La condizione della donna nella famiglia, e più in generale nel diritto privato, nel vasto arco di tempo che abbraccia il medioevo e la prima età moderna, è stata oggetto, come ben noto, di cospicue ricerche, da parte di una ricchissima storiografia giuridica che spazia dall'Ottocento fino ai giorni nostri. Per l'altomedievo, sono certamente fondamentali gli studi più risalenti di Criscuolo, Schupfer e Besta, accanto a quelli via via più recenti di Falletti, Bellomo, Cortese, di Cavanna, Arcari e Guerra Medici sulla condizione della donna nei diritti germanici e in particolare sulle rovinose conseguenze della discesa in Italia dei longobardi, che pure avevano in parte perso quell'originaria selvatichezza che li aveva fatti apparire, in età augustea, come l'espressione più feroce della ferocia germanica. Dall'Editto di Rotari alle poche norme di Astolfo, come anche nella prassi dei privati è stata infatti colta da un lato la sopravvivenza di antichi costumi di vita, ma anche una certa inclinazione ad un vivere più civile e l'immagine, sempre più nitida, di una nuova dimensione spirituale. E' stato ampiamente messo in luce, anche nelle pagine scritte al riguardo da Padoa Schioppa e Villata, come nel quadro della famiglia longobarda la donna costituiva un valore da tutelare e da difendere come persona fragile e disadatta alle armi ma ancor più come madre o futura madre di guerrieri: un valore che non era determinato da una personale condizione della donna, come avveniva invece per gli uomini, padri o figli che fossero, ma che dipendeva dalla dignità e dalla nobiltà della stirpe del parente più prossimo; la sua vita, in sostanza, non era altro che un riflesso di quella del padre, del fratello, del marito o addirittura del figlio. Tutti costoro avevano un potere su di lei, ma solo uno, normalmente il padre, disponeva del mundio, un potere più specifico, a prevalente contenuto patrimoniale, come hanno dimostrato le ricerche di Cortese, potere che legittimava alla riscossione del prezzo della donna in caso di uccisione o di matrimonio, in tal caso, detto per inciso, pagato dallo sposo con la consegna di un cavallo. E' stato ampiamente messo in luce come il mundoaldo interveniva con il suo consenso in tutti gli affari patrimoniali della donna, che era titolare della capacità giuridica ma non di quella di agire in autonomia. Agli uomini della famiglia in generale spettava invece il potere di uccidere la donna libera che si univa in matrimonio con un servo o che commetteva adulterio, di respingere con giuramento un'accusa di adulterio mossa contro di lei e di intervenire, insieme al mundoaldo, in tutti gli atti di straordinaria amministrazione coinvolgenti i beni femminili. Il padre e il fratello potevano poi costringere la donna al matrimonio, darla in sposa anche prima dell'età legittima di 12 anni e muoverle l'accusa di stregoneria, già allora la più pesante per il genus femminile, come ben evidenziato da Paola Arcari. Priva com'era di una sua distinta e completa personalità giuridica, la figlia era esclusa dalla successione paterna, perlomeno in presenza di fratelli, ma se andava a nozze riceveva dal padre un faderfio, per lo più modesto, da offrire allo sposo. La storiografia ha però anche messo in risalto come molti di questi costumi tradizionali col tempo si affinarono e si ingentilirono, grazie soprattutto all'influenza spiritualizzante e mitigatrice della Chiesa alla quale non fu estranea specialmente l'ultima legislazione longobarda: gli studi di Brandileone, Calasso e Zanetti hanno in particolare evidenziato come si sviluppa una concezione più matura e metafisica del matrimonio, che vede la donna divenire parte attiva nella cerimonia nuziale attraverso il rito suggestivo della subarrhatio cum anulo. Col tempo poi anche il marito comincia ad offrire doni alla moglie in occasione delle nozze, se non altro come pretium pudicitiae, ed evidentemente questo iniziò ad avvenire, in certi casi, con tale larghezza e generosità che Liutprando fu costretto a fissare la misura massima della donazione nuziale consentita nella famosa quarta parte del patrimonio dello sposo. Anche il ruolo del mundoaldo si trasforma nel tempo, tanto che in epoca carolingia si diffonde la nuova denominazione di advocatus e di defensor, a dimostrare con tutta evidenza le funzioni divenute prevalenti, una terminologia destinata a lunga fortuna nell'uso linguistico di molte regioni italiane, come hanno dimostrato le ricerche di Gaudenzi e di Solmi, quelle di Viora e Marongiu e più recentemente gli studi di Bellomo e De Stefano. Al confronto con la donna longobarda, quella che viveva secondo la legge romana godeva in linea di principio di una maggiore libertà: erano scomparsi i vecchi matrimoni cum manu, si era affievolita la straripante autorità paterna, mentre si era ampliata la capacità patrimoniale femminile e definita in senso più favorevole la successione mortis causa. Ma se questo era lo status fissato in una legislazione conosciuta in modo sempre più frammentario e indiretto, è stato messo in luce, in particolare da Vismara e Bellomo, come nella pratica quotidiana anche la vita della donna vivente a legge romana non era certamente né libera né facile, condizionata dalle punte polemiche della predicazione cristiana che la collocava pur sempre in uno stato di inferiorità rispetto all'uomo, ma anche per la sopravvivenza di antiche consuetudini o la formazione di nuove che la costringevano inesorabilmente all'autorità del padre o del marito negli atti e nei momenti determinanti della sua esistenza. Nell'età successiva al Mille, quando il vivere civile comincia ad organizzarsi in forme e modi nuovi, la sfavorevole considerazione della donna non subisce dal canto suo grossi scossoni, sia nel tessuto originale delle istituzioni comunali che nel contesto monolitico del Regno di Sicilia. Abbiamo qui i numerosi studi di Roberti, Torelli, Ungari, quelli di Ullmann, Cammarosano, Tabacco, di Vismara e di Bellomo, fino alle ricerche di Hilaire, Lefebvre, Villata e anche il suggestivo Male moyen age di Duby, che hanno tutti sottolineato come lo status femminile veniva a riflettere, sotto molteplici profili, il ruolo che l'ambiente circostante assegnava ora alla donna nel vivere quotidiano, subordinata agli interessi del gruppo e alla ragion di famiglia, in un'epoca di forte tensione creativa tra le consorterie che davano vita o difendevano i nuovi ordinamenti pubblici. Una ragion di famiglia, come è stato ampiamente messo in risalto, preludio e prima immagine della ragion di Stato; una ragione di famiglia che si affermava non solo per le più ambiziose finalità politiche dell'intero gruppo ma anche in vista di quelle più concretamente economiche. E' stato in proposito posto in rilievo, specialmente da Santarelli, Padoa Schioppa e Piergiovanni, non solo il ruolo della grande tradizione mercantile italiana, ma anche come sullo sfondo e alla base di qualsiasi attività agricola, artigianale e commerciale s'intravvedeva sempre la famiglia, col peso determinante del suo patrimonio immobiliare e della sua posizione sociale. Per una ragione di famiglia che era dunque alimentata da finalità politiche e da interessi economici, la donna non poteva sperare in una considerazione della sua persona e della sua personalità giuridica che non la vedesse subordinata agli obiettivi del casato. Finché restava nella casa paterna era assoggettata al forte potere dei genitori che comportava in generale la facoltà di correggere e di educare la figlia e di esigere da lei la debita reverentia, secondo modalità su cui si è soffermata in particolare l'attenzione di Cavina. Più nello specifico gravava sulla figlia la patria potestas del padre o del nonno, se ancora in vita, con la conseguenza che non poteva disporre di un suo patrimonio ma al limite di un modesto peculium, che comprendeva beni di varia provenienza e godibili in varia misura, in ogni caso non incrementabile con l'esercizio di arti o di mestieri, come avveniva invece per i fratelli, così come hanno sottolineato soprattutto le ricerche di Bellomo. Va da sé che la figlia non poteva acquistare nulla contro il volere paterno. A dispetto poi di una plurisecolare normativa canonistica sul libero consenso matrimoniale, su cui restano sempre basilari i contributi di Esmein e in tempi meno lontani quelli di Gaudemet, era sempre il padre che decideva se e a chi dare la figlia in sposa, in alternativa a chiuderla in convento, decisione spesso presa quando la figlia era ancora in fasce, e in ogni caso senza tenere conto, per lo più, delle sue inclinazioni naturali, ma al solo fine di salvaguardare la compattezza del patrimonio, la preferenza per i figli maschi, il rispetto delle norme sul maggiorasco e la primogenitura e più in generale le superiori esigenze del sistema di cui la famiglia era parte integrante. Una volta entrata nella casa coniugale, a dispetto delle norme romanistiche che la volevano sottoposta a vita alla patria potestas, la donna passava sotto il potere del marito, titolare di uno ius corrigendi che consentiva il ricorso alla frusta oltre che alle mani, sia pure "temperatamente", come puntualizzava la dottrina canonistica sulle orme di S. Agostino. A sua consolazione, però, la donna aveva il diritto, un vero e proprio diritto, di ricevere, generalmente dal padre, una dote, e di solito la riceveva. Vero e proprio pilastro portante del diritto di famiglia tardo medievale e di antico regime, la dote ha attirato l'attenzione di larghissima parte della storiografia giuridica, a partire dai lavori più risalenti di Alibrandi, Ercole, Brandileone, quelli di Vaccari e di Vismara, fino agli studi più recenti di Bellomo, Romano, Pene Vidari e a quelli di Kirshner, Massetto, Storti e Valsecchi. E' così emerso, pur nell'estrema varietà delle normative locali e delle posizioni dottrinali, che la dote doveva essere congrua, cioè confacente alla dignità e alle ricchezze del casato, anche se non di rado, nella pratica, si riduceva ad una misera porzione del patrimonio di famiglia, spesso, per di più, soltanto promessa e mai consegnata, con l'accondiscendenza dello sposo che, pur di vantare una dote, accettava obtorto collo di confessare di averla materialmente ricevuta. Talvolta i beni dotali venivano corrisposti senza stima, ma più spesso se ne stimava il valore per non avere dubbi sul passaggio di proprietà al marito, dubbi che invece rimanevano troppo numerosi nel caso opposto, insieme a tutti i rischi che ne derivavano. La dote rappresentava il sostegno della comune vita familiare, il mezzo ad sustinenda onera matrimonii, come si esprimeva la dottrina, in sostanza la fonte alla quale attingere per le spese necessarie al vivere quotidiano. Ma è stato messo in luce come era anche e soprattutto una garanzia per la moglie di ricevere mantenimento e cure nella casa coniugale, al punto che non pochi giuristi arrivavano a mettere in dubbio l'obbligo del marito di fornire alimenti e medicine alla moglie non dotata o poco dotata; e anche chi ammetteva in ogni caso il dovere del marito al mantenimento, lo faceva per la considerazione che la moglie era pur sempre al suo servizio. Per via della sua destinazione la dote, benché passata nella proprietà del marito, era inalienabile, in forza di un divieto che, in linea di principio, non ammetteva né deroghe né eccezioni. E' stato però chiaramente messo in evidenza come i mariti avessero gioco abbastanza facile nell'aggirare i divieti, coinvolgendo le mogli nell'atto di vendita e convincendole, in un modo o in un altro, a giurare sul vangelo di non impugnare l'atto in futuro. E a scongiurare il rischio di un successivo, plausibile, pentimento della donna, interveniva anche il diritto canonico col divieto dello spergiuro, che veniva così a salvare al tempo stesso l'anima delle mogli pentite e la validità delle vendite concluse dai mariti. Ormai privata degli antichi donativi nuziali, venuti in odio agli statuti, consolata da una dote esigua, consegnata direttamente al marito e passata nella sua proprietà, la donna era tenuta a distanza anche dall'eredità paterna, vittima dell'esclusione per causa di dote, praticata quasi ovunque, tranne rare eccezioni, come hanno dimostrato le numerose ricerche di Viora, Bellomo, Romano, di Guerra Medici, Zorzoli, Danusso e Valsecchi. Se poi la donna sopravviveva al marito, a prescindere dalla presenza di figli comuni, rimaneva generalmente a vivere coi parenti dello sposo, nella migliore delle ipotesi, come evidenziato soprattutto da Vismara, in posizione di domna, domina et usufructuaria a lei assegnata nel testamento del coniuge; una prerogativa che, a condizione di una casta vedovanza, avrebbe dovuto assicurarle una discreta autonomia nell'amministrazione del patrimonio, ma che, in realtà, generava per lo più tensioni, litigi, disagi e solo raramente un quieto vivere. E' anche vero che la donna sopravvissuta al marito poteva fare la scelta di tornare nella casa dalla quale era uscita il giorno delle nozze, ma questo raramente accadeva nella pratica, poiché con la dote aveva perso ogni diritto sul patrimonio paterno e con la vedovanza ogni chance di riavere la dote dai parenti del marito e persino dai suoi stessi figli, come ben chiarito anche in alcuni studi di Massetto. Esclusa quasi del tutto, come abbiamo visto, dalla partecipazione alla vita pubblica e rinserrata tra le mura domestiche, nel ritmo di una vita che si può immaginare sì ricca di affetti, ma certamente anche di rancori, e sicuramente povera di grandi passioni e di grandi ideali, la donna finiva con l'apparire all'occhio impietoso del giurista come attaccatissima alle sue poche cose, patologicamente avara, secondo un epiteto ossessivamente ricorrente nella dottrina di tutta l'età del diritto comune; come pure, nell'immaginario collettivo, le si associava una forte connotazione di astuzia e di malizia che portava a dipingerla come facilissima agli inganni e ai tradimenti. Diverso era invece, come si sa, l'occhio del poeta, rivolto però più ad un modello e ad un ideale assoluto di bellezza e di perfezione, ben incarnato dalla donna cantata dal Dolce stil novo di Dante e Petrarca. Col declino dei comuni centro-settentrionali e al passaggio del Regno di Sicilia nelle mani di angioini e aragonesi, si allenta indubbiamente la tensione politica tipica della famiglia di stampo medievale, come hanno evidenziato specialmente Tamassia un secolo fa, e Barbagli, Klapish Zuber e Brambilla in anni più vicini: non viene certo meno l'unità del gruppo, simboleggiata dal patrimonio e dal blasone, non cede la tradizionale coesione interna, ma subisce un drastico ridimensionamento il ruolo politico del casato, a tutto vantaggio di un'esasperata valorizzazione del suo substrato patrimoniale. E' stato messo in rilievo come la dignitas della famiglia si conservava ormai soltanto per divitias, diminuiva col cadere delle fortune economiche e si perpetuava solo attraverso la persona e le virtù dei maschi. Se dunque era necessario ostentare ricchezze per godere di onore e di decoro, era opportuno che anche le donne di famiglia avessero, o perlomeno, esibissero patrimoni di un certo peso. Da un lato dunque l'esigenza di salvaguardare le apparenze, dall'altro quella di tutelare l'unità e la dignità della famiglia riducendo al minimo le fuoriuscite patrimoniali. Una duplice e contrastante necessità, animata in realtà da una comune radice ideale, che dava vita ai fenomeni tanto curiosi quanto significativi delle doti simulate, delle confessioni non veritiere di doti e delle doti inofficiose, tanto stigmatizzate da Giovan Battista de Luca e ampiamente illustrate da Bellomo oltre che da Tamassia: gli interessi del padre e dello sposo convergevano perfettamente in questi falsi, tutti e due appagati dal fatto che, agli occhi della comunità, la donna data e ricevuta in moglie apparisse dotata più di quanto avrebbe mai potuto sperare. Gradualmente, però, coi tempi che sempre richiedono i grandi cambiamenti, comincia a farsi strada una nuova coscienza civile, destinata a prendere corpo in dottrine volte a promuovere una condizione femminile sempre più coerente coi principi di ragione. Fu evidentemente decisivo l'impulso impresso dal pensiero giusnaturalistico che, tra Sei Settecento, pose la famiglia e le persone al centro di stimolanti riflessioni, diverse tra loro ma tutte ugualmente volte a favorire il delinearsi di nuovi modelli, come hanno evidenziato soprattutto Mochi Onory, Solari, Bellomo e Villata, anche nel recentissimo volume "Diritto e religione tra passato e futuro". In particolare secondo il pensiero di Grozio, che in parte riecheggia anche negli scritti di Pufendorf e di Thomasius, la società familiare sorgeva sulla base di un libero consenso, il potere di entrambi i genitori, dunque anche della madre, era un diritto naturale fondato sulla generazione e i reciproci diritti e doveri dei componenti erano incardinati nel diritto di natura. E' però John Locke il vero restauratore dell'ordine naturale nella famiglia, secondo la felice espressione di Solari, in quanto promotore della sola famiglia naturale anteriore e indipendente dallo Stato, una comunità di affetti in cui il potere domestico spettava in ugual misura ad entrambi i genitori e non nel loro interesse ma in quello esclusivo dei figli e delle figlie. L'uguaglianza permeava i rapporti tra marito e moglie, che costituivano la società coniugale non solo per procreare, mantenere ed educare i figli, ma per stringere tra loro un legame affettivo ed offrirsi reciprocamente aiuto e assistenza. Formulata nel tardo Seicento, fu una concezione veramente anticipatrice, destinata a larga fortuna nell'età dei lumi. Nella Francia dei philosophes Rousseau, Diderot e Voltaire concorderanno sulla necessità di riformare l'organizzazione familiare e di sottrarla al dispotismo religioso e patriarcale. Si faceva però ancora fatica a considerare i rapporti tra marito e moglie come ispirati a piena uguaglianza e si ribadiva il ruolo necessario dell'autorità maritale, salvo condannarne gli eccessi e gli abusi. Una convinzione questa che poggiava sulla pretesa disuguaglianza naturale dei sessi, in nome di una superiorità fisica e spirituale dell'uomo sulla donna, che però, almeno per Voltaire, poteva in certi casi ribaltarsi a favore della donna, se dimostrava di avere "più polso e più spirito di suo marito". In Italia, come si sa, fu Beccaria a criticare più di ogni altro l'organizzazione familiare coeva, mettendo in discussione, come ha rilevato Vismara, non la famiglia quale organismo etico, in cui si esprime l'aspirazione dell'uomo ad amare e ad essere amato, e la libertà e l'uguaglianza dei componenti, ma quel tipo tradizionale di famiglia in cui le funzioni politiche ed economiche avevano sopraffatto la libertà e la parità dei suoi membri, a scapito della vita affettiva. C'era dunque in pieno Settecento aria di rinnovamento e la netta consapevolezza della sua necessità. E sarà ai codici moderni, più che alla poco coerente legislazione settecentesca, che spetterà il compito, non facile, di tentare di realizzare, anche su questo terreno, l'ambizioso progetto di un radicale superamento del mondo medievale.
Il tema della Responsabilità Sociale d'Impresa (RSI) è recentemente tornato ad essere di grande attualità. A partire dalla fine degli anni Novanta, si è assistito infatti ad un proliferare di iniziative e strumenti destinati alla sensibilizzazione delle imprese e al sostegno delle loro buone pratiche; in ambito dottrinale si è ricominciato a scrivere e a discutere sull'argomento, molto spesso anche con un approccio pragmatico, mirato in particolare alla trattazione del tema della rendicontazione sociale e della gestione aziendale della responsabilità sociale. Analizzando la letteratura di riferimento, tuttavia, si scopre come molti problemi fossero già emersi e molte riflessioni fossero già state fatte sul tema, fin dalle prime pubblicazioni degli anni Sessanta e Settanta. In particolare, da una preliminare analisi degli studi anglosassoni sulla Corporate Social Responsibility si è notata un'ampia varietà di approcci, dei quali, però, alcuni si sono rivelati più adatti a costituire l'impostazione teorica di fondo della responsabilità sociale in ottica economico-aziendale. Si allude in particolare tre filoni teorici che, pur essendo concettualmente e formalmente distinti si connotano per avere un approccio strategico e manageriale alla responsabilità sociale d'impresa. Nel primo capitolo, pertanto, si è ritenuto di dover costruire la base teorica di riferimento della RSI in ottica strategica riassumendo i tratti salienti delle seguenti teorie: la Corporate Social Responsiveness la Corporate Social Performance la Stakeholder Theory Il più profondo dibattito sulla RSI divide i sostenitori della stessa da coloro che categoricamente la rifiutano; la scelta di trattare il filone di studi strategici sulla RSI è dovuta alla convinzione di poter superare questa prima antitesi con la dimostrazione dell'attinenza del tema alle problematiche economico aziendali, ovvero dell'attinenza della responsabilità sociale agli aspetti di gestione dell'impresa. L'idea di fondo è pertanto quella di riconoscere alla RSI una valenza strategica, e di poter annoverare le strategie sociali tra le altre strategie a livello aziendale, attribuendo alla gestione delle relazioni con gli stakeholder un ruolo che pervade tutti gli aspetti dell'operatività dell'azienda; non si tratta, pertanto, di incorporare forzatamente nella gestione dell'impresa una serie di valori, di principi e di obiettivi che non le sono propri, ma di scoprire come una consapevole impostazione dei rapporti con l'ambiente di riferimento possa costituire per l'impresa un vantaggio competitivo e possa contribuire, attraverso una gestione di qualità, al raggiungimento della fondamentale finalità dell'impresa di perdurare in condizioni di equilibrio economico. A questo punto, la considerazione della rilevanza della Responsabilità Sociale d'Impresa appare, a nostro avviso, se non auspicabile quanto meno condivisibile. Il concetto che meglio si adatta a questo approccio è quello di Corporate Social Responsiveness, ovvero di "sensitività", di "rispondenza" sociale: l'impresa che vuole gestire i rapporti con il suo ambiente di riferimento deve sviluppare questa sensibilità a cogliere le istanze che da esso provengono e a mediare i suoi imprescindibili obiettivi con le aspettative degli stakeholder; per fare ciò l'impresa deve approntare al suo interno una serie di processi di gestione, di strumenti che le permettano di instaurare un proficuo dialogo con l'ambiente esterno. Come si può facilmente notare, il concetto è ben lontano dall'originario significato di responsabilità sociale come obbligazione, come dovere morale dell'impresa di rispettare valori la cui individuazione è, a questo livello - così generico - difficilmente attuabile. Se l'impresa è chiamata a rispettare dei principi di fondo, è importante che questi scaturiscano dal concreto interagire con i suoi interlocutori: ecco allora che la Stakeholder Theory costituisce in termini descrittivi, normativi e strumentali la matrice teorica di riferimento, individuando quali sono i soggetti verso cui l'impresa è responsabile. La teoria degli stakeholder ha contribuito a definire una nuova visione dell'impresa, da "scatola nera" di trasformazione di input in output a centro di molteplici relazioni con tutti coloro che, per dirla con Freeman, "influenzano o sono influenzati dal raggiungimento degli obiettivi di un'organizzazione-impresa". L'impresa necessita di risorse per lo svolgimento dell'attività, e di ottenere consenso e legittimazione al suo agire; in mancanza di ciò finisce con il compromettere la sua stessa capacità di creare valore economico. La responsabilità sociale d'impresa, pertanto, non è semplicemente un vincolo all'equilibrio economico: è un arricchimento della finalità dell'impresa che, se correttamente percepito può trasformarsi anche in vantaggio competitivo. Il passaggio successivo diviene pertanto quello di incorporare la RSI in tutta la gestione aziendale, dalle strategie fino all'attività operativa, dalla pianificazione alla misurazione e rappresentazione dei risultati raggiunti. L'incorporazione degli obiettivi sociali nell'impresa comporta necessariamente un diverso approccio alla misurazione della performance: i modelli di Corporate Social Performance si sono occupati di ciò fin dagli anni Ottanta, evidenziando innanzitutto la pervasività della responsabilità sociale, che si può rappresentare e misurare a livello di principi, di processi e di risultati concreti. Il filone della Corporate Social Performance riesce pertanto a conciliare l'approccio di responsabilità sociale basato sui valori e quello che, più pragmaticamente, mette in luce l'esigenza per l'impresa di dotarsi di processi e di strumenti per gestirla in ottica strategica. Se principi, processi e risultati sono ugualmente rilevanti, allora l'impresa deve ricorrere a diversi strumenti, di volta in volta finalizzati a: valutare la coerenza dei principi di RSI con la mission e le strategie, esplicitare le fasi dei processi e le attività da porre in essere per implementare la RSI, misurare e rendicontare la performance sociale, ovvero il grado di attuazione delle politiche sociali nell'ambito delle relazioni con gli stakeholder. Le strategie sociali comprendono pertanto gli obiettivi relazionali dell'azienda con i suoi stakeholder, e la misurazione delle performance diviene i tal senso uno dei momenti del più ampio processo di pianificazione e controllo delle strategie stesse. Ecco allora che la letteratura di riferimento nell'ambito della Corporate Social Responsibility si intreccia con gli studi che si sono occupati di dare un contenuto alle strategie sociali d'impresa e di classificarle sulla base di molteplici aspetti, quali ad esempio il diverso grado di reattività dell'impresa alle sollecitazioni del suo ambiente di riferimento, le categorie di stakeholder a cui le strategie si rivolgono e la tipologia di scambi di cui si compone la relazione con essi, la tipologia di problematiche sociali da monitorare e il tipo di organizzazione aziendale che si dimostra più adatta a ciò, o, infine, le strategie di influenza che gli stakeholder possono porre in essere per ottenere soddisfazione delle loro attese nei confronti dell'impresa. Dopo aver ribadito la rilevanza strategica della RSI e aver espresso i possibili contenuti sociali incorporabili negli obiettivi dell'impresa, si è ritenuto di dover trattare le modalità e gli strumenti di implementazione delle strategie sociali stesse. Il secondo capitolo è pertanto dedicato all'analisi di alcuni strumenti proposti nell'ambito della responsabilità sociale d'impresa, organizzati secondo l'approccio teorico della Corporate Social Performance (CSP). Partendo dall'osservazione della varietà di modelli e strumenti di riferimento, si è ritenuto infatti di procedere con una proposta di tassonomia che vede distinti: dichiarazioni di principi e di valori; standard di processo per la gestione della RSI; standard di rendicontazione, sia in termini di processi che di contenuti. La tassonomia ricalca la tripartizione principi-processi-risultati che caratterizza la CSP e inoltre corrisponde a grandi linee ad altre proposte di classificazione degli strumenti di RSI recentemente formulate in dottrina. Le dichiarazioni di principi e di valori sono quei documenti, quali ad esempio il Global Compact ONU, le linee guida OCSE per le imprese multinazionali, le convenzioni ILO, che contengono alcuni principi fondamentali sul rispetto dei diritti umani, dell'ambiente, dei diritti dei lavoratori, sulla lotta alla corruzione - per citarne solo alcuni - a cui le imprese sono chiamate ad aderire. Tali dichiarazioni di principi, oltre alla valenza intrinseca di sensibilizzazione delle imprese e di promozione delle buone prassi, possono dare utili suggerimenti sulla costruzione di strumenti interni aziendali quali la carta dei valori o il codice etico, o sull'incorporazione di obiettivi sociali nella mission. Questi strumenti interni aziendali caratterizzano quel livello di implementazione della RSI che nel capitolo 4 è stato ripreso e definito come "strategico", proprio perché di competenza del vertice aziendale e finalizzato alla creazione e diffusione nell'azienda di un'autentica cultura della responsabilità sociale. La seconda categoria di strumenti accoglie invece i cosiddetti "standard di gestione", che sostanzialmente svolgono la medesima funzione dei sistemi di gestione della qualità: trattasi infatti di una serie di norme, anche di tipo organizzativo e procedurale, il cui rispetto può comportare per l'impresa un riconoscimento esterno, una sorta di certificazione di qualità sociale. Nell'ambito di tale categoria se ne sono presentati due in particolare: la norma SA 8000 e il modello Q-RES. La norma SA 8000 è sostanzialmente uno strumento mono-stakeholder, trattando esclusivamente del rapporto con i lavoratori dipendenti; di fatto, però, assume rilevanza per il meccanismo, in essa contenuto, di ottenimento della certificazione sociale, che richiede la definizione e implementazione di un sistema di gestione. Il sistema di gestione SA 8000 sottolinea la necessità per l'impresa di dotarsi di una politica della responsabilità sociale, di sistemi di pianificazione, implementazione e controllo della stessa, e di un adeguato piano di rilevazione e comunicazione delle attività sociali poste in essere. Il modello Q-RES stimola l'azienda a gestire la responsabilità sociale come un processo, che partendo dalla visione etica e passando attraverso alcuni strumenti di attuazione e controllo, giunge alla rendicontazione sociale e alla verifica esterna. I diversi strumenti di Q-RES si ricompongono nell'unitario processo, finalizzato al raggiungimento dell'eccellenza nella gestione della RSI. La considerazione della RSI come processo porta con sé anche la positiva conseguenza di far emergere il vero ruolo della rendicontazione sociale: il bilancio sociale non viene più visto pertanto come fine in sé, ma diviene un mezzo, uno strumento informativo sulla gestione aziendale e uno strumento di comunicazione con gli stakeholder. Tra i modelli che si occupano dei processi di rendicontazione, inseriti nella terza categoria di strumenti, spiccano il modello AA 1000 e il modello della Copenhagen Charter. Il modello AA 1000 esprime le fondamentali fasi di cui si compone il processo: pianificazione, rilevazione, controllo e rendicontazione; ciascuna fase è integrata nel più ampio contesto dei processi di gestione aziendale e si caratterizza per opportune modalità di coinvolgimento degli stakeholder, in termini di fissazione degli obiettivi, di raccolta delle informazioni e di espressione di un giudizio sui risultati aziendali e sulla qualità del reporting sociale. Il modello della Copenhagen Charter, invece, sottolinea la rilevanza strategica della rendicontazione sociale; un costante dialogo con gli stakeholder permette di accorciare i circuiti di risposta dell'azienda agli eventi esterni, senza attendere che tali accadimenti siano rilevati dagli strumenti contabili tradizionali, nel momento in cui determinano conseguenze in termini di risultati economico-finanziari. In quest'ottica, pertanto, i contenuti della rendicontazione sociale devono essere rivisti, per accogliere al loro interno la misurazione delle performance sociali; il controllo delle strategie sociali, infatti, richiede parametri ad hoc, utilizzabili sia per finalità interne di gestione, che per scopi di comunicazione e relazione con gli stakeholder. Nel panorama degli standard di contenuto della rendicontazione sociale non è tuttavia molto diffuso l'utilizzo di indicatori di performance: tra i pochi esempi in tal senso si sono riscontrati il modello GRI e il Social Statement del progetto CSR-SC del Ministero del Welfare italiano; in entrambi i casi è stato analizzato il contenuto del modello, soprattutto con riferimento agli indicatori sociali proposti. Ciascuna azienda può, evidentemente, ipotizzare una propria lista di indicatori rilevanti, sulla base delle caratteristiche specifiche dell'operatività aziendale e dei propri stakeholder; tuttavia, nell'ambito della rendicontazione sociale, si ritiene di dover ribadire l'importanza di un livello minimo di standardizzazione degli indicatori. In assenza di uniformità sulle denominazioni e sui contenuti degli indicatori, il report sociale fallisce il suo fondamentale scopo di permettere agli stakeholder di esprimere un giudizio effettivo sulla responsabilità sociale dell'impresa, non rendendo possibile il confronto delle sue performance nel tempo e nello spazio. La ricerca degli indicatori sociali si è pertanto spostata dagli standard di riferimento alla prassi di rendicontazione: nel terzo capitolo della tesi si sono riportati gli esiti di una ricerca empirica effettuata sui report sociali delle società quotate italiane. La finalità della ricerca è stata quella di presentare un'elencazione di possibili indicatori di performance sociale, attraverso la raccolta e sistematizzazione di tutti quelli riscontrati nei bilanci sociali e di sostenibilità analizzati. La ricerca dei bilanci sociali è stata effettuata su internet; sono stati visitati i siti di tutte le società quotate italiane (277 società al 1 dicembre 2005), dai quali si sono riscontrati solamente 32 casi di bilanci sociali e di sostenibilità . Dalla lettura dei bilanci è stato possibile estrapolare gli indicatori sociali utilizzati da ciascuna società nel report; con il termine di indicatori sociali si sono intese, in questa sede, tutte quelle informazioni quantitative (monetarie e non, espresse in numero e in percentuale) inserite nel report a complemento delle informazioni discorsive, anche sotto forma di tabelle e grafici. Nella fase successiva, gli indicatori raccolti per ciascuna società sono stati resi uniformi, quanto a denominazioni e contenuto, e sono stati inseriti in alcune tabelle di sintesi, dalle quali è stato possibile estrapolare la frequenza con cui tali indicatori sono presenti nei diversi bilanci analizzati. Nelle tabelle di sintesi gli indicatori sono stati organizzati sulla base delle categorie, corrispondenti ai diversi stakeholder di riferimento, e all'interno delle categorie sono stati suddivisi per aspetto, ovvero per tipologia di problematica sociale (ad esempio, nella categoria delle risorse umane, gli aspetti possono essere la formazione, la salute e sicurezza, la remunerazione ecc.). L'analisi empirica ha evidenziato lo scarso livello di standardizzazione che caratterizza la prassi di rendicontazione sociale in Italia; gli indicatori utilizzati dalle società quotate italiane sono moltissimi, ma spesso dietro a denominazioni diverse si nascondono identici contenuti o misurazioni di performance analoghe, che tuttavia difficilmente esprimono tutto il loro potenziale informativo, nel momento in cui non sono chiaramente comprensibili e soprattutto confrontabili. Il processo di omogeneizzazione degli indicatori è stato pertanto piuttosto laborioso, ma ha comunque portato all'ottenimento del prodotto atteso: un elenco di indicatori di performance sociale che si prestano non solo ad essere inseriti nella rendicontazione sociale, ma anche ad essere utilizzati come strumenti di misurazione e controllo della responsabilità sociale dell'impresa. Nel quarto capitolo sono state infatti riprese le problematiche di implementazione delle strategie sociali, non più dal solo punto di vista dei modelli e degli strumenti utilizzabili in tal senso dalle imprese, ma con specifico riferimento ai processi di pianificazione e controllo. Il processo di pianificazione e controllo della RSI parte dalla mission aziendale, attraverso l'inserimento in essa del fondamentale obiettivo di equilibrio relazionale con gli stakeholder. Dalla mission discendono le strategie sociali, che si possono scomporre in politiche sociali verso le diverse categorie di stakeholder (ad esempio, politica dei dividendi verso gli azionisti, politica di pari opportunità nei confronti del personale). Le politiche sociali a loro volta si declinano in obiettivi sociali specifici, il cui raggiungimento può essere misurato e monitorato attraverso opportuni parametri, ovvero indicatori di performance sociale. L'individuazione degli specifici obiettivi, ovvero degli aspetti rilevanti nella relazione dell'impresa con le diverse categorie di stakeholder, ha permesso di effettuare una scrematura degli indicatori di performance rilevati nel terzo capitolo, selezionando quelli che appaiono più significativi rispetto agli obiettivi posti. Tali indicatori sono stati inseriti nell'ambito di un sistema di misurazione delle performance, che a sua volta è scaturito dalla fusione di alcune proposte dottrinali nell'ambito della Corporate Social Performance e degli studi di pianificazione e controllo strategico. Il set di indicatori proposto, tuttavia, non ha alcuna pretesa di esaustività, né tanto meno di risoluzione della complessa problematica della misurazione delle performance sociali, ma ci permette di fare alcune osservazioni conclusive: nel momento in cui si riconosce la rilevanza strategica per l'impresa del rapporto con gli stakeholder, nasce l'esigenza di un processo di gestione consapevole della responsabilità sociale; tale processo deve necessariamente avvalersi di strumenti ad hoc, tra i quali spiccano in particolare gli strumenti relazionali quali il bilancio sociale e il bilancio di sostenibilità; poiché non si può gestire ciò che non si conosce, anche gli strumenti di misurazione e reporting interno devono focalizzarsi sugli oggetti specifici del rapporto impresa-stakeholder; infine, la responsabilità sociale deve pervadere tutta l'organizzazione, dai vertici fino ai livelli più operativi; questo significa che anche i sistemi di valutazione e incentivazione devono essere ripensati in termini di obiettivi sociali attribuibili alle funzioni aziendali e ai singoli manager. La misurazione delle performance sociali ai diversi livelli dell'organizzazione potrebbe in particolare suggerire la costruzione di una balanced scorecard sociale; si ritiene che la proposta di un set di indicatori possa essere un primo passo in questa direzione. Infine, con riferimento alla rendicontazione agli stakeholder, e quindi verso l'esterno dell'impresa, si ritiene che gli indicatori di performance possano arricchire gli standard di contenuto esistenti, contribuendo in tal senso a diffondere una cultura del bilancio sociale come strumento di vera comunicazione, non solo di pura immagine. ; The thesis deal with the implementation of corporate social responsibility in planning and control processes. After a review of the main theories concerning the corporate social responsibility and the social strategy of the firm, the social reporting process is treated, with reference to main international and national standards of sustainability management and reporting (e.g. GRI, GBS). The empirical research presented in chapter three is aimed at showing the large variety of social and environmental indicators used in social reporting by a sample of big Italian firms: the sample is formed by all Italian listed companies with a social, environmental or sustainability report published in their website. The last chapter contains the conclusion on the empirical research, and a proposal of management process in terms of social responsibility implementation; in particular an hypothetical set of performance indicators is presented as a mean to measure, report and control the social responsibility of firms.
