici di particolare significato legati sia alla città di Fiume sia all'intera scena internazionale. Lì, dove ho potuto, ho proceduto nel riportare interamente i programmi, editoriali e manifesti dei giornali, per conoscere con chiarezza i princìpi su cui la testata si fondava, le idee che essa propugnava, il perché della fondazione e anche della lotta politica ideologica che essa sosteneva. Per offrire un dettagliato confronto tra stili, per così dire, conservativi e quelli innovativi, ho cercato di isolare alcune tematiche – principalmente gli avvenimenti storici ma anche, per esempio, manifestazioni, omicidi, processi, incidenti e altri fatti cronaca –, per osservare e apprendere come le diverse testate trattavano lo stesso argomento. ; XXIV Ciclo ; 1979
BASE
Nel 1990 il Mediterraneo aveva una popolazione costiera pari a 146 milioni e alcuni studiosi, nel 1998, avevano stimato che la popolazione urbana costiera avrebbe potuto aumentare di almeno altri 30 milioni di abitanti entro il 2025 con ulteriori 350 milioni di turisti all'anno (Hinrichsen, 1998). Nel 2005 il dossier redatto dall'UEP/MAP (Plan Bleu, 2005) ha ridimensionato tali valori, dimostrando che entro la stessa data saranno 20 milioni le persone che andranno ad aggiungersi alla popolazione residente, così come ulteriori 137 milioni di turisti si uniranno ai 175 milioni già presenti, e particolarmente i litorali. L'analisi di questi dati mostra inoltre che il 75% degli abitanti dei paesi prospicienti il Mediterraneo vive in aree costiere (in Italia il valore è compreso tra il 60 e il 70%). La fascia costiera italiana, che si sviluppa per oltre 7500 km, oltre ad essere caratterizzata da paesaggi di eccezionale valore naturalistico, ospita quindi anche una consistente parte delle risorse economiche nazionali, con importanti centri urbani e industriali, infrastrutture e attività turistiche. Gli scenari descritti, specie dopo i recenti report inerenti ai cambiamenti climatici in atto sull'intero globo (IPCC, 2007), hanno posto serie problematiche nella gestione della risorsa costiera e nella valutazione dei possibili rischi associati. Comprendere come la costa è destinata ad evolvere ha assunto perciò un'importanza strategica. Le ricerche interdisciplinari sviluppatesi nell'ultimo ventennio hanno messo in evidenza come gran parte delle pianure costiere mondiali (e quindi anche italiane) sono soggette al rischio erosione e allagamento per ingressione marina dovuta a fattori naturali (globali e locali) e antropici. Tra questi studi si porta l'attenzione del lettore al progetto VECTOR (Vulnerabilità delle coste e degli ecosistemi marini italiani ai cambiamenti climatici e loro ruolo nei cicli del carbonio mediterraneo), dal quale è nato l'argomento di questa tesi di dottorato. In questo lavoro è stato analizzato in dettaglio il litorale della Piana del F. Sele (Campania, Italia), contesto estremamente interessante al fine di comprendere l'evoluzione di una costa bassa e sabbiosa con concentrazione di importanti centri abitati (Salerno), aree turistiche imponenti (sito archeologico di Paestum, litorale di Capaccio-Paestum, litorale di Eboli) e condizioni morfologiche tali da rendere l'area suscettibile ai cambiamenti del sistema costiero. La piana in questione, così come le altre piane campane, ha sperimentato negli ultimi 6 millenni un prevalente trend progradazionale ben documentato da più sistemi di cordoni dunali (ad esempio i cordoni di Laura e Sterpina descritti da Brancaccio et al., 1995 in Piana Sele). Le più interne datano circa 6000 anni e marcano la massima ingressione del mare durante l'Olocene. A partire dal XX secolo questo trend si è interrotto e molti tratti di costa risultano affetti da un'erosione anche molto marcata. Le cause vanno essenzialmente ricercate nel ridotto apporto sedimentario legato alle sistemazioni idraulico-forestali, ma soprattutto alla realizzazione di numerosi invasi artificiali lungo i principali fiumi alimentatori. La prova di ciò è ben evidenziata dalla trasformazione delle foci fluviali dei principali corsi d'acqua, le quali si sono rapidamente modificate da fluvial dominated a wave dominated. A questo va aggiunta la forte antropizzazione dei litorali che si è avuta in particolare dopo la seconda guerra mondiale a seguito sia dello sviluppo turistico che di quello urbanistico. Partendo da tali presupposti l'obiettivo principale del presente lavoro è la determinazione delle caratteristiche morfologiche, sedimentologiche e delle dinamiche evolutive del tratto di costa sabbioso compreso tra le foci dei fiumi Solofrone e Picentino al fine di valutarne lo stato di vulnerabilità costiera. Una prima fase dello studio è stata dedicata ad un'approfondita ricerca dei dati bibliografici, cartografici e aero-fotogrammetrici inerenti l'area. L'analisi bibliografica ha permesso di individuare i tratti salienti dell'evoluzione geomorfologica, che appare requisito essenziale per la comprensione degli eventi morfogenetici e delle dinamiche recenti della costa. L'analisi cartografica e aero-fotogrammetrica, basata essenzialmente sul reperimento di documenti inerenti l'ultimo secolo, ha consentito di delineare l'evoluzione storica della linea di riva. In particolare sono state adoperate carte storiche dell'IGMI (Istituto Geografico Militare Italiano) del 1870, 1908, e 1954, la cartografia CasMez (Cassa del Mezzogiorno) del 1975, la CTR (Carta Tecnica Regionale) della Regione Campania del 2004, le foto aeree del 1944, 1954, 1984, 1998 e 2004. I documenti raccolti sono stati organizzati, corretti e adattati mediante l'uso di un software GIS (ArcGis ver. 9.2). In particolare è stato indispensabile l'orto-rettifica mediante un programma preposto (Erdas ver. 9.1) precedentemente l'utilizzo delle foto aeree. La seconda fase è consistita nella raccolta di dati originali mediante un lavoro di campagna, durante il quale, con l'utilizzo di un sistema di posizionamento DGPS (GNSS R6), si è rilevata la linea di riva al 2009 e la topografia di vari profili longitudinali di spiaggia. E' stato inoltre fatto uno studio con lo scopo di definire gli aspetti sedimentologici caratterizzanti i differenti contesti geomorfologici riconosciuti per i profili esaminati: sono stati prelevati 48 campioni lungo il litorale del Golfo di Salerno, su ognuno dei quali è stata eseguita un'analisi granulometrica, con relativa interpretazione statistica. I rilievi topografici sono stati successivamente correlati alle caratteristiche tessiturali dei sedimenti essendo questo passaggio fondamentale e propedeutico alla comprensione dei fenomeni morfo-evolutivi della costa: i sedimenti che costituiscono la spiaggia sono condizionati dalla dinamica litoranea in quanto, lungo gli assi di transito longitudinali e trasversali, le componenti granulometriche tendono a convergere verso il fondale in cui si trovano mediamente in equilibrio sotto l'azione del moto ondoso. Una fase fondamentale del lavoro è stata la valutazione del clima marittimo (wave climate) sia al largo che lungo costa, mediante l'applicazione di modelli fisici. Si è risaliti al tipo di ondazione incidente sulla Piana del Sele, così come si è giunti alla valutazione degli effetti di essa sulle spiagge con il calcolo di parametri specifici, quali il run-up e il set-up. Le informazioni raccolte hanno dato una chiara lettura e una dettagliata caratterizzazione dell'intera fascia rivierasca compresa tra Salerno e Agropoli (SA) e soprattutto sono state la base per l'implementazione di una nuova metodologia di analisi per la valutazione della vulnerabilità costiera. Il metodo ha permesso di realizzare una carta della vulnerabilità costiera potenziale, così come di effettuare valutazione e cartografie su range temporali più ampi: infatti, considerando gli scenari previsti dall'IPCC (2007) su 25 e 50 anni, è stato possibile introdurre tali parametri e costruire carte della vulnerabilità costiera proiettata su tali anni. Di seguito si da una panoramica sulle operazioni e i risultati ottenuti mediante l'esecuzione delle singole fasi di lavoro. L'analisi comparata delle linee di costa ricavate dall'indagine aereo fotogrammetrica e cartografica ha messo in chiara evidenza che, durante il XX secolo, è possibile individuare almeno 3 fasi evolutive. La prima, che va dal 1870 al 1908, mostra una costa in progradazione, in modo particolare alle foci dei fiumi Sele, Tusciano e Picentino, con trend che raggiungono i 5,50 m/a. Tale fase s'inverte completamente durante il lasso cronologico compreso tra il 1908 e il 1984, con valori di arretramento che tendono ad accentuarsi tra il 1975 e il 1985 (si nota che la foce del F. Sele arretrava con un tasso di 7,7 m/a). L'ultima fase va dal 1984 al 2009 (e con ogni probabilità continua ancora oggi), con la costa che tende all'equilibrio: infatti è possibile rilevare diverse aree in leggera progradazione e solo poche in arretramento (si tratta di quelle poste nelle vicinanze delle foce del F. Sele). Quest'analisi mostra in maniera decisiva che l'evoluzione della fascia costiera della Piana del F. Sele è strettamente legata agli apporti fluviali, basti notare che le aree fortemente influenzate dall'erosione sono proprio quelle prospicienti le aree di foce. Questo è certamente da mettere in correlazione alla drastica diminuzione degli apporti sedimentari causata dalla presa in alveo di materiale e alla costruzione di traverse e dighe. L'analisi effettuata sull'intero arco dei 140 anni ha mostrato che sulla zona costiera della Piana del F. Sele insiste una tendenza erosiva molto marcata, localizzata in modo particolare nei pressi delle foci del F. Picentino e del F. Sele, con valori di arretramento rispettivamente di 0,4 m/a e di 1,3 m/a. Per caratterizzare la morfologia e la morfometria della spiaggia emersa e sommersa, nonché gli aspetti sedimentologici sono stati effettuati 12 profili trasversali alla linea di costa in tratti rilevati del litorale. L'analisi morfo-sedimentaria della spiaggia ha messo in luce che l'intero settore è morfologicamente caratterizzato da spiagge ampie da un minimo di 20 m fino a un massimo di 80 m. Il settore sommerso della spiaggia è caratterizzato dall'esistenza di una grossa barra con relativo truogolo, mentre la pendenza della zona intertidale risulta marcata lungo la foce del F. Sele, attestandosi in media intorno al 13%, fino a digradare ad una pendenza vicina al 10% sul resto del litorale. Per le zone poste a S della foce del F. Sele, la pendenza della battigia è costante lungo l'intero tratto, attestandosi in media intorno all'11%. Nel settore di spiaggia indagato è presente un solco di battigia posizionato in media tra - 0,5 m e – 0,4 m. Lungo l'intero litorale la berma ordinaria è ben evidente, raggiungendo in alcuni tratti l'altezza di 0,6 m con stacchi di pendenza tra battigia e berma molto evidenti. Questo non vale per le berme di tempesta, che sono spesso cancellate dall'azione antropica e dove visibili, lo sono in maniera non sempre marcata. Il sistema dunale è in gran parte conservato, ma non sempre è in buone condizioni. Infatti in taluni casi (concentrati nella porzione meridionale del sistema e nella parte centrale) è possibile constatare che esistono almeno due a più ordini di dune, molto estesi a S e molto reincisi nei pressi della foce del F. Sele, mentre nella zona compresa tra la foce del F. Tusciano e Salerno la duna è quasi completamente scomparsa e/o estremamente antropizzata. Le analisi granulometriche effettuate sui campioni prelevati sulla spiaggia intertidale mostrano che le taglie dei granuli comprese tra 0,39 mm e 0,45 mm (sabbia media) sono prevalenti nei settori più vicini alla foce del F. Sele, mentre verso N si rivela la presenza di materiale ciottoloso: infatti si raggiungono valori compresi tra 0,69 mm e 0,97 mm (sabbia grossolana) nel tratto di costa centrale da Campolongo alla foce del torrente Asa. La parte più prossima a Salerno è invece caratterizzata da un tipo di sedimento estremamente ciottoloso. Nei settori meridionali e centrali arriva a valori di 0,55 mm (sabbia grossolana). Un dato anomalo, che mostra come questo litorale possa essere localmente condizionato dall'apporto di sedimento alloctono è il dato massimo del coefficiente di appuntimento che raggiunge il valore di 10,63 (valore molto alto se si tiene conto che Folk & Ward, 1957 propongono come limite massimo per questo indice il valore 3). Mediante gli studi effettuati sulla condizione del clima marittimo è stato possibile valutare l'ondazione prevalente con le relative altezze d'onda e periodo medio. Analizzando le serie ricavate alla boa di Ponza è stato possibile rilevare che l'altezza d'onda significativa media è pari a 4,34 m, con un periodo di 7,76 s. È stato valutato anche l'effetto della massima mareggiata della serie analizzata corrispondente a quella del 26\12\1999, con valori di altezza d'onda pari a 6,90 m e periodo di 11,94 s. La direzione prevalente è invece SSW-NNW. Tali valori hanno permesso di giungere al calcolo di parametri a loro strettamente legati, come la profondità di chiusura, pari a 7,714 m (11,191 m per la massima mareggiata registrata). Inoltre è stato valutato anche il set-up e il run-up d'onda incidenti per ogni profilo indagato con una media lungo tutta la costa della Piana del Sele pari a 0,05 m per il primo e 1,65 m per il secondo. C'è da dire che anche in questo caso possiamo notare settori con caratteristiche d'energia molto differenti: il run-up infatti varia da un massimo di 2,07 m a un minimo di 0,91 m, che vuol dire un'ondazione che può arrivare ad invadere la spiaggia emersa per valori compresi tra il 24% e il 101%. Sui profili di spiaggia analizzati è stato possibile realizzare anche opportune valutazioni previsionali sul trend evolutivo della costa in seguito al previsto innalzamento del livello marino (IPCC, 2007), applicando modelli matematici e morfologici capaci di valutare l'arretramento atteso. Per il caso preso in considerazione sono stati ricavati i diversi parametri utili a questo calcolo analizzando il regime meteo marino per il periodo compreso tra gli anni 1989 e il 2008 e i singoli profili topografici della spiaggia agganciati ai rilievi batimetrici eseguiti con rilievo single-beam. In particolare si è giunti a valutare l'arretramento da Sea Level Rise applicando due metodologie morfologiche e adottando il dato d'innalzamento del livello marino calcolato dal Antonioli & Leoni (2007) sulla base dei dati pubblicati dall'IPCC (2007). L' arretramento medio atteso è stato stimato pari a 0,16 m/a (utilizzando Bruun, 1964) o a 0,23 m/a (Davidson-Arnott, 2005). L'insieme dei dati e delle informazioni ricavare sono state la base per la realizzazione di un modello in grado di valutare la vulnerabilità costiera lungo il settore di costa preso in esame. La vulnerabilità costiera, intesa come suscettibilità di un dato tratto litoraneo ad essere inondato o eroso, è legata a numerose variabili che possono essere riassunte in tre blocchi principali: erosione, inondazione permanente e inondazione episodica. Esistono vari modelli per la valutazione e il confronto della vulnerabilità costiera in diversi contesti, metodi che vanno dal quantitativo al qualitativo. La metodologia proposta da Gornitz et al., 1997, per esempio, suggerisce il calcolo di un indice di vulnerabilità (CVI – Coastal vulnerabilità index) attraverso la parametrizzazione di elementi caratterizzanti un dato tratto litoraneo relazionati tra loro attraverso una regressione lineare multipla. Questa metodica, nonostante sia largamente utilizzata, ha il difetto di essere valida e sensata solo per ambiti territoriali e geografici molto vasti. Nel nostro caso, dunque, si è cercato di adottare la "filosofia" di questo metodo, apportando però sostanziali modifiche che lo rendessero idoneo alla caratterizzazione di sistemi costieri di piccola estensione, incrementando e perfezionando sensibilmente le variabili da analizzare e avvalendoci dell'uso di un sistema GIS (ArcGis 9.2 della ESRI). Si è giunti alla proposta di un nuovo indice di vulnerabilità (IVC) basato sulla valutazione dell'Erosione Potenziale e dell'Inondazione Potenziale e di due indici di vulnerabilità costiera (IVC25 e IVC50) che tengono in considerazione l'effetto del Sea Level Rise (S.L.R.) su 25 e 50 anni. Come per la metodologia dell'USGS la correlazione finale dei singoli indici avviene utilizzando la regressione lineare multipla, e il valore finale dell'indice utilizzando la relazione , già identificata e sperimentalmente provata da Gornitz et al., 1994. Il tratto maggiormente vulnerabile alle forzanti costiere studiate sono le aree comprese tra l'ospedale di Campolongo fino all'area in cui sorge il Molo Sirena, comprendendo interamente la foce del F. Sele. Quasi il 44% delle spiagge appaiono contraddistinte da una vulnerabilità costiera da alta a molto alta. L'applicazione di un nuovo modello regionalizzato e studiato per aree ristrette ha dato la possibilità di identificare e parametrizzare le caratteristiche principali del tratto litoraneo dell'unità fisiografica delle Piana del Sele, in modo particolare in merito alla sua erodibilità potenziale, al suo grado di suscettibilità all'inondazione e quindi alla sua vulnerabilità costiera. Appare un metodo molto semplice e dettagliato, adatto all'applicazione preliminare su qualsiasi contesto costiero e per questo un utile strumento di pianificazione territoriale. ; In 1990 in the Mediterranean zone there was a coastal population of 146 million; some authors, in 1998, estimated the urban coastal population growth at least of further 30 million by 2025 with 350 million of tourists (Hinrichsen, 1998). In 2005 the dossier edited by UEP/MAP (Plan Bleu, 2005) rescaled these values: by 2025 population will increase of 20 million people, and the tourists will be 137 million more compared to the 176 million already present mainly on littorals. The analysis of data shows, moreover, that 75% of mediterranean population lives in coastal zones (in Italy the value varies from 60% to 70%). Italian coastal zone, more of 7500 km long, in addition to the several beauties of landscape, has a substantial part of the national economic resources, with important urban and industrial centers, infrastructures and touristic activities. These circumstances, especially after the recent reports about climate change (IPCC, 2007), cause heavy problems in coastal resource handling and in connected risk assessing. It's therefore of primary importance to realize how the coast will develop. Interdisciplinary researches of the last 20 years highlight how many world coastal plains (Italian too) are subject to erosion and flooding risk by sea ingression due to natural (global and local) and anthropic elements. Among these studies we point out to the readers VECTOR project (Vulnerability of the Italian coastal area and marine ecosystems to climatic changes and their role in the Mediterranean carbon cycles) from which the subject of this PhD thesis originates. In this work has been analyzed in detail the littoral Sele river Plain (Campania, Italy) extremely interesting zone in order to realize the evolution of a low and sandy coast with concentration important built-up area (Salerno), great touristic places (archeological site of Paestum, Capaccio-Paestum littoral, Eboli beaches) and morphological conditions which make the area open to developments of coastal system. In the last six millennia this plain and all plains in the southern Italian region of Campania have experienced coastal progradation amply documented by several dune systems. Since the 20th century this trend has been interrupted and many stretches of the coastline are now affected by erosion, at times severe. This has serious implications both for public safety and of a socio-economic nature. The causes are essentially to be sought in the decrease in sedimentary discharge due to forest hydraulic engineering works but especially to the construction of many artificial lakes along the main water courses. Clear evidence of this is the transformation of the mouths of the main water courses from fluvial-dominated to wave-dominated. A further factor is intense urbanization, which took place especially after World War II in the wake of tourist development. Starting from these assumptions the aim of this work is the determination of the morphological and sedimentological characterizations and the evolution dynamics of sandy coastal sector between the Solofrone and Picentino mouths in order to estimate the state of coastal vulnerability. The first stage of the study provides an in-depth search of bibliographic, cartographic and photogrammetric data concerning the study area. Bibliographic analysis specifies the salient points of geomorphological evolution, that is essential requirement to realize the morphogenetic events and recent coast dynamics. Cartographic and photogrammetric analysis, essentially founded on finding documents about the last century, outlines the historical evolution of shoreline. In particular have been used historical maps by IGMI (Istituto Geografico Militare Italiano) on 1870, 1908 and 1954, the cartography CasMez (Cassa del Mezzogiorno) on 1975, the CTR (Carta Tecnica Regionale) by Campania Region on 2004, the aerial-photos on 1944, 1954, 1984, 1998 and 2004. The documents collected have been organized, rectified and adapted by a GIS software (ArcGis rel. 9.2). In particular, for the aerial-photos has been used a software (Erdas rel. 9.1) to orthorectify them before the employment. The second phase consisted in collecting original data through a campaign work, during which, with the use of a DGPS positioning system (GNSS R6) has identified the shoreline in 2009 and the topography of various longitudinal profiles of beach. It was also made a study in order to define the sedimentological aspects characterizing the different geomorphological contexts recognized for the profiles examined: 48 samples were collected along the coast of the Salerno Gulf, on each of whom is performed a particle size analysis, with relative statistical interpretation. The topographical surveys were then linked to the textural characteristics of sediments as this critical step and preparatory to the understanding of geo-morphological phenomena of the coast: sediments that form the beach are affected by coastal dynamics because, along the transit longitudinal and transversal axes, granulometric tend to converge towards the bottom where they are on average in equilibrium under the action of waves. An important stage of work was the evaluation of wave climate both off and along the coast, through the application of physical models. It was back to the type of wave climate on the Sele Plain, as well as the assessment of the effects of it on the beaches with the calculation of specific parameters, such as the run-up and set-up. The information collected gave a clear reading and a detailed characterization of the entire coastal strip between Salerno and Agropoli (SA) and especially were the basis for implementing a new method of analysis for the assessment of coastal vulnerability. The method gave the possibility to create a map of potential coastal vulnerability, as well as to carry out evaluation and maps on wider range of time: in fact, considering the scenarios predicted by the IPCC (2007) on 25 and 50 years, it was possible to introduce these parameters and construct maps of coastal vulnerability projected onto these years. The following is an overview of operations and the results obtained by running the individual phases of work. The comparative analysis of coastlines taken from cartographic and photogrammetric survey showed clear evidence that during the 20th century, it's possible to identify at least three evolutionary phases. The first, from 1870 to 1908, shows a progradational phase, especially at the mouths of Sele, Tusciano and Picentino rivers with trend reaching 5.50 m/y. This phase is reversed completely during the chronological period between 1908 and 1984, with values of backing down that tend to increase between 1975 and 1985 (notice that the mouth of river Sele retreated at a rate of 7.7 m /y). The last phase goes from 1984 to 2009 (and likely continues today). In fact the littoral is in equilibrium: there are areas that show little progradation, while not much beaches are in retreat (near the mouth of Sele river). This analysis shows that the evolution of the coastal strip of the Piana del Sele is closely linked to the river inputs, just note that areas strongly influenced by erosion are exactly the ones facing areas of mouth. This is certainly to correlate to the drastic reduction of contributions sedimentary caused by removing sediment on the river bed and construction of crosspieces and dams. The analysis conducted in 140 years showed that on the coastal area of Sele Plain insists a trend erosive very marked, localized especially near the mouth of Picentino river and Sele river, with values of retreat respectively 0,4 m/y and 1,3 m/y. To characterize the morphology and the morphometry of backshore and nearshore, and the sedimentological aspects, 12 profiles have been traced, transversal to the coast line on prominent parts of the waterside. Morpho-sedimentary analysis of the shore has shown that the entire sector is morphologically characterized by shores whose extent goes from 20 m to a maximum of 80 m. The nearshore sector is characterized by the existence of a big bar with its trough, while the slope of the intertidal zone is considerable along the mouth of the Sele river, with a mean of 13%, and it reduces to a slope of about 10% on the rest of the coast. Regarding the zones on the southern side of the mouth of the Sele river, the foreshore slope is constant along the whole line, with a mean of about 11%. On the inspected sector of the shore there is a foreshore step located in the range -0.5 m to -0,4 m. Along the whole coast the berm is very evident, reaching the height of 0.6 m with very evident slope contrasts between the beach-face and the berm. This is not the case of the storm berm, which are often erased by the anthropic action and, where visible, they are not always definite. The dunal system is preserved in the most part, but it is not always in good condition. In fact, in some cases (concentrated in the southern portion of the system and in its central part) it is possible to notice the existence of at least, very wide at South and very cut near the mouth of the Sele river, while in the region between the mouth of the Tusciano river and Salerno the dune has almost completely disappeared and/or is extremely urbanized. Granulometric analysis carried out on the samples collected on the foreshore show that the grain sizes between 0.39 mm and 0.45 mm (medium sand) are predominant in the sectors nearer to the mouth of the Sele river, while towards North gravel sediment has been revealed: in fact the sizes go from 0.69 mm and 0.97 mm (coarse sand) in the stretch of central shore from Campolongo to the mouth of Asa stream. The part nearer to Salerno is instead characterized by a type of gravel sediment. In the southern and central sectors it reaches values of 0.55 mm (coarse sand). An anomalous datum, which shows how this coast can be locally influenced by the contribution of external sediment, is the maximum of the Kurtosis index which reaches the value of 10.63 (a really high value, considering that Folk & Ward, 1957 suggest a maximum limit of 3 for this index). With the studies carried out on the condition of the wave climate it has been possible to evaluate the prevalent wave climate with the relative wave heights and average period. Analyzing the series obtained at the Ponza buoy it has been possible to notice that the significant wave height average is 4.34 m, with a period of 7.76 s. In addition, it has been evaluated the effected of the maximum sea storm from the analyzed series, dating to 26/12/1999, with wave height of 6.9 m and a period of 11.94 s. The prevalent direction is SSW-NNW. Such values have been used to evaluate some parameters strictly related to them, like the closure depth, equal to 7.714 m (11.191 m for the maximum sea storm detected). Furthermore the set-up and the run-up of the incident waves have been evaluated for every investigated profile, with a mean value along the entire coast of the Sele Plain of 0.05 m for the former and 1.65 m for the latter. In this case as well we can notice the presence of sectors with energy characteristics very different: in fact, the run-up goes from a minimum of 0.91 m to a maximum of 2.07 m, which means that an wave climate can flood the emerged shore for values between 24% and 101%. On the analyzed shore profiles it has been possible to estimate the evolution trend of the coast, as a consequence of the expected increase in sea level (IPCC, 2007), using mathematical and morphological models capable to evaluate the expected retreat. For the examined case the parameters needed for this evaluation have been measured analyzing the wave climate for the period between the years 1989 and 2008, and the individual topographic profiles of the shore. In particular, the SLR retreat has been evaluated using two morphologic methods and using the sea level increment calculated by Antonioli & Leoni (2007) on the basis of data published by IPCC (2007). The retreat for this has been estimated to a value of 0,16 m/y (using Bruun, 1964) or a value of 0,23 m/y (Davidson-Arnot, 2005). The data obtained with this study have been used to derive a model addressed to the coastal vulnerability determination along the coastal areas that have been analyzed. The coastal vulnerability, which is intended as the susceptibility of a determined coastal area to be affected either by flooding or erosion, is linked to several parameters that can be grouped into three main categories: erosion, permanent inundation and episodic inundation. There are several models for the vulnerability evaluation and comparison among different coastal areas, models that are both qualitative and quantitative. The model proposed by Gornitz et al. (1997), suggest the determination of a coastal vulnerability index (CVI) through the determination of several parameters which can be considered representative of the considered coastal area, and by applying a linear regression to these parameters. This method, which has been largely applied, has the limit that it can be just used for large areas. In my case, I have tried to use this method by applying some modifications that could make it useful also for the study of small coastal environment by improving the number of parameters to calculate and by using a GIS software (ArcGis 9.2). I was so able to propose a new index of vulnerability (IVC) which is based on the evaluation of the Potential Erosion and the Potential Flooding and two more index of coastal vulnerability, (IVC25 e IVC50), which consider the Sea Level Rise (SLR) at 25 and 50 years. The final correlation of the described indexes is obtained trough a multiple linear regression, and the final index value is derived by the expression , which was already used by Goritz et al. (1994). In Fig. 1 it is reported the case study of the coastal areas of the Sele Plain, with the individuation and the representation of the different classes. The areas with the highest values in the IVC are comprised between the Campolongo Hospital and Molo Sirena, an area which include the Sele river mouth. The use of a new model addressed to small areas has allowed to the determination of the main features of the littoral portion of the Sele plain system, with a particular attention to the potential erodibility and to the susceptibility to the flooding and so the determination of the coastal vulnerability. It seems to be a simple a detailed method, which can be used for preliminary studies of all the coastal systems and it is so an instrument useful to the coastal planning. ; Dottorato di ricerca in Ambiente e Territorio (XXIII ciclo)
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2011/2012 ; Lo studio della fisica nucleare in Italia ebbe il suo mito fondativo nelle vicende dei "ragazzi di via Panisperna", dal nome della via romana in cui sorgevano i laboratori diretti da Enrico Fermi. Dopo aver raggiunto la fama mondiale (in particolare con il Nobel per la fisica di Fermi nel 1938), il gruppo fu disperso a causa della politica (sia razziale che scientifica) del regime fascista. Mentre Fermi ed altri, espatriati in America, davano il proprio determinante contributo alla realizzazione della bomba atomica, in Italia rimase il solo Edoardo Amaldi che, nel dopoguerra, si trovò ad essere, nel Paese e fuori, un fondamentale punto di riferimento per la fisica italiana. Nell'immediato dopoguerra, a fronte di un sostanziale disinteresse del Governo italiano in materia di ricerca, furono le industrie elettriche private a muovere i primi passi verso la ricerca e lo sviluppo della tecnologia nucleare, concedendo il proprio appoggio ad alcuni giovani ricercatori del Politecnico di Milano che diedero vita al CISE (Centro Informazioni Studi Esperienze). Parallelamente, la "comunità dei fisici" iniziava a ritagliarsi un proprio spazio autonomo di manovra. Nel 1951 i gruppi universitari che si occupavano di fisica fondamentale diedero vita all'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) mentre l'anno successivo, non senza attriti con il CISE, il Ministero dell'Industria appoggiò la creazione del Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari (CNRN), incaricato di promuovere e occuparsi della fisica nucleare applicata. Alla presidenza fu nominato Francesco Giordani, chimico napoletano legato all'IRI ed agli ambienti del neo meridionalismo. Il Comitato, che solo nel 1960 fu mutato in CNEN (Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare) ottenendo la necessaria personalità giuridica, dovette costantemente far fronte alle difficoltà derivanti dalla propria fragilità istituzionale e dalle continue tensioni con l'industria elettrica privata. Ciononostante, sotto la guida del suo Segretario Generale Felice Ippolito, riuscì a dar vita ad importanti realizzazioni (come il Sincrotrone di Frascati o il Centro di ricerche nucleari di Ispra) e diede l'impulso fondamentale che portò alla costruzione, nei primi anni '60, delle prime centrali nucleari in Italia. Questo "periodo aureo" della fisica nucleare applicata iniziò a finire nell'agosto del 1963 quando una dura campagna stampa prese a mettere in discussione le gestione di Ippolito che si ritrovò al centro di un "caso" che da mediatico si fece ben presto giuridico e portò, nel marzo del 1964, all'arresto del Segretario Generale del CNEN per irregolarità amministrative. "Il caso Ippolito", lungi dall'essere solo un processo per un isolato caso di malversazione, di fatto sancì la fine della ricerca e dello sviluppo del nucleare in Italia, facendo piazza pulita non solo dei progetti di nuove centrali atomiche, ma anche di un certo tipo di gestione degli enti pubblici che aveva fatto dell'elasticità amministrativa il proprio punto di forza, laddove in seguito si impose la burocratizzazione e la lottizzazione politica. Nella tesi in esame ho tentato di individuare, all'interno di un campo di ricerca così vario e così ricco di spunti collocati a cavallo di più discipline storiche (storia e filosofia della scienza, dell'economica e dell'industria, della cultura e della politica, delle relazioni internazionali), alcuni snodi focali ed emblematici che permettessero di sviluppare un percorso di indagine su quello che appariva come un meraviglioso tentativo di far recuperare all'Italia il tempo perduto a causa del regime fascista, in termini di sviluppo tecnologico e scientifico, ma anche culturale e politico. Tale tentativo ottenne risultati di rilievo mondiale nel dopoguerra ma andò incontro ad una nuova sconfitta, nei primi anni '60, quando emerse l'incapacità dello Stato di riformare se stesso per tener dietro ai rapidi mutamenti, non solo tecnici, che la tecnologia d'eccellenza pretende per mantenersi tale. Fin dall'inizio ho individuato in Felice Ippolito il trait d'union tra i fatti caratterizzanti le vicende trattate. Interessato alla ricerca nucleare quale geologo esperto in prospezioni minerarie, in seguito venne nominato Segretario Generale del CNRN e si trovò a rivestire un ruolo chiave, emblematico e rappresentativo, all'interno di un complesso ambiente culturale composto da intellettuali, scienziati ed alti funzionari che parteciparono ad una rete di rapporti all'interno della quale si elaborarono delle organiche strategie di sviluppo per il Paese. Ippolito divenne referente e portavoce di una comunità scientifica che si caratterizzava in quegli anni per il suo rapporto estremamente dialettico e consapevole con tutte le componenti della società, dalla classe politica al mondo dell'industria e dell'economica, dal mondo della cultura alle classi subalterne. Per comprendere l'incontro tra Ippolito e la comunità dei fisici, ho ritenuto di iniziare la tesi con un accenno all'esperienza dei "ragazzi di via Panisperna" e di Enrico Fermi, in particolare. La partenza in treno di Fermi per Stoccolma, il 6 dicembre 1938, dove avrebbe ritirato il premio Nobel prima di espatriare negli Stati Uniti (in fuga dalle leggi razziali ma soprattutto dall'incapacità del regime fascista di comprenderne e sostenerne le iniziative), è stata presentata come evento simbolico e metaforico della perdita di un primo "treno per la modernità" da parte dell'Italia. L'attenzione è stata posta soprattutto su chi rimase sulla banchina di quella stazione, ovvero Edoardo Amaldi, che pur con molti dubbi alla fine scelse di rimanere in Italia diventando il punto di riferimento per eccellenza, in virtù del suo carisma scientifico ed umano, della comunità dei fisici italiani nel dopoguerra. In particolare ho messo in evidenza il rafforzarsi in Amaldi di un punto di vista autonomo su quello che doveva essere il rapporto tra la ricerca scientifica ed il mondo della politica e dell'industria. Mentre oltreoceano Fermi delegava al Governo la valutazione etica e la gestione dei risultati del proprio lavoro scientifico, in Italia il suo allievo Amaldi fin dal dopoguerra iniziò a tessere una rete di rapporti, con l'industria e le aziende controllate dallo Stato, caratterizzati da alcuni principi imprescindibili. Quando gli industriali elettrici privati lo chiamarono al CISE, Amaldi pose perentorie condizioni alla propria partecipazione, come la difesa della sua autonomia scientifica, il rifiuto di ogni principio di segretezza, ed il fatto che la ricerca doveva andare a beneficio dell'intera collettività e non a vantaggio di pochi gruppi privati. Dopo aver delineato alcuni elementi della figura di Amaldi, ho concentrato il mio interesse su Ippolito e sui suoi rapporti con l'ambiente culturale napoletano, liberale e meridionalista, di cui anche Francesco Giordani faceva parte. Attraverso la bibliografia e gli archivi dell'ente, ho esaminato la nascita del CNRN sull'asse Ippolito-Giordani-Pietro Campilli (il Ministro dell'Industria che sostenne il progetto) e di seguito l'insorgere delle tensioni con il CISE e l'industria privata. L'obiettivo è stato di mettere in evidenza l'estrema "coerenza" dell'incontro tra i fisici rappresentati da Amaldi e la politica scientifica portata avanti da Ippolito e Giordani, capaci di soddisfarne sia le ambizioni tecnico scientifiche che etiche e politiche. Con un capitolo intermedio, su tematiche di politica nucleare internazionale, ho introdotto il tema dell'iniziatica Atoms for peace, lanciata dal Presidente americano Eisenhower, che prospettava una politica di disarmo atomico fondata sulla socializzazione della tecnologia nucleare ad uso civile. Rinunciando a proporre un inquadramento storiografico e critico complessivo, ho scelto di render conto della rappresentazione offerta da uno dei protagonisti di quegli anni, ovvero il francese Bertrand Goldschmidt, che influenzò grandemente il punto di vista di Ippolito e degli Amici del Mondo (cui Ippolito si legò) e che oggi testimonia in maniera particolarmente efficace il clima di "euforia atomica" che determinò allora fondamentali scelte di politica energetica europea. L'iniziativa Atoms for Peace diede l'occasione ad Ippolito di avviare un'intesa collaborazione con l'ambiente culturale che ruotava attorno alla rivista «Il Mondo» diretta da Mario Pannunzio e che in quel momento si presentava come la fucina, di stampo liberale radicale, dei progetti politici che portarono in seguito al Centrosinistra. Ripercorrendo le pagine della rivista ho messo in evidenza un percorso di progressiva presa di coscienza sulla questione nucleare. Se fino all'iniziativa Atoms for Peace erano considerate solo le applicazioni militari di tale tecnologia, in seguito e anche grazie all'intervento di Ippolito, il dibattito sul nucleare venne connesso alla questione della produzione energetica vista nella prospettiva della lotta contro i monopoli e per la nazionalizzazione del