La ricerca sviluppata nella tesi è finalizzata a valutare gli eventuali limiti alla discrezionalità del legislatore nell'adozione del sistema elettorale desumibili dall'art. 48 Cost. nella parte in cui prevede l'eguaglianza del voto. In particolare l'indagine riguarda gli effetti che tale precetto costituzionale può avere in tema di scelta del sistema elettorale in senso stretto, inteso quindi quale sistema di trasformazione dei voti in seggi. Dal punto di vista metodologico la prima questione che viene affrontata è quella di ricostruire, in chiave storico-dottrinale, il concetto della rappresentanza politica al fine di ricercare il collegamento tra la natura rappresentativa dell'Assemblea legislativa e le regole elettorali. Questa operazione, che parte dagli studi classici sulla rappresentanza politica, risulta utile per provare a tracciare un distinguo tra la concezione classica, di matrice liberale, della rappresentanza come mera preposizione alla carica del singolo parlamentare e la concezione della rappresentanza politica come rapporto, perdurante il corso della legislatura, tra rappresentati e rappresentanti. Il passaggio dalla fase liberale e l'idea dell'elezione come scelta dei migliori, alla fase democratica-costituzionale, infatti, permette di poter intravedere nella rappresentanza politica un istituto più complesso che contempli un rapporto reale tra elettori ed eletti. Per poter parlare di rapporto rappresentativo devono essere innanzitutto individuati quelli che sono i soggetti della rappresentanza politica e quale è il loro ruolo nella rappresentanza. Lo studio della rappresentanza democratica conduce a ritenere che i soggetti che hanno un ruolo nell'istituto indagato sono il rappresentante e l'elettore. Se così è, allora si deve dare un'interpretazione all'art. 67 Cost., laddove, prevedendo che il singolo parlamentare rappresenta la Nazione, sembra trascurare il ruolo dell'elettore. È proprio un'interpretazione letterale dell'art. 67 della nostra Carta costituzionale che ha permesso, ad una parte della dottrina, di sostenere che i rappresentanti devono agire in nome di un interesse generale che travalichi gli interessi degli elettori. Nell'elaborato si cerca di argomentare, a contrario, come l'art. 67 non abbia una portata tale da incidere sugli interessi che il rappresentante deve perseguire. Si giunge a tale conclusione poiché l'istituto parlamentare, più che luogo nel quale i rappresentati interpretano l'interesse generale, è da considerarsi il luogo di sintesi delle domande e delle pulsioni sociali, quindi il luogo in cui vi è la composizione di variegati interessi che si ritrovano all'interno della società che vengono graduati attraverso la discussione e il dibattito parlamentare. Se questo è il ruolo del Parlamento allora la funzione del rappresentante non può limitarsi ad essere quella di interpretare un'ipotetica volontà generale ma deve essere quella di interagire con il contesto sociale, in particolar modo con gli elettori che hanno determinato il ruolo di rappresentante in capo ad uno specifico soggetto. Nello stesso tempo, il ruolo dell'elettore non può essere circoscritto alla mera scelta del parlamentare, ma deve essere anche quello di un soggetto che può influenzare la decisione politica in un rapporto dinamico con il rappresentante (PITKIN 1967). In questo modo è la concezione generale della democrazia che muta, in particolare rispetto al periodo liberale, e viene a qualificarsi non come statico governo sul popolo ma come un complesso processo politico nel quale il popolo è parte attiva anche oltre la mera approvazione elettorale (URBINATI 2006). Se la rappresentanza politica può essere così ricostruita dal punto di vista teorico, per avere un'applicazione concreta di questa dinamica tra i rappresentati e i rappresentanti, il ruolo del sistema elettorale deve essere quello di garantire che tale rapporto tra i due soggetti della rappresentanza possa effettivamente attuarsi. Lo studio del sistema elettorale deve tenere in considerazione questo modello di rappresentanza politica, che sarà il fil rouge per valutare quali sono i sistemi elettorali in grado di produrre un Parlamento che rispetti i canoni della rappresentanza democratica. Solo dopo aver svolto una ricostruzione del moderno concetto di rappresentanza politica, vi è la possibilità di collegare la stessa all'eguaglianza del voto, sancita dall'art. 48 della Costituzione nel più generale principio di eguaglianza tra i consociati. Per permettere un'adeguata analisi si è deciso di suddividere lo studio sostanzialmente in due momenti distinti, che caratterizzano il complicato rapporto sistema elettorale-rappresentanza-eguaglianza del voto, ovverosia il collegio elettorale e la formula elettorale. Nella prima parte si analizzano le conseguenze che il principio di eguaglianza ha sulla libertà del legislatore di determinare i confini dei collegi elettorali. Tale studio si è reso necessario poiché si è cercato di mettere in luce che il collegio elettorale è il luogo "naturale" di formazione del rapporto rappresentativo, poiché spazio territoriale dove i partiti politici presentano i propri candidati e dove si instaura quel circuito rappresentativo, fra rappresentanti e rappresentati, di cui si faceva riferimento durante la trattazione teorica del concetto della rappresentanza politica. Questo presupposto nasce dalla circostanza che se la rappresentanza è un rapporto politico tra soggetti (rappresentante e rappresentato), tale rapporto non può che non essere individuato all'interno del luogo dove formalmente e sostanzialmente gli elettori scelgono i propri rappresentanti. Si cerca quindi di argomentare che il luogo in cui si instaura e si alimenta il rapporto rappresentativo tra eletti ed elettori è proprio il collegio elettorale. Nell'elaborato si individuano, inoltre, le conseguenze che il principio d'eguaglianza del voto ha in merito alla suddivisione del territorio nazionale. Attraverso un approfondimento della giurisprudenza e della dottrina di alcuni ordinamenti stranieri, in particolare degli Stati Uniti e del Regno Unito, una delle prime conseguenze messe in luce è quella per cui i collegi elettorali devono essere strutturati in modo tale da garantire l'eguaglianza tra gli elettori situatati in collegi diversi, affinché tutti gli elettori siano posti nella condizione di poter egualmente partecipare alla formazione dell'Assemblea rappresentativa. Nel lavoro di tesi si prova ad argomentare che per garantire tale eguaglianza i collegi elettorali, quando eleggono un solo rappresentante, devono essere individuati e delimitati su basi essenzialmente demografiche affinché la consistenza della popolazione (o degli elettori) all'interno dei collegi sia quanto più omogenea (si veda p. es. la sentenza della Supreme Court degli Stati Uniti U.S. 725 (1983)). Diversamente, quanto il sistema elettorale adottato è un sistema plurinominale non è necessario che i collegi siano demograficamente identici. In questi casi è però indispensabile, come indicato dallo stesso Testo costituzionale all'art. 56, che pur nella diversità della composizione demografica la distribuzione dei seggi avvenga in modo proporzionale alla suddetta consistenza demografica, affinché, anche in questo caso, non vi sia una irragionevole distinzione tra elettori posti in collegi elettori diversi. In secondo luogo, si cerca di analizzare l'effetto che l'applicazione della formula elettorale può avere, legittimamente o meno, sulla distribuzione territoriale della rappresentanza. A tal proposito si cerca di mettere in luce che i c.d. sistemi elettorali multilivello – sistemi nei quali i voti vengono trasformati in seggi ad un livello territoriale diverso rispetto al collegio elettorale – sono legislazioni elettorali che non permettono la realizzazione del principio d'eguaglianza così considerato. In questi sistemi, infatti, alla conclusione dell'iter elettorale vi è la possibilità che l'allocazione dei seggi avvenga in misura diversa rispetto al numero di seggi che il collegio elettorale avrebbe diritto in base alla consistenza demografica. Attraverso un'analisi empirica si cerca di documentare che in questi sistemi elettorali l'eguaglianza tra gli elettori posti in collegi elettorali diversi rischia di non essere garantita, poiché all'assegnazione finale dei seggi, vi saranno elettori che saranno sovra o sotto rappresentati rispetto ad altri elettori di altri collegi elettorali. Il secondo collegamento tra legislazione elettorale e eguaglianza del voto che si cerca di sviluppare nell'elaborato è inerente al concreto sistema di trasformazione dei voti in seggi. Sul tema, si cerca di dimostrare che la dottrina dominante – sia prima che dopo le sentenze della Corte costituzionale in tema di premio di maggioranza – volta ad interpretare l'eguaglianza del voto come mera eguaglianza in entrata (quindi esclusione di voto plurimo e voto multiplo), sia la dottrina minoritaria, che invece ha incluso il principio di eguaglianza del voto "in uscita" tra i principi costituzionali, sono accomunate da una costruzione teorica dell'eguaglianza fondata sul principio proporzionale. In questo senso, infatti, la dottrina, indipendentemente dal considerare il principio d'eguaglianza del voto "in uscita" un precetto costituzionale, ha tendenzialmente sostenuto che l'eguaglianza del voto in questa accezione comporti l'adozione di un sistema elettorale proporzionale. Anche la giurisprudenza costituzionale sembrerebbe essere dello stesso avviso. Nelle due sentenze riguardanti il premio di maggioranza per l'elezione delle Assemblee rappresentative nazionali, la Corte sembra avere considerato l'eguaglianza del voto "in uscita" quale sinonimo di proporzionalità nazionale. La Corte, infatti, ha ritenuto illegittimo il premio di maggioranza senza una soglia poiché posto all'interno di un sistema proporzionale nel quale il voto "in uscita" non può essere eccessivamente distorto. La Corte sembra aver posto alla base delle proprie argomentazioni la quantità della distorsione del voto prodotta dal sistema elettorale. A confermare tale lettura della giurisprudenza soccorre la stessa Corte Costituzionale che nella sentenza n. 1 del 2014 ha richiamato il Tribunale federale tedesco, che da anni ritiene che il principio d'eguaglianza in senso sostanziale sia un principio che limita il legislatore solo qualora decida di adottare il sistema elettorale proporzionale. Se tali premesse sono vere, però, il rischio è quello che il principio d'eguaglianza "in uscita" sia un principio alquanto sfumato che limita la discrezionalità del legislatore solo qualora lo stesso decida di adottare il sistema elettorale proporzionale, non essendo, quindi, un precetto costituzionale che limita in via generale la discrezionalità del legislatore. Allo stesso modo, anche la dottrina, ancor prima delle sentenze della Corte, ragionando sulla distorsione del voto prodotta dai sistemi elettorali, ha cercato di motivare la legittimità costituzionale proprio del premio di maggioranza comparando tra loro sistemi elettorali di diversa natura (vuoi proporzionali, maggioritari o misti), concludendo che se un grado di disproporzionalità che si produce a livello nazionale in un dato sistema elettorale è da considerarsi costituzionalmente legittimo, di conseguenza deve esserlo anche negli altri. Una medesima impostazione teorica del problema viene portata avanti anche da chi, pur contrario al sistema elettorale con premio di maggioranza, utilizza il parametro della disproporzionalità per giungere a sollevare dubbi di legittimità costituzionale nel classico sistema uninominale first past the post, accusato di falsare la rappresentanza poiché in grado di assegnare ad una forza politica più seggi di quanti ne avrebbe ottenuti con un riparto proporzionale. Queste indagini, indipendentemente dalle conclusioni alle quali giungono, sembrano prendere le mosse esclusivamente dal grado di disproporzionalità nazionale prodotto da un certo sistema elettorale, accentuando oltremodo la quantità della distorsione del voto, senza prendere in considerazione le differenze strutturali del sistema elettorale di partenza. Sembrerebbe che la questione, anche relativa all'eguaglianza del voto, possa risolversi valutando quanto possa essere ragionevolmente disproporzionale un sistema elettorale. Per quel che riguarda una risposta a questo interrogativo, perlomeno in tema di sistema elettorale con premio di maggioranza, è stata fornita dalla Corte costituzionale che ha rigettato la questione di legittimità riguardante il premio di maggioranza con soglia al 40% previsto dalla legge n. 52 del 2015, ritenuto non irragionevolmente distorsivo della rappresentatività e dell'eguaglianza del voto. Come ha sottolineato attenta dottrina, però, muoversi esclusivamente indagando la ragionevolezza della distorsione del voto potrebbe però risultare infruttuoso, poiché valutare unicamente in base al metro della ragionevolezza rischia di non produrre un dato certo, che sia in grado di stabilire fin dove una soluzione possa spingersi per rimanere nell'ambito della legittimità costituzionale. Per permette di dare un significato pieno al precetto costituzionale dell'eguaglianza del voto, che non sia cedevole e non si "atteggi" diversamente sulla base del sistema elettorale prescelto dal legislatore, nell'elaborato si prova ad argomentare una diversa interpretazione del principio di uguaglianza "in uscita", a partire proprio dalla valorizzazione delle diversità strutturali che stanno alla base dei vari sistemi elettorali. La prima questione che viene affrontata è relativa alla determinazione del contenuto del principio d'eguaglianza "in uscita" o comunque di un principio costituzionale che non sia meramente il divieto di voto plurimo o multiplo. Come autorevole dottrina ha sostenuto, il principio di eguaglianza implicherebbe che il sistema elettorale adottato dal legislatore deve trattare tutti i voti aritmeticamente con le stesse modalità. Per valutare la portata normativa del principio contenuto all'art. 48 della Costituzione, e per riflettere sulla base di un iter argomentativo diverso, si cerca di verificare, sempre partendo da una concezione di rappresentanza politica che implichi un rapporto tra eletti ed elettori, se è possibile sostenere che l'eguaglianza del voto anche "in uscita" può essere valutata esclusivamente all'interno della ripartizione territoriale nella quale si forma il rapporto rappresentativo. Si prova quindi ad argomentare che la portata del principio d'eguaglianza dovrebbe essere valutata all'interno di queste ripartizioni territoriali, sicché il voto di un elettore dovrebbe poter essere uguale, anche come valenza effettiva, esclusivamente rispetto al voto degli elettori del suo stesso medesimo collegio elettorale. Nell'elaborato si cerca quindi di dimostrare che l'eguaglianza del voto "in uscita" non è tanto un'eguaglianza della valenza di ogni singolo voto di tutti gli elettori astrattamente considerati ma è l'eguaglianza dei suffragi tra soggetti che si trovano nella medesima situazione giuridica soggettiva, che è, in questo caso, quella di essere inseriti in un determinato collegio elettorale. Da queste premesse, si cerca di sostenere che volendo comparare la distorsione del voto che viene prodotta complessivamente (rectius nazionalmente) da un sistema elettorale, intesa come difformità tra voti nazionalmente ottenuti da una forza politica e seggi parlamentari complessivi conseguiti dalla stessa, lo si potrebbe fare solo laddove il sistema elettorale prevedesse espressamente l'elezione in un collegio unico nazionale. Provando a ragionare a partire dal collegio elettorale, viceversa, si cerca di dimostrare che sia proprio all'interno di quella articolazione territoriale che deve essere valutata l'eventuale distorsione del voto e l'eguaglianza tra gli elettori. Analizzando in questo modo i sistemi elettorali si cerca inoltre di superare lo storico dualismo tra sistemi maggioritari e sistemi proporzionali per riflettere, più che sulla formula elettorale, sul luogo nel quale si "forma" la rappresentanza politica. Dallo studio della rappresentanza all'interno di un determinato ambito territoriale, e non a livello nazionale, i risultati ai quali si cerca di giungere circa la distorsione del voto sono tali da far ritenere che, ad esempio, il sistema elettorale maggioritario, pur comportando eventualmente una grande distorsione del voto a livello nazionale, non implichi di per sé il venir meno della rappresentanza politica dei cittadini né comporti una limitazione dell'eguaglianza tra gli elettori situati in un determinato collegio elettorale. In questo modo, si prova a verificare se è sostenibile la tesi per la quale i voti degli elettori devono essere eguali non solo nel momento in cui vengono espressi ma anche nel momento in cui vengono "contati" per essere trasformati in seggi, senza che da tale principio si debba necessariamente concludere, come riteneva Lavagna, una costituzionalizzazione del sistema elettorale proporzionale. Successivamente si provano a mettere in relazione i risultati della trattazione teorica con la concretezza dei sistemi elettorali, al fine di provare a concludere che il principale sistema elettorale che non garantisce un'eguaglianza del voto (così come precedentemente ricostruita) è il sistema elettorale con premio di maggioranza (di qualsiasi natura) indipendentemente dalla quantità del premio assegnato alle forze politiche. Viceversa, si cerca di argomentare che sia sistemi maggioritari uninominali sia i sistemi elettorali proporzionali (ancorché eventualmente molto razionalizzati per la presenza di collegi elettorali che eleggono un numero esiguo di rappresentanti) sono pienamente compatibili con il principio di eguaglianza. A tal proposito, viene posto in evidenza che in un sistema proporzionale l'eguaglianza del voto starebbe ad esprimere che all'interno della circoscrizione plurinominale debba esserci un quoziente elettore, uguale per tutte le forze politiche, raggiunto il quale vi è l'attribuzione di un seggio. Viceversa, l'eguaglianza del voto così interpretata, non permetterebbe di riconoscere la legittimità costituzionale di quei sistemi con premio di maggioranza nei quali il voto dell'elettore può produrre una quantità di eletti superiore a quello degli altri elettori, tramite l'utilizzo di quozienti elettorali diversi tra il partito vincitore della competizione elettorale e le forze politiche "perdenti". In sostanza si cerca di mettere in luce che la limitazione principale per il legislatore che discende dall'eguaglianza del voto ex art. 48 Cost., oltre quella di poter ricorrere al sistema elettorale maggioritario di lista, è l'adozione dei sistemi elettorali con premio di maggioranza che, indipendentemente dalla quantità del premio di maggioranza assegnato, non "pesano" egualmente i voti degli elettori all'interno del collegio elettorale, sia quando esso è il "luogo" nel quale i voti vengono trasformati in seggi, sia quando questa trasformazione avviene e livello nazionale. L'ultima questione che viene trattata riguarda l'esistenza di principi o obiettivi costituzionali che possono essere bilanciati con il principio costituzionale dell'eguaglianza del voto al fine di limitarne, ancorché relativamente, la portata. A tal proposito si cerca di porre l'accento sul bilanciamento offerto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014 e nella sentenza n. 35 del 2017 tra eguaglianza del voto e stabilità del Governo all'interno di una forma di governo parlamentare. Partendo proprio dalla ragionevolezza nell'equilibrio tra stabilità e rappresentanza (unita, quest'ultima, alla rappresentatività e all'eguaglianza del voto), la Corte costituzionale sembra aver fondato le proprie decisioni basandosi sul grado di "compressione" ragionevole della rappresentatività e dell'eguaglianza. Dagli studi inerenti la rappresentanza, la legislazione elettorale e l'eguaglianza del voto si prova a proporre un diverso approccio per affrontare la questione, a partire dal mettere in dubbio l'individuazione della stabilità del Governo come obiettivo costituzionalmente apprezzabile e, pertanto, non bilanciabile con i principi costituzionali della rappresentanza politica delle Assemblee legislative e dell'uguaglianza del voto. Percorrere questa strada argomentativa non significa sostenere però che la stabilità dell'Esecutivo debba essere stigmatizzata e vista in un necessario dualismo con la rappresentanza politica, come se la stabilità possa essere raggiunta solamente attraverso una deminutio della rappresentanza all'interno dell'Assemblea parlamentare. La stabilità può essere infatti favorita, oltre che da una razionalizzazione delle regole che stanno alla base della forma di governo parlamentare, tramite l'adozione di quei sistemi elettorali (si pensi al classico sistema elettorale maggioritario) che pur non minando il campo dalla rappresentanza politica e dell'eguaglianza hanno lo scopo di influenzare i processi politici in modo da aumentare le probabilità che vengano a formarsi maggioranze parlamentari stabili. Questo starebbe a comprovare che esistono sistemi elettorali in grado di favorire la stabilità governativa pur restando sistemi elettorali con i quali gli elettori sono in grado di eleggere un Parlamento pienamente rappresentativo. Anche questi sistemi non sono però in grado di produrre ex-lege, come con il premio di maggioranza nell'esperienza italiana, un Governo "monocolore". Vi sono infatti casi in cui l'elevata frammentazione sociale produce un'elevata frammentazione parlamentare anche nei sistemi elettorali molto razionalizzati. L'esistenza di sistemi elettorali che pur favorendo la stabilità non incidono sulla rappresentanza politica, starebbe a dimostrare che la dicotomia tra rappresentanza e stabilità, che la Corte costituzionale (così come parte della dottrina) sembra riconoscere, è solo presunta. Da ultimo l'analisi dell'equilibrio tra stabilità e rappresentanza è inerente alla forma di governo. L'approfondimento si rende necessario nel momento in cui la Corte costituzionale ha sostenuto in due sentenze, una riguardante il sistema elettorale per l'elezione dei Consigli comunali e l'altra i Consigli regionali, che lo stesso meccanismo (il premio di maggioranza senza soglia), dichiarato illegittimo in una forma di governo parlamentare, possa essere ritenuto costituzionalmente ammissibile nella forma di governo adottata da comuni e regioni, poiché, a detta della Corte, si tratta di forme di governo che necessitano di una maggiore stabilità dell'Esecutivo, tale da poter comprimere la rappresentanza dell'Assemblea anche oltre a quanto consentito dalla Costituzione nella forma parlamentare di governo. In questo caso, l'interrogativo di fondo è quello di stabilire se una data forma di governo sia in grado di legittimare delle regole elettorali che sarebbero da considerarsi illegittime laddove vi siano delle diverse regole costituzionali che dominano il rapporto tra Assemblea rappresentativa e organo Esecutivo.