settore. Su questi temi centrali in quella fase politica (sulla nazionalizzazione del settore elettrico si giocò la battaglia fondamentale per il Centrosinistra), Ippolito in particolare, a metà degli anni '50, iniziò a tessere un discorso unitario tra crescente richiesta energetica, sviluppo della tecnologia nucleare e necessaria nazionalizzazione. Coerenti a questa linea iniziarono ad apparire su «Il Mondo» i "Dialoghi plutonici" di Ernesto Rossi che testimoniavano i rapporti sempre più stretti tra Ippolito e la rivista, nel contesto delle vicissitudini politiche che portarono alla nascita del Partito Radicale ed ai convegni degli Amici del Mondo "La lotta contro i monopoli" e "Atomo ed elettricità". Usando gli atti dei convegni e analizzando i molti articoli in merito apparsi sulla rivista, ho messo in evidenza il processo che portò, a partire dalle posizioni antistataliste sempre sostenute sulle pagine di «Il Mondo» in particolare da Rossi, al definirsi della presa di posizione nazionalizzatrice espressa durante il convegno "La lotta contro i monopoli". Del seminario "Atomo ed elettricità" ho ritenuto di particolare interesse l'identificazione operata dai relatori tra esigenze tecnico-scientifiche dell'energia nucleare e opzione nazionalizzatrice che portò ad una lettura prettamente politica delle scelte tecniche da operare in materia di filiere tecnologiche. Lettura che, come evidenzieremo, Ippolito non condividerà a favore di un approccio che preferisce le soluzioni particolari alle analisi universali. Atoms for Peace comporta un rilancio generale della politica nucleare italiana anche in termini di "gara atomica" tra ricerca e sviluppo pubblici e privati. In particolare, ho esaminato il crescente clima di ostilità tra il CNRN e l'industria privata (l'Edison in particolare) e le cause che portarono alle dimissioni di Giordani dalla Presidenza del Comitato. In un capitolo titolato "Come Mattei all'Agip" ho delineato le difficoltà istituzionali che dovette affrontare Ippolito da segretario plenipotenziario del CNRN ed il conseguente sviluppo di un modus operandi problematico che ebbe importanti conseguenze nella creazione del "caso" che sarebbe esploso. Tra le molte vicissitudini del CNRN ho seguito soprattutto il processo che portò alla costruzione delle prime centrali atomiche in Italia con particolar attenzione alla collaborazione tra CNRN e Banca Mondiale che portò alla costruzione della centrale di Garigliano e che sintetizzò istanze meridionaliste e nucleariste. Con il capitolo "Dal CNRN al CNEN" ho esaminato il percorso politico che portò alla nascita del CNEN nel contesto delle trattative per il primo Governo di Centrosinistra e della nazionalizzazione dell'energia elettrica. L'obiettivo è stato in particolare mettere in evidenza le tensioni che andarono delineandosi all'interno del nuovo ente elettrico, l'ENEL, tra le posizioni rappresentate dal Direttore Generale Angelini ed il consigliere Ippolito. Negli ultimi due capitoli ho riassunto in modo antologico l'aspetto più ampiamente trattato dalla storiografia esistente sul tema, ovvero il "caso" mediatico e giuridico che prese il nome del Segretario Generale del CNEN e che portò alla sua incarcerazione. Oltre alla fase processuale, ho ricostruito il quadro politico e gli avvenimenti che portarono alla messa in stato di accusa di Ippolito, nell'estate del 1963, ed alla sua incarcerazione l'anno successivo, che ebbero come diretta conseguenza il drastico ridimensionamento dei programmi nucleari del CNEN. Infine ho proposto un'analisi delle ipotesi interpretative date al "caso Ippolito" evidenziando anche alcuni aspetti che, per varie ragioni, non sono stati ancora indagati. In ultima analisi il presente studio tenta di mettere in luce la complessità della materia trattata che, pur prestandosi per molte ragioni alle semplificazioni complottistiche e dietrologiche di stampo giornalistico, risulta incomprensibile senza una contestualizzazione capace di connettere il percorso della fisica nucleare italiana (che a partire dall'esperienza dei "ragazzi di via Panisperna" tende a pensarsi e muoversi come una "comunità" portatrice di propri interessi e ideali), il dibattito filosofico, culturale e tecnico sulle ragioni e sui mezzi dell'intervento dello Stato nell'economia e sul ruolo di intellettuali e scienziati nella società, ed infine la storia politica italiana, europea ed internazionale che portò alla nascita del Centrosinistra. ; XXIV Ciclo ; 1975
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2008/2009 ; Sfruttando l'allentamento delle rigidità del sistema internazionale subentrato alla fine del confronto bipolare, un certo numero di paesi ha intensificato gli sforzi per migliorare il proprio status regionale, incidendo sui rapporti di forza locali principalmente attraverso il potenziamento delle proprie capacità militari. Il fenomeno è risultato particolarmente significativo in quello che viene definito come 'Grande Medio Oriente' (Great Middle East), comprendente la fascia di territori che si estendono dal Nord Africa al Golfo del Bengala. Questa vasta macro-regione condivide numerosi aspetti, fra i quali il rapido sviluppo demografico ed una perdurante situazione di instabilità endemica, mentre le sue importanti risorse energetiche sono oggi fondamentali non solo per l'Occidente, ma anche per le potenze asiatiche, la cui crescente rilevanza geopolitica e geostrategica è in larga parte conseguente alla loro rapida ascesa economico-industriale. Collocate prevalentemente in corrispondenza di quello che Saul Cohen aveva definito col termine di "zone di rottura" (shatterbelts), che separavano le sfere di influenza delle due superpotenze, varie potenze emergenti hanno individuato nel possesso – reale o anche solo potenziale – di armi di distruzione di massa lo strumento privilegiato per accedere a posizioni egemoniche negli equilibri locali, affermando contestualmente la propria sovranità nazionale. In tale quadro, esiste da parte di larga parte degli attori regionali una condivisa aspirazione a conferire concretezza alla netta opposizione ad ogni forma di ingerenza esterna, che tenti di influenzare, condizionare o indirizzare la soluzione delle molteplici questioni locali. Con questi obiettivi, sono stati avviati vari programmi tendenti a realizzare armi di distruzione di massa, necessariamente integrate dai relativi sistemi di lancio (delivery means). Contrariamente a quanto attuato dalle due superpotenze alla fine del secondo conflitto mondiale, i programmi in questione non hanno finalità egemoniche su scala globale, ma sono dichiaratamente finalizzati alla realizzazione di arsenali idonei, per quantità e caratteristiche dei sistemi d'arma, a tutelare gli interessi nazionali, sia nei confronti dei competitori regionali, come anche nell'eventualità di un confronto asimmetrico con la sola superpotenza rimasta dopo la fine dello scenario bipolare. Utilizzati per la prima volta in battaglia dall'impero cinese (280-233 a.C.), i proiettili autopropulsi, indicati anche col termine di razzi o missili, per molti secoli le loro applicazioni militari sono risultate saltuarie e marginali, soprattutto per la scarsa precisione e il limitato peso della carica trasportata. Negli usi bellici veniva preferito il cannone, sottoposto a continui miglioramenti in termini di portata, precisione e potenza distruttiva. Dopo la fine del primo conflitto mondiale, allo scopo di superare le severe limitazioni poste dal Trattato di Versailles allo sviluppo di armamenti pesanti ed a lungo raggio, nel 1929 l'esercito tedesco finanziava un programma di ricerca nel settore missilistico. Gli sforzi si concretizzavano nella realizzazione di due diverse classi di ordigni autopropulsi, le V-1 e V-2, il cui impiego veniva peraltro limitato alla fase terminale della seconda guerra mondiale. Ulteriori sviluppi – immediatamente avviati negli Stati Uniti ed Unione Sovietica col contributo di progetti, ordigni e tecnici catturati ai tedeschi – portavano alla realizzazione di vettori di crescente potenza, i cui persistenti problemi di precisione erano mitigati dall'enorme capacità distruttiva degli ordigni nucleari, tanto che la loro combinazione si affermava rapidamente come il principale strumento della deterrenza nucleare nel confronto bipolare. Attualmente, le applicazioni militari delle tecnologie nucleari sviluppate dai paesi emergenti richiedono consistenti investimenti in termini di tempo e risorse, anche per l'esigenza di aggirare i vincoli alla proliferazione imposti dai regimi internazionali. In questa prospettiva, lo sviluppo dei vettori di lancio balistici presenta problemi minori, di natura prevalentemente tecnica ed anche per questo i programmi missilistici godono di maggiore favore. Infatti, l'assenza di un accordo internazionale, ampiamente condiviso ed accettato, che limiti lo sviluppo di programmi missilistici e la loro duplice valenza, civile e militare, rende più agevole l'acquisizione e l'osmosi delle applicazioni dual-use. Inoltre, l'elevato contenuto tecnologico tende ad incentivare la formazione di personale scientifico e tecnico, favorendo il finanziamento di iniziative ed attività che contribuiscono allo sviluppo dei paesi proliferanti. Infine, la marcata valenza geopolitica, prima ancora che strategica, dei sistemi balistici nei rapporti di potenza regionali e nelle prove di forza con gli attori extra-regionali, favoriscono i sistemi missilistici, i quali – rispetto agli aerei da combattimento – offrono superiori prestazioni in termini di velocità, autonomia, capacità di sopravvivenza e di penetrazione. Inoltre, essi richiedono minori oneri di acquisizione e di gestione dei sistemi d'arma. Infine, il possesso di vettori missilistici consente, indipendentemente dal loro numero, significativi miglioramenti del livello di prestigio di cui gode il Paese che li possiede, che può anche sfruttare i test di lancio, opportunamente pubblicizzati, come strumenti di provata efficacia nell'esercitare forme di pressione psicologica a livello politico-diplomatico, utilizzabili sia per finalità interne che per scopi di deterrenza nei rapporti internazionali. Non sono rari, inoltre, momenti in cui, emulando quanto a suo tempo attuato dalle superpotenze, gli arsenali missilistici sono sfruttati come strumento di coercizione diplomatica, dimostrando anche in questo caso una valenza superiore a quella degli tradizionali armamenti. Alla luce di queste considerazioni, nel presente lavoro vengono delineati i vari aspetti della proliferazione missilistica nel Grande Medio Oriente, considerata nell'ambito del più ampio ed articolato problema della proliferazione delle armi di distruzione di massa, cui viene accennato ove necessario. La trattazione è articolata in tre parti principali, integrate da una serie di considerazioni conclusive. La prima parte del lavoro, dedicata all'analisi del ruolo svolto dai sistemi missilistici nell'attuale contesto internazionale, viene aperta da una sintetica disamina storica dello sviluppo ed impiego dei sistemi missilistici nei conflitti moderni. Viene tratteggiato lo sviluppo della missilistica moderna alla vigilia e durante il secondo conflitto mondiale, seguito dalle principali vicende che hanno caratterizzato l'evoluzione della deterrenza nucleare e missilistica nel corso della guerra fredda. A partire dall'inizio degli anni sessanta, i vettori missilistici hanno progressivamente acquistato un ruolo centrale, a discapito dei bombardieri strategici, progressivamente relegati a compiti complementari, mentre l'aviazione manteneva una presenza significativa a livello tattico-operativo. Nel prosieguo della trattazione, si esaminano brevemente i passaggi salienti della crisi missilistica del 1960, conseguente allo schieramento a Cuba dei vettori nucleari sovietici, che rappresenta una tappa importante nella storia della contrapposizione bipolare. Sul piano tecnologico, l'evento ha impresso un importante impulso allo sviluppo di vettori missilistici da parte degli Stati Uniti (che, all'epoca, paventavano un inesistente gap missilistico), mentre sul piano delle relazioni internazionali veniva evidenziata l'esigenza di instaurare meccanismi di comunicazione e di consultazione fra le due superpotenze, al fine di scongiurare ogni rischio di spiralizzazione nucleare. L'evento serviva anche da spunto iniziale per la successiva decisione francese di intraprendere una autonoma strategia nucleare e missilistica, ritenuta più rispondente alle esigenze francesi in termini di sicurezza nazionale di quanto assicurato dalla NATO. Nel prosieguo, una rassegna di casi di impiego di sistemi missilistici in particolari eventi storici consente di tratteggiare alcune delle motivazioni che alimentano gli attuali timori e le reciproche diffidenze radicate nell'area, nonché le inquietudine internazionali per i possibili effetti destabilizzanti causati da ordigni relativamente semplici, ma efficacemente utilizzabili anche in contesti di confronto asimmetrico. Segue una analisi dell'attuale proliferazione missilistica, che considera le motivazioni delle varie parti in causa, evidenziando i possibili rischi connessi con la proliferazione delle armi di distruzione di massa, alle quali i vettori missilistici forniscono l'indispensabile complemento operativo e strategico. In questo quadro, vengono sottolineati i tratti salienti e i limiti degli accordi internazionali attualmente operanti per contrastare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, integrati da un sintetico cenno ai programmi di difesa antimissile ed alle convenzioni che regolano l'uso pacifico dello spazio. Nella seconda parte, vengono considerate le dimensioni geopolitiche e geostrategiche della proliferazione missilistica nella macroregione, partendo dall'esame delle caratteristiche geografiche, politiche e strategiche dello scenario mediorientale, nel quale soggetti geopolitici profondamente diversi – spesso in antagonismo fra loro – possono talora condividere finalità politico-strategiche identiche o complementari. Considerato come la percezione della minaccia influisca sulle motivazioni degli Stati proliferanti, particolare attenzione è stata riservata ai meccanismi della deterrenza ed alla combinazione dei fattori di potenza e vulnerabilità, così come si sono sviluppati nel contesto della contrapposizione bipolare ancora oggi operanti. In tale quadro, viene esaminato il processo evolutivo della deterrenza nucleare – inizialmente in funzione contro-risorse e successivamente orientata in funzione contro-forze – di pari passo con il miglioramento della precisione dei vettori missilistici. Inoltre, viene fatto riferimento anche alle formule di deterrenza sviluppate autonomamente da parte di Cina, India e Pakistan, contestualmente alla formazione dei rispettivi arsenali nucleari. L'introduzione di testate nucleari imbarcate su sottomarini lanciamissili a propulsione nucleare ha conferito una sostanziale invulnerabilità a parte del deterrente nucleare, rendendo realisticamente impraticabile l'opzione dell'attacco preventivo per annullare l'arsenale nucleare avversario. Questa nuova situazione ha comportato il superamento della dottrina del first use ed ha posto le basi per il consolidamento degli equilibri esistenti, mantenuti sotto la reale minaccia di distruzione reciproca assicurata (MAD). Con la dissoluzione del blocco orientale e l'emergere della posizione egemone degli USA, la dottrina della deterrenza è entrata in un processo evolutivo ancora in atto, influenzato in misura significativa dai programmi di difesa antimissile statunitensi e dallo sviluppo di armi antisatellite avviato da parte della Cina e di altri paesi. Queste iniziative rappresentano, almeno in parte, una risposta alla dottrina strategica statunitense – che ha rivendicato il diritto americano all'intervento preventivo - ed alla dottrina della "full spectrum dominance". Dopo il ritiro dal Trattato ABM, l'amministrazione Bush ha adottato una serie di iniziative in materia di difesa contro i vettori balistici, in linea con la unilateralità delle posizioni e degli obiettivi di politica spaziale, che, al momento, risulta sostanzialmente confermata dalla nuova amministrazione USA. D'altra parte, Washington nutre forti preoccupazioni per la proliferazione missilistica in atto in numerosi Stati del Medio Oriente allargato, in quanto – in un futuro confronto asimmetrico – potrebbe da un lato alterare gli equilibri di potenza locali, dall'altro sarebbe in grado di ipotecare pesantemente le capacità statunitensi di proiezione di forza convenzionale nella regione, in cui hanno origine flussi energetici di vitale importanza. Nel prosieguo, viene trattato il ruolo geopolitico e geostrategico svolto dai sistemi missilistici e spaziali, sia per quanto si riferisce all'applicazione di tecnologie dual-use nello sviluppo dei vettori missilistici civili e militari, sia per quanto concerne l'evoluzione delle visioni incentrate sui rapporti di potenza, con particolare riferimento alle maggiori potenze. A completamento, viene introdotta una breve disamina delle possibilità e dei limiti che incidono sulla formazione del quadro conoscitivo, con specifico riferimento allo sviluppo dei sistemi missilistici. In presenza di mezzi che rappresentano allo stesso tempo strumento della capacità militare e mezzo della propaganda politica, l'analisi oggettiva risulta oltremodo difficoltosa e fortemente penalizzata, essendo talora problematico valutare l'attendibilità delle fonti aperte disponibili. Le maggiori difficoltà interpretative dei dati reperibili derivano dalla sovrapposizione degli interessi propagandistici dei paesi proliferanti e delle valutazioni dell'intelligence avversaria, col risultato di una sopravvalutazione delle prestazioni e dei risultati conseguiti dai programmi di proliferazione. Difficoltà che, in qualche caso, risultano amplificate dal particolare ed articolato contesto mediorientale, in cui i complessi intrecci fra le aspirazioni dichiarate dalle leadership locali e le reali finalità rendono indefinito il bilancio di certezze e probabilità, come peraltro esemplificato nel 2003 dalla errata valutazione statunitense relativamente alle armi di distruzione di massa irachene. In questa prospettiva e al fine di fornire alcuni semplici elementi di valutazione, è stato redatto un sintetico allegato tecnico, in cui sono raccolti i principali parametri tecnologici ed operativi che caratterizzano le varie tipologie di vettore balistico, con una sintetica integrazione dedicata ai missili da crociera. Nella terza parte, vengono tratteggiati i lineamenti essenziali che contraddistinguono le posture strategiche dei principali attori del Grande Medio Oriente, inclusi India e Pakistan, accennando anche ai relativi programmi e dotazioni missilistiche. Contestualmente, si fa cenno, per quanto noto, anche ai coinvolgimenti dei principali attori extra-regionali. Uno specifico approfondimento viene dedicato ai potenziali missilistico iraniano ed israeliano, sottolineando le premesse storiche, geopolitiche e geostrategiche che – nell'ambito della politica di sicurezza dei due paesi – contribuiscono a motivare le scelte in questa direzione. Un accenno anche alla nuova dimensione geostrategica dei vettori balistici, con rilevante impatto sul piano politico interno ed internazionale, emerso in occasione degli attacchi missilistici condotti da Hezbollah e culminati negli scontri del giugno 2006. Da ultimo, alla luce di quanto emerso dall'esame dei vari aspetti della problematica e dei principali fattori che intervengono negli equilibri della macroregione, vengono tratteggiati alcuni dei possibili scenari di confronto geostrategico, anche conflittuale, fra i principali attori regionali. In particolare, l'attenzione è focalizzata sulla valutazione del possibile ruolo della componente missilistica, sia quale potenziale elemento destabilizzante, sia come possibile strumento di deterrenza sia, in determinate circostanze, quale stimolo per la individuazione di equilibri condivisi e per escludere ipotesi di spiralizzazione della contrapposizione regionale. Una serie di considerazioni conclude la trattazione che, per una più agevole consultazione, è stato integrata da vari allegati. Oltre ad una raccolta dei termini, acronimi ed abbreviazioni di uso più ricorrente nella trattazione della specifica tematica, in questa parte è stata inserita una sintetica trattazione degli aspetti tecnologici dei vettori missilistici, utile per l'analisi critica di previsioni e scenari relativi alla proliferazione missilistica. Una serie di schede riepilogano le dotazioni missilistiche dei principali paesi della macroregione, secondo i dati attualmente disponibili. Per la preparazione del presente studio, sviluppato sui dati noti sino alla fine del 2009, ci si è avvalsi di fonti differenziate, utilizzando in misura significativa l'ampia e dettagliata pubblicistica prodotta da importanti centri di ricerca che approfondiscono le tematiche della geopolitica e della geostrategia e che dedicano ampi spazi all'analisi delle questioni connesse con le relazioni internazionali e la proliferazione missilistica. ; XXII Ciclo
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Il lavoro intende approfondire l'intero percorso intellettuale di Domenico Settembrini professore ordinario della facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Pisa dal 1970 al 2002 presso la quale ha tenuto gli insegnamenti di Storia del movimento operaio e del sindacalismo, Storia delle dottrine politiche e Storia del pensiero politico moderno e contemporaneo. Egli è stato tra i massimi studiosi delle ideologie rivoluzionarie del Novecento delle quali ha posto in evidenza le origini religiose e messianiche mettendo, al tempo stesso, in guardia dagli epigoni totalitari a cui avrebbero condotto. Si è battuto verso qualsiasi forma di vulgata calata dall'alto da parte degli intellettuali e della classe dirigente in anni in cui il mondo accademico e gli ambienti della cultura erano decisamente schierati a favore della dottrina marxista. Ha anticipato nei suoi scritti alcuni degli scenari più significativi della storia contemporanea che si sono palesati in seguito al crollo del Muro di Berlino ed al tramonto, nel mondo occidentale, delle diverse forme di socialismo reale. Ha dato vita ad una profonda reinterpretazione del fascismo e della storia nazionale italiana indagate alla luce della persistenza di una profonda avversione allo spirito borghese, al capitalismo e all'affermazione nel paese di un liberalismo democratico estendendo, con successo, il paradigma defeliciano all'analisi del secolo e mezzo di storia patria. Ha posto, infine, domande estremamente attuali sul futuro delle moderne comunità democratiche ancora impegnate nel dare risposte concrete alle istanze storiche di una società più equa e solidale e, al tempo stesso, occupate nelle nuove sfide della globalizzazione, del cambiamento climatico e delle convivenze multirazziali. La ricerca ha preso le mosse dallo studio delle singole opere di Settembrini delle quali si è cercato di mettere in evidenza le relazioni e le tematiche ricorrenti, nel tentativo di ricostruire un percorso che per coerenza e onestà intellettuale non ha conosciuto particolari deviazioni. Non meno importanti le decine di pubblicazioni su riviste specializzate sui temi del marxismo, dell'anarchismo, del fascismo, del liberalismo e della democrazia che hanno consentito una costante diffusione delle idee e delle acquisizioni dell'autore in un confronto, talvolta anche aspro, con posizioni contrastanti ma sempre volto alla ricerca di un sapere critico e appassionato. Di grande aiuto è stata, infine, la cospicua produzione pubblicistica di Settembrini attraverso le principali testate giornalistiche nazionali nelle quali ha avuto modo di esprimere le proprie convinzioni sui temi dell'attualità politica e dei grandi sconvolgimenti che hanno interessato il pianeta negli ultimi decenni. Il lavoro si articola in una prima parte all'interno della quale, dopo una breve ricostruzione della biografia personale, vengono passate in rassegna le varie opere letterarie di Settembrini con particolare attenzione alla scansione delle diverse fasi storiche che lo avrebbero condotto dall'originario assedio al marxismo a spostarsi, gradualmente, sulle tematiche del liberalismo e della democrazia nel tentativo di approfondire le complessità a cui la "società aperta" deve, in qualche modo, fornire risposta. Un secondo capitolo viene dedicato all'eredità di metodo e di studioso appassionato che Settembrini ha lasciato ai propri allievi, collaboratori, colleghi e amici con particolare riguardo a quattro fondamentali ambiti che ne hanno contraddistinto prima la formazione, poi l'insegnamento e, infine, la testimonianza lasciata ai posteri nel tempo. L'importanza di un fondamento scientifico di una teoria, di un'idea e di una forma di pensiero; la necessità di confrontarsi con la modernità e con tutto ciò che ne consegue cercando di assecondarla e non di combatterla; l'avversione a tutte quelle espressioni ideologiche imposte alle masse dalle élites intellettuali, spesso residuo di quelle forme di pensiero profetico e predittivo che nella storia hanno condotto alle soluzione politiche più infauste; infine, la costante ricerca di un liberalismo ricco di valori, non semplicemente lasciato alla logica della concorrenza e del mercato, ma guidato a difesa delle classi più deboli nel tentativo di eliminare quante più diseguaglianze possibili. Nel terzo capitolo viene presa in esame una delle opere più note di Settembrini la Storia dell'idea antiborghese in Italia con particolare attenzione alle dinamiche che portarono, nei decenni post-unitari sino alla prima guerra mondiale, alla formazione ed all'affermazione di tale spirito nei vari ambiti della cultura, della politica, dell'economia e della società. Attraverso i percorsi delle diverse personalità passate in rassegna, in un clima fortemente influenzato dall'idealismo filosofico dominante nel periodo storico preso in considerazione, è stato possibile appurare come tale avversione al capitalismo, alla borghesia e ai valori da questa incarnati sia stato un atteggiamento diffuso da parte delle élites intellettuali del paese. Su queste basi ha avuto luogo un'ampia convergenza di esponenti del ceto dirigente, caratterizzati da una diversa formazione e appartenenza ideologica, ma in grado di determinare scelte economiche e politiche decisive per le sorti del paese: dalle modalità del processo di industrializzazione, per lungo tempo frenato da una visione paternalistica della borghesia imprenditoriale, all'opposizione nei confronti della politica riformista giolittiana, per finire all'interventismo e al fascismo. Nel quarto capitolo viene presa in esame l'accoglienza riservata all'opera di Settembrini all'interno di un clima culturale complessivamente avverso ad un approccio revisionista dei principali avvenimenti della storia nazionale come l'autore ha inteso fare nel corso della propria ricerca. Ciò nonostante è stato possibile raccogliere numerose recensioni positive sul volume pronte ad indagare quegli aspetti della storia delle idee con particolare riguardo alla mentalità degli intellettuali che le hanno prodotte. Anche dinanzi ai giudizi più critici è stato, comunque, possibile isolare un comune apprezzamento per l'impostazione storica del lavoro, per l'ampia documentazione raccolta a supporto delle diverse tesi e una capacità, non comune, di attraversare le vicende della storia nazionale ricercandone le radici nell'ambito della cultura e delle forme di pensiero. L'interesse riscosso dal volume è ulteriormente testimoniato dai due dibattiti organizzati da riviste specializzate, in sede di presentazione del libro, dove hanno avuto modo di intervenire personalità di primo ordine del dibattito politico, culturale e storico del paese. Infine si è voluto dedicare uno spazio apposito all'attualità e alla modernità del pensiero di Domenico Settembrini, con particolare riguardo ai contenuti della Storia dell'idea antiborghese, dimostrando come molte delle tematiche trattate nel volume ancora oggi non hanno perso niente della loro centralità di fronte alle nuove espressioni di partecipazione politica sempre più orientate al populismo, alla demagogia e a forme di antiparlamentarismo che testimoniano la persistenza di questo spirito nelle viscere più profonde della storia e della cultura italiana.
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[ita] La presente tesi di dottorato approfondisce l'immigrazione e, precisamente, le politiche delle amministrazioni locali per l'accoglienza e l'integrazione sociale degli stranieri. La ricerca non affronta un argomento nuovo ma, visto il gran numero di cittadini stranieri comunitari ed extracomunitari che raggiungono ogni anno l'Italia e la Spagna, le politiche per l'integrazione sociale degli immigrati (immigrants politics) hanno acquistato un significato sociale e culturale che le ha trasformate in un tema di speciale rilevanza e interesse dal punto di vista sociologico, politologico e giuridico. Nello specifico, la ricerca si concentra sulle politiche implementate nelle città di Roma e Barcellona, con il fine di comprendere le analogie e le differenze che soggiacciono al modello di politica locale specifico di ognuna di esse. I primi capitoli della tesi sono il frutto di un ampio lavoro di ricerca bibliografica orientata a ricostruire i principali approcci teorici che nell'ambito delle scienze sociali studiano lo straniero e l'immigrazione, tanto nella sua articolazione quanto nel suo impatto con la società di accoglienza. Nel primo capitolo è presentato il dibattito sulla figura dello straniero e i contributi degli autori che all'interno delle scienze sociali, hanno contribuito alla definizione dello straniero come categoria sociologica. In questa parte della ricerca lo sforzo è stato quello di collegare le riflessioni dei classici della sociologia come G. Simmel, N. Elias e W. Sombart, a quelle di autori più recenti quali Z. Bauman, A. Touraine, con lo scopo di far "dialogare" tra loro autori di differenti epoche storiche. Nel secondo capitolo è esaminata la letteratura sui discorsi politici sull'immigrazione e si approfondisce il ruolo dei mezzi di comunicazione nella diffusione di un'immagine dell'immigrazione come problema sociale e nazionale. Nello specifico, sono ricostruiti i processi che hanno contribuito a diffondere una rappresentazione dell'immigrazione legata alla criminalità e all'irregolarità degli stranieri. In questa parte del lavoro si approfondisce l'origine del discorso securitario al cui interno l'immigrazione è rappresentata come problema collegato alla sicurezza. La seconda parte della ricerca si concentra sugli aspetti interpretativi del fenomeno migratorio attraverso la ricostruzione di due casi nazionali: l'Italia e la Spagna. A questo proposito, il terzo capitolo è dedicato all'analisi delle leggi sull'immigrazione, italiane e spagnole, e alla ricostruzione delle tappe della loro evoluzione, un percorso che ha complessificato la gestione dell'immigrazione e stabilito un sistema di governance multilevel, dove le istituzioni locali e le associazioni del Terzo Settore diventano "partner" della Pubblica Amministrazione nella prestazione di servizi alle persone immigrate. In seguito, è presentata la raccolta e l'analisi del materiale empirico, attraverso una metodologia di analisi qualitativa. Nello specifico, si presenta uno studio comparativo delle politiche locali per gli immigrati delle città di Roma e Barcellona. In entrambe le città sono state realizzate interviste-semistrutturate con testimoni privilegiati appartenenti al settore pubblico e al Terzo Settore (in totale 50), operanti a livello regionale, comunale e territoriale, con il fine di individuare le peculiarità delle politiche locali per gli immigrati (reti di attori, relazioni, programmi di intervento, risorse, ecc.) implementate in ognuno dei due casi di studio. Nel capitolo quinto sono esposti i dati raccolti con le interviste, mentre i risultati dell'analisi comparativa sono presentati nel capitolo finale, mostrando analogie e differenze tra i due modelli i immigrants policy osservati nel caso di Roma e in quello di Barcellona. ; [spa] La presente tesis doctoral se centra en la inmigración, precisamente, en las políticas de las administraciones locales relacionadas a la acogida y a la integración social de los ciudadanos extranjeros. La investigación no se enfrenta a un problema nuevo en sí, sin embargo dado el gran número de ciudadanos comunitarios y no comunitarios que cada año llegan a Italia y España, las políticas locales para la integración social de las personas recién llegadas han adquirido un significado social y cultural que las convierte en un tema de especial relevancia e interés desde el punto de vista sociológico, polito1ógico y jurídico. Concretamente, el estudio se centra en las políticas implementadas en las ciudades de Roma y Barcelona, con el fin de comprender las similitudes y las diferencias que subyacen detrás del modelo de política local específico de cada una de ellas. Los primeros capítulos de la tesis son el fruto de un amplio trabajo de investigación bibliográfica con el fin de reconstruir los principales enfoques teóricos que en el ámbito de las ciencias sociales estudian el extranjero y la inmigración, tanto en su articulación cuanto en su impacto en la sociedad receptora. En el primer capitula se presenta el debate sobre la figura del extranjero, así como las contribuciones de los autores que, dentro de las ciencias sociales, han contribuido a la definición del extranjero coma una categoría sociológica. Esta parte de la investigación consiste en conectar la reflexión y los aportes de los clásicos de la sociología como Simmel, Elias y Sombart a las de autores más recientes como Bauman y Touraine, en el intento de hacer "dialogar" a los autores de diferentes épocas históricas. En el segundo capitula se examina la literatura sobre los discursos políticos en torno a la inmigración profundizando el papel de los medios de comunicación en la difusión de una imagen de la inmigración como problema social. En concreto, se han reconstruido los procesos que han contribuido a la propagación de una representación de la inmigración relacionada a la criminalidad y a la irregularidad de los extranjeros. En esta parte del trabajo, se ha profundizado en el origen del discurso securitario en el que la inmigración está representada coma problema social enlazado a la seguridad. La segunda parte del trabajo de tesis se concentra en la cuestión interpretativa del fenómeno migratorio mediante la reconstrucción de dos casos nacionales: Italia y España. A este propósito, se ha dedicado el tercer capitula al análisis de las leyes de extranjería, italiana y española, hallando las etapas de un recorrido que ha vuelto más compleja la gestión de la inmigración y ha establecido un sistema de gobernanza multinivel en la que las instituciones locales y las entidades del Tercer Sector Social se convierten en "aliados" de las administraciones públicas en la prestación de servicios a las personas inmigradas. Posteriormente, se ha recopilado y analizado el material empírico a través de metodologías de análisis cualitativas. En concreto, se lleva a cabo un estudio comparativo entre las políticas locales para los inmigrantes de la ciudad de Roma y las de la ciudad de Barcelona. En ambas ciudades se han realizado entrevistas semiestructuradas con actores clave tanto públicos, cuanto del Tercer Sector Social (en total 50), operativas tanto a nivel autonómico como municipal y territorial, con el objetivo de reconstruir las peculiaridades de las políticas locales para los inmigrantes (redes de actores, recursos, relaciones, programas de intervención). En el capítulo siguiente se exponen los datos recopilados con las entrevistas, mientras que los resultados del análisis comparativo se muestran en el capítulo de conclusiones, destacando similitudes y diferencias entre los dos modelos de política inmigratoria observados.
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2008/2009 ; La nuova pressione cui è sottoposta l'Europa dopo la fine del mondo bipolare e a seguito dell'accelerazione dei flussi commerciali e di informazione dell'economia non ha solo ridisegnato il ruolo e le funzioni dello Stato. Essa obbliga anche l'Unione europea a ridefinire la sua identità e, in un certo senso, ad uscire dagli equivoci sulla finalità della costruzione comunitaria. Il modello di integrazione comunitario si trova ad affrontare un significativo banco di prova. Da un lato, infatti, è mutato il quadro di riferimento geopolitico e, con la fine della minaccia sovietica, è venuta meno una delle ragioni del sostegno incondizionato all'Ue da parte del suo più potente partner esterno, gli Stati Uniti, e delle ragioni che legavano indissolubilmente alcuni Stati membri, come la Germania, al progetto europeo. Dall'altro, l'intensità e la velocità degli scambi commerciali e dei flussi di informazione oltre i confini nazionali non sono più tratti distintivi della sola Europa, il che, se da un lato rende l'Unione un utile strumento per i suoi Stati membri, dall'altro rende oggi più difficile per i cittadini distinguere tra integrazione europea e globalizzazione e sviluppare un senso di appartenenza e lealtà nei confronti delle Istituzioni comunitarie. La ragion d'essere dell'Unione europea La fondazione delle Comunità europee ha segnato la pacificazione e la stabilizzazione di una regione contraddistinta dalla presenza di nazionalità e culture diverse in uno spazio tanto densamente popolato quanto scarso di risorse naturali in rapporto al fabbisogno e nel quale, vista anche la conformazione del territorio, l'intensità della circolazione delle merci, delle persone e delle idee era senza dubbio maggiore rispetto alle altre aree del mondo. La guerra fredda e la minaccia portata dal blocco orientale hanno senza dubbio creato dei presupposti favorevoli all'integrazione europea. Sin dal Recovery Act, infatti, gli Stati Uniti incentivarono gli europei a condividere le risorse messe a disposizione, in modo da vincere le storiche reciproche diffidenze ed è noto che uno dei padri fondatori dell'edificio comunitario, Jean Monnet, forte di un consolidato rapporto con Washington, innestò le proprie proposte su un terreno favorevole. Tuttavia, accettando di sottoporre ad istituzioni comuni la gestione di quelle che allora erano le principali fonti di energia e le materie prime dell'industria bellica (trattato della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio), e di eliminare tutti gli aiuti statali alle imprese nazionali che avrebbero potuto avvantaggiarle sul mercato interno (trattato della Comunità Economica Europea) gli Stati europei non siglarono semplicemente un trattato di pace o un'alleanza, ma rinunciarono alla gestione sovrana delle possibili risorse di offesa o aggressività reciproca. La rimozione alla radice delle cause dei conflitti attraverso la condivisione della sovranità nei settori che alimentano il potenziale aggressivo costituisce quindi la "formula" originale della costruzione europea. Deve osservarsi che i paesi fondatori erano spinti a questa scelta anche da interessi ben precisi. La necessità per la Germania di essere riammessa nel consesso delle nazioni democratiche e di poter utilizzare le proprie risorse naturali per la ricostruzione, la volontà della Francia di non sfinirsi per tentare di esercitare un controllo sul proprio vicino, del Benelux di non essere tagliato fuori, a detrimento dei propri porti, dall'integrazione dei due paesi, dell'Italia di agganciarsi al treno a sostegno della propria modernizzazione, costituirono valide motivazioni individuali anche a prescindere dalla condivisione di valori e dalla consapevolezza di un interesse comune. La nascita delle Comunità poggiò, comunque, su un diffuso consenso popolare, che però non sfociò mai in un vero e proprio sentimento identitario. Nella lenta transizione fino all'uscita dalla guerra fredda, il successo, soprattutto economico, delle Comunità europee, ha spinto altri nove stati ad agganciarsi alla costruzione, senza però che tutti ne condividessero profondamente le soluzioni di fondo. I timidi passi verso la costruzione di un'Europa dei cittadini si sono rivelati inadeguati di fronte alla rapida evoluzione dello scenario dopo la caduta del muro di Berlino ed al collasso del blocco orientale. La fine dell'equilibrio bipolare e la ridefinizione degli equilibri interni ed esterni all'Unione La fine dell'equilibrio bipolare e la riconversione delle economie pianificate in economie di mercato hanno prodotto una serie di trasformazioni che incidono sull'Europa. Il venir meno della cortina di ferro ha aperto, al confine orientale della Comunità, uno spazio relativamente vasto e meno densamente popolato, formato da Stati di piccola e media entità, transitoriamente o strutturalmente più deboli rispetto ai paesi dell'Europa occidentale. La