ABSTRACT Il concetto di "Appropriatezza" è stato introdotto nel contesto normativo italiano a seguito della Raccomandazione n° 17/1997 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli Stati membri, "sullo sviluppo e l'attivazione dei sistemi di miglioramento della qualità dell'assistenza sanitaria", in cui l'appropriatezza delle cure viene indicata come una delle componenti fondamentali; infatti, la Legge 449/1997, immediatamente successiva, inserisce l'appropriatezza fra i profili da considerare nell'ambito del monitoraggio dell'attività ospedaliera. Successivamente, il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 introduce la distinzione fra "Appropriatezza clinica" e "Appropriatezza organizzativa": come noto, la prima si riferisce all'erogazione di cure mediche ed interventi di comprovata efficacia in contesti caratterizzati da un profilo beneficio-rischio favorevole per il paziente, mentre la seconda concerne la scelta delle modalità di erogazione più idonee ai fini di massimizzare la sicurezza ed il benessere del paziente e di ottimizzare l'efficienza produttiva ed il consumo di risorse. A seguire il recente D.M. 10/12/2009 in materia di controlli sulle cartelle cliniche , specifica modalità di controllo delle cartelle cliniche finalizzandolo alla verifica della appropriatezza . Non ultimo Il Patto per la Salute 2010-2012, nel ribadire la necessità di perseguire l'efficienza, la qualità e l'appropriatezza dell'Assistenza Sanitaria, anche ai fini del raggiungimento dell'equilibrio economico, introduce un ampio set di indicatori, fra cui alcuni specificamente destinati al monitoraggio dell'appropriatezza organizzativa aggiornando inoltre la lista di DRG ad alto rischio di inappropriatezza se erogati in regime di ricovero ordinario. Nel sistema organizzativo sanitario attuale sono identificati indicatori di inappropriatezza organizzativa: - Degenza media preoperatoria L'indicatore viene calcolato come rapporto fra il totale delle giornate intercorse tra la data di ricovero e la data di intervento ed il totale dei dimessi. - Percentuale interventi per frattura del femore effettuati entro due giorni L'indicatore viene calcolato come rapporto percentuale fra il numero di dimessi con diagnosi principale di frattura del femore che abbiano subito l'intervento entro due giorni dal ricovero ed il totale dei dimessi con diagnosi principale di frattura del femore. - Percentuale di dimessi da reparti chirurgici con DRG medici L'indicatore viene calcolato come rapporto percentuale fra i dimessi da reparti chirurgici cui sia stato attribuito un DRG medico ed il totale dei dimessi da reparti chirurgici. - Percentuale di ricoveri con DRG chirurgico sul totale dei ricoveri (RO + DH) L'indicatore viene calcolato come rapporto percentuale fra i dimessi con DRG chirurgico ed il totale dei dimessi. - Percentuale di ricoveri ordinari con DRG ad alto rischio di inappropriatezza L'indicatore viene calcolato come rapporto percentuale fra il numero di ricoveri in regime ordinario e DRG a rischio in appropriatezza ed il totale dei ricoveri con DRG a rischio inappropriatezza. - Percentuale di ricoveri in DH medico a carattere diagnostico sul totale dei ricoveri in DH medico L'indicatore è calcolato come rapporto percentuale tra il numero di ricoveri in DH medico a carattere diagnostico e il totale dei ricoveri in DH medico. - Percentuale di ricoveri ordinari medici brevi (0-2gg) sul totale dei ricoveri ordinari medici L'indicatore è calcolato come rapporto percentuale fra il numero di ricoveri ordinari con DRG medico e durata della degenza minore o uguale a due giorni ed il totale dei ricoveri ordinari con DRG medico. - Percentuale di ricoveri ordinari medici oltre soglia sul totale dei ricoveri ordinari medici di pazienti con età maggiore o uguale a 65 anni L'indicatore è calcolato come rapporto percentuale fra il numero di ricoveri ordinari con DRG medico e durata della degenza superiore alla soglia specifica del DRG di afferenza ed il totale dei ricoveri ordinari con DRG medico di pazienti con età maggiore o uguale a 65 anni. I valori medi Regionali costituiscono gli standard di riferimento ( G.U. 05.01.2010). Al di là di quanto istituzionalmente disponibile e condiviso sull'argomento , la riflessione piu' importante è che la appropriatezza organizzativa non è spesso sostenuta dalla appropriatezza della offerta , inoltre la stessa viene spesso vissuta come un ripiego e non come una opportunità , come un imperativo per la riduzione dei costi e non come un decisione logica e corretta nella presa in carico del paziente ed a tutela della salute del cittadino e della comunità. Proprio sulla inappropriatezza della offerta è necessario soffermarsi per delineare alcune criticità: - gli ospedali sono luoghi di cura culturalmente e strutturalmente preposti al trattamento del paziente in degenza, diversi setting assistenziali che richiedono numerosi accessi per brevi prestazioni devono essere espletati in strutture sanitarie dedicate con appropriati percorsi strutturali ed organizzativi; - prestazioni brevi in piu' accessi rappresentano spesso un disagio per l'utente soprattutto se trattasi di persone anziane o con autonomia ridotta; - il personale addetto alla assistenza ( ormai non piu' giovane poiché la media anagrafica degli operatori sanitari sì è alzata in assenza di turn over e concorsi) è spesso impreparato alla gestione dei pazienti in modalità diversa dal ricovero ordinario , valutando , incautamente , day surgery , day hospital e PAC diversi dal ricovero ordinario solo per il tempo di permanenza in ospedale ( sottovalutando qualunque altro aspetto). Qualunque sia il setting assistenziale , gli aspetti gestionali - organizzativi, i percorsi diagnostico terapeutici , modalità di comunicazione con l'utenza devono essere chiari , sicuri ed efficaci indipendentemente dalla complessità assistenziale. Non si puo' quindi prescindere dalla esigenza di scegliere sistemi qualità idonei al contesto secondo standard internazionali , ricordando che lo Stato Italiano ha imposto alle organizzazioni sanitarie i sistemi qualità attraverso i Requisiti organizzativi per l'Accreditamento Istituzionale , diversificati per Regione ma sempre ispirati a Sistemi Qualità. Negli ultimi anni si è andata sempre più diffondendo, a livello internazionale e anche in Italia, la consapevolezza che la gestione e l'organizzazione dei servizi sanitari debbano avere tra i principi fondamentali la garanzia e la promozione della qualità e la sicurezza dei servizi sanitari e delle cure erogate. Se inizialmente il concetto di qualità e la sua applicazione si scontrava con la convinzione " la qualità costa ", oggi il SSN si sforza di appropriare le prestazioni sempre piu' rispetto alle richieste dell'utenza , ai bisogni di salute , alle risorse sempre piu' esigue e secondo una programmazione a lungo termine , affinchè gli investimenti siano ammortizzabili nel tempo. Si è quindi modificata la idea di qualità e si è adeguata al contesto sociosanitario della nostra Nazione . Lo dimostrano anche le diverse normative sull'accreditamento istituzionale che sebbene orientate dal Dlvo Decreto Legislativo n° 502 del 1992 e s.m.i e il 517 del 1993 , nelle diverse Regioni di Italia hanno cercato di rendersi operative mediante leggi regionali operative in diversi tempi , in diversa modalità , proprio perché diversa è l'utenza da regione a regione , così come diversa è la maturità e la sensibilità dei professionisti su questo argomento. "Dal controllo qualità alla assicurazione qualità" , proprio per sottolineare il ruolo di garanzia che è affidato ad un sistema qualità e per sensibilizzare ad una cultura adocratica ove posto l'obiettivo , tutto il controllo di processo è monitorato, ove la prevenzione dell'evento avverso è centrale così come centrale è il ruolo dell'appropriatezza clinica ed organizzativa : un sistema organizzativo dinamico ed aperto , in continua autovalutazione e correzione . E' pur vero che se le aziende private e di produzione beni , si rendono maggiormente competitive mediante la implementazione di un sistema qualità e si propongono sul mercato come fornitori in grado di soddisfare meglio il cliente , il mondo sanitario , piu' complesso e multidisciplinare , valuta ancora con diffidenza questo approccio gestionale e strategico per differenziarsi sul mercato dell'offerta di servizi di prevenzione , cura e riabilitazione. Anche su questo argomento alcune regioni sono convinte da tempo , altre stentano a maturarne la applicazione , sebbene le normative ormai spingano in tal senso. Resta comunque indiscusso che la realizzazione della qualità, come piena e sostanziale capacità di soddisfazione di bisogni, è un obiettivo "strategico", da perseguire tramite due strumenti essenziali, complementari e sinergici: - L'ottimizzazione dei prodotti e processi, fondata sulla ricerca, innovazione e sviluppo tecnologico. - L'adeguata gestione e tenuta sotto controllo di tutte le attività (tecniche, commerciali, amministrative, ecc.) connesse con la produzione di beni e servizi. Il sistema sanitario italiano è un contesto altamente poliedrico e dinamico, caratterizzato da una complessità strutturale, organizzativa e tecnologica molto alta. Perseguire ottimizzazione dei processi ed adeguato controllo dei processi è davvero impresa complessa : le tecniche gestionali attualmente impiegate in questo settore permettono solo in parte di adottare soluzioni gestionali in grado di raggiungere gli obiettivi aziendali di efficienza, efficacia ed economicità, e solo a seguito della loro effettiva implementazione, e successiva valutazione. Questa condizione espone i manager delle strutture sanitarie al rischio di prendere decisioni che, a dispetto della bontà del progetto, sono esposte al verificarsi di problemi, lacune ed inefficienze in fase di attuazione tali da minarne l'efficacia. Inoltre vi è il rischio, a seguito dell'adozione di soluzioni gestionali errate, di impiegare in maniera poco corretta le risorse economiche eventualmente disponibili. Simulare vuol dire riprodurre nella maniera più accurata possibile il funzionamento di un sistema, o di una parte di esso, al fine di studiarne le risposte al cambiamento dell'ambiente esterno, attraverso l'analisi di indicatori prestazionali opportunamente scelti, chiamati "key performance indicators" (KPI). Inoltre la simulazione può essere considerata un utile strumento per studiare i modelli organizzativi di sistemi reali, al fine di analizzarne e prevederne il comportamento e quindi studiarne l'evoluzione in funzione di determinate specifiche, con una semplicità ed un'interattività non possibile operando direttamente sul sistema reale. L'approccio combinato della simulazione ad eventi discreti (DES) e delle metodiche del business process management (BPM) consente di valutare soluzioni operative alternative a quelle attualmente impiegate, valutandone le conseguenze in termini di prestazioni del sistema (sulla base dei parametri scelti) prima di realizzarle, decidendo poi se attuarle nella realtà oppure cercarne di nuove .Il tutto va inserito nella più generale ottica di un raggiungimento di un maggiore risparmio in termini di tempo e soldi, rendendo inoltre possibile la valutazione ex-ante di più soluzioni manageriali, al fine di individuare e verificare la migliore in accordo con gli obiettivi aziendali e di gestione delle risorse. OBIETTIVO DELLA TESI La tesi costituisce l'elaborato finale relativo a tre anni di studio e ricerca e vuole descrivere la metodologia utilizzata , le attività svolte, i risultati ottenuti. La attività di ricerca si è svolta su tre prevalenti indirizzi: a) Start up di un sistema qualità nella u.o. di Chirurgia Generale e Mininvasiva della Azienda Policlinico Federico II° di Napoli secondo Standard Internazionale UNI EN ISO 9001 / 2008 e Regolamento 01/2007- Decreto Commissario ad Acta 124/2012 b) Confronto della appropriatezza organizzativa della u.o rispetto al contesto aziendale , rispetto ad altre strutture sanitarie , e la appropriatezza Aziendale rispetto alla appropriatezza di altre organizzazioni sanitarie, attraverso n° 7 DRG chirurgici e monitoraggio di specifici indicatori c) Creazione di un modello di simulazione delle attività svolte dalla u.o. per profilo assistenziale al fine di avere un supporto conoscitivo per la appropriatezza e uno strumento operativo per l'efficienza . METODOLOGIA Start up di un sistema qualità nella u.o. di Chirurgia Generale e Mininvasiva della Azienda Policlinico Federico II° di Napoli secondo Standard Internazionale UNI EN ISO 9001 / 2008 e Regolamento 01/2007- Decreto Commissario ad Acta 124/2012 a1.) iniziale inquadramento quadro Normativo di riferimento, la ISO 9001:2008 e i requisiti strutturali , tecnologici ed organizzativi richiesti dalla normativa sull'accreditamento della Regione Campania . A tal fine si è creata una " tabella di conversione " che dettaglia esattamente la scheda BURC n. 67 del 22 Ottobre 2012 - SCHEDA SRIC 4 - DEGENZA , annotando i punti in comune e di corrispondenza della UNI EN ISO 9001/2008 e i riferimenti procedurali e documentali della Unità Operativa presenti o da creare . a.2) una seconda parte che fa un attenta analisi delle attività svolte dalla unità operativa , flussi di lavoro , risorse coinvolte . A tal fine si assimila la u.o. in oggetto alla u.o. generica di " chirurgia generale ", oggetto di studio ancora in corso di validazione sui modelli ospedalieri chirurgici che schematicamente riassume i principali processi legati alla degenza in u.o. di tipo chirurgico. a) Figura 1 – Diagramma delle attività di unità operativa chirurgica a.3) una terza parte che alla luce degli obiettivi organizzativi, strutturali e tecnologici, ha delineato le priorità di intervento per la implementazione del sistema qualità e dei requisiti organizzativi dell'accreditamento al SSN, con una analisi che sottolineasse punti di forza, le opportunità e i benefici attesi dal progetto per la vita futura della unità operativa ; a.4) una quarta fase che ha identificato le "attività di programmazione di correzione " si è basata sulla redazione e condivisione di alcune procedure organizzative e strumenti operativi e di monitoraggio. I processi di : 1. redazione e gestione della cartella clinica 2. compilazione e gestione di documentazione infermieristica 3. somministrazione e gestione intra reparto dei presidi farmacologici ; 4. monitoraggio e valutazione dell'appropriatezza organizzativa della u.o. sono risultati critici per importanza , frequenza ed anomalie rilevate ; questi processi sono stati analizzati , presi in carico e ridisegnati attraverso procedure operative e strumenti di controllo. b) Studio di n° 7 DRG chirurgici al fine di valutare in due diverse realtà la appropriatezza organizzativa dei casi trattati ". Lo studio è stato effettuato su i seguenti DRG chirurgici - DRG 290 – Interventi sulla tiroide; - DRG 494 – Colecistectomia laparoscopica senza esplorazione del dotto biliare comune senza cc; - DRG 493- Colecistectomia laparoscopica senza esplorazione del dotto biliare comune con cc; - DRG 161 Interventi per ernia inguinale e femorale età > 17 anni con cc; - DRG 162 Interventi per ernia inguinale e femorale età > 17 anni senza cc; - DRG 149 – Interventi maggiori su intestino crasso e tenue senza CC ; - DRG 570 - Interventi maggiori su intestino crasso e tenue con CC senza diagnosi; di questi DRg sono stati monitorati negli ultimi tre anni indicatori di appropriatezza organizzativa al fine di confrontare la u.o. in studio con la globalità aziendale e confrontare due realtà aziendali sanitarie diverse a mission( policlinico universitario e ospedale presidio di zona). c) Creazione di un modello di simulazione delle attività svolte dalla u.o. per profilo assistenziale al fine di avere un supporto conoscitivo per la appropriatezza e uno strumento operativo per l'efficienza . Tale attività di ricerca ha visto un team multidisciplinare attivo nella applicazione di Work Flow Management e Simulazione ad Eventi Discreti che ha applicato tali metodologie di BPM al DRG 290. CONCLUSIONI e PROSPETTIVE Dal percorso di studio e ricerca si evincono tre conclusioni: - Il progetto sulla Unita' operativa di Chirurgia Generale e Mininvasiva di avviare un sistema qualità secondo lo Standard UNI EN ISO 9001e Regolamento 01/2007- Decreto Commissario ad Acta 124/2012 ha consentito di dotare la U.O di una nuova modalità di gestione della cartella clinica cartacea ( è in sperimentazione aziendale la modalità informatizzata) , documentazione infermieristica e somministrazione e gestione di terapie farmacologiche , utili alla riduzione di rischi di errore di compilazione cartella e documentazione allegata inclusa la infermieristica , nonché riduzione di errori nella gestione e somministrazione delle terapie farmacologiche. - Lo studio degli indicatori legati alla appropriatezza organizzativa sui sette DRG scelti ci consente di concludere che la Azienda Policlinico Federico II di Napoli ha in corso un percorso di miglioramento attivo e costante: la sua valutazione globale consente di confermare all'Azienda i requisiti di appropriatezza organizzativa che sostengono poi i finanziamenti pubblici aziendali; l'analisi piu' interessante non è nella sua globalità ma nella scansione di ogni unità operativa che concorre al risultato globale . In questo contesto la U.O. di Chirurgia Generale e Mininvasiva della Azienda Policlinico Federico II di Napoli ha creato un sua identità rispettosa dei principi di appropriatezza organizzativa aziendale mantenendo i suoi standard all'interno dei valori medi aziendali , spesso anche migliorandoli ( e questo consente al altre uu.oo. di alzare i valori al di sopra delle medie aziendali). Restano significativi per ulteriori approfondimenti alcuni valori sopra le medie aziendali unicamente per i casi oltre soglia ( rari) - Dalla analisi dei casi trattati sia nel Presidio Ospedaliero di Solofra e che nella U.O. di Chirurgia Generale del Presidio Ospedaliero di Solofra , si evince : il peso che ha la mission aziendale diversa dal Policlinico nella gestione della appropriatezza organizzativa ; la esigenza di rispondere ad un bisogno di salute imminente ( anche in emergenza ) , in un contesto geografico e sociale molto differente da quello della Azienda Policlinico Federico II , ha portato il Presidio di Solofra anche a scegliere codifiche diverse per il riconoscimento dei casi clinici trattati . Per esempio per la gestione della colecistectomia , molti casi sono stati trattati e codificati con SDO in altro DRG diverso dai 493-494, e per tanto sono sfuggiti all'oggetto di studio. Un diverso DRG comporta una diversa remunerazione e un diverso riconoscimento in fatturazione all'ASL. Questa attività giustifica anche il fatto che il DRG 494 scenda da n° 97 casi trattati nel 2011 e n° 94 nel 2012 a n° 57 casi nel 2013. Da sottolineare pero' che se la codifica DRg cambia per identificare una procedura , non si marca il drg 493 che è complicato perché sono presenti pochi casi e anche i casi fuori soglia nel 2011 e 2012 sono n° 0 e n° 4, mentre nel 2013 sono n° 10 su un totale di n° 57 dimessi: questo dato richiederebbe un approfondimento su verifica delle cartelle cliniche per comprendere quali anomalie hanno creato tali dati numerici. - In merito a ciascun DRG il dato piu' significativo , riguardo al DRG 290, è che trattasi di un percorso diagnostico terapeutico molto strutturato al quale il paziente accede già iperstudiato , con a corredo svariati esami strumentali e laboratoristici effettuati in tempi diversi ed al di fuori del DRG ( quindi non in ricovero ma in regime ambulatoriale).In particolare nella Azienda Policlinico Federico II accedono pazienti afferenti dalla Regione Campania e da tutto il Meridione , per tanto le chirurgie aziendali accolgono casi anche molto complessi o non accettati in altre strutture. Alla luce di tale realtà e sebbene sia attivo il servizio di prericovero , taluni pazienti si ricoverano con un un giorno di anticipo rispetto alla data procedurale per ragioni logistiche ( residenza troppo lontana , o tempi troppo lunghi e modalità di percorrenza poco agevoli), ragioni socio-familiari, raramente per motivazioni legate all'età. Tali considerazioni possono ritenersi sufficienti per analizzare la media di degenza globale e la preoperatoria , ulteriormente migliorabile e valutare la ipotesi che il DRG 290 possa, in piccole percentuali e con oculata scelta dei casi clinici da arruolare, proporsi come DRG con tempi di ricovero piu' brevi secondo canoni istituzionali, anche in one day surgery, se le valutazioni epidemiologiche per complicanze periprocedurali su scala piu' ampia possano confortare tali ipotesi. Questa è la prospettiva futura piu' interessante su cui soffermare la attenzione, considerando che nel documento " Rapporto annuale sull'attività di ricovero ospedaliero- Dati SDO" del 2012 il DRG 290 , con rango 39 risulta tra i primi 60 DRG per numerosità di dimissioni, con un totale di n° 36.648 dimissioni , n° 350.645 giornate di degenza ed una remunerazione teorica di Euro 101.373.777. Tai ipotesi non possono essere azzardate per il DRG 494 non avendo valutato alcuna cartella clinica e quindi non conoscendo dati piu' precisi sui pazienti dimessi: un approfondimento da valutare in futuro per considerazioni piu' complete . Certamente si potrà quindi valutare : - l'importanza economica di questa ipotesi che se fosse realizzabile anche in una minima percentuale dei casi clinici in DRG 290 varrebbe un risparmio finanziario sicuramente apprezzabile per il SSR e SSN; - la possibilità di abbreviare liste di attesa e motivare la permanenza del trattamento chirurgico intraregionale , evitando la mobilità extraregionale . - In merito alla Simulazione ad Eventi Discreti (DES) applicata al profilo assistenziale con DRG 290 , si puo' concludere che la applicazione è stata con successo validata . La prospettiva futura piu' di rilievo consiste non solo nella applicazione ad altri DRG, sicuramente con percorsi clinico-diagnostici maggiormente articolati , con utilizzo di diagnostiche piu' invasive , consulenze specialistiche piu' frequenti( per esempio tutti i DRG che contemplano la procedura chirurgica sul colon), ma nella valutazione completa di tutti i dati economici provenienti da un controllo di gestione che abbia fotografato i costi di tutte le risorse utilizzate nel percorso diagnostico clinico , al fine di rendere non piu' utile ma indispensabile la applicazione di Business Process Management – DES nei processi decisionali e direzionali delle Aziende Sanitarie . Tale applicazione , consentirebbe di agire , modificare e correggere processi sanitari che contestualmente sono stati identificati come inefficienti o non conformi , senza attendere i dovuti e lunghi tempi dell'analisi gestionale .
E' stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E' stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l'evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più "efficiente". Sotto quest'ultimo aspetto l'attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un'attività produttiva o di un'impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull'evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l'obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l'esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l'ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l'azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l'ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull'Analisi Costi-Benefici e sull'Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all'attività di regolazione dell'economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un'autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l'orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l'unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un'applicazione in "salsa cinese" del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l'evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L'evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l'obiettivo dell'efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie "Post-Chicago". Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell'evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l'attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l'istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l'analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell'analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l'Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull'applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l'ampiezza dell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell'effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell'art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall'applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l'implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell'esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione "progresso tecnico ed economico", impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell'efficienza, giustificando così quell'eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell'Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell'applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l'art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all'elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l'organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l'assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell'utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all'art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l'occasione per recepire nella disciplina comunitaria l'attribuzione della facoltà di ricorrere all'efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell'art. 81(3). Il capitolo attesta anche l'attenzione verso l'istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l'innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un'attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L'analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall'ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un'autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell'adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall'ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all'interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere "ibrido" che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all'introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l'adozione e l'implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell'intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l'assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l'elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell'autorità indipendenti, e l'ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell'assistenza delle autorità nazionali. Dall'altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l'attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall'ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all'analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell'efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell'efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l'evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell'attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall'eterogeneità degli obiettivi che l'Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall'incapacità (o dall'impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell'efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell'applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l'OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l'evoluzione in questo senso dell'Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un'analisi teorica dell'esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell'impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l'organizzazione interna dell'impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l'approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l'impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un'analisi dettagliata dell'attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l'esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell'impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d'altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all'altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un'analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell'ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall'analisi svolta emerge innanzitutto come l'assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all'erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l'inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite "alleanze", collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell'Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l'impossibilità per l'autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all'attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L'opera si chiude con l'individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell'ambito dell'attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l'intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell'attuale configurazione dell'intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l'autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell'Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall'altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell'applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l'evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni'70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L'effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l'intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l'estensivo ricorso all'essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell'efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l'ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E'stata infine sottolineata l'inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E' di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull'economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l'applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall'elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l'efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l'ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.