Germania, riunificandosi, ha accresciuto il proprio peso demografico ed economico, disponendo di un PIL praticamente doppio rispetto a quello degli altri paesi maggiori dell'Unione. Inoltre, con la fine della guerra fredda e l'affievolimento della minaccia russa, è parzialmente venuta meno la sua necessità di ancorarsi politicamente ai suoi vicini occidentali. Le aree limitrofe dell'ex impero sovietico, a causa del vuoto di centri gravitazionali, si sono frammentate culturalmente e politicamente, iniziando fragili processi di nation-building e di ridefinizione delle loro politiche estere e di sicurezza. La crescente liberalizzazione del commercio e l'incremento produttivo dei paesi asiatici, la Cina in primo luogo, hanno posto l'economia dell'Europa occidentale di fronte alla necessità di una rapida riconversione e di un adeguamento del proprio sistema di welfare alla scarsità di risorse disponibili. Inoltre, anche sul piano del partenariato internazionale, l'Europa non può più considerarsi l'unico benefattore delle economie in via di sviluppo e, quindi, anche l'accesso privilegiato alle loro risorse naturali viene rimesso in discussione. La crescita demografica planetaria, il mancato sviluppo di molte aree del pianeta e la difficile riconversione di altre hanno creato imponenti flussi migratori, che si sono riversati, spesso sotto il controllo della criminalità organizzata, sull'Europa settentrionale, occidentale e meridionale, creando zone di marginalità e tensioni diffuse. Infine, lo sviluppo di centri economici e finanziari svincolati dal rapporto con il territorio retrostante e la differenziazione della velocità dei flussi commerciali e di informazione tra nodi principali e zone meno collegate del pianeta ha ampliato il divario tra lo stato sovrano come entità territoriale definita e la realtà dei sistemi economici moderni. Il maggiore polimorfismo geografico nell'ordine economico provoca una trasformazione anche dell'ordine politico, erodendo la sovranità dello Stato in corrispondenza dei punti di contatto significativi con il primo. L'autorappresentazione classica dell'Unione europea in termini di "unità nella diversità", frutto, prevalentemente, di un approccio storico-culturale sottace la circostanza che il suddetto dualismo non è stato ricondotto, nella maggioranza dei casi, ad una sinergia virtuosa. Nell'ultimo decennio, soprattutto, la dinamica unità versus diversità ha condotto, di fatto, ad una sostanziale neutralizzazione reciproca tra la spinta all'integrazione e quella al particolarismo, da cui è conseguita la persistente incapacità dell'Europa, e di ciascuno dei suoi protagonisti, ad affrontare le sfide cruciali del mondo globalizzato. Da un lato, quindi, nei rapporti tra i paesi europei, si è assistito ad una sorta di "ritorno al futuro", con il ricrearsi di equilibri ed atteggiamenti simili a quelli che avevano contraddistinto il periodo tra le due guerre mondiali. Dall'altro, la società europea appare fortemente frammentata e culturalmente meno omogenea, con aree di forte insicurezza sia al proprio interno che, soprattutto, ai propri confini. La riscoperta delle identità nazionali, che, come nell'età delle rivoluzioni liberali, poteva rivelarsi positivamente strumentale per alcuni paesi posti di fronte alla necessità di una ricostruzione politica ed economica, è quindi divenuta, in un contesto di generalizzata insicurezza percepita, un fattore comune a tutta l'Europa, fino ad alimentare, in alcuni casi in cui essa ha assunto tratti iconografici, divisioni e conflitti armati. Il fatto che ciò avvenga in corrispondenza dell'erosione del potere effettivo dello Stato-nazione può, forse, essere spiegato alla luce del fatto che, senza un quadro identitario che renda possibile la circolazione delle idee a livello sovranazionale, è aumentato il distacco tra le élites, economiche e politiche, che concorrono alla governance mondiale e i cittadini su cui essa produce i suoi effetti. Il quadro di riferimento nazionale appare quindi l'unico contenitore entro il quale manifestare le proprie istanze in modo percepibile. In una stagione in cui le identità assumono rilievo crescente, e spesso determinante, nelle scelte politiche, l'Europa si trova quindi a dover definire la propria con maggiore chiarezza rispetto al passato. L'Unione europea e le sue identità Il primo segno dell'adattamento dell'Europa comunitaria al nuovo scenario geopolitico ed economico è stata l'Unione economica e monetaria (UEM) che, avvenuta a coronamento di un processo in tre fasi e da una transizione non scevra da tensioni e prese di posizioni contrarie, si è rivelata un indubbio successo. L'Unione europea si trova infatti a disporre di una moneta sufficientemente forte da poter essere utilizzata nelle transazioni internazionali e da offrire alle economie degli stati membri una solida protezione in caso crisi o tensioni, garantendo stabilità al commercio e agli investimenti europei. Il continuo apprezzamento dell'Euro, sebbene possa costituire un freno alle esportazioni, è un segno evidente del successo di questa moneta e rivela potenzialmente il ruolo che, dopo la crisi della finanza statunitense e la sofferenza del dollaro, l'Europa potrebbe essere chiamata a svolgere. Oltre a garantire stabilità ai cambi, ai prezzi e ai tassi di interesse, l'Euro ha poi rappresentato un fattore di stabilizzazione del quadro europeo anche, sul piano politico, costituendo un punto di riferimento anche per le economie di molti paesi europei che non sono entrati a farne parte ed ancorando la Germania al progetto europeo. La Banca Centrale Europea (BCE) cui è affidata la gestione della politica monetaria, ha una forte visibilità anche sul piano internazionale, è rappresentata in tutti gli organismi pertinenti e costituisce parte attiva nel processo di sorveglianza multilaterale dell'economia mondiale. Sul piano monetario, l'Europa dispone quindi di uno strumento forte e di un interprete della sua politica facilmente individuabile. Con lo stesso trattato che ha istituito l'UEM, l'Unione si è data anche una politica estera comune (PESC) ed una politica di sicurezza e difesa (PESD). Essa non è però riuscita, in occasione delle maggiori crisi internazionali, a parlare con una sola voce e neppure ad arrivare ad una linea comune, dimostrando, in alcuni casi, una sostanziale incapacità a reagire con prontezza e, in altri, una divisione evidente. Migliore è stata, invece, la sua azione quando, passati i momenti di maggior virulenza, si è trattato di scongiurare il prolungarsi dei conflitti o la loro propagazione, o di assicurare e di ricostruire il tessuto economico e civile delle aree di crisi. L'Europa si è dunque rivelata più efficace nel contenere le crisi che nell'affrontarle: ciò non gli ha impedito di fare alcuni passi in avanti nell'integrazione e di teorizzare una propria identità di difesa. Una leva che l'UE ha utilizzato con maggiore efficacia è, invece, quella economico-commerciale: l'ampiezza dei fondi erogati per gli aiuti allo sviluppo e per gli aiuti umanitari, unita al peso della politica commerciale comune nei confronti dei paesi terzi ha permesso all'Unione di esercitare, spesso con successo, una politica di persuasione nei confronti dell'esterno, in modo da esportare i propri valori e garantire i propri interessi. La definizione di "potenza civile" che ne è scaturita non basta, però, a sopperire alle carenze dell'azione esterna dell'Unione e, soprattutto, non basta a guadagnarle il consenso sulle scelte operate da parte dei suoi cittadini che, pertanto, si orientano prevalentemente avendo come punto di riferimento il contesto nazionale. Sul piano interno, l'Unione ha tentato più volte di riformarsi, con esiti di volta in volta diversi. Nell'insieme, possono osservarsi una parziale ridefinizione del sistema decisionale (con un aumento dei settori di intervento dell'Unione, intaccando in molti settori il monopolio degli Stati membri, i quali però, a loro volta, hanno accresciuto la capacità di controllare e orientare le Istituzioni europee) e una momentanea incapacità di superare i limiti della sfera pubblica europea (che, pur allargatasi ad un numero elevatissimo di portatori di interessi settoriali, territoriali e diffusi, resta sostanzialmente circoscritta entro tale ambito) e di una politica di comunicazione che raggiunga la maggioranza dei cittadini. Al riguardo, è intervenuta recentemente la Corte Costituzionale tedesca che, pronunciandosi in merito al trattato di Lisbona, con cui l'UE ha riavviato il proprio processo di riforma, ha messo in rilievo, con una sentenza largamente commentata e discussa, le contraddizioni della costruzione europea, sottolineando l'imprescindibilità delle garanzie democratiche offerte dallo Stato moderno. Ogni riforma dell'Unione, che voglia dotarla di maggiore capacità di agire come attore globale, non potrà quindi prescindere dalla fondazione di un'identità condivisa. L'Unione europea, inoltre, pur avendo visto accrescere la propria sfera di azione con l'attribuzione di sempre nuove competenze e l'incorporazione di nuove aree geografiche, ha subito un rallentamento del proprio processo decisionale ed è stata a lungo esposta agli attacchi, a volte demagogici, di mezzi di informazione nazionali che hanno fatto leva proprio sui rinnovati sentimenti di appartenenza. In conclusione Il recupero di un'identità "forte" da parte dell'UE appare dunque una scelta obbligata qualora essa non voglia abdicare alla propria missione e lasciare che l'Europa scivoli in una posizione di tranquilla marginalità. La frammentarietà dell'azione comunitaria e la sovrapposizione tra intervento comunitario e azioni nazionali costituiscono i limiti più evidenti di questa via "pragmatica" alla costruzione europea. La complessità del processo decisionale comunitario e la sua parziale divergenza dalle regole classiche della democrazia appaiono i primi ostacoli da superare nell'ottica della definizione di un'identità più forte, che accresca il sentimento di lealtà da parte dei cittadini e favorisca l'individiazione di obiettivi e interessi comuni. Le più recenti riforme hanno privilegiato, invece, l'aspetto dei controlli e delle garanzie degli Stati a scapito, troppo spesso, della rappresentatività popolare e dell'efficienza delle Istituzioni. Inoltre, l'Unione dovrebbe evidenziare maggiormente gli aspetti autenticamente originali che stanno alla base dei suoi successi. Questo però, la obbligherebbe a sciogliere nodi irrisolti sin dal momento della sua fondazione. Per quanto le Istituzioni europee siano sorte in un clima di forte sostegno anche nei confronti della prospettiva di integrazione irreversibile e ad ampio raggio, esse sono state la risposta ad un problema concreto e contingente (gli approvvigionamenti di carbone e acciaio di Francia e Germania e il rilancio commercilale e industriale degli altri quattro paesi fondatori) venendo costruite in funzione di tale necessità. L'originalità delle prime Comunità europee risiedeva però nel superamento della concezione assoluta della sovranità nazionale (mai però nella sua cancellazione) e nell'istituzionalizzazione dell'interdipendenza tra gli Stati membri Più che la storia antecedente alla sua fondazione, l'Unione dovrebbe, insomma, recuperare la storia della sua fondazione, intesa però non come cronaca dei fatti che la prepararono, bensì come esplicitazione del principio ispiratore del suo funzionamento. L'Unione dovrebbe poi recuperare il rapporto con lo spazio, inteso sia come presenza delle sue Istituzioni sul territorio, che come delimitazione e caratterizzazione della sua espressione geografica. Le caratteristiche del territorio europeo, e le conseguenze della sua conformazione in termini di continuità e intensità degli scambi (dovuta al numero e alla praticabilità delle vie di comunicazione) pur nella separatezza delle comunità residenti (dovuta all'esistenza di molte barriere naturali) evocano, sul versante politico-identitario, un'idea di pluralità (piuttosto che diversità) nella coabitazione (piuttosto che nell'"unità, concetto che induce un'erronea impressione di livellamento delle differenze). Infine, va ricordato che la forza dei progetti europei di maggior successo è stata tradizionalmente quella di fondarsi su un'adesione di tipo "volontaristico" da parte degli Stati interessati. Anzi, è stata spesso la determinazione di alcuni ad attrarre i meno convinti, magari per timore di essere lasciati indietro. L'attuazione delle "geometrie variabili", sotto forma di "cooperazioni rafforzate" o "stutturate" (queste ultime nel campo della difesa), che altro non sono che la trasposizione, sotto l'aspetto politico, della varietà geografica dell'Europa e della diversa intensità dei rapporti tra le sue regioni, permetterebbe anzi di superare più velocemente il problema dell'incompletezza delle funzioni esercitate dal livello comunitario che è un limite oggettivo all'affermazione dell'Unione come soggetto compiutamente autonomo sulla scena internazionale. ; XXII Ciclo
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2003/2004 ; I distretti industriali, sia nel dibattito scientifico che nel mondo della prassi, talvolta diventano una formula applicata acriticamente, senza molta riflessione sui diversi contesti di mercato ed i percorsi storici che definiscono le peculiarità, il successo o l'insuccesso del distretto. Lo scopo di questa tesi è di "smontare" questa formula, dimostrare come i distretti non sono tanto una realtà tangibile, quanto un'interpretazione, altamente dibattuta ed in evoluzione, della realtà. Il primo obiettivo è quindi restituire la dimensione critica ai lavori sui distretti industriali, e lo si fa ripercorrendo la storia del pensiero sui distretti. In sostanza, questa tesi consiste per la maggior parte in un'analisi della letteratura sui distretti industriali, focalizzata sui dibattiti inter ed intradisciplinari che hanno portato all'evoluzione del pensiero sui distretti, per dimostrare che si tratta di una linea di pensiero dinamica ed aspramente dibattuta. Il secondo obiettivo è un'esortazione alla comunità dei geografi italiani. Si è appositamente strutturata questa storia del pensiero distrettuale attorno agli stimoli reciproci che studiosi italiani ed anglosassoni si sono dati nello sviluppare le rispettive idee, per dimostrare quanto possano essere fertili gli scambi internazionali. Questo perché si vuole invitare la comunità geografica a puntare sempre di più su questo tipo di scambi, da farsi nel modo più ovvio per il mondo accademico: pubblicare su riviste internazionali, e nel contempo invitare sistematicamente gli studiosi stranieri che si occupano dell'Italia (come John Agnew tra i geografi, o Robert Putnam tra i docenti di Scienze politiche) a pubblicare sul Bollettino della Società Geografica Italiana o sulla Rivista Geografica/italiana. Oltre alla fertilità intellettuale, questo ha il non trascurabile vantaggio che le collaborazioni internazionali per la ricerca hanno maggiore facilità ad ottenere fondi dalle organizzazioni internazionali, come l'Unione Europea. Il terzo obiettivo è dare un contributo allo studio dei distretti industriali nell'Est Europa, specialmente per quanto riguarda l'internazionalizzazione delle imprese italiane. Il legame tra questo terzo obiettivo ed i primi due è di carattere metodologico: sia le linee evolutive della letteratura, che la diffusione ad Est del modello dei distretti vengono analizzati dal punto di vista delle reti di relazioni tra attori a livello internazionale. In questo, sebbene non appaia esplicitamente, la tematica del confine è sempre presente sullo sfondo. Comunità appartenenti ad una stessa entità statale - siano esse composte da studiosi, imprese, o funzionari - hanno la possibilità di condividere una lingua, sistemi normativi, strutture di prezzi e tradizioni comuni, che invece si differenziano a partire dal confine. Gli attori analizzati in questo lavoro hanno in comune l'aver saputo sfruttare a loro vantaggio queste differenze. Gli studiosi che si sono scambiati idee, gli imprenditori che hanno attinto a nuovi mercati e ad un costo del lavoro più basso, i consulenti ed i funzionari che hanno guidato l'utilizzo dei fondi dell'Unione Europea, hanno saputo mobilizzare risorse - siano esse intellettuali o economiche - valorizzando le differenze intersistemiche. La cooperazione internazionale così individuata contribuisce alla defunzionalizzazione del confine, se non addirittura al suo superamento. Si tratta di un processo in pieno sviluppo praticamente in tutto il mondo, che propone alla comunità scientifica una nuova direttrice di ricerca. Come si è detto, la maggior parte della tesi è dedicata alla storia del pensiero sui distretti. Il Capitolo 1 ripercorre brevemente la storia della geografia anglo-americana, con due obiettivi: primo, dare delle indicazioni sul metodo che sarà seguito nel lavoro, ovvero, il dare molta importanza alle contingenze in cui le idee si sviluppano, e vedere il pensiero scientifico come parte di un più ampio insieme di istanze sociali, storiche ed ideologiche; secondo, collocare gli studi sui distretti nell'ambito della disciplina. Il Capitolo 2 traccia le origini dell'idea di distretto, con una breve analisi della rilettura di Marshall da parte di Becattini e dei primi lavori di quest'ultimo. Il Capitolo 3 traccia le linee di sviluppo della scuola distrettuale italiana. La parte centrale del capitolo è costituita dall'esposizione di una serie di lavori pubblicati in lingua inglese in Gran Bretagna o negli Stati Uniti da autori italiani, mostrando come la cooperazione con autori anglosassoni abbia aperto agli studiosi italiani maggiori possibilità di pubblicare all'estero. Inoltre, il capitolo traccia le linee principali dei contributi dei geografi al pensiero sui distretti (basandosi principalmente sugli articoli pubblicati su questo tema dal Bollettino della Società Geografica italiana e dalla Rivista Geografica Italiana), mostrando come ci sono stati contributi originali che avrebbero meritato maggiore visibilità internazionale. Il capitolo 4 parla invece dello sviluppo delle scuole di pensiero in ambito anglo americano che hanno attinto in maniera maggiore o minore al "caso italiano," e si illustra come questo è stato usato. Il Capitolo 5 parla della crisi di queste scuole di pensiero, e se ne analizzano le principali critiche emerse tra la fine degli anni Novanta ed i primi Duemila. Un articolo in particolare (Lovering: 1999) attacca questi studi sulla base di quello che Marx chiamerebbe "economia volgare," ovvero la circostanza che gli studi sulle economie regionali vengono spesso condotti in maniera analiticamente povera, col risultato di un asservimento agli interessi dell'élite, che avviene tramite lo sviluppo di una "classe di servizio" costituita da consulenti che attingono a risorse statali e di organismi internazionali, e producono progetti per richieste di fondi e proposte di politica economica. La parte empirica di questa tesi (Capitolo 6) in parte risponde a questa obiezione, mostrando come questa classe di servizio sta creando una rete di connessioni internazionali importanti per la crescita e l'armonizzazione delle istituzioni dei paesi membri dell'Unione Europea. Infine, il capitolo, che si basa su una serie di interviste condotte in Slovacchia e Bulgaria, contribuisce alla ricerca sull'internazionalizzazione dei distretti industriali italiani, inserendosi in un recente dibattito tra Enzo Rullani (2002) e Charles Sabel (2004). I risultati delle interviste, sebbene limitati e parziali, permettono di affermare che nell'analizzare i processi di internazionalizzazione è necessario distinguere con maggior chiarezza il ruolo delle istituzioni statali e della "classe di servizio" dei consulenti e quello delle imprese, e si invita a condurre ricerche più approfondite- all'estero in modo da capire meglio quali tipologie di interfaccia vengono creati tra le imprese e le istituzioni italiane e le realtà locali. Per quanto riguarda la questione di partenza, ovvero la ricerca dell'anello mancante per capire le interazioni interscalari tra economia, stati nazionali e unione Europea, non lo si è ancora trovato, né poteva esserlo nei ristretti limiti di questa tesi. Sarà l'oggetto di ricerca dei miei lavori futuri, e la presente tesi contribuisce a questo più ampio programma individuando nei processi di networking a livello di studiosi, imprese ed istituzioni un punto di partenza su cui lavorare. ; XVII Ciclo ; 1975 ; Versione digitalizzata della tesi di dottorato cartacea.
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Dottorato di ricerca in Scienze e tecnologie per la gestione forestale e ambientale ; L'importanza dei paesaggi rurali tradizionali come parte del patrimonio culturale di una nazione ha negli ultimi anni portato allo sviluppo di politiche ed azioni volte alla loro tutela ed alla loro valorizzazione, anche grazie alla Convenzione Europea del Paesaggio, che invita ad "individuare i propri paesaggi nel proprio territorio, ad analizzarne le caratteristiche, nonché le dinamiche e le pressioni che li modificano e a seguirne le trasformazioni". La necessità di individuare gli elementi caratteristici e le pratiche tradizionali deriva principalmente da due Decreti Ministeriali: il Decreto Condizionalità, secondo il quale il "mantenimento degli elementi caratteristici del paesaggio" costituisce una norma obbligatoria per il rispetto delle Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali (BCAA), e il Decreto sull'Osservatorio Nazionale del Paesaggio rurale, delle pratiche agricole e conoscenze tradizionali, approvato a fine 2012, che istituisce il "Registro nazionale dei paesaggi rurali di interesse storico, delle pratiche agricole e delle conoscenze tradizionali", con il quale si vuole "censire i paesaggi, le pratiche agricole e le conoscenze tradizionali ritenute di particolare valore". Da queste iniziative nasce il problema di individuare e classificare gli elementi caratteristici del paesaggio rurale, soprattutto relativamente ad una loro classificazione tipologica che permetta di individuare i "caratteri della tipicità" a livello paesaggistico. Questo lavoro intende quindi individuare quelli che possono essere considerati gli elementi caratteristici e le pratiche tradizionali del paesaggio storico, definendo la varietà presente e portando a termine una classificazione tipologica, utilizzando come base le aree del Catalogo Nazionale dei Paesaggi Rurali Storici, studio promosso dal Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali, coordinato dal Prof. Mauro Agnoletti, in cui sono raccolti i paesaggi rurali tradizionali maggiormente significativi a livello nazionale. La ricerca ha portato all'individuazione di circa 105 elementi caratteristici e pratiche tradizionali divisi in 14 classi. Per ogni elemento è stata realizzata una scheda descrittiva con una struttura standard e corredata da materiale fotografico e da informazioni utili per arrivare ad una classificazione di questi elementi, in modo da individuare e caratterizzare delle tipologie basandosi sui caratteri di tipicità, anche a livello locale. Sono inoltre state eseguite analisi multitemporali in cinque aree di studio, per osservare i cambiamenti relativi al paesaggio negli ultimi 50 anni e per testare tale tipo di analisi ai fini dello studio e della individuazione degli elementi caratteristici del paesaggio, gettando inoltre le basi per la creazione di un sistema di monitoraggio del paesaggio rurale storico a scala nazionale. Queste analisi hanno permesso un approfondimento dello studio degli elementi caratteristici, tramite la realizzazione di cartografie tematiche, ed hanno confermato come questo tipo di analisi costituisca un ottimo strumento per indagare nel dettaglio la struttura di un paesaggio e per seguirne le trasformazioni. Il quadro che emerge mette in luce come il paesaggio storico sia ancora oggi particolarmente diversificato, con molte tipologie di elementi caratteristici e di pratiche tradizionali che sopravvivono e che spesso rappresentano l'identità stessa di un determinato territorio. Gli elementi caratteristici e le pratiche tradizionali identificati in questo studio, rappresentano un primo passo per approfondire la conoscenza sui paesaggi storici italiani e sulle pratiche agricole. Vista la grande varietà dei paesaggi culturali italiani, infatti, per applicare azioni concrete per la valorizzazione è necessario fornire un quadro completo, con una classificazione tipologica valida, in modo da seguire le iniziative a livello nazionale, ma con attenzione alle diversità locali. Non è infatti possibile attuare misure che si adeguino universalmente a tutti i paesaggi italiani, senza calibrare le singole misure sulle diverse situazioni, socio-economiche, ambientali, storiche e culturali, locali. ; The importance of cultural landscapes as part of the cultural heritage of a country has in recent years led to the development of policies and actions for their protection and valorisation, following the European Landscape Convention, which invites each country to "identify its own landscapes throughout its territory" and "to analyse their characteristics and the forces and pressures transforming them" and "to take note of changes". The need to identify the characteristic features and the traditional practices is mainly due to two Ministerial Decrees. The first one is the Cross Compliance Decree, where the "maintenance of the characteristic elements of the landscape" is mandatory for the preservation of the Good Agricultural and Environmental Conditions (GAEC). The second one is the Decree on the National Observatory of Rural Landscape, approved at the end of 2012, which establish the "National Register of Rural Landscapes of Historical Interest, Agricultural Practices and Traditional Knowledge", which has the purpose of "identify and catalogue in the Register traditional rural landscapes or landscapes of historical interest present within the national territory and connected traditional practices and knowledge". From these initiatives come the problem of identifying and classifying the characteristic features of the rural landscape, especially with regard to their typological classification that allows to identify the "characters of the typical" in a particular landscape. This study intends to identify those that can be considered as the characteristic features and the traditional practices of the historical landscape, defining the variety present at national level and completing a typological classification, using as a basis the study areas of the National Catalogue of Historical Rural Landscapes, a study promoted by the Ministry for Agriculture, Food and Forestry, coordinated by Prof. Mauro Agnoletti, in which are collected the most significant cultural landscapes in Italy. This research led to the identification of about 105 characteristic elements and traditional practices, divided into 14 classes. For each element was made a fact sheet with a standard structure, accompanied by photos and various information so as to carry out a classification of these elements, in order to identify and characterize some typologies, based on typicalness, even at the local level. In addition, in five study areas were carried multi-temporal analyses, to observe the changes in the landscape over the last 50 years and to test this type of analysis for the study and identification of characteristic landscape elements. This kind of analysis can also provide the base for the creation of a monitoring system of the rural landscape on a national scale. These analyses have allowed a more detailed study of the characteristic elements, through the creation of thematic maps, and have confirmed that this type of analysis is an ideal instrument to investigate in detail the structure of a landscape and to follow the changes in time. The study has shown that the Italian rural landscape is still very diverse, with many different types of characteristic elements and of traditional practices, that still survive and which often represent the identity of a territory. The characteristic elements and the traditional practices identified in this study, represent a first step to deepen our knowledge of the historical landscapes and of traditional agricultural practices. Due to the wide diversity of cultural landscapes in Italy, in fact, to apply concrete actions for the valorisation and safeguarding of historical landscapes, a complete description must be provided, with a good typological classification in order to follow the initiatives at the national level, but with attention to the local diversity. As a matter of fact, it is not possible to apply measures universally suitable for all the Italian landscapes, without calibrating the individual actions to the different, socioeconomic, environmental, historical and cultural situations that can be found at the local level.
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Questa antologia è un'occasione per tutti coloro sono accomunati dalla passione per l'educazione motoria e sportiva di ripensarle entrambe. Questo significa fondamentalmente due cose: prima di tutto, ricercare le origini e lo sviluppo di queste pratiche, sulla base del principio che la ricostruzione storico-critica della loro genesi aiuta a capire meglio la complessità dei problemi; in secondo luogo, fortificati dall'acquisizione di questa prospettiva storica, provare a ridare un senso, nell'oggi, allo statuto epistemologico e al significato sociale di questi due oggetti culturali di lunga durata. Il suo testo pone questioni serie sia all'educazione motoria sia a quella sportiva, ed è per questo che il lettore deve essere consapevole della realtà sociale e culturale che costituisce lo spessore storico di queste pratiche. Non mi stanco di ripetere più volte "storico", perché proprio in un periodo come quello odierno, abituato all'immediatezza sterile della polemica televisiva e alla progressiva incapacità di affrontare come complesse questioni che lo sono davvero, c'è bisogno di recuperare un minimo di capacità di lettura tridimensionale dei problemi. Questo vale anche per l'educazione motoria e sportiva, argomenti riguardo ai quali alla consumistica fruizione dei roboanti messaggi della grancassa massmediatica non sempre corrisponde la possibilità di una riflessione pacata, in controluce, che perda un po' di tempo a ricostruire, comprendere e approfondire. Da un lato, infatti, l'educazione motoria, neologismo recente, riassume in sé tutto il cammino della ginnastica e dell'educazione fisica fin dalle origini delle società umane; dall'altro l'educazione sportiva nasce, non con questo nome ovviamente, con la ginnastica greca e la rete dei giochi antichi, ma si rende autonoma solo in tempi relativamente recenti. Prima di passare alla presentazione vera e propria dei testi e dei passi critici, si provi a ripercorrere brevemente le tappe di questi due percorsi, la cui storia globale è reperibile in altre pubblicazioni, per offrire al lettore una chiave di lettura più intrigante, che permetta di ottenere una descrizione più spessa delle questioni sul tappeto. L'educazione motoria: uno sguardo storico L'educazione motoria nasce con le pratiche motorie ritualizzate delle società nomadi di caccia e raccolta e delle prime grandi civiltà fluviali, agricole e stanziali: queste pratiche sono una serie di gesti e movimenti corporei, funzionali alla riproduzione sociale, come le tecniche di caccia e di difesa, che vengono inquadrate nella stessa cornice magico-religiosa che garantisce la coesione sociale, al punto che non possiamo scinderle da questa, come capita invece oggi nelle nostre società post-industriali, in cui la pratica motoria è affidata alla sfera del privato e completamente laicizzata. Prosegue poi con la ginnastica greca, l'arte di compiere movimenti corporei in situazione di nudità (questo è il significato etimologico di "ginnastica") e di educare il corpo ad una gestualità socialmente rilevante: raggiungere il bello e al tempo stesso risultare utili alla polis, specialmente nel periodo dello sviluppo delle grandi fanterie politiche del V secolo. La civiltà greca è quella che sviluppa l'educazione motoria in senso ludico, ma sempre in una cornice religiosa, con la nascita dei "giochi" che solo anacronisticamente possiamo chiamare "sportivi", ma che sono in realtà manifestazioni nelle quali la nazione greca si riconosce come una sola, e questo accade precipuamente nei cosiddetti "giochi del periodo" o "panellenici", o nelle quali una comunità locale esprime la sua storia e la sua cultura, e questo è testimoniato dalla miriade di giochi locali che si celebrarono in Grecia dal VII secolo a. C. e fino all'età imperiale. Con la conquista romana della Grecia, l'idea "agonale" dei giochi, basata sulla competizione tra uomini liberi per la gloria individuale e per l'immagine della polis di provenienza, già peraltro messa a dura prova dalla conquista macedone, cede il passo definitivamente al ludus, di orgine etrusca, come testimoniano i meravigliosi affreschi di Tarquinia3, cioè ad una performance attivata prevalentemente da schiavi e finalizzata unicamente allo spettacolo, che in molti casi è uno spettacolo sanguinario come il combattimento dei gladiatori. L'avvento del cristianesimo, come una delle tante religioni misteriche prima e come religione di stato poi, implica una profonda rivoluzione nella concezione del corpo e del movimento: eliminati i giochi greco-romani come forme di paganesimo, la preparazione fisica viene concepita dalla maggioranza dei Padri della Chiesa come un uso positivo di un dono di Dio, purché rimanga sempre un mezzo, per raggiungere finalità spirituali, e mai diventi fine a sé stante, legato alla materialità caduca e potenzialmente "peccaminosa" della corporeità. Pur non essendo però implicito, nel pensiero patristico, un radicale dualismo anima-corpo, la cultura cristiana finì di fatto per svalutare la dimensione corporea, sottomettendola di fatto alla dimensione intellettuale e spirituale. Si deve attendere il movimento umanistico, che pure affonda le sue radici nel cristianesimo, ma in un cristianesimo al quale si affianca una nuova valutazione delle capacità umane, per ottenere una sostanziale pari dignità tra anima e corpo, come si evince dall'esame dei curricoli delle nuove scuole. Storicamente, come abbiamo detto in apertura di queste brevi considerazioni introduttive a questo lavoro, lo sport, la sua pratica e la sua cultura sono vicende relativamente recenti, se riferite alla loro nascita "moderna". La "storia dello sport" non è infatti una narrazione che senza soluzione di continuità inizia da Olimpia e porta a Seul e Tokio, ma è la storia di eventi che, per quanto simili nel contenuto, sono stati vissuti con significati completamente diversi nelle diverse epoche storiche in cui sono apparsi o in quelle in cui sono stati rivitalizzanti: solo un atteggiamento veteropositivistico potrebbe infatti farci tracciare una linea retta (e magari ascensionale in quanto "progressiva" verso il meglio) dalle prime testimonianze di attività "sportive" dell'antico Egitto, le vivide immagini dei lottatori delle tombe di Ti e di Fta-hotep4, al mondo dello sport contemporaneo, al tempo stesso pratica di massa, business, fenomeno culturale e sociale di amplissima portata. Bisogna essere infatti coscienti del fatti che solo per assimilazione analogica, non priva di una inevitabile vena anacronistica, noi chiamiamo "sportivi" gli agoni ginnici ed ippici dell'antica Grecia, i ludi romani e i giochi di squadra con la palla del periodo medievale e rinascimentale. I primi erano però prima di tutto cerimonie religiose, o meglio, erano gare "sportive" inserite in una cornice religiosa che ne forniva anche la ragion d'essere: non c'era gioco che non derivasse da cerimonie funebri o religiose, che non fosse dedicato a qualche divinità, che non si svolgesse in una rigorosa sequenza di riti religiosi. Si badi bene che l'aspetto religioso non era accessorio o complementare: era lo loro essenza, come dimostra il fatto che, quando con l'imperatore Teodosio il cristianesimo divenne religione di stato, le Olimpiadi e tutti i giochi antichi furono immediatamente aboliti, in quanto percepiti dalla nuova coscienza religiosa cristiana come perniciosi riti pagani, e non come innocue e neutrali manifestazioni di atletismo. Anche i ludi romani presentano aspetti simili allo sport moderno, primo fra tutti l'enfasi sulla spettacolarizzazione dell'evento, ma non dobbiamo dimenticare il fatto che questi erano spettacoli svolti principalmente da un numero ristretto di praticanti, sia da atleti professionisti, visto che l'agonistica ginnico-atletica era stata copiata dai Greci e adattata a giochi istituiti in età romana, sia da schiavi, e questo vale specialmente per i ludi gladiatorii, tipico prodotto della romanità, che ancora oggi suscita interrogativi inquietanti su una civiltà che, se da un lato dotava quella che poi sarebbe divenuta l'Europa di infrastrutture e strumenti culturali, dall'altro metteva in scena lo spettacolo della morte come valvola di sfogo delle tensioni sociali inconsce e per puri fini di divertimento. Speriamo che questa carrellata storica, questa specie di "macchina del tempo" applicata all'educazione fisica e allo sport, abbia creato le giuste premesse per apprezzare ancora di più un testo che si propone di fare accedere alle fonti dirette e alle loro più ravvicinate interpretazioni. Questo testo cerca di far vedere i problemi dell'educazione fisica e dello sport da un punto di vista genuinamente educativo, mettendo in luce l'assoluta necessità, per chi l'educazione fisica e lo sport vogliono insegnare, di operare pedagogicamente, cioè dotarsi di capacità riflessive sugli eventi educativi, sapendo andare oltre la loro immediatezza. Non basta più l'esperienza personale, che per quanto ricca risulta sempre limitata dalle circostanze uniche ed irripetibili che l'hanno generata: occorre una cultura pedagogica di riferimento per inquadrare in modo adeguato gli eventi educativi dei quali saremo protagonisti. Questo è uno dei motivi seri per i quali le discipline pedagogiche devono assolutamente essere mantenute e potenziate anche nei curricoli di base delle scienze motorie, per formare professionalità attente alla portata educativa dei comportamenti messi in atto.