1.1- Uno sguardo al percorso normativo sovranazionale Alla metà del XIX secolo, le scienze antropologiche cominciarono a manifestare l'esigenza di riformare la giustizia penale nei confronti dei minori, adattandola alle peculiari caratteristiche di tali soggetti. La particolarità del diritto penale minorile è infatti che i suoi destinatari sono soggetti nei quali le caratteristiche psico-fisiche e la personalità sono ancora in fase di sviluppo. Se da un lato il minore risulta essere educabile con maggiore facilità rispetto all'adulto, dall'altro risulta più incline agli influssi criminogeni che possono scaturire da trattamenti penali non adeguati ad un soggetto con tante peculiarità1. Prima del secolo scorso il minore era considerato alla stregua dell'adulto dal punto di vista procedimentale ed erano i singoli Stati a disciplinare discrezionalmente la materia: quasi ovunque si riconosceva una potestas assoluta del padre sul figlio minorenne. Il primo Tribunale per minorenni, chiamato Juvenile Court, fu istituito a Chicago nel 1899: un giudice specializzato che poteva applicare sanzioni correttive o anche soltanto educative, competente a giudicare tutti i minori di anni dieci. Si trattava, comunque, di un istituzione con una marcata impronta paternalistica, che mancava delle garanzie necessarie secondo i criteri della giurisprudenza classica, e per il quale non fu mai prevista una disciplina speciale2. In seguito altri Tribunali, sull'esempio di Chicago, furono istituiti a Boston e New York. Per quanto riguarda l'Europa, nel 1895 venne inaugurata la Juvenile Court di Birmingham e nel 1908 tali istituzioni divennero obbligatorie in Inghilterra, in Scozia ed in Irlanda con il Children Act, con il quale venne abolita quasi del tutto la pena di morte per i minori e stabilito che nessun minore di 16 anni potesse essere condannato al carcere3. Seguendo quest'esempio, altri Paesi sentirono il bisogno di istituire un organo giurisdizionale idoneo ad esaminare sia il crimine commesso dal minore sia il contesto sociale e familiare in cui è maturata la sua personalità. Il primo atto internazionale non vincolante a disciplinare specificatamente la giustizia penale minorile furono le Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile (c.d. Regole di Pechino), adottate dal VI Congresso dell'ONU il 29 Novembre 1985. Questo atto è stato fonte per tutti i codici penali moderni, compreso quello italiano, poiché per primo disciplinò forme di giustizia specifiche per il minore, che tendessero a rieducare e reinserire il minore, uscendo da una concezione puramente retribuzionistica. Alcune novità sono così rilevanti che ancora oggi le troviamo nei moderni codici di giustizia penale minorile, quali: la limitazione della libertà personale soltanto come extrema ratio, la quale deve essere sostituita tutte le volte che risulti possibile da misure alternative quali la sorveglianza o l'affidamento alla famiglia o ad una comunità (agenzia educativa); la custodia preventiva disposta in istituti separati dagli adulti o in una parte distinta dell'istituto; la previsione di cure, protezione e assistenza individuale necessari per l'età, il sesso e la personalità; la previsione di sanzioni alternative come multa, risarcimento e restituzione; l'applicazione di misure di probation. Le Regole di Pechino furono incorporate nella Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, approvata a New York il 20 Novembre del 1989: si tratta di un documento vincolante per gli Stati firmatari che costituisce il trattato in materia di diritti umani con il maggior numero di ratifiche (sono 194 gli Stati firmatari). In Italia fu resa esecutiva con la l. n. 176/91, che, oltre a ribadire ciò che era stato affermati nei precedenti documenti in ambito di giustizia minorile, introduce alcune importanti novità sebbene non inerenti all' ambito processuale. Le Regole di Pechino, assieme alla Raccomandazione del Consiglio d'Europa n. R(87)20, del 17 Settembre 1987, sulle risposte sociali alla delinquenza giovanile4, sono espressamente prese in considerazione dal legislatore delegato, come confermato dalla Relazione al progetto preliminare delle disposizioni sul nuovo processo minorile ove si afferma che questi atti "ribadiscono il diritto del minore a tutte le garanzie processuali e ne sollecitano il rinforzo". Per quanto riguarda la collocazione di questi atti nel sistema delle fonti, è stato osservato che anche il processo penale minorile deve "adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale" come stabilito al primo alinea dell'art. 2 della l. 16 Febbraio 1987 n. 81 per il nuovo processo penale, in ragione del riferimento ai principi generali di questo processo espresso per il processo penale minorile dall'art. 3 comma uno l. n. 81 del 1987. Appare evidente come anche a livello internazionale è mutato profondamente l'approccio nei confronti del minore, inizialmente visto soltanto come soggetto da contenere e correggere nell'ottica della tutela della comunità (che pure non ha perso la sua rilevanza), in seguito come un'identità in piena evoluzione, in capo alla quale sorgono dei diritti, bisognosa di misure ad hoc capaci di rieducarlo allontanandolo da quelle situazioni che sono causa di devianza. 1.2- Gli inizi del percorso legislativo in Italia In Italia un sistema penale autonomo per i minori è giunto con leggero ritardo rispetto ad altri Paesi Occidentali, il primo passo in tal senso fu la Circolare dell'11 Maggio 1908 ad opera del Ministro Guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando, con la quale venivano poste le basi per l'affermazione, nell'ambito del diritto minorile, dei principi della specializzazione del giudice dei minorenni, della non pubblicità del processo in cui è coinvolto un minore e della necessità dell'indagine diretta ad acclarare la personalità del minore. L'importanza di questa circolare, che pure non sortì nell'immediato gli effetti sperati, nel percorso che ha portato all'affermazione del principio di specializzazione del giudice dei Minorenni è stata richiamata anche recentemente dalla Corte di Cassazione (sez. V pen., 16 Settembre 2008, n. 38481): attualmente infatti il giudice dei minori è caratterizzato sì dalla specifica competenza in ambito minorile, ma soprattutto dalla presenza, accanto ai magistrati ordinari, di giudici non togati esperti in psicologia e/o pedagogia. Nel 1909 ebbe inizio il progetto per la redazione di un Codice dei Minorenni, che prevedeva l'istituzione di un Tribunale specializzato, affidato a un'apposita commissione al cui vertice vi era il senatore Quarta. Il progetto non divenne legge, ma costituì la base per i seguenti progetti Ferri e Ollandini. Nel 1921 Enrico Ferri a capo di un'apposita commissione formulò un progetto di riforma che, prevedendo anch'esso l'istituzione di un giudice specializzato, andasse ad indagare l'insieme delle cause sociali, familiari, psicologiche, ereditarie ed evolutive del minore portato a delinquere. L'approccio particolarmente scientifico alla base della riforma fu forse una delle cause che non lo portò all'approvazione da parte del Parlamento. Il progetto Ollandini invece prevedeva l'istituzione di un Tribunale specializzato in ogni città con popolazione superiore ai duecentomila abitanti, ma nemmeno questo tentativo legislativo giunse all'approvazione. Nel 1930 furono approvati il nuovo codice penale (il codice Rocco) e il codice di procedura penale. Fu fissata a 18 anni la piena capacità penale, mentre nei casi riguardanti minori tra i quattordici anni e i diciotto anni il compito di accertare l'eventuale imputabilità veniva rimesso al giudice, in riferimento al possesso della capacità di intendere e di volere. Nel caso in cui il minore fosse ritenuto non imputabile ma comunque socialmente pericoloso poteva essere applicata una misura di sicurezza come il riformatorio giudiziale o la libertà vigilata. Per i minori imputabili invece era previsto che scontassero le pene in istituti separati da quelli degli adulti fino al compimento della maggiore età, inoltre la pena doveva essere finalizzata a una rieducazione morale. 1.3- Il r.d.l. n. 1404 del 1934 La creazione di un Tribunale specializzato per i minori arrivò nel 1934 con il r.d.l. n. 14045 (che rappresenta la prima disciplina sistematica del settore), convertito con la l. n. 835 del 1935, in cui trovarono finalmente attuazione tutti i precedenti progetti di riforma esaminati e i movimenti umanitari sviluppatisi negli anni precedenti. Al Tribunale venne attribuita la competenza di giudice di primo grado in materia penale, civile e amministrativa, distinta da quella del giudice ordinario. Era prevista all'art. 5 la possibilità di proporre appello, nei casi stabiliti dalla legge, presso una sezione specializzata della Corte d'Appello. Nello stesso edificio dove era situato il Tribunale, era prevista la creazione dei centri di rieducazione dei minori composti da un riformatorio giudiziario, un riformatorio per corrigendi, un carcere per minorenni, uffici di servizio sociale per i minorenne, nonché un centro di osservazione per minorenni. Una delle particolarità del decreto del '34 fu la possibilità per il giudice, introdotta con l'art. 25, di adottare misure rieducative nell'ambito della propria competenza amministrativa quali l'internamento al riformatorio per corrigendi6, applicabile al minore di diciotto anni che "avesse dato, per abitudini contratte, manifeste prove di traviamento" e risultasse per questo "bisognevole di correzione morale". Col tempo però i giudici non seguirono più i criteri guida fissati dal testo della legge e finirono con l'applicare l'internamento al riformatorio anche a soggetti non traviati, le cui situazioni familiari denotavano uno stato di degrado e abbandono. Inoltre, non essendo previsto un limite alla permanenza in questi istituti, essa si concludeva solo quando il soggetto non si mostrasse agli occhi del giudice più necessario di correzione oppure col compimento dei diciotto anni, con conseguente allontanamento prolungato dalla comunità, trasformando i minori in delinquenti veri e propri senza perseguire il fine rieducativo cui in astratto si sarebbe voluto tendere. Tali istituti si rivelarono avere caratteristiche non difformi da vere e proprie carceri penali: i minori venivano collocati in edifici rigorosamente chiusi e protetti da inferriate e cancelli dai quali non potevano allontanarsi, perdendo ogni contatto con il contesto sociale dal quale provenivano. Questo decreto, quindi, seppur ideato con nobili fini, rispecchia il difficile contesto politico-sociale in cui venne alla luce, che ne rappresenta il limite più evidente: uno Stato forte come quello fascista, che aveva il pieno controllo su ogni aspetto della vita degli individui, era, in quell'ottica, la prima forma di prevenzione per la devianza dei giovani. Di fronte al manifestarsi di un'eventuale devianza, lo Stato la affrontava in termini di malattia: la pena, dunque, era vista come una sorta di terapia per il soggetto malato, con la conseguenza che ci si concentrò di più sul controllo e la contenzione del minore, che sul fornire aiuto e sostegno per eliminare le cause devianti. Con l'entrata in vigore della Costituzione si ha l'introduzione di una serie di nuovi principi che si collocano come fonte primaria nell'ordinamento: tali principi rispecchiano i valori e gli ideali dei Padri Costituenti come reazione al regime fascista. Per quanto riguarda il processo minorile si fa riferimento all'art. 27, terzo comma e al 31, secondo comma. L'art. 27, terzo comma, afferma il principio rieducativo della pena: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La mancanza, in questa disposizione e nei lavori preparatori, di un esplicito riferimento ai minori è stata colmata successivamente dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale7. L'articolo 31, secondo comma, dispone invece che la Repubblica "protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo". Appare quindi evidente che l'impianto fascista su cui è stata costruita la competenza amministrativa del Tribunale e l'impianto delle misure rieducative necessitavano di essere riviste alla luce dell'entrata in vigore della Costituzione, affinché si potessero realizzare al meglio i principi in essa affermati. 1.4- La l. n. 888 del 1956 La risposta a queste esigenze arrivò con la l. n. 888 del 1956 la quale modificò notevolmente il r.d.l. n. 404/1934 attraverso un ampliamento della competenza amministrativa del Tribunale e un sistema di individualizzazione delle misure e del trattamento che limitasse la detenzione carceraria soltanto ai casi in cui risultasse strettamente necessaria. Fu previsto che le indagini per la personalizzazione delle misure fossero svolte non più dal pubblico ministero ma da un componente del Tribunale e inoltre furono previsti o modificati, all'art. 1, una serie di istituti per l'assistenza al minore, quali: gli istituti di osservazione, i gabinetti medico-psico-pedagogici, le case di rieducazione ed istituti medico-psicopedagogici, gli uffici di servizio sociale per minorenni, i "focolari" di semi-libertà e pensionati giovanili, le prigioni scuola e i riformatori giudiziari8. La novità più significativa è costituita dalla definitiva creazione dell'ufficio del servizio sociale per i minorenni (già previsto dal r.d. n. 1404/34 ma mai entrati concretamente in funzione), chiamato inizialmente a collaborare con il giudice minorile per l'esecuzione dei provvedimenti amministrativi ed in particolare della misura di rieducazione dell'affidamento ai servizi sociali introdotta con la medesima legge9. In tal senso è significativa la valorizzazione, all'interno delle case di rieducazione, della figura dell'educatore10 al quale è devoluto il compito di costituire un modello di identificazione positivo affinché il minore possa (ri)costruire la propria personalità e il mondo dei valori e delle norme11. L'intento era quello di limitare al massimo l'internamento del minore, privilegiando un'assistenza nelle forme della libertà assistita, attraverso la previsione e la realizzazione di un progetto educativo che vedeva la collaborazione tra servizi e giudice nel momento di adozione della misura stessa12. Questa riforma portò a un cambiamento dei presupposti per l'applicazione della misura: non si tratta più di giovani "traviati", bensì di "soggetti irregolari per condotta o carattere", irregolarità che deve essere accertata attraverso "approfondite indagini sulla personalità del minore", esplicate da uno dei componenti del Tribunale per i minorenni designato dal Presidente13: questo cambiamento permise di circoscrivere l'intervento amministrativo a quei minori che esprimevano una concreta devianza con il rischio di incorrere nella commissione di reati. Vi erano quindi tutti i presupposti per un effettivo mutamento negli interventi amministrativi, grazie ad una adeguata individuazione delle tipologie di soggetti destinatari degli stessi che, con rigore interpretativo andavano circoscritti solo a quelli effettivamente a rischio dimissione di reati ed il cui comportamento fosse espressione di devianza. Ciò avrebbe consentito di distinguere chiaramente gli interventi comunque limitativi della libertà personale finalizzati, oltre che ad una ripresa dei processi educativi del minore, anche a concorrenti esigenze di tutela dell'ordine pubblico, dagli interventi di carattere meramente assistenziale, indirizzati a soggetti in situazioni di carenza familiare e, quindi, bisognevoli esclusivamente di supporto e sostegno14. Purtroppo però questo sistema non raggiunse i risultati sperati: istituti identici venivano usati per far fronte a situazioni che avrebbero richiesto trattamenti differenziati e inoltre alcuni interventi che il legislatore aveva voluto differenziare si rivelarono sostanzialmente identici fra loro. Così la richiesta di internamento dei figli da parte della famiglie, prevista dalla l. n. 888/56, finì col supplire alle carenze educative familiari o scolastiche, piuttosto che rappresentare una risposta a irregolarità nella condotta o nel carattere del minore, cancellando di fatto la differenza fra il fine rieducativo e quello assistenziale. Il risultato fu che, nonostante un'apertura alle necessità ed esigenze del minore, continua non si riuscì a separare nettamente l'assistenza dal controllo con la conseguenza che l'ideologia rieducativa convive di fatto con quella custodiale degli anni passati15. La crisi del sistema alimentò negli anni '70 un dibattito fra gli stessi operatori incentrato da un lato sull'esigenza di superare l'istituzionalizzazione prolungata e l'internamento in strutture chiuse che nei giovani sono causa della formazione di una identità negativa, di immagini di sé e di ruoli sociali degradanti16, dall'altro di giungere a una completa depenalizzazione delle norme sanzionatorie che portasse a una decarcerizzazione per i minori, sospinta anche dall'approvazione della riforma penitenziaria del 1975 che, seppur sembrò non interessarsi particolarmente allo specifico minorile, ne influenzò il relativo dibattito. 1.5- Il d.p.r. n. 616 del 1977: il decentramento agli enti locali Fu in questo clima che si giunse al d.p.r. n. 616 del 1977 con il quale si attribuiva la competenza della giurisdizione minorile in campo amministrativo e civile ai servizi sociali dei Comuni (decentralizzazione) e si aboliva la negativa esperienza delle Case di rieducazione. Si arrivò quindi a una distinzione fra la competenza in campo penale attribuita allo Stato (con finalità punitiva) e quella in campo amministrativo e civile attribuita agli Enti Locali (con finalità rieducativa): l'idea era quella di discostarsi dal precedente modello in cui il minore era rinchiuso all'interno di un istituto lontano dalla società e di agire direttamente sul proprio contesto sociale al fine di rimuoverne quegli ostacoli che erano fonte di devianza. Questo prevedeva la permanenza del minore all'interno dell'ambito sociale di appartenenza, li dove sarebbero intervenuti i servizi sociali comunali. Molti Comuni però si trovarono impreparati a fronteggiare la situazione, finendo col fornire le sole misure assistenziali anche di fronte ai comportamenti devianti che avrebbero necessitato invece di risposte rieducative; il vuoto legislativo creatosi comportò per i giudici di trovarsi di fronte alla scelta di rinunciare a qualsiasi intervento o di applicare pene detentive sproporzionate al caso in esame. Appariva ormai chiara l'ambivalenza sia delle misure di rieducazione che dell'intero sistema penale minorile che oscillava fra provvedimenti meramente clemenziali, quali ad esempio il perdono giudiziale, il quale veniva applicato in modo automatico per fatti di lieve entità, e la risposta meramente retributiva, non marcatamente differenziata rispetto agli adulti, sia per quanto riguarda l'entità della pena inflitta, sia per quanto riguarda le modalità di esecuzione o l'eventuale diversificazione delle risposte sanzionatorie. Senza dubbio è in questo periodo storico che si ha la presa di coscienza, come evidenziato dalle pronunce della Corte Costituzionale17, in ordine all'esigenza di ridurre al massimo sia la carcerazione, ma soprattutto anche gli interventi rieducativi all'interno di strutture chiuse, limitando l'intervento giudiziario a casi e situazioni ben definiti18. 1.6- Il nuovo processo penale minorile: il d.p.r. 448 del 1988 In seguito alle numerose sentenze della Corte Costituzionale, alle Convenzioni e alle Dichiarazioni internazionali che si susseguirono prese il via in Italia il progetto di redazione di un nuovo processo penale minorile. Al momento della redazione del provvedimento vennero alla luce due possibili e contrapposte impostazioni: la prima sosteneva la necessità di inserire la normativa del nuovo processo minorile all'interno del codice di procedura penale, la seconda invece riteneva necessaria la predisposizione di un autonomo decreto delegato; questa seconda opinione fu quella prevalente sia per la specificità della materia in oggetto e in–oltre per non "appesantire" in maniera ulteriore un codice di notevole estensione e complessità19. Il d.p.r. 448, emanato il 22 Settembre del 1988 in seguito alla legge delega n. 81 del 1987, e completato poi dal d.lgs n. 272 del 1989 recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, delinea un sistema di giustizia penale diversificato, dove il momento più significativo è rappresentato dal passaggio del minore da oggetto di protezione e tutela a soggetto titolare di diritti. Infatti, per la prima volta si parla esplicitamente di "interesse del minore", di "esigenze educative" e di "tutela del minore" come criteri giuridicamente rilevanti destinati a influenzare esplicitamente le decisioni e le scelte in tutto il percorso processuale attraversato dal minore20. Occorre innanzitutto sottolineare che non fu toccato l'aspetto ordinamentale, e neppure quello sostanziale: si ebbe così un processo penale minorile del tutto nuovo, da celebrarsi però davanti a un giudice "vecchio", che applicava un sistema sanzionatorio che era stato previsto fin dalla sua origine per gli imputati adulti. E una conferma a quello che si è appena detto la si trova nei continui richiami, da parte dell'intero d.p.r. n. 448/88, alle esigenze educative del minore, che pongono contrasti con i principi di tassatività della pena e di legalità: un tale sistema pone dubbi di legittimità costituzionale alla luce dell'art. 13 Cost. secondo cui le limitazioni alla libertà personale devono avvenire nei "casi e modi previsti dalla legge". Ciò si concretizza nell'ampia discrezionalità lasciata al giudice al momento della scelta delle misure cautelari da adottare nei confronti dell'imputato, per le quali egli dovrà tener conto, in aggiunta ai criteri ex art. 275 c.p.p., anche di non interrompere i processi educativi in atto: si faccia riferimento, ad esempio, alla misura delle prescrizioni, il cui contenuto può essere fra i più ampi e disparati dall'obbligo di frequentare attività di volontariato al divieto di stare fuori casa oltre una certa ora. Sarebbe stato più opportuno ridurre i margini di questa discrezionalità attraverso l'introduzione di ulteriori criteri che riflettessero la specificità del processo minorile. 1.7- I principi generali del processo minorile Il codice processuale minorile contiene una serie di principi che si discostano da quello per gli adulti proprio in virtù della specificità della condizione del minore al momento dell'instaurazione del processo penale: all'articolo 1 viene enunciato il principio di sussidiarietà: "Nel procedimento a carico di minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale"21. La norma quindi ci avverte che le disposizioni contenute nel presente decreto non sono del tutto autosufficienti e laddove siano presenti delle lacune si dovrà fare riferimento all'ordinario codice di procedura penale. Il rinvio operato dall'articolo 1 ha posto dubbi interpretativi circa la sua natura: se si tratta di un rinvio materiale ogni modificazione (pronunce di incostituzionalità e abrogazioni) alle disposizioni del codice processuale ordinario non opererebbe per il d.p.r. n. 448 il quale, invece, continuerebbe a fare riferimento al testo originario del codice; se invece si accoglie l'impostazione di chi vi abbia ravvisato un rinvio formale, si consentirebbe al nuovo codice di adeguarsi all'evoluzione dell'ordinario codice processuale penale, applicando disposizioni concretamente vigenti, previa compatibilità delle norme alla luce delle modificazioni. La dottrina maggioritaria ha adottato quest'ultima impostazione per non condannare i due sistemi a muoversi lungo linee inevitabilmente divaricate, in quanto il quadro di riferimento per il rito minorile rimarrebbe fermo nel tempo, mentre la giustizia penale per adulti seguirebbe propri itinerari evolutivi in grado di mutarne, anche in modo significativo, i caratteri connotativi22. A sostegno di questa interpretazione anche la sentenza n. 323/2000 della Corte Costituzionale, che ha evidenziato come nel dubbio circa l'applicazione fra due norme si debba il principio del favor rei nei confronti dell'imputato minorenne. Un altro problema che sorge nell'interpretazione dell'articolo 1 d.p.r. n. 448/88 riguarda la scelta delle norme del c.p.p. cui si deve fare rinvio: esse devono essere applicate secondo un'interpretazione sistematica per escludere eventuali situazioni di incompatibilità con le norme o i principi del processo dei minori. Contestualmente al principio di sussidiarietà, all'art. 1, è affermato il principio di adeguatezza: "Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne". Si fa riferimento alla fase applicativa delle norme posta in essere dal giudice, quando vengono individuate le misure cautelari e definitive da applicare al minore: in accordo con questo principio il giudice non dovrà limitarsi a una mera applicazione automatica ma dovrà individuare le varie misure facendo riferimento alla situazione del minore: ambiente familiare, problemi personali e percorso educativo passato od eventualmente in atto. Solo tenendo conto di questi elementi il giudice potrà perseguire il fine rieducativo e di reinserimento sociale cui l'intero sistema tende. Un altro dei principi fondanti del processo penale minorile è quello di minima offensività del processo in quanto esso concretizza il fine del recupero sociale del minore che ha commesso un reato. Il contatto fra il minore e il processo penale può essere causa di notevoli sofferenze psicologiche che potrebbero arrecare grave pregiudizio al percorso educativo e di crescita del minore: espressione di questo principio in ambito cautelare è la facoltatività che caratterizza l'intervento del giudice, su cui ci soffermeremo meglio nel prossimo capitolo. L'ultimo principio riguarda la residualità della detenzione che, in conformità alle pronunce della Corte Costituzionale, sottolinea che la pena detentiva nei confronti del minore deve rappresentare l'extrema ratio: per questo sono previste misure alternative alla custodia detentiva che riducano l'impatto sulla sfera psico-emotiva del minore.
…"D'altronde, questa materia sommamente fluida ed oscillante, cui si tratterebbe di dar forma identificabile mediante una sagomatura scientifica, si ribella di sua natura ad una cosiffatta condensazione compaginativa che le dia corpo e figura" : così scriveva il Borri del danno a persona nel 1922. Ritengo questa affermazione ancora valida ed attuale. Di conseguenza, se per epistemologia si intende un discorso critico intorno alle scienze, una organizzazione sistematica delle procedure scientifiche, se epistemologia è sinonimo di "filosofia della scienza", se essa rappresenta lo studio dei modi e delle forme secondo cui operano le scienze, se è teoria delle conoscenze, riflessione astratta sui principi e sui modi della conoscenza (e, in particolare, della conoscenza e del sapere scientifico), allora qualsiasi tentativo di inquadrare il danno alla persona sotto il profilo epistemologico è destinato a priori a fallire, in quanto il danno ha poco di teorico e nulla di scientifico. In danno non è un sapere, non è una riflessione astratta, bensì una pratica di tutti i giorni, che, appunto quotidianamente, si scontra con le esigenze sempre diverse dell'uomo e della società in cui egli vive. Forse, con riferimento alla cosiddetta epistemologia genetica, vale a dire e quella teoria delle conoscenza che tiene conto dello sviluppo di un determinato concetto secondo successive fasi evolutive, avrei potuto procedere ad una analisi "storica" del concetto di danno: cosa in sé certamente utile, in quanto conoscere il passato fa meglio comprendere dove oggi siamo giunti; e cosa che inizialmente avevo anche preso in considerazione, ma che poi ho abbandonato per numerosi motivi: da un lato, sarebbe stato troppo impegnativo svolgere un discorso compiuto sulla storia del danno nei secoli passati, dall'altro, anche limitandomi a questi ultimi 80 anni (dal Cazzaniga in poi), probabilmente, per motivi di scuola o di affetti, non sarei stato obbiettivo; da ultimo perché, nello spirito di serrata dialettica, anche estemporanea, che è la caratteristica di queste giornate medico legali romane, ho pensato che una riflessione storica avrebbe fornito spunti di discussione marginali e poco attuali. Esclusa la possibilità di un inquadramento epistemologico, rimane da chiedersi se del danno a persona sia possibile un inquadramento giuridico; se, vale a dire, sia possibile una sua organizzazione sistematica, nella prospettiva di ricondurre l'argomento ad una vera e propria dottrina giuridica. Non sono certo io la persona più idonea a rispondere ad una tale domanda: mi mancano le conoscenze del giurista e, anche qui, fallirei in partenza; anche se, credo, pure un giurista dovrebbe procedere con estrema prudenza ed attenzione. L'insegnamento del Borri è quanto mai attuale: il danno è proteiforme; muta nel tempo come muta nel tempo l'uomo. E' una convenzione e, come tale, è inutile pretendere di collocarlo in confini stabili e duraturi. Inoltre, e qui mi riferisco in modo particolare, alla attività del medico legale, valutare il danno è cosa molto difficile e, per sua natura, approssimativa, "non esatta"; si può tentare di giungere alla valutazione soggettivamente ritenuta migliore (più esauriente e completa), ma è utopistico pretendere di pervenire ad una valutazione oggettivamente corretta: valutare significa infatti stabilire, a fini economici, lo scarto in peggio subito dal quella singola persona e, soprattutto, in una prospettiva futura, fino alla sua morte (nel danno biologico) o fino alla fine della sua età di lavoro-guadagno (nel danno patrimoniale da lucro cessante). Valutare il danno è formulare un giudizio essenzialmente prognostico, con tutta l'alea propria di qualsiasi giudizio prognostico. Il Cazzaniga , a premessa del suo fondamentale lavoro, disse di aver solo la pretesa di "segnare delle direttive e fissare dei punti fondamentali, dissodare, in una parola, il terreno ". Dopo il Cazzaniga molti Maestri medico legali hanno portato il loro contributo; oggi questo contributo è stato lasciato prevalentemente ai giuristi, ma ancora non si è giunti alla fine del lavoro; molte tessere del mosaico valutativo sono ancora da collocare nella giusta posizione (sempre che questo mosaico così abbozzato resista alle scosse dei mutamenti della società). Infine non vi è neppure uniformità terminologica nella normativa: prendiamo ad esempio la definizione di danno biologico. La sentenza 184/1986 della Corte Costituzionale lo definiva "menomazione dell'integrità psico-fisica dell'offeso", il D.L. 23 febbraio 2000 n. 38 (INAIL) lo definisce "la lesione all'integrità psicofisica della persona", così come la Legge 5 marzo 2001, n. 57 (Regolazione dei mercati, interventi nel settore assicurativo): "la lesione all'integrità psicofisica della persona". Invece il decreto del ministero salute 3 luglio 2003 (tabelle delle microinvalidità), attuativo della L 5 marzo 2001, n. 57, aderendo alla definizione S.I.M.L.A. di Rimini del 2001, cambia la definizione in: "menomazione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona, la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato"; definizione questa poi ripresa dal decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private) "la lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona … che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato". Questo per dire che troppo è pretendere da me un inquadramento giuridico del danno e che, di conseguenza, il mio intervento verterà principalmente sulla valutazione medico legale, anzi solo su alcuni aspetti della valutazione medico legale, quelli dove, a mio parere, vi è minor convergenza ed uniformità di vedute, nella prospettiva che, discutendone, certamente non ci si omologhi, ma si arrivi ad elaborare una serie di concetti utili a ridurre eccessivi sbandamenti valutativi sia in eccesso sia in difetto. Collegata a questa, l'altra prospettiva che guiderà questo mio breve discorso sarà quella di verificare se, al giorno d'oggi, anche con le modifiche introdotte dalle più recenti ed autorevoli pronunce legislative e giurisprudenziali, la prassi valutativa medico legale risulti più o meno confusa e caotica di quanto non fosse in un recente passato. DANNO PATRIMONIALE Prima vorrei parlare di danno patrimoniale, dove nella pratica valutativa quotidiana ho avuto modo di constatare come i problemi controversi siano più limitati rispetto quelli posti dal danno non patrimoniale: due punti vorrei in particolare sottolineare, punti per me chiari, su cui già ho avuto in passato modo di pronunciarmi , ma che tuttavia non sono da tutti i colleghi condivisi: mi riferisco alla "prova medico legale" ed alla "indicazione numerica" del grado di invalidità permanente: 1) La prova medico legale: alcuni colleghi aderiscono a quella corrente di pensiero secondo la quale, allorché si debba dare la prova di un danno patrimoniale da lucro cessante, questa prova la si ottiene solo quando il danneggiato dimostri, attraverso la esibizione della denuncia dei redditi o di documento consimile, di aver avuto una effettiva riduzione del proprio guadagno. Questa prova io ritengo attenga alla attualità del guadagno del leso, non alla di lui capacità di guadagno; per contro al medico legale è chiesto di valutare non se nella attualità il guadagno si è contratto, bensì se il leso sia meno capace di guadagnare da qui in avanti, e per tutti gli anni lavorativi futuri. Fondamentali sono al riguardo le parole sempre del Cazzaniga e la messe enorme di pubblicazioni e sentenze che, all'epoca in cui l'INPS valutava la capacità di guadagnare (e non di lavoro), sancirono come attualità di guadagno e capacità di guadagno siano cose ben distinte, non equivocabili, né sempre sovrapponibili: a volte esse coesistono e coincidono, ma non sempre, essendo scontato che, dopo un evento lesivo, si possa possedere la stessa attualità di guadagno di prima, ma tuttavia non essere più capaci di lavorare e, quindi, guadagnare come prima (lavoro in usura, lavoro per benevolenza del datore di lavoro, fruizione di particolari contratti lavorativi); di converso si potrebbe non essere più in attualità di guadagno, pur possedendo ancora la capacità di guadagnare in un futuro più o meno prossimo. In definitiva, condivido le considerazioni di chi afferma la validità e il significato della prova medico legale (anche se sola), quando, anche in presenza di un guadagno non contratto, si sia tuttavia in grado di motivare che la persona per il futuro non sarà più capace di guadagnare come guadagnava prima. Tra l'altro, ammettere il contrario significherebbe non dare neppure spazio al danno "potenziale" proprio del bambino, dello studente, della casalinga, ecc., il che costituirebbe una inaccettabile ingiustizia. 