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The German Nazis planned to annihilate the Jewish nation. The Holocaust reached immense proportions on Polish lands, which had been the dwelling place for thousands of Jews for ages. Therefore, the Germans located several death camps on the territory of the occupied Poland. The Poles did not remain passive towards the persecution of the members of the Chosen People living next to them, with many priests and men and women religious committing themselves to rescuing Jews. This issue has not yet been fully explored. The article presents the attitudes of the Polish Catholic Bishops providing aid to Jews during the Second World War. They became involved in the following actions: they issued petitions in defence of Jews and informed pope Pius XII about the persecution of Jews, intervened with the occupation authorities and defended converts, they were personally involved in assisting and saving the lives of the members of the Jewish community, as well as supported clergymen and organizations helping Jews. ; Fonti d'archivio: Archiwum Akt Nowych (AAN) [Archivio degli Atti Nuovi], RGO (Kraków), 5, Lettera dell'arcivescovo mons. Adam Sapieha a Ronikier, 30.10.1940, f. 19-20. AAN, RGO (Kraków), 5, Andie Regierung des Generalgouvernements Abteilung Innere Verwaltung Bevölkerung swessen und Fursorge in Krakau, 4.11.1940, f. 5-6. AAN, RGO (Kraków), 5, Nota, f. 28. Archiwum Kurii Metropolitalnej w Krakowie (AKMKr) [Archivio della Curia Met (AKMKr) [Archivio della Curia Met(AKMKr) [Archivio della Curia Met [Archivio della Curia MetArchivio della Curia Metropolitana di Cracovia], Neofici, Zbiór podań za lata 1939-1942 [I neofiti, Raccolta delle richieste degli anni 1939-1942]. Fonti edite: Hlond August, O położeniu Kościoła katolickiego w Polsce po trzech latach okupacji hitlerowskiej [Sulla situazione della Chiesa cattolica in Polonia dopo i tre anni dell'occupazione hitleriana], in: Chrześcijanin w Świecie 10 (1978), 25-53. Jasiewicz Krzysztof (ed.), Bóg i Jego polska owczarnia w dokumentach 1939-1945 [Dio e il Suo ovile polacco nei documenti 1939-1945], Warszawa 2009. L'archevéque de Cracovie Sapieha au pape Pie XII, 28 février 1942, in: Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (ed.), Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 3 b: Le Saint Siège et la situation religieuse en Pologne et dans les Pays Baltes 1939-1945, parte 2: 1942-1945, Città del Vaticano 1967, 539-541. L'évêque de Katowice au cardinal Maglione, janvier 1943, in: Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (ed.), Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 9: Le Saint Siège et les victimes de la guerre, janvier - décembre 1943, Città del Vaticano 1975, 113. Lettera di Padre Pirro Scavizzi a Pio XII, 12 maggio 1942, in: Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (ed.), Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 8: Le Saint Siège et les victimes de la guerre, janvier 1941 - décembre 1942, Città del Vaticano 1974, 534. Przemówienie bp. Józefa Gawliny z 3 października 1943 r. [Discorso del vescovo mons. Józef Gawlina del 3.10.1943], in: Andrzej Krzysztof Kunert (ed.), Józef Feliks Gawlina Biskup Polowy Polskich Sił Zbrojnych [Józef Feliks Gawlina Vescovo Militare delle Forze Armate Polacche], Warszawa 2002, 317-321. Przemówienie radiowe biskupa Karola Radońskiego z 14 grudnia 1942 [Discorso alla radio del vescovo mons. Karol Radoński del 14.12.1942], in: Andrzej Krzysztof Kunert (ed.), Polacy-Żydzi 1939-1945. Wybór źródeł [I Polacchi e gli Ebrei 19391945. Scelta delle fonti], Warszawa 2006, 108-110. Rapport de l'Evêque de Katowice Adamski, fin de janvier 1943, in: Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (ed.), Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 3 b: Le Saint Siège et la situation religieuse en Pologne et dans les Pays Baltes 1939-1945, parte 2: 1942-1945, Città del Vaticano 1967, 728-731. Ringelblum Emanuel, Kronika getta warszawskiego. Wrzesień 1939-styczeń 1943 [Cronaca del ghetto di Varsavia. 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Il tema di questa ricerca è la ricostruzione della rete di relazioni stabilite in Italia da Theodor Mommsen tra il 1844 e il 1870 con studiosi e istituzioni attraverso la corrispondenza che lo storico tedesco intrattenne con coloro che, direttamente o indirettamente, collaborarono con lui nella realizzazione del Corpus Inscriptionum Latinarum. Il 1844 è l'anno della prima venuta nella penisola del giovane Mommsen, che aveva appena conseguito il dottorato presso l'Università di Kiel, l'ateneo dove si era anche laureato. Cittadino danese, in quanto nato a Garding, una cittadina dello Schlesig- Holstein allora appartenente alla Danimarca, Mommsen era titolare di un Reisestipendium biennale assegnatogli dal governo su raccomandazione dell'università di Kiel, per completare la sua raccolta di fonti giuridiche romane. Il mio scopo ufficiale è la nuova edizione dei monumenta legalia di Haubold con testo riveduto e ampio commento; lei vede che i confini del mio piano sono abbastanza ristretti e quindi praticabili e che mi rimane tempo a sufficienza [.]. Genova, Firenze, Roma e Napoli sono i punti in cui senz'altro mi condurrà il mio piano di viaggio; oltre al mio preciso scopo, penso di fare qualche interessante bottino epigrafico. In questo, conto particolarmente sul suo amichevole aiuto; lei non pianterà in asso il suo allievo nell'epigrafia. La mia intenzione è di rivolgermi anzitutto all'Accademia di Berlino, che certamente appoggerà il mio progetto, se lei lo raccomanda. Così scriveva Mommsen al suo maestro e mentore Otto Jahn, appena ricevuta la notizia che la sua domanda di sovvenzione per un viaggio di studio in Italia era stata accolta: parole che esprimono senza ombra di dubbio le intenzioni e i progetti – sia immediati sia a più lungo raggio – del giovane giurista, niente affatto desideroso di dedicarsi alle professioni legali, bensì propenso a intraprendere la ricerca storica ed epigrafica e, come si vedrà, la carriera universitaria. Tuttavia, benché al momento di iniziare quello che sarà il 'primo' viaggio nella penisola Mommsen nutrisse già verso l'Italia e l'antichità romana interessi molto forti, questi ancora non erano precisamente delineati. Mommsen giunge in Italia alla fine del novembre 1844, dopo un soggiorno di due mesi in Francia, con tappe a Parigi – dove soggiorna oltre un mese –, Lione, Montpellier, Nîmes, Marsiglia; da qui il 23 novembre si imbarca per Genova. Dopo alcuni giorni di permanenza in Liguria, attraverso la Toscana, giunge negli ultimi giorni dell'anno a Roma, dove, grazie all'appoggio dell'Istituto di Corrispondenza Archeologica e alla collaborazione di Wilhelm Henzen, farà base per tutta la durata del soggiorno che si concluderà alla fine del maggio 1847, con frequenti e lunghi trasferimenti in altre regioni, prevalentemente a Napoli e nell'area meridionale. Fino a quel momento gli interessi di Mommsen si erano orientati per lo più allo studio delle istituzioni romane e avevano portato alla pubblicazione di due opere, il De collegiis et sodaliciis Romanorum e il Die romischen Tribus in administrativer Beziehung, che lo avevano fatto conoscere presso gli specialisti italiani – soprattutto la prima, scritta in latino, la lingua della «repubblica delle lettere». Si è visto quali fossero i reali progetti di vita del neodottorato giurista: tuttavia, benché la raccolta di iscrizioni latine rientrasse nelle sue prospettive di studio, gli giunse inaspettata, mentre era in Italia, la proposta di divenire coordinatore del progetto di un corpus epigrafico inizialmente promosso dal filologo danese Olaus Christian Kellermann. Il progetto languiva dopo la morte di Kellermann, avvenuta il 1° settembre del 1837 a Roma, ed era fallito anche l'analogo e pressoché contemporaneo progetto francese. Allo stesso tempo viene inoltre prospettato a Mommsen di assumere la cattedra di materie giuridiche a Lipsia. Entrambe le proposte – alle quali non poteva che rispondere positivamente – nell'immediato spiazzano il giovane e ambizioso ricercatore e imprimono alla sua vita un indirizzo diverso dal previsto. A quel punto, i cambiamenti intervenuti rispetto al piano iniziale agiscono da moltiplicatori dell'interesse di Mommsen per la filologia e per le fonti epigrafiche e dal soggiorno italiano nascono, oltre agli interventi e alle periodiche rassegne per il bollettino dell'Istituto di Corrispondenza Archeologica, tra cui le Iscrizioni messapiche, gli Oskische Studien e gli studi pubblicati dopo il rientro in Germania, in particolare le Inscriptiones Regni Neapolitani Latinae. Secondo la testimonianza del suo allievo Christian Schüler, Mommsen, nel giorno del suo sessantesimo compleanno, avrebbe detto di quel suo viaggio: «Der Jurist ging nach Italien – der Historiker kam zurück». Una battuta efficace, senza dubbio, ma forse eccessivamente tranchant: dopo la morte di Mommsen, non pochi tra quanti ne hanno tracciato la biografia hanno messo in luce il peso determinante della sua formazione giuridica nello studio dell'antichità romana e nelle stesse indagini epigrafiche. Dalla permanenza in Italia, come è evidente, è derivata la messa a fuoco dell'area napoletana come microcosmo rappresentativo di tutte le questioni che attengono in realtà alla nascita della moderna disciplina archeologica e al contempo alla capacità delle istituzioni – culturali, universitarie – di gestirsi, di organizzare gli studi e di confrontarsi con le proprie e più profonde radici culturali: tutte questioni rese tanto più cruciali dalle condizioni politiche dell'Italia, in parte paragonabili a quelle della Germania preunitaria. Le questioni erano tutte in nuce già nei primi contatti di Mommsen con i corrispondenti italiani e si manifestarono con particolare evidenza con gli studiosi dell'area napoletana. La carriera universitaria a Lipsia subì una battuta d'arresto nel 1851, anno in cui Mommsen fu costretto a dimettersi per essersi compromesso con la partecipazione ai moti del '48; tra il 1854 e il 1856 venne portata a termine, insieme con altri importanti studi di filologia, la Römische Geschichte e, soprattutto, l'impegno per il Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) assunse una crescente e assoluta preminenza nell'attività – e, si potrebbe dire a buon diritto, nella vita – di Mommsen. Il termine ad quem del periodo fatto oggetto della mia ricerca, il 1870, momento cruciale nella storia politica europea perché segna l'unificazione politica della Germania e il compimento dell'unità italiana con l'annessione di Roma, è significativo anche per Mommsen, per i suoi interessi e i suoi rapporti con l'Italia stessa, poiché a partire da quel momento si avviarono profonde trasformazioni nella politica culturale dei due paesi e si definirono le sorti future delle "due patrie". In Italia a completamento dell'unificazione tornano sul tappeto i nodi critici dell'organizzazione degli studi e, si può dire, degli stessi fondamenti della identità nazionale. Sono efficaci le parole che Mommsen rivolge a Gian Carlo Conestabile Della Staffa in una lettera del 1873, indicando tra le «piaghe d'Italia», non ultimo quel quotidiano deperimento degli studii classici ed archeologici che pur per voi sono anche patrii, e quanto questo deperimento impoverisce l'intelligenza della vostra nazione, creata larga e grande, come chi togliesse all'uomo maturo i ricordi della casa paterna e della bella sua gioventù. Ed io che conosco l'Italia da trent'anni e che l'amo come era e come è con tutti i suoi difetti, non posso nascondermi che, se sotto quasi tutti gli altri rapporti vi vedo un bel progresso, gli studii classici fanno un'eccezione assai triste e che nell'Italia del 1873, nell'Italia felicemente risorta noi altri poveri pedanti pur cerchiamo invano, non già l'Italia del 1843, ma bensì l'Italia dell'Avellino, del Furlanetto, del Cavedoni, del Borghesi. Il percorso inizia dal punto di approdo, cioè dal 1870, e prosegue, à rebours, con due capitoli che abbracciano il primo gli anni 1844-1847, il secondo il decennio successivo, cioè il periodo che corre tra la prima venuta in Italia di Mommsen e la data di pubblicazione dell'ultimo volume della prima edizione italiana della Storia romana: si tratta di un arco di tempo finora poco considerato dagli studi che hanno messo a fuoco soprattutto il Mommsen compilatore del CIL e molto meno l'autore della Römische Geschichte. In realtà è proprio in questo periodo che ha inizio l'ultradecennale legame dello studioso tedesco con l'Italia e la nascita di quella rete con i sodali italiani che avrebbe reso possibile la costruzione del CIL. Si tratta di rapporti che ebbero origine da una conoscenza diretta fatta durante il primo e i successivi viaggi e si consolidarono poi attraverso un fitto scambio epistolare finalizzato al reperimento delle fonti per il CIL. Successivamente ai capitoli riguardanti i rapporti con i corrispondenti italiani tra il 1844 e il 1857, l'indagine si concentra sul periodo 1847-1857, denso di eventi politici che, come si è accennato, influiranno decisivamente sulla vita di Mommsen: si intensificano, in questi anni i rapporti con l'Italia, estendendosi dalle regioni meridionali – oggetto delle ricerche che avevano portato alla pubblicazione delle Inscriptiones Regni Neapolitani Latinae – alle regioni del nord-est a dominazione austriaca. Infine, la parte relativa agli anni 1857-1870 approfondirà, attraverso i percorsi paralleli della costruzione del CIL e dell'unificazione italiana, le relazioni di Mommsen con il contesto istituzionale italiano. In questo periodo Mommsen si immerge, totalmente e letteralmente, nel lavoro per il CIL e, in conseguenza di questo, nell'Italia e nelle sue istituzioni a cavallo dell'unificazione politica. L'esperienza risente inevitabilmente del contesto politico-amministrativo con il quale lo studioso e i suoi corrispondenti e amici devono confrontarsi per condurre a termine la loro impresa ed è in questa fase che si inaugura uno stretto confronto con gli uomini delle istituzioni, i quali prendono a riconoscere in Mommsen uno dei loro interlocutori di maggior peso. È importante sottolineare il fatto che Mommsen ha sempre nutrito forti interessi per la vita politica, fin da quando la partecipazione alla mobilitazione del 1848 gli era costata la perdita della cattedra di cui era titolare a Lipsia. Successivamente aveva fatto parte, schierandosi con l'ala progressista liberale, sia del Parlamento prussiano tra il 1863 e il 1879 sia del Reichstag dal 1881 al 1884. Eppure, nel 1870, l'esponente illustre del partito liberal-progressista e fiero oppositore di Bismarck si schiera toto corde con la politica nazionalista della Prussia, divenuta capofila dell'unificazione tedesca: un orientamento sostenuto in alcuni interventi pubblicati sui giornali italiani che ebbero un'eco potente in tutta Europa e provocarono forti reazioni sia nelle fila degli intellettuali francesi (famose quelle di Numa Fustel de Coulanges ed Ernest Renan, tra gli altri) sia nel dibattito pubblico in Italia, anche perché veicolate dalla stampa di tutti gli schieramenti politici. Mommsen era stato osservatore costante e partecipe della situazione politica italiana e aveva seguito il processo di unificazione con profonda empatia, sia per le analogie con la situazione tedesca, sia per le aspettative da lui nutrite di una "rigenerazione" degli studi classici e delle istituzioni culturali grazie alle trasformazioni indotte dall'unità politica e dalla nascita dello uno stato liberale. Il lavoro ha l'obiettivo di illustrare le forme di collaborazione attuata da Mommsen in Italia per la realizzazione del grande progetto cooperativo del CIL principalmente attraverso le corrispondenze inviate a Mommsen dagli studiosi italiani. La ricerca, perciò, ha preso le mosse dal censimento dei mittenti italiani di Mommsen ed è proseguito con la consultazione delle relative lettere presenti nel Nachlass Mommsen della Staatsbibliothek di Berlino. Oltre alle 'carte Mommsen' (corrispondenza, diario di viaggio in Italia e altro) presenti nella Staatsbibliothek, la ricostruzione del contesto non ha potuto non tenere in conto la documentazione presente nell'archivio del Corpus Inscriptionum Latinarum conservato presso l'Akademie der Wissenschften di Berlino, responsabile del grande repertorio, tuttora in corso di pubblicazione. Alle vicende del Nachlass dal momento in cui furono depositate dagli eredi presso le istituzioni bibliotecarie della Berlino imperiale di inizio Novecento, all'attuale sistemazione nella capitale della Germania unificata e alle trasformazioni subite dal CIL e dall'Accademia delle Scienze dopo la seconda guerra mondiale è dedicato uno specifico capitolo del lavoro, nella consapevolezza che in ogni ricerca non solo vanno accuratamente considerate le "fonti della storia", ma che anche la "storia delle fonti" svolge un suo specifico e cruciale ruolo. La ricerca si concentra sui mittenti italiani di Mommsen, e su come una cerchia di intellettuali e di responsabili delle istituzioni, che si amplia progressivamente negli anni per effetto della sempre più intensa attività di Mommsen nella raccolta delle testimonianze epigrafiche, risponda alle sollecitazioni dello studioso e rappresenti uno spaccato del dibattito culturale e, al tempo stesso, delle difficoltà e contraddizioni che le classi dirigenti italiane si trovarono ad affrontare sul terreno dell'organizzazione degli studi. La raccolta delle lettere inviate da Mommsen ai suoi collaboratori italiani è da tempo al centro di uno specifico progetto che ha dato luce a una estesa pubblicazione curata da Marco Buonocore, le Lettere di Theodor Mommsen agli italiani: la mia ricerca, si parva licet, integra in parte il quadro degli scambi epistolari di Mommsen con una specifica attenzione dedicata alle lettere inviate a Mommsen dai suoi corrispondenti italiani, che sono state finora meno valorizzate, con poche eccezioni, quale il carteggio di Pasquale Villari, che si collocano tuttavia in gran parte nell'ultimo trentennio del XIX secolo, quando, nell'Italia unita, lo studioso tedesco era famoso e particolarmente stimato dal mondo della cultura e delle istituzioni italiane. Molto meno considerate, invece, le relazioni che Mommsen fresco di laurea (ma già ambizioso e consapevole dell'impegno della propria ricerca) intraprende con un'Italia ancora in fieri, alla quale si accosta con un misto di ammirazione per le antiche vestigia e l'immenso patrimonio archeologico e di malcelato terrore per le condizioni di arretratezza della 'prigione esperia', come la definisce nel suo diario di viaggio. La prima tessitura di queste relazioni e l'accoglienza di Mommsen da parte degli italiani viene soprattutto sottolineata dalla mia ricerca, che si concentra non tanto sui dettagli "epigrafici" della collaborazione prestata a Mommsen dagli italiani quanto piuttosto sul terreno dal quale si svilupparono tali rapporti, fortemente condizionati, sotto il profilo istituzionale, dalla divisione della penisola e dalle dinamiche politico- amministrative interne agli stati preunitari. Indubbiamente, fin dal primo soggiorno si radica in Mommsen quell'attaccamento all'Italia che, negli anni successivi, si sarebbe espresso nel rimpianto di non essersi potuto trasferire stabilmente nella sua patria elettiva e nel riconoscere negli italiani quei tratti di gentilezza e di tolleranza, che ancora sottolineava a Pasquale Villari con lettera del 30 gennaio 1903, viceversa del tutto assenti nel popolo tedesco. Molte delle sue lettere costituiscono un vero e proprio spaccato della società di specifiche aree geografiche italiane; sono fonte preziosa per determinare – con ricchezza di particolari del tutto sconosciuti – la storia culturale, il dibattito scientifico, il tessuto sociale ed umano della nostra Italia di secondo Ottocento; ci consentono di calarci con sensibilità e rispetto nelle pieghe della storia locale, dialogando con i fatti, antichi e recenti, di modellare una scandita e precisa ricostruzione storico-culturale. Uno strumento, quindi, assai utile per tracciare a tutto tondo la sua presenza in Italia, il suo interesse verso l'Italia, le sue priorità scientifiche che scaturivano dallo studio delle irripetibili bellezze storiche e artistiche che il suolo nazionale generosamente gli concedeva; e, di converso, esso ci dà l'opportunità a tutti noi di seguire con maggiori dettagli quelle personalità italiane che caratterizzarono, ciascuno con il proprio spessore, il dibattito culturale della seconda metà dell'Ottocento. Condividevano – Mommsen e gli italiani – gli stessi interessi di studio, le stesse aspettative politiche, lo stesso 'linguaggio'? Fino a che punto – uomini e istituzioni –furono coinvolti dai progetti di Mommsen? E fino a che punto l'attività di Mommsen nel Corpus Inscriptionum Latinarum e nei Monumenta Germaniae Historica può rappresentare una cartina di tornasole delle trasformazioni in atto nel cuore dell'Ottocento in un paese che si apprestava, tra fughe in avanti e pesanti arretramenti, a raggiungere la propria unità politica? Questi gli interrogativi sottesi alla ricerca, che hanno orientato le mie scelte nella vastissima area delle fonti epistolari mommseniane.