2) Il numero: la valutazione del danno da lucro cessante in permanente va quantificata (espressa cioè con un numero), oppure solo descritta? oppure a coefficienti ? I pareri sono diversi. Per parte mia, insisto nel sostenere che, quando vi sia una riduzione della capacità lavorativa, anche se è compito spesso arduo e faticoso, il medico legale debba fare il possibile per quantificarne l'entità e non limitarsi solo alla descrizione del quadro menomativo per la successiva interpretazione del Giudice. Insisto nel ripetere che se il medico legale abdica a questa sua propria "cultura" del numero, rinunzia a una parte fondamentale non tanto della prassi valutativa, ma della sua storia. Mi conforta il fatto che vi siano magistrati che sostengono "l'utilità di poter disporre di tutti i fattori della formula di capitalizzazione, anche di quello relativo all'incidenza percentuale dei postumi permanenti sulla capacità lavorativa…" e che, "se esiste la possibilità di tradurre parole accurate e ragionate in numero, la migliore traduzione possibile è, ovviamente, quella proposta dal consulente medico legale"; così come pure mi conforta imbattermi spesso in pareri medico legali di parte dove anche i colleghi che propugnano la sola descrizione delle menomazioni poi concludono con il tanto (ma solo a parole) famigerato e vilipeso numero. DANNO NON PATRIMONIALE Sul danno non patrimoniale il dibattito dottrinale in atto da molti anni non lascia vedere una conclusione a breve; le contrapposizioni tra sentenze (di merito e di legittimità) e tra sentenze a norme di legge sono molteplici; questa confusione si traduce in una conflittualità liquidativa, la quale tuttavia, come è ovvio, tocca anche la valutazione medico legale. Le (relativamente recenti) quattro sentenze gemelle di San Martino 2008 sono intervenute in modo reciso, proponendo una organizzazione sistematica del danno non patrimoniale, soprattutto al fine di evitare duplicazioni delle stesse voci di danno: esse hanno affermato che in caso di "lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica" si deve sempre e solamente parlare di danno non patrimoniale; che, pur essendo questi interessi molteplici, la loro lesione non costituisce forma di danno autonoma, rispondendo solo a scopi descrittivi una suddivisone in danno morale, biologico, da perdita parentale, ecc. In definitiva il danno non patrimoniale non può riconoscere sottocategorie di danno. Anche il danno biologico, pur essendo figura che si riconosce in una definizione legislativa e che recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, si giustifica solo a fini descrittivi. "Di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere"; permangono, ovviamente, i pregiudizi di carattere esistenziale [il Cendon parlando di danno esistenziale cita esempi di "caduta di ogni appoggio sicuro", di "agenda rovesciata", di "accantonamento di hobby", di "inferni grandi e piccoli" in famiglia, di "veleni tra fratelli e sorelle", di repertori "dolorosi", di "vincere il proprio orgoglio" per bussare alle porte dei parenti, di sofferenze nel mondo della scuola, di "sentirsi tagliati fuori da vari circuiti", di "una peggiore qualità della vita nell'ambiente di lavoro: mansioni avvilenti, silenzio con i capi, risorse sprecate, scontri coi colleghi, atmosfere difficili, buio sul futuro", dei "disagi" grandi e piccoli di chi vive confinato, del logorio dei dispetti e del sommarsi delle ritorsioni, di "paura incessante, di dover sempre chinare la testa", di "angoscia nella notte e fobie nel salire in macchina", di "irrisione sociale", di "timore" per un nuovo furto, di angoscia del domani, e così via], ma per essi si dovrà parlare di danno non patrimoniale da "sofferenza morale" determinata dal non poter più fare come prima, dal non poter vivere come prima. Il "fare areddittuale" che un tempo definiva il danno esistenziale, ora va a confluire e si identifica negli aspetti dinamico relazionali. Scompare anche il danno morale soggettivo, piuttosto da intendere quale formula che descrive un tipo di pregiudizio costituito dalla "sofferenza morale soggettiva", e senza aggettivazioni temporali, sempre che la sofferenza non degeneri in patologia, nel qual caso essa entra come componente del danno biologico. Questo tentativo di sistematizzazione del danno non patrimoniale ha trovato difficoltà applicative, non è condiviso da tutti i giudici, è disatteso da normativa successiva. In primo luogo ha dovuto far i conti con i problemi legati alla quotidiana liquidazione del danno. Prendiamo ad esempio le tabelle dell'Osservatorio di Milano . Esse, in ossequio formale alle sentenze di San Martino, propongono una liquidazione congiunta e del danno non patrimoniale conseguente a lesione della integrità psicofisica (ovvero del danno biologico) e del danno non patrimoniale in via presuntiva conseguente alle stesse lesioni a titolo di dolore e di sofferenza soggettiva. Il valore economico del punto, aumentato per comprendervi il vecchio danno morale, risente anche, in misura variabile, della gravità della lesione, dandosi per scontato che a lesione/menomazione più grave corrisponda maggior sofferenza. Questo avviene quando sotto il profilo relazionale e/o della sofferenza soggettiva ci si trovi di fronte a situazioni medie; in casi peculiari ed eccezionali, il Giudice potrà, con idonea motivazione, aumentare ulteriormente il valore economico del punto. Nella pratica, per consentire al Giudice una celerità di calcolo nei casi "medi", i più numerosi, la componente rappresentata dalla sofferenza e/o dalla compromissione alla vita di relazione (il vecchio danno morale) è riconosciuto in via pressoché automatica, senza che ne sia fornita la prova, così superando quanto asserito dalle sentenze gemelle: le tabelle dell'Osservatorio milanese privilegiano indubbiamente una uniformità del risarcimento, salvo considerare a parte i casi più rari, peculiari ed eccezionali. Ma l'inquadramento giuridico sostenuto dalle sentenze gemelle, oltre che non trovare adesione in alcune successive pronunce di Cassazione dove il danno morale è definito voce di danno autonoma, non ha tenuto conto del legislatore, che lo scorso anno è intervenuto con due provvedimenti significativi, anche se in settori normativi specifici e particolari. Il primo è stato il D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 (Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell'articolo 2, commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.), dove si afferma una distinta valutazione percentuale e del danno biologico (DB) e del danno morale (DM) ["la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso, in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico"] e il concorrere sia del danno biologico sia del danno morale a determinare la percentuale di invalidità complessiva (IC): ["la percentuale di invalidità complessiva (IC), che in ogni caso non può superare la misura del cento per cento, é data dalla somma delle percentuali del danno biologico, del danno morale e del valore, se positivo, risultante dalla differenza tra la percentuale di invalidità riferita alla capacità lavorativa e la percentuale del danno biologico: IC = DB+DM+(IP-DB)"]. Il secondo è stato il D.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181 (Regolamento recante i criteri medico-legali per l'accertamento e la determinazione dell'invalidità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell'articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206), dove premessa la definizione di danno morale ("per danno morale, si intende il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato), si afferma in modo simile al decreto precedente che "la valutazione della percentuale d'invalidità … è espressa in una percentuale unica d'invalidità, comprensiva del riconoscimento del danno biologico e morale" , ribadendo che "la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi ed in rapporto all'evento dannoso, fino ad un massimo dei 2/3 del valore percentuale del danno biologico". Quali sono gli aspetti per noi utili da cogliere in queste affermazioni giurisprudenziali e normative pur in parte contrastanti? In primo luogo credo vada sottolineata l'importanza che nei due citati e recenti decreti viene riservata non tanto alla liquidazione, bensì alla valutazione del danno morale, con l'implicito riconoscimento che tale valutazione, anche del danno morale, non può che essere di matrice biologica. In secondo luogo, anche i Giudici dell'Osservatorio milanese mi pare diano grande risalto alla valutazione medico legale. Essi suggeriscono che tale valutazione, alla base del loro successivo calcolo liquidativo, sia espressa con un numero omnicomprensivo, che rappresenti cioè la lesione della integrità psicofisica "sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi, ovvero peculiari". In altri termini, si richiede proprio al medico una valutazione personalizzata del danneggiato: la modulazione del numero è considerata espressione di personalizzazione del fondamento risarcitorio, forse anche perché le operazioni liquidative successive, accetto casi particolari, abbiamo visto che si caratterizzano per una indiscutibile omogeneità e predeterminazione di calcolo. Da ultimo va valorizzato quanto affermato dalle sentenze gemelle in relazione al danno biologico nel suo aspetto estetico, al danno da perdita o compromissione della sessualità ed al danno alla vita di relazione, con i loro relativi pregiudizi di tipo esistenziale concernenti gli aspetti relazionali della vita: ribadiscono infatti tali sentenze che queste voci di danno vanno assorbite nel danno biologico nel suo aspetto dinamico. Il danno estetico, alla vita di relazione e alla vita sessuale, questi danni che il Cazzaniga chiamò "coefficienti di danno", è evidente cha tanto sono più gravi, quanto maggiore non è la menomazione anatomo-funzionale (la componente statica), ma la sofferenza morale e il disagio interiore che il leso, ritenendosi "diverso", avverte nell'esporsi a terze persone e al loro giudizio (la componente dinamica). Anche questa visione "ampia" del danno biologico privilegia senz'altro la fase valutativa. ll merito delle sentenze gemelle è stato quello di sottolineare che, così come il risarcimento del danno biologico comprende e la lesione della integrità psicofisica (componente statica), ma soprattutto i riflessi negativi dinamico relazionali della lesione stessa, di cui la sofferenza soggettiva è fondamento, altrettanto, il risarcimento della lesione di altri interessi areddituali inerenti la persona comprende sia la lesione del bene in se, sia i conseguenti riflessi esistenziali, ovvero dinamico relazionali. In altri termini, i riflessi negativi dinamico relazionali si identificano in quelli esistenziali e, quindi nella sofferenza soggettiva. Questa simmetria valutativa dell'interesse leso, visto sotto il profilo statico, ma soprattutto dinamico, chiama in causa specifiche competenze tecniche appunto nella valutazione della "sofferenza". Numerose sono a questo punto le questioni che si aprono: 1. qual è il confine oltre il quale la sofferenza soggettiva (o il danno morale per chi ancor oggi così lo voglia chiamare) diviene malattia, e quindi, danno biologico a tutti gli effetti ? 2. la valutazione della sofferenza soggettiva "non patologica" da lesione del bene salute va considerata e valutata in modo uguale o diverso dalla sofferenza da lesione di altro pregiudizio esistenziale ? 3. a chi compete valutare la sofferenza "non patologica" e, soprattutto, su quali parametri essa va valutata ? 4. è in grado il medico legale di estendere la propria valutazione alla sofferenza soggettiva, (id est ai pregiudizi esistenziali, ovvero agli aspetti dinamico-relazionali), oppure si deve affidare ad una indagine psicologica, così come ricorre alle competenze di uno psichiatra quando la sofferenza venga a sfociare nel patologico? 5. è utile elaborare scale di sofferenza [anche alcuni colleghi milanesi vi si sono cimentati] ? e possono coesistere scale di sofferenza fisica e psichica ? 6. oppure, va condivisa l'opinione di chi da per scontata la presenza sempre, nella lesione della integrità psicofisica, di un certo grado di sofferenza "non patologica", così da limitarne una specifica valutazione solo alle situazioni più gravi ? (sempre che queste ultime non coincidano con una degenerazione patologica, nel qual caso si strutturerebbe un danno biologico vero e proprio) Sentirò con estremo interesse quanto al riguardo diranno i prof. Umani Ronchi , Catanesi e Di Vella. LE TABELLE DEL DANNO BIOLOGICO Prevalente dottrina afferma che nel danno biologico suscettibile di valutazione medico legale rientrano sia gli aspetti statici sia quelli dinamici della singola persona, conferendo così all'opera ed alla valutazione del medico legale il significato di atto effettivamente preliminare al risarcimento. Eppure, pur se pienamente consapevoli della necessità di un risarcimento personale ed integrale, sempre dal medico legale è stata avvertita la esigenza di appoggiarsi a dei riferimenti tabellari, forse per quel principio di uguaglianza che sta alla base della nostra società civile. La contraddizione di fondo della valutazione medico legale è proprio quella di dovere far coesistere queste due esigenze tra esse non facilmente conciliabili: evitare giudizi grandemente difformi e rispettare il principio della personalizzazione del danno. Il far ricorso a parametri valutativi di base condivisi era considerato dal Cazzaniga un ripiego proprio delle assicurazioni, "dovuto alla necessità di semplificare i giudizi di valutazione, di consentire meglio le previsioni degli oneri finanziari, di ridurre al minimo le controversie", oltre che di uniformare la valutazione su tutto il territorio nazionale. Purtuttavia, anch'egli giunse alla fine a stilare delle tabelle, sia pure di invalidità lavorativa "ultragenerica". Ma espressione di un analogo compromesso furono le tabelle di Como e Perugia, quelle della scuola romana e anche le altre tabelle di volta in volta succedutesi negli anni. A questo proposito, mentre ci si trovava entrambi sul traghetto che per un convegno trasportava entrambi all'isola d'Elba, fui fatto partecipe dal prof. Bargagna (questa sua cortese confidenza era probabilmente dettata dal fatto che, su sua richiesta, avevo ottenuto che una compagnia assicurativa milanese di cui era consulente medico centrale facesse periodicamente pervenire al suo gruppo di studio del danno copia delle sentenze in tema di danno biologico che la vedevano coinvolta) del dilemma che stava vivendo: doveva decidere lui, che sempre aveva sostenuto la necessità di un risarcimento integrale e personalizzato del danno biologico, se aderire o meno alla proposta di redigere con altri una tabella del danno biologico. Alla fine, egli optò per la tabella, spinto dal desiderio di contribuire a maggiormente uniformare quello che considerava un caos valutativo, anche se era pienamente consapevole che, nel contempo, avrebbe legittimato come valutatori del danno biologico colleghi e mestieranti che di medicina legale nulla o poco sapevano. Le cose non sono cambiate: le tabelle rimangono sempre un ripiego, utile finché si vuole, ma sempre un ripiego. Ma se ripiego sono, sarebbe bene costruirle ed utilizzarle nel modo migliore, in modo che presentino le minor ambiguità possibili. Quelle attuali, e mi riferisco non ai valori numerici, ma alla criteriologia applicativa, prestano il fianco ad una critica per me cruciale: infatti mi è incomprensibile il parametro di riferimento costituito dalla "menomazione della integrità psico-fisica della persona … la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti". Quali siano questi aspetti relazionali comuni a tutti nessuno me l'ha mai spiegato; è un modo di dire dettato dal politicamente corretto senso di uguaglianza, in cui siamo i primi a non credere. Abbiamo ferocemente criticato il concetto "di capacità lavorativa generica, intesa quale attributo dell'uomo medio" perché concetto astratto, in cui confluiva tutto ed il contrario di tutto, e siamo ricaduti nell'errore di concepire e dar credito ad aspetti dinamico-relazionali per tutti uguali (uomini e donne, bimbi ed anziani, ignoranti e letterati, lavoratori e benestanti, operai e contadini, ecc.). Un minimo di coerenza dovrebbe portarci a dire che, al più, ed anche qui con molti limiti, siamo in grado di tabellare il danno biologico statico, e quindi di convenire sulla percentuale di invalidità permanente da riconoscere alla menomazione anatomo-funzionale, a prescindere dai riflessi extralavorativi e non reddittuali della menomazione medesima (danno biologico dinamico), i quali, variando da persona a persona, necessitano di una stima a parte. Il ristoro del danno biologico statico, statuario o anatomo-funzionale che dir si voglia, si configurerebbe così in un chiaro ed evidente indennizzo, così come avviene in ambito assicurativo INAIL. La peculiarità del danno a persona starebbe poi nella personalizzazione risarcitoria dello stesso, mediante integrazione con il danno non patrimoniale da dolore e sofferenza soggettiva e, se del caso, anche con il danno patrimoniale. LO STATO ANTERIORE (ovvero DELLE PREESISTENZE) In questa prospettiva, grande rilievo assumono le preesistenze: la stato anteriore inevitabilmente condiziona sia la valutazione del medico legale, sia poi il risarcimento, in quanto, esso deve reintegrare lo scarto in peggio, ma non di più. Secondo me, quando il parametro di riferimento su cui poggia la valutazione della invalidità è simile per tutti, tanto da consentire di stilare una lista di menomazioni tabellate, il coesistere di molteplici menomazioni non potrà mai portare ad una valutazione superiore all'unità (mai potrà andare oltre il 100%); in altri termini, mi pare consequenziale che le menomazioni preesistenti non possano che agire come fattore di riduzione della valutazione (ma non della liquidazione). Su questo argomento già da molto tempo (sia nel 1989 che poi nel 1996 ) ebbi modo (con altri colleghi di Milano) di proporre l'utilizzo del cd. danno differenziale, che, sulla falsariga della teoria delle capacità residue del Melènnec , si riconosce nella differenza ottenuta sottraendo alla invalidità permanente post-evento lesivo quella pre-evento; nell'affermare che non si può pretendere venga compensata una funzione che già sia perduta (il paraplegico con esiti fratturativi di un arto che nulla di più né nulla di meno apportino, non può pretendere di essere risarcito di una funzione che neppure possedeva; mentre invece avrà il sacrosanto diritto di essere risarcito per altre componenti di danno che non sia quello funzionale). Ma anche nel dire che non si può pretendere di considerare come integra - pari al 100/100 - la realtà psicofisica di una persona che già sia parzialmente compromessa. Né valgono motivazioni di tipo falsamente etico-pietistico, in quanto la quota di danno differenziale così economicamente calcolata, si colloca sempre nella parte più alta nella tabella di conversione monetaria, laddove il valore del punto è sensibilmente più elevato. Ma qui mi fermo, sia perché mi ripeterei, sia, soprattutto, per non invadere l'argomento affidato al prof. Tavani. IL DANNO DA PERDITA DI CHANCES Così come, non volendo neppure invadere il campo del prossimo intervento del prof. Fiori, vorrei solo rimarcare le perplessità. e, quindi, i molti interrogativi che il danno da perdita di chances mi sollecita, e che, per motivi di tempo, riduco a due, ma a mio avviso cruciali. Se il danno da perdita di chances è sinonimo di danno da sacrificio di possibilità, qual è il limite tra questo danno ed il danno aleatorio non risarcibile? Il danno da perdita di chances mediche veniva definito nel 2004 dalla III Sezione della Cassazione Civile "ontologicamente diverso" dal danno a persona, in quanto sono le stesse chances "l'oggetto della perdita e quindi del danno"; in altre parole, non necessitando esso di accertamento del nesso causale, veniva introdotta una sorta di danno punitivo del solo comportamento illecito del medico. Successivamente, la Cassazione Civile a Sezioni Unite , trattando delle varie forme del danno da dequalificazione, tra cui anche il pregiudizio subito per perdita di chances lavorative, ha ritenuto di aderire all'indirizzo secondo il quale "il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro … deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile ad una valutazione equitativa", affermando sia che "dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo", sia che "una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento … (è) istituto (che) non ha vigenza nel nostro ordinamento". Quanto sopra vale solo per il datore di lavoro, ovvero si estende anche alla responsabilità professionale medica ? Il danno punitivo del solo comportamento illecito non vale per il datore di lavoro; ma continua a valere per il medico ? Confido nella relazione del prof. Fiori per aver qualche maggior lume. CONCLUSIONI Per concludere, e facendo riferimento al tema di questa giornata, se all'aggettivo unitario dovesse essere attribuito il significato di risarcimento del danno alla persona per tutti uniforme, è ovvio che sarei profondamente contrario, pena lo sconvolgimento della stessa nozione di danno risarcibile: l'essere umano non è omologabile e neppure il danno che lo dovesse colpire potrà mai essere omologato. Solo la componente statica del danno biologico (vale a dire la pura lesione della integrità psico-fisica, il danno anatomo-funzionale in sé considerato) ha possibilità di valutazione uniforme. Non sono contrario di principio che questo parametro valutativo del danno biologico statico venga trasferito dalla responsabilità civile in altri ambiti valutativi: osservo tuttavia che la sua adozione dovrà comunque essere accompagnata da opportuni fattori di correzione inerenti la specifica tutela assicurativa o previdenziale: così è avvenuto per l'INAIL con la tabella dei coefficienti, ed altrettanto è stato per la cause di servizio per le missioni militari all'estero e per le vittime del terrorismo, laddove, nel calcolo della invalidità complessiva [IC=DB+DM+(IP-DB)"] rientra anche la "percentuale di invalidità permanente riferita alla capacità lavorativa".
Dottorato di ricerca in Storia d'Europa: società, politica, istituzioni (XIX - XX secolo) ; La ricerca realizzata ha inteso studiare, in un'ottica di lungo periodo e in una prospettiva complessiva, ciò che ha rappresentato l'esperienza del fascismo in un contesto territoriale periferico e non omogeneo, di cui è espressione quel segmento dell'Umbria meridionale costituito in provincia nel gennaio 1927. Tale area si è rivelata un case study esemplare, in grado di offrire interessanti spunti interpretativi. In effetti, all'unico grande polo industriale della provincia, compreso nel territorio della conca ternana, si contrappone la restante parte del territorio provinciale, comprendente città come Orvieto e Amelia, contrassegnate da consolidate relazioni con le regioni limitrofe, espressione di un'Umbria verde, agricola e mezzadrile, ma anche francescana, terra d'arte, di misticismo, ritenuta dalla pubblicistica di regime "cuore" dell'Italia fascista. A partire da ciò, si è creduto opportuno impostare la ricerca attorno a tre questioni principali, ritenute essenziali per cogliere aspetti e dinamiche della società locale nel ventennio mussoliniano. Per fare questo è stata definita una griglia interpretativa funzionale a verificare il ruolo del Pnf nel quadro del rapporto centro-periferia, continuità-rottura. Si è così puntato a esaminare come il fascismo abbia influito sui processi di formazione e consolidamento dei ceti dirigenti locali, verificandone la capacità di rapportarsi con le vecchie élites, di promuoverne di nuove o, magari, di fare coesistere entrambe. Si è poi cercato di approfondire il ruolo che il partito ha svolto in ambito locale, la sua capacità di inserirsi nelle diverse dinamiche territoriali, di creare e controllare reti clientelari e, soprattutto, di rapportarsi con le due realtà che rimangono fuori dal suo controllo, il grande gruppo polisettoriale rappresentato dalla "Terni" polisettoriale di Bocciardo e la Chiesa locale, il tutto al fine di conseguire i propri obiettivi totalitari. Infine, si è affrontata la questione del consenso. In questo senso, è stato preso in considerazione non soltanto il ruolo della violenza attuata dal fascismo per conquistare il potere e la stessa azione repressiva dispiegatasi negli anni del regime, che si dimostra concreta e reale come è normale in una situazione di dittatura, ma si è provato a fare luce sul dissenso e sulle aree di rassegnazione o di consenso tiepido che sembrano persistere nella società locale. Nel procedere si è poi cercato di coniugare la storia politicoistituzionale con quella sociale e in parte economica, attraverso un costante lavoro di analisi e incrocio delle fonti studiate, scelta ritenuta utile per conseguire gli obiettivi prefissati. Certamente, la riflessione sulle origini, l'affermazione, il consolidamento del fascismo in provincia di Terni, offre sostanziali conferme a quanto una parte della storiografia aveva proposto. Nell'Umbria meridionale il fascismo, nei suoi vertici, sorge e si afferma come punto d'incontro dei ceti dominanti tradizionali. Esso si afferma in quanto strumento della reazione agraria e dei gruppi industriali monopolistici di 2 fronte alla conflittualità contadina e operaia e al dilagare del socialismo. La sconfitta delle élites politiche tradizionali alle elezioni politiche del 1919 e a quelle amministrative del 1920, che seguiva l'effervescenza sociale del biennio rosso; la stipula del patto colonico del 1920 sfavorevole per gli agrari; la stessa esperienza, sebbene breve e contraddittoria, dell'occupazione delle fabbriche, sullo sfondo di una situazione economica difficile, ne determina la reazione, che si concretizza per l'appunto nell'adesione al fascismo. Dapprima nella versione squadrista, capace di sconfiggere sul piano militare gli oppositori, anche grazie al diffuso sostegno degli apparati di sicurezza dello Stato, quindi come blocco elettorale e nuova struttura politica in grado di conquistare il potere, il fascismo si configura come una sorta di union sacrée contro il "bolscevismo", in cui confluiscono conservatorismo agrario ma anche impulsi industrialisti e modernizzatori. Più concretamente, esso viene accorpando tutte quelle correnti politiche, contrapposte tra loro nel primo quindicennio del secolo, che avevano costituito il frastagliato universo giolittiano. In questo senso, come l'analisi dei vertici del Pnf provinciale e degli amministratori locali ha permesso di verificare, sino al 1927 a essere protagonisti sulla scena politica locale sono le forze che tradizionalmente facevano parte del blocco agrario. In primo luogo i proprietari terrieri, molti dei quali appartenenti alla nobiltà, a cui si affiancano esponenti della borghesia delle professioni, le cui proprietà erano cresciute a cavallo tra Ottocento e Novecento, nonché alcuni settori espressione diretta del mondo rurale, come gli agenti di campagna, i fattori, ma anche quei contadini che nei primi anni venti erano riusciti ad accedere alla proprietà della terra. In provincia di Terni quindi, dalla conquista fascista sino all'introduzione della riforma podestarile ma, in gran parte, anche dopo, la presenza ai vertici delle amministrazioni municipali e di quella provinciale di esponenti del notabilato locale, essenzialmente aristocratici, proprietari terrieri, professionisti, si rivela dato costante che permette di accomunare la provincia di Terni a realtà come la Toscana, l'Emilia-Romagna e, anche, a parte dell'Italia meridionale. L'attuazione della riforma podestarile, con le prerogative concesse al prefetto nella nomina dei vertici delle amministrazioni comunali, non sembra variare di molto la situazione, almeno nella prima fase di attuazione della riforma. Come è emerso nei comuni della provincia di Terni, il criterio seguito dai prefetti per l'individuazione dei podestà era connesso con la rilevanza sociale ed economica riconosciuta in una comunità ai candidati alla carica che, senza dubbio, un titolo nobiliare e una professione adeguata erano in grado di assicurare, anche magari a scapito della mancanza di qualche requisito previsto dalla legge istitutiva della riforma podestarile. In questo senso, sembra dunque perpetuarsi un modello burocratico e ottimatizio insieme, grazie al quale il fascismo intendeva presentarsi alle comunità locali con un volto rassicurante, al fine di accattivarsi il favore della popolazione. L'analisi prosopografica dei profili relativi a presidi, consultori provinciali, podestà, membri delle consulte municipali, per il periodo 1926-1943, ha reso possibile definire un quadro che vede sostanzialmente confermata l'analisi fatta in una prospettiva nazionale da Luca Baldissara ormai più di una decina di anni 3 fa1. E' cosi emerso il carattere di classe della rappresentanza politico-amministrativa fascista in questi anni, sebbene con alcune differenze effetto delle specificità socioeconomiche caratterizzanti l'area esaminata. Nello specifico, l'esame condotto sul corpus di 147 amministratori (78 podestà e 69 commissari prefettizi) che si succedono nei Comuni della provincia nell'arco di tempo considerato, ha permesso di tracciare l'identikit di un funzionario con un'età compresa tra i quaranta e i cinquanta anni; in possesso di un titolo di studio elevato (laurea o diploma di scuola superiore); in cui la proprietà della terra riveste un ruolo essenziale, coerentemente al tessuto socio-economico prevalente in provincia, e in cui dal punto di vista della professione esercitata appare predominante la figura del libero professionista (in genere avvocato e notaio). Forte è poi il legame dei podestà con il Pnf, più della metà del campione individuato risulta nel partito dal biennio 1920-1922; al tempo stesso, la maggioranza delle designazioni effettuate dai prefetti avviene in accordo con la federazione provinciale fascista. Sembra quindi delinearsi un quadro d'assieme che nel corso degli anni trenta, in gran parte della provincia, vede la predominanza delle gerarchie notabilari nella gestione del potere locale. Da tale situazione si discosta in parte l'area industriale compresa tra Terni e Narni, in cui come avviene in altri contesti urbani o regionali, attraverso il Pnf si assiste all'ascesa di personalità espressione della media e piccola borghesia urbana, per i quali l'istituto podestarile diventa uno strumento di promozione sociale e di affermazione nella gerarchia del potere locale. L'immagine del governo locale che si profila non è però statica, appare invece dinamica e contrassegnata da una forte conflittualità che, a vari livelli, si dimostra uno dei tratti comuni percepibili sotto l'apparente pacificazione realizzata dal fascismo. La forte instabilità presente nelle amministrazioni comunali della provincia di Terni, attestata dall'elevato numero di commissari prefettizi e di podestà retribuiti che si succedono, è testimonianza non solo delle difficoltà incontrate dai prefetti nella selezione di un ceto dirigente adeguato ma, soprattutto, del tentativo delle élites tradizionali, attraversate da interessi diversi e relazioni clientelari e familiari molteplici, di resistere all'azione omologatrice del regime. Indubbiamente, lo Stato fascista, attraverso la promozione di un modello di podestà fondato su competenza, capacità di agire, allineamento alle direttive dei vertici, in nome della proclamata modernizzazione puntava a ricondurre le periferie sotto il controllo del centro. Ecco allora che la ricerca di una concreta azione di governo delle amministrazioni locali, frequentemente sollecitata dal prefetto, da perseguire, ad esempio, attraverso la realizzazione di opere pubbliche funzionali alla mobilitazione di settori diversi della società, diventava il riferimento attraverso cui misurare l'efficienza e, soprattutto, "l'operosità" degli amministratori locali. L'elevato turnover dei podestà rappresenta pertanto una spia che si presta a misurare significativamente le difficoltà incontrate dal regime nell'affermare la propria azione in periferia. Non di rado tuttavia l'intervento del prefetto sui podestà si rendeva necessario per stroncare le lotte intestine e di fazione che si scatenavano all'interno delle élites locali per la gestione del potere. Le modalità attraverso cui tali scontri si manifestano sembrano esprimere dinamiche del conflitto omogenee a quanto accertato da altri studi 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 riguardanti realtà comunali, provinciali e regionali diverse. Esse assumono la forma di lettere, esposti, denunzie anonime, che divengono lo strumento di lotta principale tra le fazioni in una dimensione comunale ma, come è stato accertato in chiave provinciale, anche tra i rappresentanti dei diversi poteri locali, oltre che all'interno degli stessi vertici della federazione fascista ternana. A partire dal 1927, con la nascita della Provincia e l'insediamento di istituzioni politiche e amministrative nella città capoluogo, anche per il fascismo locale inizia una fase nuova, l'esame della quale ha permesso di meglio comprendere come in questa realtà si viene definendo il rapporto con il centro. La genesi della nuova entità territoriale è frutto di una serie di variabili legate, da un lato, alle esigenze politiche amministrative dello Stato fascista divenuto regime; a cui si sovrappongono le dinamiche conflittuali interne al fascismo regionale, che portano alla pacificazione dello stesso e alla nascita della federazione provinciale del Pnf. Infine, un ruolo determinante lo ha l'affermazione della "Terni" polisettoriale, vero e proprio potere forte nella nuova provincia, in grado di dare vita a un originale sistema di fabbrica a metà strada tra paternalismo assistenziale e truck-system. Con essa il regime dialoga direttamente, baypassando la neonata federazione provinciale del Pnf e, se necessario, intervenendo per normalizzarla, come dimostra esemplarmente la vicenda politica e personale di Elia Rossi Passavanti, primo federale e podestà di Terni. In questo senso, la ricostruzione dei percorsi personali e professionali dei vertici dell'amministrazione statale (prefetti e questori), degli organi politici (federali, vicefederali, segretari amministrativi, componenti del Direttorio della federazione fascista) ed economici (membri del consiglio provinciale dell'economia, di quello delle corporazioni e del principale istituto bancario del capoluogo), è stata preziosa per le riflessioni che permette di realizzare rispetto al ruolo avuto dal Pnf in provincia e, specialmente, alle dinamiche politiche che si innescano nei rapporti che il partito instaura con le altre autorità, a cominciare da quella prefettizia. Proprio con riferimento ai prefetti, si è potuto osservare che sui nove che si succedono in provincia di Terni nel periodo considerato, ben sei provengono dal Pnf. Tale fatto non sottende necessariamente un'automatica collaborazione con la federazione fascista, quanto piuttosto sembra rispondere all'esigenza del centro di superare i contrasti esistenti tra la federazione fascista e la prefettura che, invece, è situazione ricorrente in provincia. Nel contempo, il succedersi di dodici federali alla guida del partito è prova di una significativa instabilità, dato peraltro ulteriormente confermato dalla netta prevalenza di personalità estranee all'ambiente locale, ben nove. Questo fatto non esprime solo una certa debolezza del fascismo locale, incapace di fornire un ceto dirigente adeguato, ma dimostra la stessa evoluzione che subisce la figura del segretario federale, nei termini di una spiccata professionalizzazione inquadrabile nel più generale contesto di crescente burocratizzazione del Pnf funzionale a consolidarne il ruolo di mediazione e di intervento nell'amministrazione dello Stato, che si rivela uno dei tratti tipici del Pnf staraciano. In questo senso, le guerre che si scatenano tra prefetto e federale nel corso degli anni trenta, ad esempio per la questione delle nomine dei podestà, in cui ruolo determinante lo acquista ancora una volta l'arma dell'esposto e della lettera anonima, attestano il tentativo portato avanti dal partito di far sentire il proprio peso al fine se non di sovrapporsi, quanto meno di affiancare lo Stato in periferia. Affiora così quella di5 mensione policratica che si configura come uno degli elementi caratterizzanti la politica in periferia negli anni del regime. Nonostante i contrasti che si scatenano tra i poteri, le lotte intestine all'interno del Pnf, la cronica debolezza dimostrata dai ceti dirigenti, la federazione provinciale fascista nel corso degli anni trenta riesce comunque a essere vitale e in grado di esercitare il proprio ruolo ai fini della fascistizzazione della società locale. D'altra parte, ai vertici del partito se si escludono i federali e i loro più stretti collaboratori, le restanti cariche continuano a essere gestite in larga parte dal medesimo nucleo originario fascista, fatto di appartenenti al ceto agrario e alla borghesia delle professioni provenienti, per la maggior parte, dall'area ternana. Ciò attesta lo scarso ricambio generazionale esistente all'interno della federazione, ma anche il peso politico ed economico ricoperto dal capoluogo rispetto all'intera provincia. Questi dirigenti fanno parte dei diversi Direttori federali che si succedono e, talvolta, ricoprono contemporaneamente, laddove la legislazione lo consente, incarichi in organismi quali il Consiglio provinciale dell'economia o, anche, alla guida della principale banca locale. Ai vertici del partito il peso degli appartenenti a settori della piccola borghesia e del ceto operaio è invece minore. Soltanto con l'approssimarsi del secondo conflitto mondiale, si fanno strada figure espressione del ceto impiegatizio, ma anche tecnici e qualche sindacalista con alle spalle una carriera nell'apparato burocratico della federazione provinciale, i quali assumono incarichi di un certo peso, come quello di segretario amministrativo o di componente del Direttorio. In questo modo sembra prefigurarsi, sebbene in maniera timida e non paragonabile a quanto accade in altre province, l'affermazione «dal basso e dalle periferie [di] una nuova classe dirigente del regime totalitario»2. Nel corso degli anni trenta dunque, sebbene tra molteplici difficoltà di natura anche economica, il Pnf riesce a dare vita in provincia a una struttura organizzativa in grado di penetrare e inquadrare la società locale. Peraltro, l'afflusso costante di contributi concessi da enti pubblici diversi (amministrazioni provinciali, comunali, Consiglio provinciale dell'economia) e soggetti privati (la Società "Terni" in primo luogo, ma anche altre aziende) a un partito alla continua ricerca di risorse, che la documentazione amministrativa della federazione ternana ha permesso di verificare, rappresenta testimonianza esemplare degli sforzi profusi dal regime per rendere il Pnf un volano di sviluppo del peculiare welfare funzionale alla fascistizzazione della società locale. In questa prospettiva, il rapporto con la Società "Terni" si è rivelato una chiave di lettura che non è possibile trascurare se si vuole comprendere la natura dell'esperienza fascista in provincia di Terni. Si è visto che la stessa nascita della nuova Provincia è connessa alla questione del controllo delle acque del sistema Nera-Velino, presupposto essenziale per la creazione dell'impresa polisettoriale; così come la stipula della convenzione tra il Comune di Terni e la società guidata da Bocciardo, sanziona di fatto in maniera prepotente la forza non solo della grande azienda, ma l'affermazione dello stesso "centro" sulla "periferia". Da quel momento e anche dopo l'inserimento della "Terni" nel sistema delle partecipazioni statali attra- 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 6 verso l'Iri, operazione che garantì allo Stato il controllo pubblico sull'azienda e sul suo assetto produttivo, la grande impresa per il fascismo ma, più in generale, per la stessa società locale diventa emblematicamente una madre-matrigna. Essa viene percepita come un complesso capitalistico che invade la città e, con i suoi vertici, in grado di dialogare con il centro e, anche, direttamente con il duce, si pone rispetto al Pnf locale in una situazione super partes. Non è così casuale che i federali presentino come risultato della loro azione politica i buoni rapporti che riescono a intrattenere con i vertici aziendali, i quali peraltro si dimostrano costantemente impermeabili all'influenza della federazione fascista. D'altra parte, a partire dalla stipula della convenzione del 1927 e per tutto il decennio successivo la "Terni", insieme al partito, appare senza alcun dubbio uno dei pilastri del regime in provincia. Non soltanto sostiene la federazione provinciale con contributi costanti, essenziali per assicurargli la possibilità di svolgere la propria azione sul territorio; ma, più in generale, con tutto il suo peso di grande gruppo polisettoriale sposa in pieno le politiche economiche, sindacali, sociali del regime, garantendo allo stesso le condizioni per affermare «un sistema di aggregazione/costruzione del consenso/controllo sociale e politico che si adegua al modello del regime reazionario di massa»3. In queste dinamiche si inserisce anche, per quanto è stato possibile accertare in relazione alle fonti disponibili, l'atteggiamento tenuto dalla Chiesa cattolica locale nei riguardi del fascismo. L'analisi condotta con riferimento specifico alla diocesi di Terni-Narni e al vescovo Cesare Boccoleri che la guida nel Ventennio fascista, ha permesso di accertare che, come succede in altre diocesi italiane e coerentemente con le scelte fatte dai vertici vaticani, la Chiesa ternana sembra tenere una posizione di sostanziale appoggio al fascismo e di collaborazione con il Pnf. Ciò emerge in maniera evidente in alcuni momenti: ad esempio, in occasione delle campagne promosse dal regime sul terreno economico e sociale, come per la Battaglia del grano e, soprattutto, dopo la stipula del Concordato, o nel corso della guerra d'Etiopia e di Spagna. Al tempo stesso, anche quando si hanno tensioni nei rapporti tra Stato e Chiesa (per effetto della crisi del 1931 sulle prerogative dell'Azione cattolica o in occasione dell'introduzione delle leggi razziali), le conseguenze concrete per la Chiesa locale sono di scarso rilievo e, comunque, tali da non incidere sostanzialmente sulla natura dei rapporti esistenti con la federazione fascista. Anche la Chiesa locale quindi, sebbene con l'obiettivo di preservare e, per quanto possibile, incrementare la presenza cattolica nella società locale, contribuisce nella sostanza a consolidare e, anche, ampliare il consenso al regime. In particolare, essa si dimostra attiva nel favorire, specialmente nelle aree rurali, quell'azione di «modernizzazione politica» di natura reazionaria, conseguenza del tentativo di organizzazione della società italiana secondo criteri gerarchici e accentratori, che il fascismo è impegnato a portare avanti in periferia. Certamente, un ruolo essenziale ai fini della creazione e, soprattutto, del mantenimento del consenso lo esercita anche la costante opera di vigilanza e repressione di ogni forma di dissenso organizzato e di attività politica di opposizione, che si attua in provincia per opera degli apparati di sicurezza dello Stato fascista. Tale azione si rivela particolarmente efficace se negli anni del regime solo i comunisti, essenzial- 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 7 mente nell'area industriale ternana, riescono a mantenere in vita, per quanto a fatica e in misura ridotta, una forma di opposizione organizzata. E tuttavia, il fatto che continuamente le autorità, sebbene nell'ambito del riconoscimento di quanto fatto dalle diverse organizzazioni del partito a favore del ceto operaio, lamentassero l'inadeguato grado di "comprensione fascista", quando non la scarsa fascistizzazione dei lavoratori delle industrie ternane e la loro "pericolosità" politica, sembra essere la conferma implicita di come in provincia, non solo non scompare l'insofferenza e il dissenso, anche politicamente organizzato, ma, più in generale, sotto la camicia nera, a prescindere dalla propaganda e dall'attività delle differenti istituzioni del regime, non vengono meno nemmeno gli interessi molteplici che contrassegnano la società locale e le diverse realtà presenti sul territorio. In ultima analisi, il fascismo locale appare in grado di esercitare un ruolo attivo nel disegno di fascistizzazione della società, coerentemente con l'accelerazione nel processo di creazione dello Stato totalitario di cui è strumento il Pnf staraciano. Il partito si rivela dunque un vero e proprio centro di potere, espressione di un regime autoritario e tendenzialmente totalitario, con cui, inevitabilmente, tutti i cittadini si trovano a confrontarsi per le necessità della vita quotidiana: in altre parole, a dover essere, almeno una volta nella vita, fascisti. ; This research project is an in-depth study, in a comprehensive and long-term perspective, of what Fascism represented at a local level in a peripheral and non-homogeneous context, as in the case of the Southern Umbria areas, established as an administrative province in 1927. This specific geographical district flagged-up all the prerequisites for an exemplary case study, featuring several significant explanatory points. To this unique large provincial administrative industrial hub located within the Terni basin, other districts, part of the same province, remained juxtaposed. Within their respective areas, these districts included towns such as Orvieto and Amelia, which had strong links with the neighbouring communities, representing the rural, agricultural and mezzadrile aspects of Umbria, land of Saint Francis of Assisi, rich in art and religious meanings, which the Fascist Regime came to proclaim officially as the "heart" of Fascist Italy. On the basis of these introductory remarks, the study focuses its scope of research on three main points, all but essential to understand fully the aspects and dynamics of the local society during the Fascist period, also referred to as the ventennio mussoliniano. An interpretative functional grid has been designed with a view to describe the role of the National Fascist Party (Nfp) within the centre-periphery and continuity-innovation relationships with the previous regime. The study seeks to investigate how Fascism exerted its influence on the establishment and process of strengthening of the local ruling ranks, attesting its ability to relate with the old dominant élites, or promote the emerging of new ones or, in addition, facilitate and support the coexistence of both. Furthermore, the research focuses on the role exerted by the Nfp at a local level, its capability to affect the various localised dynamics of power, to create and control networks of affiliates and, above all, to relate with the two main subjects which remained independent from its control, the important industrial group represented by "Terni" of Bocciardo and the local Catholic Church, with an overarching aim to achieve its totalitarian objectives. Finally, the question of popular consent has also been scrutinised. At one level, the study analyses the 2 role of fascist violence deployed to obtain power and the repressive actions carried out under the Regime, which were highly effective, as one might expect under a dictatorship. At another level, it investigates the popular dissent and the grey areas of passive acceptance and weak consent which were common among strata of the local population. Additionally, in a broader perspective, political and institutional historical analysis has been coupled with social and economic investigation, through a systematic scrutiny and cross-examination of the main sources, as a methodological approach needful to the achievement of the final outcomes of the research. Findings on the origins, development, and strengthening of Fascism within the Terni province appear to concur with the conclusions reached by previous historical research. In the Southern areas of Umbria, Fascism, at its highest level, was brought into power and successfully established by the traditional ruling classes. The establishment of Fascism was supported and facilitated by the agrarian reaction and the monopolistic industrial groups threatened by the discontent of the rural and working classes and the rapid advancement of Socialism. The political defeat of the traditional ruling élites at the 1919 general election and the 1920 local elections, which followed the social turmoil of the so-called red biennium; the agreement of the 1920 patto colonico, disadvantageous to landowners; the occupation of factories, though a brief and contradictory experience, against a background of economic difficulty, caused their reaction and prompted their acceptance and support for Fascism. Firstly, Fascism, in the form of Fascist action squads and their capability of defeating its opponents militarily, with the extensive assistance of the State security services, then as an electoral block and political force capable to achieve power, presented itself as a sort of union sacrée against the threat of Bolshevism into which various groups appear to converge: the agrarian conservatism but also industrial and more modern forces. Undoubtedly, Fascism drew together different political forces, which during the first decade of the twentieth-century had been mutually antagonistic, and segments of the complex and divided political establishment of the Giolitti era. The scrutiny of the highest levels of the local Nfp and civil servants has revealed that, at least till 1927, the main political figures belonged to those forces already part of the agrarian block. Firstly, the landowners, many of whom belonged to the local nobility, supported by members of the professional bourgeoisie, whose estates and wealth had augmented during the nineteenth- and twentieth-century, and other sectors which were the direct expression of the rural milieus, such as the rural agents, farmers, but also those peasants whom, during the first two decades of the twentieth-century, had succeeded in becoming landowners themselves. Therefore in the Terni province, from the establishment of the Fascist regime to the introduction of the office of podestà and, for some time even after, 3 the highest offices of the municipal and provincial administration were held by members of the local nobility, primarily aristocrats, landowners and professionals. This is an invariable characteristic which put the Terni province in alignment with similar situations in Tuscany, Emilia Romagna and other areas of Southern Italy. The administrative reform and the establishment of the podestà authority, together with the prerogatives of the prefectures in appointing members of the highest offices within the municipal administrations, did not radically change, at least during the early phases of the reform, established practice. A survey of the municipalities located within the Terni province, shows that the prefects in the selection process to appoint the podestà took greatly into account the candidates' social and economic status of and, without doubt, a honorific title and tenure of highly considered profession were often sufficient criteria for a candidate to be nominated even when lacking some of the prescribed requisites as outlined by the administrative reform. The Fascist regime therefore, in perpetuating a bureaucratic and grandees system, showed an intention to reassure the existing ruling élites and obtain the support of the local population. A prosopographical analysis of the biographical profiles of headmasters, members of the provincial advice bureaus, podestà, members of the municipal advisory councils, during the 1926-1943 period, has made it possible to outline a summary framework which strongly corroborates the analysis carried out at a national level by Luca Baldissarra over a decade ago.1 What has emerged from this analysis is the class-based character of the Fascist political and administrative representation during those years, though presenting various differences linked to the social and economic specificity of the area scrutinised. In more depth, the study carried out on a corpus of 147 civil servants (78 podestà and 69 prefectural officers) employed by the municipalities of the province during the examined period, made it possible to draw up a profile of the typical officer: between forty and fifty years of age; highly educated (having achieved a high-school or university degree); often a landowner, a characteristic consistent with the social and economic structure prevailing throughout the province, and among whom the status of self-employed (generally lawyer or public notary) represented the most frequent professional position held. Relations between the podestà and the Nfp appear to have been particularly close, over half of the sample identified is composed by individuals who had joined the Fascist Party at an early stage, during 1920-1922; additionally, the majority of the appointments made by the prefects were agreed in advance with the Provincial Fascist Federation. It would therefore appear that during the 1930s, in 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 large areas of the province, the highest hierarchies of grandees were the prominent figures holding local high office. The industrial area comprised within the administrative territories of the two municipalities of Terni and Narni, however, appears to contrast with other districts of the province. In this area, as for similar cases in other municipalities or other regional administrations, the Nfp supported the emergence of members of the small and medium local urban bourgeoisie, as the office of podestà became a vehicle of social advancement and an opportunity to climb up the local hierarchy of power. Despite the apparent pacification established forcibly by the Fascist regime, the dynamics of power within the local government remained characterised by extreme unrest and strong conflict at various levels. The sizeable number of prefectural commissioners and remunerated podestà who succeeded in office, often in rapid succession, bears witness to the instability which marred almost all the municipal administrations of Terni province. This is evidence of the obstacles encountered by the prefects during the selection process of a qualified managerial class but, above all, of the resistance put up by the traditional élites of power, motivated by divergent interests and loyalty to various networks of familial and personal relations, to the process of homologation pursued by the Fascist regime. Undoubtedly, the Fascist regime, in implementing a model of podestà based on competence, on the energetic ability to act, on its alignment to official directives, and in order to achieve a modernisation of the administrative system, aimed at placing the local authorities under the prescriptive control of a centralised State. The actual administrative actions implemented by the local administrative offices, frequently under the guidance and pressure of the Prefects, as for example in the case of the accomplishment of public works functional to the civil mobilisation of various segments of the local community, became a measure of their efficiency and, above all, a measurement of how industrious the local administrators should be. The high turn-over of podestà is a clear indication of how difficult it was for the Fascist regime to implement its plans of action in peripheral areas. Additionally, direct intervention by the Prefects was often necessary to put an end to rivalries and internal power struggles which frequently broke out among local élites. These clashes and their manifestations appear to be similar in their dynamics, as pointed out by previous studies, to other cases occurred in different municipalities, provinces and regions. Resorting to anonymous letters, official complaints, accusations, came to represent the instrument to attack and weaken the opposite factions at a local level, within the municipalities, but also within the provincial administration, among the various representatives of the local administration and even the highest offices of the Terni Fascist Federation. From 1927, following the establishment of the 5 Province and the set up of political and administrative authorities in Terni, now seat of local government, a new phase emerged for the local Fascist Party too. The study of this new province has facilitated the understanding of its relations with central authorities. The establishment of this new local administration was the result of various circumstances linked to the political requirements of the Fascist State following the transition to a totalitarian regime. Additionally, the internal conflict dynamics of the regional Fascist Party played an important role. These led to the inner pacification of the Party and the set up of a Nfp Provincial Federation. Finally, the establishment of "Terni" had a pivotal role too. "Società Terni" (also referred to as "La Terni") came to represent the real "strong power" of the province, capable of imposing a factory regimen based partially on paternalistic assistance and partially on a truck-system model. The Fascist regime dealt directly with "Terni", bypassing the newly-established Nfp Provincial Federation and, where necessary, intervened to impose its authority, as the political and personal vicissitudes of Elia Rossi Passavanti, the first Federal secretary and podestà of Terni, exemplified. In this perspective, drawing together personal and professional career paths of the highest officers (prefects and police commissioners), of both political (federals, deputy federals, administrative secretaries, members of the Fascist Federation Federal Bureau) and economic authorities (members of the Provincial Economic Council, members of the Provincial Corporations Council and of the main bank) has represented an invaluable study, conducive to the understanding of the Nfp's role within the province and, in addition, of the political dynamics at play among the Fascist Party and other authorities, such as the prefectures. With specific reference to the prefects, it is worth noticing that of the nine prefects in office in the Terni province during the period under scrutiny, as many as six were Nfp members. This situation, however, did not necessarily imply a spontaneous collaboration between the prefectures and the Fascist Federation, but it would appear to have been a response to the need of overcoming the conflictual antinomy between the two authorities, which was a recurrent event throughout the Terni province. In addition, the succession of twelve Federals as leaders of the Fascist Party bears witness to a pervasive instability, a fact which is also confirmed by the noticeable preference given to individuals, as many as nine, unconnected with the local milieu. This is certainly a clear manifestation of the local Fascist Party's weakness - which appeared unable to express and produce capable managerial ranks - and of the evolution of the Federal Secretary's role, becoming more and more a professional one, in the context of the remarkable bureaucratisation of the Nfp, aimed at strengthening its mediatory and interventional role on the local administration, one of the main characteristics of the Nfp 6 under the leadership of Starace. Within this framework, the contrast between the prefects and the Fascist Federal secretaries during the 1930s, with regard, as a case in point, to the appointments of the podestà, and the crucial utilisation of official complaints and anonymous letters, bears witness to the Party's attempt to impose its decisions or, at least, to influence the administration at a local level. This, in turn, resulted in a situation of polycracy, which was one of the factors denoting local politics during the Fascist regime. During the 1930s, despite deep rooted conflict among the authorities, the internal power struggles within the Nfp and the endemic ineptitudes of the ruling class, the Fascist Provincial Federation was successful in exerting and promoting the fascistisation of the local community. It is manifest that the highest authorities within the National Fascist Party, with the exception of the Federals and their closest advisors, remained the domain of the original Fascist core, composed by members of the rural class and the bourgeoisie originating primarily from the Terni area. This explains the inadequate generational change within the Fascist Federation and, in addition, the political and economic importance of the Terni area in comparison to the entire province. These political figures were part of the various Federal Bureau and, in some cases at the same time, if the law permitted, held additional offices in different institutional bodies, such as the Economic Provincial Council or were in charge of the main local bank. On the contrary, the influence exerted on the high levels of the National Fascist Party by the small bourgeoisie or by members of the working class remained negligible. It was only with the approach of the Second World War that members of the clerical class, but also technicians and a few tradeunionists already employed within the bureaucratic structure of the Provincial Federation, acquired an enhanced importance and gained access to higher office, such as administrative secretaries or members of the Federal Bureau. The Terni area too, though in a more limited way, which bears not comparison with other provinces, saw the rising «from the bottom and the periphery of a new ruling class within the totalitarian regime»2. During the 1930s therefore, despite various difficulties, including economic issues, the Nfp was successful in creating at a provincial level an organisational structure capable of influencing and organising the local community. Additionally, the regular flow of financial contributions bestowed by various public authorities (provincial administrations, municipalities, Provincial Economic Council) and private companies ("La Terni", first of all, but other businesses too) to a political party constantly seeking financial backing, as thoroughly documented by records of the Terni Fascist Federation, bears witness to the outstanding efforts the Regime made to 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 7 successfully present the Nfp as a conducive mean to the development of this specific welfare model, with a view to promote the fascistisation of the local community. In this perspective, the Nfp's relation with the "Società Terni" is key to understanding the nature of the Fascist Regime and its role within the Terni province. The establishment of a Province was connected to the control of the water-system of the two rivers Nera-Velino, essential to create an industrial hub; similar reasons were behind the agreement stipulated between the Terni municipality and the Bocciardo Company, which came to sanction resolutely the importance of the Company and, additionally, the supremacy of the "centre" over the "periphery". It was from this period and following the inclusion of "Società Terni" within the system of state-controlled industries through the Institute for Industrial Reconstruction, a transaction which secured State control over the Company and its productive branches, that "La Terni" became firmly linked to Fascism and, more in general, to the local community, though in a controversial and ambivalent mutual relation. The Company was perceived as a capitalistic enterprise which took over the city, its directors being able to negotiate with the central Government directly and with the Duce himself, taking a super partes position in relation to the local Nfp. It was not a fortuitous occurrence that the Federal secretaries gauged their political influence against the effectiveness and strength of the relations they were able to maintain with the executive directors of "Società Terni", whom, on their part, appeared to be impenetrable to any influence exerted by the local Fascist Federation. Additionally, following the 1927 agreement and during the ensuing decade, "La Terni", in conjunction with the Fascist Party, appeared to become, without doubt, one of the main pillars of the province. At one level, it supported the Fascist Provincial Federation through a constant flow of financial contributions, vital to bankroll the Federation's activities within the province; but, at a more general level, asserting its influence as a large industrial group, it was capable of shaping the economic, trade-union and social policies of the Fascist regime, creating those conditions to establish «a system of aggregation/disaggregation of the social and political consensus/control conforming to the mass reactionary regime model»3. Within this dynamic interactions, and on the basis of documents available, the local Catholic Church played a significant role in relation to the Fascist Party. With reference to the specific case of the Terni-Narni dioceses and bishop Cesare Boccoleri, the Church's main leader during the Fascist ventennio, this research has showed that, as in the case of other Italian 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 8 dioceses and in alignment with the decisions taken by the Vatican, the Church authorities in Terni supported the Fascist apparatus and adhered to a policy of collaboration with the Nfp. This was particularly manifest on specific occasions: for example during the economic and social campaigns promoted by the Regime, as a case in point the so-called "Battle of the wheat" and, above all, following the 1929 Concordat with the Catholic Church, or during the Ethiopian and Spanish conflicts. At the same time, even when tensions arose and marred the relations between the Fascist regime and the Catholic Church (following the 1931 crisis caused by the limitations imposed on the prerogatives of Azione Cattolica or the adoption of the 1938 racial laws), the consequences for the local Church were negligible and did not appear to affect the on-going relations with the local Fascist Federation. The local Church therefore in pursuing the aim of preserving and, wherever possible, augmenting the Church's influence on the local community, contributed to reinforce and widen consensus for the Fascist regime. More specifically, the Church's actions were particularly effective in encouraging, especially in rural areas, that precise process of "political modernisation", though reactionary at its core, based on organising the entire Italian society on hierarchical and centralising criteria, which Fascism was promoting particularly at a local level. Additionally, and without doubt, the important function to create and, above all, to maintain a high level of consensus was exerted by the pervasive surveillance and repression of any form of dissent and political opposition, enforced within the province by the Fascist security services. A repressive action which was extremely effective and, during the dictatorship, only the Communist Party, despite being hemmed in to the Terni industrial area, was able to maintain, albeit with great difficulty and in a limited way, a form of organised resistance. The fact that the Fascist authorities continuously, though recognising what had been achieved by the Party's multifarious organisations to favour and support the working classes, lamented the feeble "fascistisation" of the Terni industrial workforce and their being "politically dangerous", would appear to confirm implicitly that throughout the province the opposition and political dissent had not completely ceased. More in general, under the "black shirts", despite the propaganda and the activities of various Fascist authorities and institutions, it remained evident that the diversified interests which characterised the local society and the different realities rooted at local level persisted. Ultimately, the local Fascist Party appeared capable of exerting an active role in the "fascistisation" process of society, in alignment with the creation and implementation of a totalitarian state, being the main objective of the National Fascist Party under the leadership of Starace. The Nfp was therefore a real centre of power, expression of an authoritarian 9 regime leaning toward totalitarianism. A regime against which all citizens had to relate for their everyday life needs: that is to say, all citizens had to act, at least outwardly, as fascists.