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Questa non è una tesi d'antichistica e tuttavia non c'è un capitolo in cui non si parli di Platone. Forse Hans Georg Gadamer, che non ha esitato a riconoscersi "platonico", potrebbe reputarsi soddisfatto, ma il motivo originario del mio interesse non era, a dire il vero, un'indagine sull'interpretazione gadameriana del Filebo. A poco più di cinquant'anni dalla pubblicazione di Verità e metodo1, e a distanza di ormai trent'anni dal periodo in cui l'ermeneutica, in quanto "scepsi contro ogni dogmatismo"2, sembrava diventata la nuova koiné filosofica dell'Occidente, intendevo mettere in gioco un'eredità più nascosta 3 nel pensiero di Gadamer; volevo, cioè, capire da dove scaturissero l'apertura dialogica della sua ermeneutica ed il suo accordare all'intesa un primato originario ed irrevocabile. In particolare, avevo intenzione di scavare alla radice dell'"improbabilità" del dialogo di Gadamer con Derrida, che mi aveva occupato qualche anno prima, convinta che vi si celasse qualcosa di molto particolare, da ricondurre, probabilmente, alle origini stesse del modo in cui Gadamer concepisce il suo sapere ermeneutico. Come sempre, si comprende diversamente se si pongono domande differenti all'interpretandum. Così, anziché chiedere, in modo certamente prematuro e per il quale non ero per niente preparata, quanto l'universale gadameriano potesse essere un buon "economo della violenza", ho cercato di inseguire gli stimoli provocati dalla lettura del saggio del 1993, L'Europa e l'oikouméne 4 , in cui Gadamer sostiene che tra i più impellenti compiti che l'umanità deve assolvere per non distruggere sé stessa ci sia la riabilitazione di quel doppio misurare di cui parlava Platone nel Politico, 283 e5. Questo mi ha indotto a cercare di capire cosa fosse quella misura platonica6 cui alludeva Gadamer e per quali ragioni il filosofo tedesco avesse attribuito a quell'intuizione dell'Ateniese la capacità di salvaguardare l'equilibrio dell'intero cosmo. Il mio interesse principale, infatti, era diventato, mio malgrado, più politico che teoretico, cosicché accolsi lo stimolo, presente soprattutto nei saggi successivi a Verità e metodo, a pensare la comunità come il solo orizzonte entro cui sia possibile l'esistenza del singolo. La critica al concetto di "isolamento" di Gadamer e l'enfasi riposta dalla sua ermeneutica sulla dialogica come unico accesso alla verità non sono però che l'effetto di un percorso che fin dai primi anni '20 ha posto il filosofo tedesco sulle tracce di Platone e di Aristotele. Il pensiero greco offre, infatti, a Gadamer tutti gli elementi per concepire il gioco dialettico tra particolare ed universale nell'ottica di una vitale partecipazione, che impedisce l'abuso sia del singolo nel considerarsi privo di legami, irrelato, fuori dal misto, sia dell'ethos (famiglia, società, tradizione stessa) nel divenire un contenitore rigido, dogmatico, incapace di reagire con fluidità alle differenze della molteplicità con cui entra, volta per volta e diversamente, in relazione. L'intesa non è perciò un primato ontologico, ma l'esito di un processo faticoso, in cui gradualmente si cercano affinità tra le posizioni contrarie entro uno spazio salvaguardato dal comune riferimento ad un terzo, il lógos, che, in qualche modo, rimane "condiviso"nella distanza. L'accordo iniziale resta per Gadamer originario, poiché ci si trova già immersi in una storia umana, in un linguaggio di provenienza antichissima, che è vano ipotizzare di poter possedere ed è altrettanto superfluo immaginare possa concludersi, saturando la sua spinta costitutiva ad autosuperarsi senza lasciare a nessuno la possibilità di detenerne il possesso. Il gioco linguistico che ricomprende tutti non è, perciò, qualcosa che si debba scegliere di giocare, ma ciò nel quale ci troviamo gettati dalla nascita ed entro cui soltanto è possibile per l'uomo fare esperienza. Esso costituisce il vincolo originario tra singolo e comunità e può dirsi che questo Gadamer l'abbia imparato già a 28 anni, nel suo lavoro d'abilitazione con Heidegger, Etica dialettica. Interpretazioni fenomenologiche del Filebo7, a cui questa ricerca dedica molta attenzione. La mia tesi è, infatti, che il sapere ermeneutico gadameriano si costituisce intorno ad un concetto di "misura", la cui importanza ontologica, estetica, etica e politica affiora soprattutto nell'Etica dialettica e poi in alcuni importanti studi sui Greci che precedono e seguono l'opera del '60. Questo lavoro prende, così, le mosse dall' ipotesi che, sebbene non esistano saggi di Gadamer specifici intorno al concetto di "misura" - così come non ne esistono intorno al tema della finitezza che, pure, attraversa tutta la sua ermeneutica che è certamente un'ermeneutica della finitezza8- sia possibile rintracciare nella misura quel filo conduttore mediante cui intendere un po' meglio cosa fosse quell'ermeneutica che Heidegger sosteneva essere "la cosa di Gadamer"9. Non desideravo, ovviamente, "sfidare" la centralità di Verità e metodo10, anche se limitarsi alla lettura di quest'ultima rischia di cristallizzare un'immagine di Gadamer come bravo umanista capace di interessarsi delle sorti delle Geisteswissenschaften, rivendicando il carattere particolare di evento che spetta alla verità dell'arte, della storia e della filosofia, di cui può farsi soltanto esperienza, senza ricorrere agli strumenti metodici propri delle scienze della natura, dal cui modello oggettivante Gadamer si sforza di affrancare la tradizione occidentale. Il rischio che poi si corre isolando un singolo testo come Verità e Metodo senza cercare di conoscere "l'altro Gadamer", non è soltanto quello, messo in rilievo da Pöggeler11, di maturare "l'idea di trovarsi davanti ad un aristotelico", idea che verrebbe smentita dall'ammissione stessa di Gadamer intorno alla centralità riservata a Platone nei suoi studi12; ma anche quello di ignorare il debito fondamentale che per l'elaborazione complessiva del suo modo di concepire la filosofia, Gadamer contrae dallo Heidegger degli inizi, i cui corsi nell'opera del '60 non potevano neppure essere citati, perché ancora non pubblicati13. Certamente in Verità e Metodo Gadamer si mantiene fedele all'impegno heideggeriano nel voler scardinare ogni metafisica della soggettività, radicalizzando l'apertura del "ci" del Dasein e superando, al tempo stesso, il relativismo storicista, così da delineare una specie di ontologia della storicità e della finitezza della coscienza. Ma il prezzo poi pagato dal successo dell'opera del '60, potrebbe essere stato quello di un certo misconoscimento – e alla fine di un appiattimento - delle condizioni alle quali una tale fedeltà viene conquistata e mantenuta. Come si vedrà, infatti, non la parola, ma il concetto stesso di "ermeneutica" manterrebbe in Gadamer, assai più che in Heidegger, la sua matrice greca. L'originalità del contributo teorico del primo nascerebbe, infatti, proprio dagli studi della filosofia greca - giudicati da Gadamer stesso "la parte migliore e più originale" della sua attività filosofica e capaci di costituire "la migliore illustrazione" delle sue idee nel campo della filosofia ermeneutica14 - e dal decisivo interesse a che non scomparisse, soverchiato dal crescere impetuoso della tecnica, quel fitto tessuto connettivo della cultura occidentale, che fin da ragazzo Gadamer iniziò a coltivare con passione. Ho cercato, quindi, di rafforzare l'idea di una continuità dell'interesse di Gadamer per i Greci, interesse che precede l'incontro con Heidegger e, pur nella ricchezza di strade percorse dall'opera gadameriana, non verrà spezzato nemmeno dalla necessità del filosofo tedesco di confrontarsi con le altre numerose questioni che nasceranno sulla scia della diffusione planetaria di Verità e metodo, che di greco avevano, apparentemente, ben poco. Nei Greci, infatti, Gadamer reperisce un paradigma alternativo al trionfo della modernità, che sappia soddisfare il "bisogno di unità della ragione"15, che si vedrà come per lui risponda ad un naturale desiderio di armonia ed equilibrio16. Già in Verità e metodo, Gadamer fa riferimento alla misura (Maß) come condizione stessa della cultura, dicendo: "chi si abbandona alla particolarità non è colto: così, per esempio, colui che si lascia andare alla propria cieca ira senza misura né proporzione"17 e, com'è noto, si ispirerà al modello dell'etica aristotelica18per la costituzione dello stesso sapere ermeneutico, che, non sostenuto da un metodo scientifico, è proprio nella ricerca di un regolo ideale e flessibile, come quello di Lesbo, che può legittimare la sua più intima "verità". Elaborato in suolo greco e considerabile quasi come l'essenza stessa della cultura umanistica, questo atteggiamento di Gadamer parrebbe rendere ambigua19la stessa ermeneutica, ma forse solo fintantoché non si sia osservato a sufficienza da dove nasca e come si sviluppi questa particolare forma del sapere ermeneutico. Il mio lavoro cercherà di far vedere, dunque, quanto la "misura" (il métrion) potrebbe rappresentare l'indicazione formale" che spetta seguire a chiunque voglia entrare nel circolo ermeneutico e porsi in esso nella "giusta maniera". Questo concetto affonda in radici greche, platoniche per un verso ed aristoteliche per un altro, si ispira a capisaldi dell'umanesimo, appunta sul senso dello spirito oggettivo hegeliano l'obiettivo specifico intorno a cui modellarsi, ma, concependo il distacco da ciò che appartiene al proprio sé come fattore essenziale perché il dialogo possa essere promosso anche in tempi babelici e pericolosi per la stessa sopravvivenza dell'umanità, riesce ad interpretare la finitezza in modo coerentemente heideggeriano, rimarcandone però il lato "positivo", grazie all'integrazione della necessità di mediazione con quel "senso per la misura" (métrion) di cui Platone parlava nel Politico. Heidegger è un tassello indispensabile, dunque, nella ricca composizione dell'ermeneutica gadameriana, ma non unico e schiacciante, come dimostra il fatto che il sapere ermeneutico di Gadamer si mantenga in una dimensione orizzontale, così da attraversare l'era della scienza in un modo profondamente greco e "misurato", come verrà suggerito a conclusione della tesi. Ciò che accade in un'esperienza ermeneutica autentica, infatti, è proprio una trasformazione profonda, che nell'esperienza estetica Gadamer chiama "Verwandlung ins Gebilde" (trasmutazione in forma), che rende capaci di cogliere una volta di più la misura della nostra finitezza, nei limiti della quale è, tuttavia, possibile custodire una particolare forma di infinito. Trovando nel linguaggio una terreno solo apparentemente fermo, giacché non può dirsi fondato da nessuno, l'ermeneutica gadameriana riesce ad indicare la salvezza che può, volta per volta, esperirsi nella Sprache.Questa è, in ultima analisi, la sola casa in cui è possibile ancora oggi abitare insieme e che è bene tentare di rendere accogliente per presenti ed assenti, fantasmi e viventi, occidentali e non occidentali, sfumando le distanze irriducibili e sforzandosi di attenuare l'Unheimlichkeit che, anche se non potrà mai essere eliminata completamente, può perdere la centralità che ha assunto nella fase di "ecumenico spaesamento" vissuto dall'età contemporanea. Più dell'essere e più della parola, Gadamer intende così studiare il ponte tra esse, il che vuol dire che non sarà mai né pienamente heideggeriano, né unicamente filologo, ma autenticamente ermeneuta, colui che rende evidente il legame dei vocaboli con la storia delle stratificazioni di significati assunti nei secoli addietro ed al tempo stesso si prepara a mediare con una nuova, differente versione della parola-concetto, da consegnare a chi interrogherà ancora la parola, entro il chiaroscuro della sua verità. Il compito dell'ermeneuta si riassume, infatti, nella decisione di intrattenersi nelle pieghe più oscure come in quelle più limpide della vita, in assenza, sempre e comunque, di un fondamento possibile che non sia la parola. Quella parola che, pronunciata, già non è più mia, né forse lo è mai stata, perché arriva sempre da lontano ed a me non resta che "salvarla" e ricrearla per chi, malgrado la fuga degli Dei, avrà cura di cercare varchi per ricostruire un tempo per noi, non stancandosi di coltivare misura, pienezza dell'essere e dello stare insieme in amicizia, che, come insegnano le stesse origini della tradizione occidentale, è in fondo la sola alternativa concessa a quel destino di violenza e povertà che, in assenza di parole altrui da custodire e su cui vigilare, troppo spesso viene assaporato quasi come un martirio ineluttabile, da quanti, vanamente e stoltamente, si illudono di non aver alcun desiderio della verità dell'altro. "Non possiamo mai dire tutto ciò che potremmo dire", quindi, non solo per via della nostra finitezza, ma perché bisogna aver cura di contenersi accogliendo la prospettiva dell'altro, fare in modo che si affermi in quel processo linguistico che trasmuta entrambi, quando, se condotto sul modello socratico-platonico, può davvero far pervenire ad un'intesa, che non significa affatto essere d'accordo, ma avere compreso il punto di vista dell'altro ed accettarlo nella sua piena e pari validità; significa, cioè, diventare un po' meno finiti ed un po' più universali, capaci di allargare il proprio sguardo, contemplando anche ciò che non era previsto e dove non saremmo mai potuti giungere da soli. Il dialogo platonico diventa così l'emblema del dialogo ininterrotto che, travalicando distanze storiche di secoli, si presenta come un gioco serio, che riesce ad attuarsi anche nell'età contemporanea, a condizione che l'interprete si mostri disposto a riconoscere di non essere misura di tutte le cose e, perciò, rinunci alla tendenza obiettivante che, predeterminando con categorie moderne ciò che proviene da quello che rimane l'alterità per eccellenza, ossia il mondo greco, finisce con il fagocitarlo. Esso rappresenta la vera sfida per ogni filosofo, quella che fa dire a Jean- Marie Clément, nelle sue Epistole : Qui nous délivrera des Grecs et des Romains? Chi potrà smorzare il peso che per ogni occidentale, consciamente o meno, costituisce quell'eredità che, come scriveva René Char, non ha nessun testamento? Di questo peso, che qualcuno vorrebbe sciogliere non misurandosi più con i testi greci o credendo di "appropriarsi" una volta e per tutte delle questioni poste dagli antichi, senza restare aperti ad un perenne dialogo con essi, Gadamer ha la straordinaria abilità di mostrare l'aspetto positivo, capace di orientare nell'Ab-grund dell'esistenza. La tesi si articola in quattro capitoli. Nei primi due, viene indagato il legame inestricabile che Gadamer mantiene con l'interpretazione particolare del Filebo platonico, che gli consentirà tanto di assumere una particolare concezione di dialettica che soltanto qui, grazie alla legittimazione ontologica del carattere di mescolanza di determinato ed indeterminato che connota tutto ciò che è, può essere interpretata in strettissima connessione con la dialogica, quanto di leggere Aristotele e Platone a partire dalla loro comune matrice socratica. Il primo capitolo, "Alle origini dell'ermeneutica. Gli anni marburghesi", mi è stato necessario per tentare di ricostruire lo sfondo entro cui Gadamer elabora l'Etica dialettica, così da sottolineare la genesi del suo interesse per il Filebo e dare risalto alla ricchezza della sua formazione. Ho cercato di evidenziare l'attitudine del giovane Gadamer di mediare gli insegnamenti dei suoi tanti maestri (Hönigswald, Natorp, Hartmann, Friedländer e naturalmente Heidegger), così da trasformare il caos degli impulsi concettuali e letterari che animavano la vita marburghese di una gioventù profondamente disorientata dalla prima guerra mondiale, in un nuovo kósmos, per la costituzione del quale Heidegger svolge un ruolo determinante, ma non totalizzante. Ciò che, infatti, Gadamer scopre nei Greci, grazie soprattutto al talento fenomenale di Heidegger, sarà talmente vincolante da impedirgli di scorgere in essi soltanto il principio di una dimenticanza dell'essere. Il secondo capitolo, "Gadamer ed il Filebo. L'Etica dialettica" si sofferma sulle Interpretazioni fenomenologiche del Filebo, cercando di far cogliere nella "pienezza dell'essere"prospettata nel dialogo platonico la premessa fondamentale della "misura" gadameriana, che dunque, prima ancora che essere metodologica, è sicuramente ontologica. Intendo mostrare come l'Etica dialettica sia un lavoro che certamente omaggia il procedere fenomenologico heideggeriano e, tuttavia, già qui possa intuirsi il motivo di quell'"autentica deviazione"(echten Abweichung)20 da Heidegger che Gadamer dichiarerà d'aver compiuto in seguito, distaccandosi dall'interpretazione dei Greci del maestro.La concezione del rapporto tra identità e differenza nel senso di un'opposizione vitale ed inaggirabile, avanzata nel Sofista, viene infatti superata nel Filebo, perché è la stessa realtà ad essere mista e costringere alla "mescolanza"degli opposti. Ciò consente all'Ateniese di pensare, per Gadamer, ad una dialettica inclusiva, che individuare un incremento d'essere proprio nel superamento dell'heteron così da rimarcare il ruolo positivo riservato alla differenza. Sottolineando come l'attività contenitiva ed autolimitante della ragione riguardi ogni ambito umano, scientifico, tecnico e pratico, Gadamer presenta, dunque, una "ragione"greca decisamente non violenta, perché motivata e sostenuta dall'opposizione costituita dall'alterità nell'avvicinarsi indefinitamente al pragma, senza potere uscire mai "vittoriosa", certa d'averlo guadagnato incontrovertibilmente. Un altro punto cruciale che segnala il debito profondo che Gadamer contrae dal Filebo è che qui Platone contraddistingue l'agathon attraverso i caratteri ontologici di misura, bellezza e verità, perché essi soltanto sono capaci di mantenere il Dasein in uno stato di quasi impassibilità, che esclude ogni eccesso. L'Esserci non si comprende meglio, dunque, nell'Angst heideggeriana, che risulterebbe una violenta (fuor di misura) modificazione del Dasein di fronte alla percezione dell'abisso; né è la "noia profonda", di cui Heidegger aveva parlato nel corso coevo21 alla stesura dell'Etica dialettica, a dischiudere al Dasein l'Essere. Al contrario, è nella "gioia per" che il Dasein ha possibilità di aprirsi all'Essere, manifestando così d'avere inteso il senso della Sorge nel piacere della conoscenza che svela il mondo, intensificando la possibilità che l'uomo si rifugi lì dove l'essere del bene è più manifesto: nel bello. Il terzo capitolo, "La misura greca. Elogio del finito", cerca di approfondire la lettura unitaria che Gadamer si sforza di dare di Platone ed Aristotele per quanto riguarda L'idea del Bene, titolo di un saggio del '78 che porta a compimento ciò che nella tesi di abilitazione non era stato approfondito a sufficienza. Dopo aver indugiato sulla complessa interpretazione, non esente da critiche, che Gadamer elabora di Platone grazie a molteplici stimoli, tra i quali risaltano in particolar modo quello di Friedländer e di Hegel22, mi dedico al particolare modo di declinare l'interesse heideggeriano per Aristotele da parte di Gadamer (cfr.paragrafo Phrònesis e metrion). Cerco, quindi, di far vedere come Gadamer riesca a scorgere una decisiva prossimità tra sapere pratico e sapere ermeneutico, miranti ad una unità di teoria e prassi, per via della tensione ad un métrion, quel prépon "che può essere determinato soltanto in concreto" perché, non essendo un ente, varia di continuo e richiede, volta per volta, una differente determinazione. Dopo aver discusso la ripresa del modello aristotelico in Verità e metodo ed aver fatto riferimento ai saggi in cui si discute di questa particolare flessibilità etica aristotelico-gadameriana, che è nucleo centrale del sapere ermeneutico, il capitolo termina con un'analisi del ruolo centrale che assume la philía nell'interpretazione gadameriana dei Greci e, conseguentemente, della differente visione della temporalità che Gadamer ebbe rispetto ad Heidegger, sottolineando la possibilità di pensare ad un "tempo pieno", perché condiviso, che garantirebbe un accesso particolare, trascurato in seguito da Heidegger, alla fecondità teoretica inerente alla prassi stessa. L'ultimo capitolo, "La misura come forma logica del sapere ermeneutico", che riprende volutamente il titolo dell'intera ricerca, affronta la questione della storicità dell'ermeneutica e del ruolo del linguaggio, mettendo in evidenza un certo modo di valorizzare lo statuto ontologico della parola, che marca una profonda distanza di Gadamer sia da Platone, che da Heidegger che da Hegel. Nel secondo paragrafo – "La misura e il metodo" – faccio più esplicito riferimento a Verità e Metodo, cogliendo, insieme ai nessi esistenti tra gli elementi acquisiti da Gadamer nei suoi studi sui Greci, una specifica direzione dell'indagine che va oltre la dialettica platonica per ritornare alla dimensione dell'esperienza, vero cuore del pensiero gadameriano. È qui che emerge un particolare métrion, alternativo al metodo della modernità. Il capitolo si conclude indugiando su quella vocazione comunitaria e politica dell'ermeneutica, che, lungi dall'essere meramente conservatrice, spinge l'Europa a percorrere un'anámnesis delle sue origini, profondamente radicate nella philia e nella ricerca di misura greche, per indirizzarla verso un "pensiero ecumenico". Un"nuovo rinascimento umanista" sarebbe, perciò, agli occhi di Gadamer, una possibile strada da percorrere per cercare di risanare la frattura provocata dalla modernità, recuperando, così, quel "doppio misurare" greco, di cui si è parlato all'inizio. Quella che emerge è una maniera di filosofare che comporta una fatica costante, e, fedele alla dialogica socratica, rimane strutturalmente aperta al domandare estenuante e sempre insoddisfatto di sé, che ha contraddistinto il venire all'essere della filosofia occidentale, senza declinare mai dalla responsabilità di rivolgersi all'intero ed esprimere un desiderio di protezione di e da esso. Dovrebbe quindi, in conclusione, disegnarsi il profilo di un pensatore che è riuscito a criticare l'unilateralità del "misurare della scienza", in modo da esortare ad un ritorno dell'equilibrio, di un senso della "giusta misura". Quanto all'interesse per questo tipo d'insegnamento, che ispira anche questa tesi, dà testimonianza un breve scritto che pubblico in appendice,dal titolo "Dove si nasconde la bellezza?", che riprende, modificandolo, quello di una celebre raccolta di saggi gadameriani sulla salute.
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