INDICE CAP.1 Premessa 1 DALLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITA' SANITARIA 1. La responsabilità in generale 2 2. Responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale 3 3. La responsabilità medica 9 4. La responsabilità del medico 10 5. La responsabilità della struttura sanitaria 12 6. Il sistema a doppio binario 14 7. La "spersonalizzazione" del rapporto 17 8. Il problema della responsabilità del medico dipendente dalla struttura 19 CAP. 2 RESPONSABILITA' CONTRATTUALE ED EXTRACONTRATTUALE 1. Il problema della distinzione dell'ambito applicativo delle regole sulla responsabilità 25 2. Lo stemperarsi dei profili di differenza 36 3.L'incremento dei punti di contatto 37 4. La zona grigia tra illecito e contratto 41 CAP.3 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DIPENDENTE DALLA STRUTTURA SANITARIA 1. La tesi della natura extracontrattuale 46 2. La tesi della natura contrattuale 50 3. La tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale 56 4. Evoluzione giurisprudenziale dopo le S.U. della cassazione e consolidamento della tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale 72 CAP.4 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DOPO LA LEGGE BALDUZZI 1. La ratio della legge e il contesto socio-economico nel quale si inserisce 79 2. Problematiche inerenti l'art.3 87 3. Ricadute dottrinali e giurisprudenziali 98 BIBLIOGRAFIA 111 1. Giurisprudenza di legittimità 116 2. Giurisprudenza di merito 118 CAP.1 DALLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITA' SANITARIA Premessa. La presente tesi si propone di affrontare la responsabilità civile del medico approfondendo uno dei profili più dibattuti, la natura della responsabilità, che è stata anche oggetto del predetto intervento normativo. A tal fine nel primo capitolo verrà trattato il passaggio dalla responsabilità del medico alla responsabilità sanitaria, facendo attenzione ai profili evolutivi della dottrina e della giurisprudenza, con uno sguardo rivolto alla spersonalizzazione del rapporto medico-paziente; nel secondo capitolo l'attenzione sarà rivolta alla natura della responsabilità, cercando di definire le linee di confine e le varie problematiche inerenti la prestazione medica; nel terzo capitolo verranno esaminate le varie tesi a supporto della diversa configurazione della natura della responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria e infine nell' ultimo capitolo verrà posto l'accento sul contesto socio-economico della legge Balduzzi e le varie problematiche inerenti l'art. I poteri riconosciuti al privato che si ritiene danneggiato dall'altrui condotta spaziano dalla tutela per equivalente alla tutela in forma specifica, previo riconoscimento del suo diritto. 2. Responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale. Volendo delineare le caratteristiche, o meglio il presupposto principale, alla base della responsabilità civile, vediamo che quest' ultimo si sostanzia nell' esistenza di un "danno risarcibile". L'opera di Sacco confutò la tesi dell' identificazione tra ingiustizia del danno e lesione di un diritto soggettivo assoluto, mostrando le varie sfaccettature che può assumere in pratica il requisito dell' ingiustizia del danno, al di là della lesione del diritto della vittima. Schlesinger invece contrastò l'impostazione tradizionale affermando che l'atipicità stessa dell' illecito, portasse l'istituto della responsabilità civile, al di là della protezione dei diritti assoluti . Basti pensare all' interesse del contraente che quando entra in un rapporto contrattuale non pretende solo la prestazione che è oggetto del contratto ma ha interesse anche a non subire pregiudizio alla propria persona e alle proprie cose che indirettamente entrano automaticamente nella stessa prestazione contrattuale. A mio avviso emblematico è a tal riguardo il caso del medico dipendente che, pur essendo legato alla struttura da un rapporto di lavoro, avente ad oggetto il suo obbligo di prestazione medica, si trova esposto ad una molteplicità di rischi e pericoli legati proprio allo svolgimento della sua prestazione. In passato la responsabilità medica si declinava come responsabilità del medico, ponendo al centro del giudizio la colpa professionale dello stesso sul cui accertamento veniva basata la responsabilità solidale di medico e di strutture; oggi, la responsabilità sanitaria è innanzitutto responsabilità della struttura sanitaria e porta alla ribalta l'attività di assistenza sanitaria e con essa il rispetto dei livelli di qualità e appropriatezza clinica delle prestazioni sanitarie oltre che degli standard organizzativi e strutturali , . Oggi si parla sempre più correntemente di responsabilità medica o medico-sanitaria per sottolineare che alla responsabilità del singolo professionista si aggiunge quella della struttura sanitaria o ospedaliera presso la quale il medico presta la propria attività. Al di là della terminologia, il mutamento più significativo si è realizzato nella disciplina della responsabilità sempre più complessa e articolata tanto che si è parlato di un nuovo sottosistema della responsabilità civile . Nell' arco di qualche decennio, come vedremo si è passati dall' affermazione della natura extracontrattuale della responsabilità al principio del concorso ed infine alla natura schiettamente contrattuale. 4.La responsabilità del medico. In origine la responsabilità medica nasce e si afferma come responsabilità professionale del medico. La cornice normativa era composta da poche norme di portata generale sulla responsabilità civile(artt.1218 e 2043 c.c.) ed una norma di parte speciale che, dedicata alla responsabilità del professionista intellettuale(artt.2236 c.c.), si trova nell'ambito della disciplina del contratto d'opera professionale . Nell' evoluzione giurisprudenziale la responsabilità medica è stata declinata come responsabilità sanitaria di medici e strutture che ha dato luogo alla creazione da parte dei giudici di regole di responsabilità solo modellate sull' atto medico. Si è arrivati infatti a dare autonomia al "fare organizzato" della struttura rispetto al "fare professionale" del medico. Nell' ottica dell' attività di assistenza sanitaria, di cui è debitrice la struttura nei confronti del paziente, non si può più parlare di somma delle prestazioni dei singoli medici. L'opera creativa della giurisprudenza ha dapprima cercato di definire questo "contatto sociale", che da essere considerato la fonte di meri obblighi di protezione senza obbligo primario di prestazione diviene fonte di un "contratto di fatto" sulla base del quale è possibile individuare in capo al medico un obbligo di prestazione ; successivamente cercando di assimilare e ricondurre all' obbligo di prestazione da parte del medico quell' obbligo di assistenza sanitaria di cui è debitrice la struttura, sulla base del contratto stipulato con il medico. Nel panorama dei soggetti operanti nel settore sanitario si iscrivono anzitutto le Aziende Unità Sanitarie Locali, costituite dalla legge di riordino del sistema sanitario nazionale, sono aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale, che operano mediante atti di diritto privato, e che sono vincolate al rispetto del principio della economicità della gestione e alla redazione del bilancio d'esercizio, rimanendo in ogni caso soggette al potere di controllo delle Regioni(art.3) . n. 502/1992. La natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria sia pubblica che privata, nei confronti del paziente, è oggi pacificamente condivisa da dottrina e giurisprudenza, non semplicemente sulla base della stipulazione di un contratto. Alla luce di tali considerazioni parrebbe preferibile una definizione della natura della responsabilità dell'istituto di cura in termini di responsabilità ex lege: la struttura sanitaria, ai sensi della legge 833/1978, è , infatti, legislativamente obbligata allo svolgimento dell'attività di "assistenza medica", con la conseguenza che il non corretto esercizio della stessa costituirebbe inadempimento di una obbligazione legale. Il sistema cd. a " doppio binario", costituisce il periodo intermedio dell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale dell'intera disciplina, nel quale alla responsabilità della struttura sanitaria si riconosceva origine contrattuale, mentre a quella del professionista si attribuiva natura aquiliana. In capo al medico gravava solo una responsabilità extracontrattuale, per violazione dei doveri inerenti alla professione, ex 2236 cod. civ., concorrente con quella contrattuale dell' ente. Un doppio binario in cui incanalare la responsabilità aquiliana del medico e quella contrattuale della struttura come responsabilità solidali in cui al medico era riconosciuta la possibilità di valersi di un beneficio di preventiva escussione della struttura sanitaria ogniqualvolta esso sia in grado di dare prova di una "non grave violazione" delle regole desumibili da protocolli scientifici, linee guida, raccomandazioni . Se la qualificazione extracontrattuale della responsabilità di quest'ultimo appariva corretta sul piano metodologico, al contempo risultava troppo riduttiva: ravvisare, infatti, nel medico un "quiusque de populo"significava non tenere conto del rapporto che si instaura direttamente tra quest'ultimo e il paziente . Inoltre, veniva a determinarsi un concorso improprio tra responsabilità aquiliana del medico e contrattuale dell'ente con conseguente bipartizione del regime giuridico applicabile, nonostante la responsabilità dell'ente avesse matrice unica ed esclusiva nell'esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico. A questo punto era utile definire quando si conclude il rapporto contrattuale tra ente e paziente; secondo l'impostazione tradizionale , è la stessa accettazione del paziente ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale a segnare la conclusione del "contratto d'opera professionale" tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente,l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica, in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura. A questo rapporto contrattuale il medico rimane del tutto estraneo, venendo ad instaurarsi con il malato solo un rapporto "giuridicamente indiretto". Di qui la conclusione che "la responsabilità del predetto sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente nei confronti del medico si prescrive nel termine quinquennale stabilito dall'art. La "spersonalizzazione" del rapporto che intercorre tra medico e paziente va di pari passo con l'evoluzione dell'attività medica. Proprio sulla figura del "malato" infatti e non più sulla cura della "malattia" dovrebbe concentrarsi il lavoro del medico e di tutti gli altri operatori sanitari. 8. Il problema della responsabilità del medico dipendente dalla struttura La responsabilità del medico verso l'ente è strettamente legata al tipo di rapporto che intercorre tra i due soggetti, mentre sostanzialmente irrilevante è la natura pubblica o privata della struttura. I problemi in merito alla responsabilità del medico alle dipendenze della struttura muovono dal non sempre agevole inquadramento di quest'ultimo all' interno del complesso iter organizzativo che vede il coinvolgimento di altre figure sanitarie e di altri fattori interni come apparecchiature e l'erogazione di servizi ad essi correlati. A questo punto analizziamo il caso in cui, il medico, nello svolgimento del suo incarico, provochi un danno al paziente. Quest'ultimo potrà agire in giudizio nei confronti del datore di lavoro del medico, struttura pubblica o privata, in quanto il suo rapporto è con l'istituzione, alla quale è ricorso, in base alla disciplina della responsabilità contrattuale; A sua volta l'istituzione convenuta in giudizio, può rivalersi civilmente con l'azione di regresso ai sensi dell' art. 2055 c.c. :" Responsabilità solidale.- Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali", nei confronti del proprio dipendente per i danni che sia stata costretta a risarcire al terzo, danneggiato in conseguenza della colpa professionale del medico, così pure può chiamarlo nel processo ove è citata in giudizio. Tornando, solo brevemente al quantum di diligenza richiesto al medico dipendente dalla struttura, la norma di riferimento è l'art. 2104 del c.c., che recita:"Diligenza del prestatore di lavoro.- Altrettanto emblematico si rivela poi il percorso giurisprudenziale in tema di qualificazione della responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria, infatti in tale settore si è registrato un progressivo abbandono della prospettiva extracontrattuale, ritenuta inappropriata in quanto l'assenza di un contratto non può determinare una variazione del contenuto dell' obbligo del medico che rimane pur sempre quello di cui all' art. 1176 secondo comma c.c. Il fondamento normativo della responsabilità del singolo operatore è individuato prevalentemente nell' art. 28 Cost., anche se non mancano riferimenti all' art.1228 c.c. . Medico ed ente sarebbero legati da un contratto di cui il paziente è terzo beneficiario , da ciò discende la sua possibilità di attivarsi contrattualmente anche nei confronti del medico per far valere la non diligente esecuzione della prestazione . In una posizione a se si colloca la sentenza della Corte di Cassazione n. 589 del 1999 che propone un nuovo approccio alla problematica mediante il ricorso alla teoria dell' obbligazione senza prestazione basata sul rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale tra medico e paziente . L'attività del medico incide su di un bene costituzionalmente garantito (art.32 Cost.) ed, inoltre, il medico è vincolato al rispetto di una disciplina deontologica particolarmente pregnante . CAP.2 RESPONSABILITA' CONTRATTUALE ED EXTRACONTRATTUALE 1.Il problema della distinzione dell'ambito applicativo delle regole sulla responsabilità. La differenza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale si basa su una diversità strutturale che pone la prima in esito alla violazione di un obbligo funzionale alla realizzazione del diritto e la seconda in esito alla lesione tout court di un diritto . Si pensi al mancato rispetto del vincolo ad attuare il trasferimento del diritto nei contratti ad efficacia reale. Il primo secondo cui:"L' accettazione del paziente nell' ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione del paziente preso in cura ". Siccome a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell' attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica, nelle vesti di organo dell' Ente ospedaliero, la responsabilità del sanitario verso il paziente per il danno provocato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale; immediata conseguenza quindi è che il diritto al risarcimento del danno, spettante al paziente nei confronti del medico, si prescrive nel termine quinquennale. Un secondo, più recente, orientamento faceva, invece, rientrare la responsabilità del sanitario in ambito contrattuale, assumendo che detta responsabilità, così come quella dell'ente, avrebbe "radice nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell'ambito dell'organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa comune radice, la responsabilità del medico dipendente sarebbe, come quella dell'ente pubblico, di natura professionale" . Detto inquadramento tende, peraltro, ad appiattire ed omologare la responsabilità della struttura a quella del medico; infatti, se da un lato dava importanza al contratto stipulato tra paziente e struttura, tanto da "attirare" nel regime contrattuale anche l'operato del medico, dall'altro individuava, quale unica fonte di danno, l'eventuale comportamento imprudente/negligente del professionista, così trascurando tutte quelle altre possibili cause di danno derivanti dall' inadempimento, da parte dell' ente, di obbligazioni di cui solo quest' ultimo è debitore (es. igiene, controllo dei macchinari, organizzazione del personale). Si deve peraltro segnalare che la Suprema Corte era giunta al riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità del sanitario dipendente anche tramite altra via, ovvero tramite l'accoglimento della teoria, di origine germanica, del "contratto con effetti protettivi a favore del terzo". Secondo questa impostazione, in alcuni contratti, accanto ed oltre al diritto alla prestazione principale, sarebbe garantito ed esigibile un ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto. La natura della responsabilità quindi, deve essere individuata non sulla base della condotta ( negligente o meno) in concreto tenuta dall'agente, ma sulla base della natura del precetto violato; sia la responsabilità del medico, sia quella dell'ente ospedaliero hanno entrambe una "radice comune" nell'esecuzione non diligente della prestazione, ma ciò non comporta necessariamente che entrambe le responsabilità siano di natura contrattuale, non potendosi escludere che un fatto, l'attività professionale del medico appunto, integri, da un lato, una responsabilità contrattuale a carico di un soggetto (ente ospedaliero) e, dall'altro, una responsabilità extracontrattuale a carico di un altro soggetto, autore del fatto (medico). Escluso, dunque, di poter fondare la natura contrattuale della responsabilità del medico sulla "radice comune" dell' esecuzione non diligente o sul rapporto di dipendenza tra medico ed ente, l'orientamento di cui trattasi individua la ragione della natura contrattuale degli obblighi di cura dovuti dal medico a favore del paziente nel "contatto sociale" che si instaura tra detti due soggetti; la disamina di tale teoria sarà trattata nel terzo capitolo, per il momento ci apprestiamo ad analizzare alcuni aspetti problematici. Secondo questa lettura, l'attività professionale del medico implica l' adempimento di obblighi di conservazione della sfera giuridica altrui che nascono dall'affidamento inevitabilmente generato dalla stessa professionalità. Con riferimento ai carichi probatori, secondo questa teoria che fonda la responsabilità del medico sul "contatto sociale" con il paziente, "in base alla regola di cui all'art. Parallelamente al descritto iter relativo alla responsabilità del sanitario, si è assistito al riconoscimento di una totale autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella del medico curante. 1228 c.c., per l'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario . Detta lettura, che costituisce un ritorno al passato inquadramento della responsabilità del medico, trova il proprio fondamento normativo nell' art.3 del recente provvedimento legislativo n. 189 dell' 8 novembre 2012 di conversione del c.d. "Decreto Sanità" (d.l. 13 settembre 2012,n. 158), secondo cui: "L'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all' art. 2043 del codice civile…". Nel rinvio all' art. 2043 c.c., parte della dottrina legge, infatti, la volontà del legislatore di prendere posizione ,nella disputa sulla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità del sanitario, a favore di tale ultima impostazione; sul punto si tornerà in maniera più accurata e approfondita nel capitolo quarto. Ne risulta una riduzione ad unità della responsabilità di diritto civile, questa volta all' insegna del modello contrattuale. Quanto al primo aspetto, costituisce principio giurisprudenziale ormai consolidato che la responsabilità extracontrattuale concorre con quella contrattuale ogniqualvolta all'inosservanza di una previsione negoziale si accompagni la violazione del generale dovere del neminem laedere . La tesi contraria fa perno principalmente sulla "specificità" della tutela creditoria, ovvero sul diritto del creditore alla prestazione che "assorbirebbe", in altre parole, la generica pretesa ad una condotta non dannosa da parte del debitore. In tal caso, dunque, il paziente potrà, quale creditore insoddisfatto, invocare la responsabilità contrattuale; ma al tempo stesso, ricorrere alle regole di responsabilità aquiliana. E' stato in proposito osservato che in sostanza , la funzione del cumulo della responsabilità medica risponde all'esigenza di offrire tutela al diritto alla salute, senza sottrarla al regime aquiliano anche in quei casi in cui la lesione sia stata la conseguenza di un inadempimento, ma nel contempo adottando per la valutazione della condotta medica uno standard unitario, valevole sia per la responsabilità contrattuale che per quella aquiliana, desumibile dal criterio della diligenza professionale ex. art. 1176 c.c. . Si parla di "obblighi di protezione", considerati autonomi rispetto all' obbligo di prestazione, oltre che sul piano della struttura, anche su quello della fonte: nascono dalla legge anche quando fonte dell' obbligazione sia il contratto . La questione rimane aperta e le possibilità configurabili sono tre: a) unicità di natura della responsabilità contrattuale e di quella aquiliana, c.d. reductio ad unum della responsabilità di diritto civile ; b) tertium genus tra contratto e torto; c) tradizionale bipartizione della responsabilità di diritto civile. In dottrina inoltre, di fronte al dilagante fenomeno della c.d."ipertrofia del contratto" , due sono le strategie elaborate: quella della c.d. "terza via" , diretta a far confluire al suo interno tutte le ipotesi tipiche di responsabilità che non rientrano né nel modello extracontrattuale né nel modello contrattuale; e quella della riscoperta, per dir si voglia della portata generale del principio del neminem laedere, in una prospettiva di graduale superamento dell' antinomia tra modello contrattuale e modello extracontrattuale di responsabilità . CAP.3 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DIPENDENTE DALLA STRUTTURA SANITARIA 1. La tesi della natura extracontrattuale. Un primo orientamento riconduce la responsabilità del medico inserito all' interno di una struttura sanitaria(sia essa pubblica o privata) all' alveo extracontrattuale. A tal proposito è utile far riferimento alla sentenza che ha segnato i caratteri di questa, ormai anacronistica configurazione. Parte nel contratto d'opera professionale, e nel conseguente rapporto obbligatorio, è l'ente ospedaliero ed esso soltanto, non anche il medico dipendente che provvede in concreto allo svolgimento dell' attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica. In sede di conclusione del contratto e di esecuzione della dovuta prestazione professionale, di fronte al paziente si pone esclusivamente la soggettività giuridica dell' ente ospedaliero, nel quale il medico dipendente si immedesima per effetto del rapporto organico, sì che non rileva, nell' ambito e sotto l'aspetto dell' attività diagnostica e terapeutica, il suo status di soggetto di diritto, essendo egli organo per mezzo del quale l'ente ospedaliero adempie la prestazione professionale che è il contenuto dell' obbligazione assunta a proprio carico con la conclusione del contratto ."Quanto all' ente ospedaliero, l'attività è dovuta nei confronti del paziente, quale prestazione che l' ente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto d'opera professionale. Quanto al medico dipendente, l'attività è dovuta nei confronti dell' ente ospedaliero nell'ambito del rapporto di impiego pubblico che lo lega all' ente e quale esplicazione della funzione che è obbligato a svolgere" . Non è configurabile una responsabilità contrattuale del medico dipendente da ente ospedaliero, verso il paziente, in conseguenza dell' errore diagnostico o terapeutico da lui commesso. Il quale errore, però, rileva, cioè sotto il profilo della responsabilità extracontrattuale . La qualificazione contrattuale della responsabilità del medico dipendente, pur in mancanza di un vincolo negoziale diretto col paziente, è variamente argomentata e costituisce attualmente la questione più complessa della materia. Così, pensando alla prestazione medica o meglio al fine ultimo e sperato di quest' ultima, il "risultato della guarigione", certo non dovuto, pensiamo alla malattie tumorali in fase terminale, indica e seleziona le terapie adeguate al suo (sperato) conseguimento. Il richiamo all' obbligazione senza prestazione, nella sentenza della cassazione n. 589 del 1999 e successive pronunce, appare forse il più problematico fra i tentativi di fondare la responsabilità diretta del medico dipendente da una struttura ospedaliera. Detto ciò, vediamo che obblighi di protezione, obbligazione senza prestazione e contratto con effetti protettivi a favore di terzo, sono inidonei a render conto della complessità di contenuto del rapporto medico-paziente e della sua attuale evoluzione. Limitarsi al profilo della responsabilità aquilliana quindi significherebbe farsi sfuggire il dato più significativo e caratterizzante, il modo in cui oggi realmente si atteggia il rapporto medico-paziente. 3. La tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Troppo riduttivo e alquanto garantista appare restringere la responsabilità del medico nell'alveo della responsabilità contrattuale, infatti difficilmente poteva configurarsi un rapporto contrattuale tra medico e paziente, tale da identificare un eventuale danno come inadempimento contrattuale. La responsabilità del medico per i danni cagionati dall' espletamento dell' attività sanitaria ha, pertanto, comunque natura contrattuale, ma derivante dalla posizione di garanzia che il sanitario assume nei confronti del paziente a seguito dell' affidamento che quest'ultimo ripone in colui che esercita una professione protetta avente a oggetto il bene, costituzionalmente tutelato, della salute. La cassazione inoltre è intervenuta anche in tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, affermando più volte che sussistendo un rapporto contrattuale , quand'anche fondato sul solo contatto sociale, in base alla regola di cui all'art. Natura contrattuale ha quindi la responsabilità del medico ospedaliero anche in caso di inesistenza di un pregresso rapporto obbligatorio col paziente poiché con quest' ultimo, nel momento in cui il sanitario decide di intervenire, si instaura un rapporto contrattuale di fatto . La giurisprudenza quindi, come più volte sottolineato in precedenza, operava una distinzione tra la responsabilità della struttura sanitaria, ritenuta da inadempimento a seguito dell' accettazione del paziente nell' ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale con l'obbligazione di compiere l'attività diagnostica e terapeutica in relazione alla situazione patologica del paziente preso in cura, dopo il pagamento del ticket, ipotizzando la conclusione di un contratto d'opera professionale tra paziente ed ente ospedaliero, mentre la natura della responsabilità del medico, dipendente e pagato dalla struttura pubblica, nei confronti del paziente, per danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico, veniva qualificata extracontrattuale, con esclusione della colpa lieve nei casi di negligenza o imprudenza . La tesi contrattualistica della natura della responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria è stata variamente argomentata da dottrina e giurisprudenza, sino ad essere cristallizzata, sotto un peculiare profilo, dalla nota pronuncia n.589/99 della Suprema Corte. Secondo un primo orientamento , la responsabilità contrattuale del medico dipendente troverebbe fondamento nell' art.28 Cost.; tanto la responsabilità dell' ente, quanto quella dell' operatore sanitario troverebbero, cioè, radice nella medesima condotta, ossia nell' esecuzione non diligente della prestazione sanitaria. Detta impostazione riduce al momento terminale, cioè al danno, una vicenda che non incomincia con il danno, ma si struttura prima come "rapporto, in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico ed il medico accetta di prestargliele" . La prima esperienza applicativa di questa teoria riguarda la responsabilità da contatto sociale del medico strutturato e le note difficoltà di inquadramento del rapporto tra ente, medico e paziente. Come già accennato il primo riconoscimento della validità del contatto sociale come fonte di responsabilità è avvenuto nella nota sentenza della Suprema Corte n. 589 del 22 gennaio 1999, ed ha ad oggetto la responsabilità del medico dipendente di un ente ospedaliero pubblico per il danno cagionato ad un paziente da un'errata diagnosi, con conseguente non corretto trattamento terapeutico. Più controverso è stato individuare la natura della responsabilità del medico dipendente. In alcune sentenze la Suprema corte ha peraltro optato per una responsabilità contrattuale del sanitario. Ciò perché si inseriva la prestazione del medico nel quadro del rapporto privatistico tra ente gestore e paziente, e si rilevava la diretta relazione che lega detta prestazione all' aspettativa del privato richiedente il servizio, ravvisandosi una responsabilità contrattuale sia dell' ente ospedaliero che del medico da cui questo dipende . Questo orientamento parte dal presupposto che, attraverso l'immedesimazione organica tra l'ente pubblico ed i suoi dipendenti, i danni causati all' assistito dall' esecuzione non diligente della prestazione del medico dipendente sono fonte di responsabilità diretta per l'ente gestore del servizio sanitario. La riconduzione in schemi contrattualistica anche della responsabilità del medico dipendente si desume poi dall' art. 28 della cost. che contempla, unitamente alla responsabilità dell' ente, quella del dipendente, essendo entrambe tali responsabilità fondate sull' esecuzione non diligente della prestazione sanitaria del medico. L'unicità del fondamento comporta quindi che anche quella del medico sarebbe una responsabilità contrattuale di natura professionale . È stata, infatti, definita un sottoinsieme della responsabilità civile o un settore multidisciplinare all' interno del quale vige un regime giuridico speciale , . L'atipicità del modello di responsabilità medica si desume anche dal fatto che, pure quando è stata collocata all' interno della responsabilità aquiliana, ad essa sono stati applicati comunque istituti propri della responsabilità contrattuale, quali la distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato, il criterio della diligenza professionale, il richiamo a regole di causalità materiale, la limitazione di responsabilità di cui all' art. 2236 c.c. 4. Evoluzione giurisprudenziale dopo le SU della cassazione e consolidamento della tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Da ciò ne consegue che la responsabilità dell' ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno entrambe radice nell' esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi , ovviamente tale qualificazione non discende dalla fonte dell' obbligazione ma dal contenuto del rapporto . 2236 c.c., essere allegata e provata dal medico ; a proposito della responsabilità professionale da contratto o contatto sociale del medico, la Corte in una pronuncia afferma che al fine del riparto dell' onere probatorio, il paziente danneggiato deve limitarsi a provare il contratto o contatto sociale, e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un' affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato . Ancora, in tema di responsabilità professionale del medico, ove pure quest' ultimo si limiti alla diagnosi e all' illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell' intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenere il necessario consenso informato, ha natura contrattuale e non precontrattuale e quindi ne consegue che a fronte dell' allegazione, da parte del paziente dell' inadempimento dell' obbligo di informazione, è il medico gravato dell' onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione .Dalle varie pronunce si evince come la sentenza n. 589 del 1999 ha sicuramente trovato un riscontro favorevole nella successiva giurisprudenza. Ricondurre all' alveo della responsabilità contrattuale da contatto sociale la responsabilità del medico dipendente ha però senz' altro esposto la professione medica alla cd. medicina difensiva. E' evidente che l'estensione ai medici del servizio sanitario nazionale della responsabilità contrattuale , che riduce notevolmente le possibilità di difesa da ingiuste o non provate accuse di violazione del contratto, non potrà che accelerare questo orientamento delle compagnie di assicurazione. La responsabilità del medico sembra concretizzarsi non all' atto dell' assunzione di un obbligo, ma in esecuzione dell' obbligazione sanitaria e quanto al suo contenuto, questo si atteggia come una normale obbligazione che richiama comportamenti destinati a produrre un risultato utile per il creditore. Come visto, nel tentativo di ricostruire il rapporto medico-paziente come autenticamente contrattuale vediamo come nella prestazione del medico nei confronti del paziente ciò che sembra sfuggire è l' accordo tra le due parti che deve precedere l'esecuzione della prestazione. Per quel che concerne, poi, il criterio della risarcibilità del danno, esso, a prescindere dalla natura della responsabilità individuata, viene sempre limitato all' interesse a non subire danni alla salute. La lesione dell' interesse positivo al contratto può venire in considerazione, in particolare, nel caso in cui si possa individuare in maniera distinta sia un interesse alla prestazione migliorativa, che un interesse alla prestazione conservativa. CAP. 4 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DOPO LA LEGGE BALDUZZI 1. La ratio della legge e il contesto socio-economico nel quale si inserisce. Nel capitolo precedente abbiamo visto come attraverso l'espediente del contatto sociale, come fonte di protezione tra medico e paziente, si compie una perfetta omologazione in punto di disciplina della responsabilità del medico a quella della struttura e viene salvaguardata, in nome della radice comune delle due responsabilità, l'unitarietà del regime di regole applicabile ad entrambi. Dal "fatto illecito del medico", che negli anni 80 aveva sorretto la configurazione di un regime unitario di regole di responsabilità, si trascorre oggi alla "non diligente esecuzione della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente nell' ambito dell' organizzazione sanitaria" . In tal modo si individua nell' "operato professionale", in cui si incardina il "fare" del sanitario/dipendente della struttura, quel "fatto dannoso comune" che sorregge la responsabilità solidali di medici e strutture. Quindi la responsabilità del medico dal paradigma della responsabilità professionale fondata sulla colpa, trascorre al paradigma di una responsabilità semi-oggettiva in quanto la prova liberatoria ad esso richiesta non è quella dell' assenza di colpa bensì quella specifica dell' evento straordinario ed eccezionale che è stato causa di danno alla salute . Tutto ciò perché nell' interpretazione che ormai si impone in giurisprudenza con riguardo alla ben nota regola probatoria contenuta nell' art. 1218, nel riferimento anche all' inesatto adempimento di obbligazioni che hanno per oggetto un fare professionale del medico, l'intero carico probatorio si sposta sulla struttura e sul medico e senza distinzioni di sorta si richiede ad entrambi come prova liberatoria, a fronte dell' allegazione dell' inadempimento da parte del paziente, non la prova dell' assenza di colpa bensì quella dell' evento straordinario ed eccezionale che è stato causa del danno alla salute del paziente . Si giunge cosi a considerare esigibile dal medico "strutturato", oltreché dall' ente, quel "risultato conseguibile, secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, all'abilità tecnica del primo, e alla capacità tecnico-organizzativa dell' ente" , del quale entrambi sono chiamati a rispondere fino alla prova di quell' evento imprevisto/imprevedibile/non prevenibile, che è stato causa dell' insuccesso del trattamento sanitario o del mancato miglioramento della salute del paziente. Oggi il medico, se dipendente di struttura, nonostante nelle massime si continui a declamare la sua responsabilità per colpa al pari degli altri professionisti intellettuali, diviene oggi "garante della salute" del paziente rispondendo di qualsiasi insuccesso della terapia fino al limite della complicanza non prevedibile o non prevenibile, e ciò anche nei casi in cui l' insuccesso sia riconducibile a fattori risalenti all' organizzazione . Ovviamente si parla sempre di responsabilità da violazione di obblighi che, a prescindere dalla fonte, vuoi da contatto sociale vuoi da contratto, vengono comunque ricondotte all' art. 1218, salvo differenziarsi sui contenuti della prova liberatoria posta a carico del medico. Per il primo, si richiede l' identificazione della causa, eccezionale e non prevedibile con la diligenza ordinaria, che sia stata all' origine dell' insuccesso del trattamento e/o del danno alla salute del paziente; per il secondo, che svolge la sua opera al di fuori di un'organizzazione sanitaria, si ritiene essere sufficiente, come prova liberatoria, quella della corretta esecuzione della prestazione o comunque del fatto che l'inadempimento non sia stato causa del danno. Ovviamente nel nostro sistema ciò è avvenuto, senza abbandonare il modello unitario di disciplina della responsabilità di medici e strutture che si regge su un fatto dannoso comune come presupposto fondante entrambe le responsabilità; modello che se in passato ha condotto ad omologare la responsabilità della struttura a quella del medico, oggi, in una inversione di tendenza, fa si che sia la responsabilità del medico ad adeguarsi in punto di disciplina, a quella della struttura. In questo clima dunque la nostra classe medica è stata attratta dal vortice della medicina difensiva, della quale abbiamo avuto modo di parlare all' inizio del paragrafo. L'obiettivo del legislatore è, allora, quello di farsi carico con misure concrete del problema, tentando di porre un freno al dilagare del contenzioso giudiziario e dei costi connessi. A completare il quadro l'estrema specializzazione di ogni operatore sanitario, insieme alla crescente difficoltà di aggiornamento e alla complessità della strumentazione moderna; lo svolgimento del lavoro in equipe e all' interno delle strutture sanitarie; la presenza di norme sempre più dettagliate e l'enfatizzazione del diritto alla salute, che ha fatto salire il livello di attesa di un risultato favorevole. In tale contesto si inserisce l' art. 3 del decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n.189, articolo specificamente dedicato alla "responsabilità professionale dell' esercente la professione sanitaria", che pare riportare la responsabilità del medico nella disciplina dell' illecito. L'art 3 del decreto legge stabiliva: Al comma I, che :"Fermo restando il disposto dell' art. 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell' attività dell' esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell' art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell' osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità nazionale e internazionale.". Al comma quarto che: "Fatto salvo quanto previsto al comma I, la responsabilità civile per danni a persone, causati dal personale sanitario medico e non medico, occorsi nell' ambito di una struttura sanitaria pubblica, privata accreditata e privata è sempre a carico della struttura stessa". - In tali casi resta comunque fermo l' obbligo di cui all' art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo"; Il comma quarto è stato, invece rimosso dal testo legislativo finale. Inoltre parte della dottrina, tra cui l'autore N. Todeschini, affermano che il legislatore avrebbe introdotto una mera lex specialis, per i soli dipendenti del sistema medico sanitario, senza tener conto che la responsabilità del medico fa parte delle "responsabilità nei servizi sanitari"; sottolineando anche come il ritorno all' applicazione della disciplina sull' illecito aquiliano, più gravosa per il paziente in ordine all' onere probatorio ed ai termini di prescrizione, volta a ridurre il contenzioso sulla responsabilità del medico,indebolirebbe sia il diritto alla salute, sia il diritto ad essere curati dal servizio sanitario, sia la stessa tutela della salute . Volendo passare in rassegna le due versioni della norma vediamo come il legislatore abbia inteso perseguire il proprio obiettivo focalizzando l'attenzione sulla "colpa professionale" del medico, così restituendo all' elemento soggettivo, troppo spesso trascurato nelle decisioni dei giudici, un ruolo centrale nella responsabilità del medico. Questa scelta definita da molti autori "demolitiva", da un lato, lascia intendere che per l'ente continuino a valere quelle regole già coniate prima dell' entrata in vigore della recente modifica; regole all' insegna di una responsabilità semioggettiva, che trova il proprio limite nella dimostrazione dell' evento imprevisto ed imprevedibile che abbia causato il mancato miglioramento del paziente; dall' altro lato, porta a ritenere che la volontà del legislatore di dettare una norma dedicata esclusivamente alla responsabilità del medico, significhi, implicitamente, aver ammesso che il regime applicabile al sanitario deve considerarsi disciplinato da regole separate ed autonome, sia con riguardo alla fonte, sia alla natura della responsabilità, rispetto a quelle indirizzate alla struttura. Come emerge dalla lettura proposta del comma 1, dell'art. 3, si ritiene che il legislatore, con l'ultima versione dell' articolato, abbia operato una "scelta di campo" a favore della natura extracontrattuale della responsabilità del medico, con le relative conseguenze in tema di elemento soggettivo, termine di prescrizione ed onere della prova . 3 della l. 8.11.2012 come disposizione, espressamente dedicata a disciplinare la responsabilità degli "esercenti la professione sanitaria", rivela dunque, nel silenzio serbato nei confronti di chi è oggi il protagonista chiave nel giudizio civile e cioè la struttura che è anche solidalmente responsabile con il medico, di voler guardare alla responsabilità del medico, in modo del tutto autonomo dalla responsabilità della struttura, confermandone il suo inquadramento nell' ambito delle responsabilità professionali da status. 3 del decreto sanità, nel riferimento alla prova di una diligenza, qualificata dall' applicazione delle L.G., con importanti implicazioni sulla quantificazione del risarcimento del danno in termini di riduzione, abbia inteso, nel rinvio all' art. 2043 c.c., far gravare sul paziente la prova della colpa medica all' insegna di un non dovuto o non richiesto dalle circostanze del caso, adeguamento alle L.G., che solo al medico compete individuare tra le diverse accreditate dalle Società scientifiche. Molti autori sostengono in definitiva che la norma del decreto Balduzzi sia "precettiva" con riguardo alla colpa penale e al criterio di quantificazione del danno in sede civile, mentre è una norma "interpretativa" con riguardo alla colpa civile del medico; la sua rilevanza nella gerarchia delle fonti consiste nell' evidenza di riassegnare un ruolo centrale alla responsabilità da fatto illecito, in linea con la tradizione, e conferma l'intuizione dottrinale dell' attualità, per così dire, del paradigma della responsabilità professionale fondata sulla colpa . In senso favorevole a una restaurazione del sistema vertente sulla natura aquiliana della responsabilità del medico, il Tribunale di Varese, nella sentenza 26 novembre 2012, n.1406, si è pronunciato motivando il revirement in forza di una maggiore coerenza con i nuclei ispiratori della disciplina di riforma sanitaria. Ciò in considerazione dell' aumento esponenziale e spesso pretestuoso del contenzioso nei confronti dei sanitari. Viene sottolineato anche il fatto che se il richiamo all' art. 2043 c.c. imponesse l'adozione di un modello extracontrattuale, l'applicazione rigorosa della norma ne comporterebbe l'applicazione anche alle ipotesi pacificamente contrattuali, quali i rapporti fra pazienti e medici liberi professionisti, dal momento che il primo periodo dell' art. 3, comma 1, secondo periodo della legge Balduzzi, in conformità con la collocazione sistematica e con la ratio dell' intervento legislativo, ha il solo scopo di richiamare la disposizione cardine espressione del principio del neminem laedere e del conseguente obbligo di risarcimento del danno conseguente alla violazione del suddetto principio. 3 del decreto legge 158/2012 scolpiva la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria pubblica, e dei medici pubblici dipendenti, il novellato art. 3 della legge di conversione, opta per la soluzione opposta, facendo scomparire ogni riferimento esplicito alla qualificazione in termini contrattuali della responsabilità del medico pubblico dipendente, con il chiaro ed indubbio riferimento all' art. 2043. Come abbiamo già visto poi la legge di conversione, ribaltando la norma del decreto legge che faceva una chiara scelta in tema di responsabilità risarcitoria del medico pubblico dipendente, richiama espressamente i criteri della responsabilità aquiliana, ritenendo che la responsabilità civile del medico non debba rifarsi ad una responsabilità da inadempimento con gli indubbi vantaggi del paziente in tema di prescrizione ed onere della prova, ma alla responsabilità aquiliana. In altri termini, al fine di contenere gli oneri risarcitori della spesa pubblica, il nuovo art. 3 della l. 189/2012, intende intervenire sul "diritto vivente", operando una scelta di campo finalizzata al valore del risparmio e non della salute del paziente. Il Tribunale di Torino non utilizza la teorica del contatto sociale e quindi rigetta la domanda del paziente per i danni subiti in ospedale, nel caso di specie la frattura del femore, per non aver fornito la prova della colpa delle parti convenute, e quindi del fatto illecito. Tralasciando i riscontri penalistici, per il caso di colpa lieve, che per molti è limitata alla sola imperizia e non anche alla negligenza e imprudenza, la persistenza della stessa responsabilità civile va riportata all' art. 2043 c.c., infatti la norma sottolinea come :" In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all' art. 2043 c.c. Ovviamente il giudice nella determinazione del risarcimento del danno terrà conto della condotta del medico richiamata nel primo periodo dell' art. 3, e quindi anche se l'esercente si attiene alle c.d. L.G. e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, nel momento in cui provochi dei danni al paziente, sarà tenuto al risarcimento danni ex art. 2043; se poi verrà accertato che la sua attività sia stata condotta con negligenza e imprudenza e non solo imperizia, risponderà anche in sede penale. Tutto ciò fa si che la paziente abbia stipulato, al momento dell'accordo con il medico dr. Le due sentenze ribadiscono che la responsabilità del medico, così come quella della struttura sanitaria, ha ancora natura contrattuale; anche l' obbligazione del medico dipendente dall' azienda sanitaria nei confronti del paziente, seppur fondata sul contatto sociale, costituisce vincolo contrattuale. La tutela del paziente passa in primo piano senza però sfociare in eccessive estensioni della responsabilità, civile e penale, che in passato hanno fomentato il ricorso alla medicina difensiva. Il richiamo all' art. 2043 c.c. all' interno dell'art.3 della legge Balduzzi è stato letto da molti autori come un vero e proprio fondamento normativo della responsabilità del medico ospedaliero di natura extracontrattuale. A conferma di questa prima interpretazione sono intervenute numerose sentenze, tra le quali è utile ricordare quella del tribunale di Milano che afferma come: Sembra corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire una precisa indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell' onere della prova, sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno". La tesi che però oggi è prevalente in giurisprudenza è quella che qualifica come "contrattuale" la responsabilità medica, per agevolare la posizione del paziente, responsabilità che nasce non dal contratto atipico di spedalità, che riguarda il rapporto del paziente con la struttura, bensì dal "contatto sociale" istituito tra medico ospedaliero e paziente. In conclusione del presente lavoro appare opportuno richiamare alcune novità contenute negli articoli 6 e 7 del ddl sulla responsabilità professionale n. 1324 dell' 8 luglio 2013. La prima novità si lega a una delle critiche mosse alla legge Balduzzi: avere fatto un riferimento troppo generico alla colpa. Inoltre, per quello che ci interessa più da vicino, dalla natura "extracontrattuale" della responsabilità in capo all' esercente la professione sanitaria sono esclusi i liberi professionisti . La responsabilità contrattuale delle strutture viene allargata anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime intramurario, nonché attraverso la "telemedicina". 1912, 744. CARUSI, Responsabilità del medico e obbligazione di mezzi, in Rass. giur. Treccani, 1990. CASTRONOVO C., Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979 in La responsabilità medica, Giuffrè editore, Milano, 2004 , 22. CATTANEO C., La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 313. CATTANEO C., La responsabilità medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, 11. CHINDEMI D., La responsabilità contabile e danno erariale della asl e del medico, in Resp. 2011, 1400. CHINDEMI D., Resonsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica e privata, terza edizione, Milano, 2015, 60ss. DE LUCA M, La nuova responsabilità del medico dopo la legge Balduzzi, Roma, 2012, 24-78. DE MATTEIS R., Dall' atto medico all' attività sanitaria. 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La presente tesi non è solo l'esito di una ricerca su un precetto giuridico controverso, ma è anche la narrazione di un processo personale di scoperta, che a partire dallo studio di una specifica norma ha fatto emergere la complessità delle interazioni nell'ambito delle politiche in materia penale, economica, e finanziaria. Partendo da un approccio microsociologico focalizzato sull'analisi di una determinata norma penale, il reato di riciclaggio,1 la ricerca ha dovuto confrontarsi con temi di interesse macrosociologico, al fine di inserire l'analisi della legge all'interno di un contesto più ampio di politiche nazionali, europee e internazionali, di attori e di governance transnazionale. Per mantenere la scientificità dell'elaborato ho omesso di esprimere opinioni personali sui temi, talvolta di carattere fortemente politico, e ho cercato, invece, di presentare aspetti critici e discussioni aperte fornendo una visione completa e imparziale delle contrastanti argomentazioni in modo da lasciare il lettore libero di trarre le proprie conclusioni. Il riciclaggio di denaro sporco è il processo tramite cui a proventi di reati viene data un'apparenza di essere stati guadagnati in modo illecito. È un reato tipico della cosiddetta 'zona grigia', poiché avviene al confine tra la sfera della legalità e quella dell'illegalità. Nel momento in cui profitti realizzati illecitamente si mescolano ai flussi di denaro lecito è molto difficile discernere ciò che ha un'origine legale da ciò che è stato guadagnato illegalmente. Il reato di riciclaggio di denaro sporco è stato introdotto proprio per affrontare questa difficoltà ed impedire che le strutture legittime dell'economia e della finanza globale venissero abusate da trasgressori al fine di ripulire i proventi di reato. Infatti i flussi di denaro sporco utilizzano spesso gli stessi canali usati per le transazioni lecite; la loro riuscita dipende dalla cooperazione di professionisti quali avvocati commerciali, agenti finanziari, commercialisti, la cui reputazione è raramente sospetta. Data questa promiscuità spesso la gravità del fenomeno è sottovalutata dal pubblico che non ha gli strumenti per riconoscerne la pericolosità, anche a causa dell'assenza di vittime dirette. Dall'altra parte le stime sulla quantità di proventi di reato riciclati a livello mondiale (che oscillano tra il 2,5 % e il 5,5 % del PIL globale) richiamano l'attenzione su quella che Dalla Chiesa definisce la mitologia del volume dell'economia criminale,2 e una parte della letteratura descrive il riciclaggio come il lato oscuro della globalizzazione,3 e come uno dei maggiori problemi dell'era moderna.4 Con questa ricerca ho voluto mettere in discussione l'efficacia del reato di riciclaggio nel far fronte al fenomeno dell'infiltrazione dei flussi di denaro sporco nell'economia lecita. Sebbene la pratica di nascondere i proventi di reato in modo da evitare la persecuzione giudiziaria risalga probabilmente a molto tempo addietro, il concetto giuridico di riciclaggio è relativamente recente ed è stato introdotto nei codici penali nella maggior parte del mondo a partire dalla fine degli anni 80.5 Nel frattempo un gran numero di autori si è scagliato contro la scarsa efficacia delle legislazione anti-riciclaggio6, nonostante le innumerevoli novità introdotte e i cospicui ammendamenti che hanno in larga parte espanso il campo di applicazione della normativa. La decisione di scegliere il contesto tedesco come caso di studio deriva dal fatto che il paese è considerato avere un rischio particolarmente alto di riciclaggio di denaro sporco. Secondo il rapporto emesso dal 2010 dal GAFI (Groupe d'Action Financière), dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) e dall'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico)7 ci sono alcuni fattori che rendono la Germania propensa ad essere usata al fine di riciclaggio di denaro sporco: il volume del sistema economico-finanziario, la locazione strategica al centro dell'Unione Europea con forti legami internazionali, l'uso diffuso di denaro contante,8 l'apertura delle frontiere, la vastità del settore informale, l'importante ruolo a livello di economia globale, e il coinvolgimento nei flussi di denaro transfrontalieri. Anche i media, a partire soprattutto dalla pubblicazione del citato rapporto, hanno attirato l'attenzione del pubblico sul fenomeno, descrivendo la Germania come "paradiso" o "Eldorado" per i riciclatori. Alcuni recenti scandali hanno visto coinvolte prominenti banche tedesche, come la Deutsche Bank, la Commerybank e l'Hyopovereinsbank, contro cui procure straniere hanno sollevato l'accusa di riciclaggio di denaro sporco.9 La legislazione in atto, ed in particolare l'articolo 261 del codice penale tedesco, non sembra essere sufficientemente efficace per contrastare il fenomeno, nonostante gli abbondanti emendamenti e il continuo processo di aggiornamento e di espansione del campo di applicazione della norma. Al fine di spiegare questa per lo meno apparente incapacità della norma di fare fronte al fenomeno del riciclaggio, ho costruito l'ipotesi di ricerca sulla base delle teorie sociologico-giuridiche relative all'efficacia del diritto, alle funzioni manifeste e latenti delle norme e quindi alle intenzioni espresse e non dal legislatore, all'efficacia simbolica del diritto e di singole legislazioni e all'impatto, inteso come comprensivo degli effetti indesiderati o collaterali. L'ipotesi di ricerca è che la norma esplichi una funzione simbolica di allineamento dell'ordinamento nazionale a quello europeo e transnazionale, di compromesso tra gli interessi politici in gioco, e di creazione di consenso pubblico verso il legislatore per essersi occupato della questione. Si ipotizza che il legislatore abbia quindi consapevolmente accettato o addirittura scelto di formulare una norma strumentalmente poco efficace, ma simbolicamente capace di raggiungere i suoi obiettivi latenti. Si solleva inoltre l'ipotesi che la norma sia stata appositamente approvata con lo scopo di non modificare lo status quo delle relazioni e strutture economiche, e di permettere quindi l'ingresso di capitali sporchi nel paese, sulla base del motto pecunia non olet. La suddetta ipotesi viene parzialmente smentita dai risultati della ricerca empirica. La ricostruzione del processo di produzione legislativa mette in risalto l'esistenza di svariati e contrastanti interessi e della forte pressione esercitata dagli organismi internazionali per l'introduzione e lo sviluppo del reato di riciclaggio, e conferma, quindi, l'argomentazione che la norma sia stata approvata in un contesto di pressione politica esterna e di necessità di trovare un compromesso tra diverse parti politiche. Anche l'analisi degli aspetti problematici dell'articolo 261 del codice penale tedesco messi in risalto dalla dottrina supporta l'ipotesi della simbolicità della norma. Il fatto che il legislatore abbia formulato un reato così complesso crea evidenti problemi di integrazione dello stesso all'interno del sistema penale tedesco, e quindi di accettazione da parte degli studiosi e potenzialmente da parte degli operatori del diritto. Inoltre, la scelta di costruire un reato così complesso riflette la necessità di venire a compromesso con opposti interessi, ma potrebbe essere anche essere interpretata come un disinteresse al raggiungimento di un'efficacia materiale. La ricerca empirica sull'implementazione dell'articolo 261, invece, smentisce l'idea che la norma abbia un'efficacia puramente simbolica. Infatti il numero di condanne, di investigazioni, ed in generale l'uso ricorrente della legge riscontrato nelle statistiche criminali provano che essa conduca ad effetti strumentali, oltre che simbolici. Inoltre, nella prospettiva di alcuni degli operatori del diritto e degli esperti intervistati, l'articolo 261 è percepito come una norma particolarmente efficiente, sia in relazione alle quote di chiarimento, che come strumento di demarcazione tra comportamenti leciti e illeciti, in un contesto di deregolamentazione del settore finanziario. Da un'analisi piè ravvicinata delle statistiche e di altri rapporti emessi da enti internazionali e nazionali emerge però un quadro non così univoco: La norma sembra colpire più le vittime dei network criminali che operano a livello transnazionale che gli autori, perché spesso i colpevoli sono coinvolti in transazioni sospette in cambio di guadagni monetari. Le cospicue indagini finanziarie non riescono a raggiungere coloro che operano dietro gli esecutori dei reati minori, ed infatti la maggior parte di esse si concludono senza una condanna per riciclaggio. Questo a fronte di un volume di denaro sporco circolante nel paese che rimane allarmante, secondo alcuni degli studi analizzati. Se da una parte i risultati dell'applicazione della norma, sebbene strumentali, non possono considerarsi soddisfacenti, perché non sono riusciti ad evitare l'ingresso di capitali illeciti nell'economia nazionale, dall'altra parte sembra che l'esistenza di interessi profondamente contrastanti in gioco renda quasi impossibile la formulazione di un reato piè efficace. La tesi è composta da cinque capitoli, un'introduzione e una conclusione. Nel primo capitolo espongo le teorie sociologiche adottate per la valutazione di efficacia della norma e il metodo della ricerca. Inizialmente richiamo concetti di efficacia forniti da discipline affini alla sociologia del diritto - tra cui per esempio il concetto di efficienza e di efficienza indipendente rispetto allo scopo (zielunhabhängige Effizienz) riferito agli apparati amministrativi - che torneranno utili per l'interpretazione dei risultati delle interviste. Successivamente procedo con una panoramica sulle definizioni di efficacia del diritto fornite in sociologia del diritto, sulla ci base adotto una nozione "elastica" -riprendendola da Ferrari- di efficacia di una norma che guarda alle funzioni della norma e alle intenzioni del legislatore, in una prospettiva "intenzionalistica": "la corrispondenza fra un disegno politico di utilizzo di uno strumento normativo e i suoi effetti". Tale nozione, oltre a prestarsi ad un'analisi critica del diritto, fornisce indicazioni utili per l'analisi empirica dell'efficacia della legge in questione. In particolare ritengo utile considerare le seguenti variabili: le intenzioni latenti e manifeste del legislatore, gli scopi diretti e ed indiretti, l'eventuale efficacia simbolica del diritto, l'implementazione, la ricezione della norma nel senso di accettazione nel sistema giuridico e di interpretazione e percezione da parte degli operatori giuridici. Nella seconda parte si evidenzia il rilievo di tali variabili con riferimento specifico al diritto penale. In conclusione, sulla base delle riflessioni teoriche, formulo l'ipotesi sull'efficacia simbolica del reato di riciclaggio nell'ordinamento tedesco, che verrà poi verificata nei capitoli successivi. Nello specifico, presumendo che il reato di riciclaggio, introdotto come strumento fondamentale della lotta alla criminalità organizzata, così com'è formulato non adempie agli scopi dichiarati, nonostante gli innumerevoli emendamenti finalizzati proprio ad aumentarne l'efficacia, ipotizzo un'efficacia simbolica della norma, introdotta per offrire un'immagine di efficienza al pubblico (elettori). Inoltre sollevo l'ipotesi che la norma sia stata emanata appositamente inefficace per neutralizzarne le aspirazioni di punizione delle condotte illecite tipiche dei colletti bianchi, in una lettura moderna del conflitto sociale che avviene tramite l'emanazione di norme, con la volontà di decriminalizzare secondariamente comportamenti tipici delle classi forti. Nel secondo capitolo analizzo il processo legislativo a livello internazionale, europeo e nazionale. Il processo che ha portato alla creazione del reato di riciclaggio a livello internazionale viene ricostruito tramite dichiarazioni di intenti degli attori partecipanti, opinioni pubblicate, trascrizioni dei dibattiti parlamentari. Una particolare attenzione è posta sulle diverse intenzioni degli attori che hanno partecipato alla formulazione del reato. Il processo legislativo che ha portato alla formulazione dell'attuale legislazione anti-riciclaggio è un processo complesso, in cui diversi attori partecipanti hanno contribuito con differenti aspettative e dunque attribuendo diverse funzioni alla criminalizzazione del riciclaggio. Al fine di permettere svariate interpretazioni del dettato normativo in modo da soddisfare i differenti bisogni, e con lo scopo di trovare un compromesso tra gli interessi divergenti, il reato di riciclaggio è stato formulato in modo vago. Mentre alcuni Stati (ad esempio la Francia) inizialmente sostenevano l'introduzione del reato con lo scopo di combattere i paradisi fiscali e rafforzare la lotta all'evasione fiscale, altri Stati, come la Svizzera, hanno accettato di firmare l'accordo internazionale sulla criminalizzazione del riciclaggio solo a condizione che l'evasione fiscale non fosse inserito nella lista dei reati antecedenti. Con la nascita del GAFI la policy viene usata allo scopo di difendere l'integrità del sistema finanziario dall'infiltrazione di capitale illecito e dal 2001 si aggiunge la funzione di lotta al finanziamento del terrorismo. Tramite la soft law emanata dal GAFI per la prevenzione del riciclaggio, si trasferiscono compiti solitamente pubblici al settore privato: banche e istituti finanziari devono segnalare alla polizia ogni transazione sospetta, devono raccogliere e mantenere informazioni sui clienti e verificare le identità dei clienti. L'Unione Europea finora ha emanato quattro direttive nell'ambito del riciclaggio, l'ultima risale al 20 maggio 2015. Inizialmente la CE non aveva competenza in ambito penale, perciò la materia riciclaggio fu assorbita nella sfera economica (DG Economia e industria). La funzione dichiarata dal legislatore è la protezione del mercato interno, con particolare riguardo al fatto che i criminali possano sfruttare la libera circolazione dei capitali e l'eliminazione delle frontiere. Le direttive esprimono anche la volontà di impedire agli stati membri di emanare regolamentazioni che possano bloccare il libero mercato al fine di difendere le proprie economie dall'infiltrazione di capitale illecito. Emerge dunque un ulteriore conflitto di interessi. Nella seconda parte ricostruisco il processo legislativo e le evoluzioni interne alla Germania fino al momento della scrittura e fornisco il quadro del sistema repressivo e di prevenzione anti-riciclaggio. L'articolo 261 StGB è stato introdotto con legge Gesetz zur Bekämpfung des illegalen Rauschgifthandels und anderer Erscheinungsformen der Organisierten Kriminalität, quindi nell'ambito della lotta alla criminalità organizzata. Il dibattito parlamentare rileva che la norma è il frutto di un compromesso sotto diversi aspetti, non ultimo il fatto che è stata emanata del 1992, a pochi anni dalla riunificazione, e che quindi è parte del processo di negoziazione per la formazione di un diritto penale adattabile alle due culture giuridiche. Il legislatore tedesco evidenzia alcune funzioni della norma: la lotta al consumo di eroina e al traffico di stupefacenti, la diffusione e la pericolosità della mafia alla luce dei fatti recenti italiani, la volontà di proteggere l'amministrazione della giustizia e di isolare i criminali puntando alla criminalizzazione dei cosiddetti gate-keepers. Nel terzo capitolo individuo alcuni dei problemi sollevati dalla dottrina tedesca sul piano teorico con riferimento alla criminalizzazione del reato di riciclaggio nel contesto del sistema penale tedesco. Uno dei temi più discussi è relativo al bene giuridico protetto. La dottrina non ha ancora trovato un accordo su quale interesse sia protetto dall'articolo 261 StGB, le ipotesi sono: gli interessi dei reati antecedenti, l'amministrazione della giustizia, il sistema finanziario e la sicurezza. La vaghezza del dettato normativo non aiuta a trovare un interpretazione dottrinale univoca. La questione del bene giuridico protetto, lungi dall'essere una mera questione teorica, risente delle diverse funzioni attribuite alla norma dagli attori partecipanti al processo legislativo. Finora la giurisprudenza, che pur è intervenuta a chiarire altre questioni relative alla norma, non è intervenuta sul tema. Un altro tema su cui il dibattito è ancora aperto è il fatto di aver previsto al comma 5 l'ipotesi di colpa lieve, in controtendenza rispetto al legislatore europeo. Questo, secondo alcuni studiosi porta all'assurdo per cui anche il panettiere Tizio che vende del pane ad un evasore fiscale Caio potendo aver riconosciuto che Caio fosse un evasore, si rende colpevole di riciclaggio. La questione del livello di mens rea richiesto per una condanna per riciclaggio era sorta anche durante il dibattito parlamentare e l'introduzione del comma 5 è stato sostenuto da un emendamento della SPD che avrebbe voluto criminalizzare anche l'ipotesi di colpa lievissima. Questo, secondo la CDU avrebbe messo un freno al mercato e alle transazioni, poiché avrebbe costituito una minaccia per chiunque avesse intrapreso operazioni economiche. Essendo la funzione della norma incerta, la dottrina si divide tra chi sostiene che questa vasta criminalizzazione faccia perdere il senso del reato che sarebbe invece colpire i criminali che agiscono con intento, e chi invece sostiene che la norma abbia lo scopo di impedire qualsiasi infiltrazione di denaro illecito e quindi richieda una responsabilizzazione di tutti colori i quali prendano parte in operazioni finanziarie o economiche. Ancora una volta l'indeterminatezza del precetto legislativo è di ostacolo ad un'interpretazione univoca. Il quarto capitolo offre un'analisi qualitativa delle statistiche officiali sull'implementazione della legge dal 1992 ad oggi da parte delle istanze repressive e di prevenzione. Tra i dati analizzati i più rilevanti sono per esempio il numero di segnalazioni di transazioni sospette ricevuto dalle procure, il numero delle investigazioni condotte, il numero di condanne effettivamente inflitte ed eseguite e per quale delle ipotesi di riciclaggio, il volume di denaro confiscato. Essendo tali numeri indici del funzionamento del sistema penale e non del fenomeno del riciclaggio per sé, in conclusione si confrontano tali statistiche con le stime sul volume di flussi illeciti in Germania. Tale analisi, non potendo dare conto del numero dei reati evitati, sulla base dell'efficacia deterrente della norma, non intende esaurire il giudizio di efficacia della legislazione. Tra i risultati più rilevanti vi sono il fatto che il 60% delle persone condannate vengono condannate per l'ipotesi di colpa lieve, che solitamente consiste in casi in cui una persona poco abbiente ha accettato di far usare il proprio conto a terzi per operazioni sospette in cambio di un guadagno. Nel 5% dei casi le condanne sono inflitte per le ipotesi aggravate di commissione da membro di un'associazione criminale o in forma commerciale. Nel 90% dei casi le transazioni sospette segnalate alle procure portano a una chiusura dei procedimenti per mancanza di indizi che possano sostenere un rinvio a giudizio. La norma sembra colpire delinquenti minori e non grandi gruppi criminali, né altri delinquenti più potenti. Si ipotizza inoltre che l'incapacità di sostenere un rinvio a giudizio nonostante le informazioni acquisite e le indagini preliminari riduce la capacità deterrente della norma e permette, invece, ai criminali di conoscere le modalità di funzionamento del sistema repressivo e agire di conseguenza. Inoltre, le transazioni sospette sono segnalate nel circa 90% dei casi sa parte di istituti di credito, mentre gli altri enti obbligati dalla legislazione non sembrano partecipare attivamente al processo preventivo, in particolare il settore forense e immobiliare e del gioco d'azzardo. Sulla base di questi dati si ipotizza un effetto spill-over, ossia un trasferimento di illegalità dai settori più controllati a quelli meno controllati. I rapporti pubblicati dalla polizia, invece, considerano l'articolo 261 StGB come una norma con una delle più alte quote di chiarimento (ca 90%), quota calcolata sul numero di casi chiariti dal sistema penale, a prescindere dalle modalità di chiarimento. Per quanto riguardo il volume di denaro riciclato, il capitolo richiama alcune delle stime pubblicate da diversi enti, tra cui il Fondo Monetario Internazionale, il GAFI e la polizia criminale federale. Essendo il fenomeno del riciclaggio un campo in cui la cifra oscura è stimata essere molto alta, tali dati non possono essere presi come misura obiettiva del fenomeno. Infine il capitolo si conclude richiamando alcune analisi del tipo costi-benefici per misurare l'efficacia delle politiche anti-riciclaggio o alcune delle sue norme, condotte da enti terzi. Tali analisi sembrano concordare nel considerare i costi di implementazione della politica più alti rispetto ai benefici conseguenti. Nel quinto capitolo, infine, vengono discussi i risultati della ricerca empirica con gli operatori giuridici e con alcuni osservatori privilegiati, in modo da fornire una prospettiva interna sul funzionamento della norma. Tramite le interviste condotte si mettono in luce aspetti della prassi giuridica non fotografati dalle statistiche, allo scopo di offrire un'immagine dell'impatto della legge quanto più vicina possibile alla realtà. La ricerca empirica si avvale di interviste con operatori del diritto e con osservatori privilegiati che siedono in posizioni ministeriali rilevanti nella lotta al riciclaggio. La metodologia adottata è di tipo qualitativo, è stato fatto uso di interviste semi-strutturate a operatori del diritto e a osservatori privilegiati. Il capitolo presenta le percezioni degli intervistati su quattro temi principalmente: la dimensione del fenomeno del riciclaggio, l'adeguatezza tecnica della legislazione, i conflitti di interesse intrinseci alla legge e sorti dall'applicazione della norma e l'efficacia delle legge. A fronte di un rapporto emesso da quattro ONG nel novembre 2013, sulla base di statistiche prodotte dall'UNODC e dal Fondo Monetario Internazionale, e immediatamente riprese dai media, che descrive il paese come "Eldorado" per i riciclatori,10 le interviste sono dirette a cogliere l'opinione dei rispondenti sulle dimensioni del fenomeno del riciclaggio in Germania. Un intervistato ritiene inaccettabile desumere dal PIL tedesco il volume di affari del crimine organizzato nel paese, e obietta che non si possa, sulla base del giro d'affari del centro finanziario di Francoforte, definire lo stesso come centro di riciclaggio di denaro sporco. Un altro intervistato, dichiara, al contrario, che sicuramente il fatto che la Germania abbia un'economia stabile ed un settore bancario affidabile attiri coloro che vogliano investire proventi illeciti, neppure quest'ultimo possiede, però, dati affidabili sulla quantità di denaro riciclato. Il riciclaggio, come altri fenomeni legati alla criminalità organizzata, è una fattispecie che per definizione sfugge alle autorità e ai confini nazionali. Lo scopo dello stesso è nascondere proventi di reato e sottrarli in questo modo al sistema repressivo, questo è sicuramente un elemento che rende complessa, se non impossibile, la sua quantificazione. D'altra parte, osservano i soggetti intervistati autori del Rapporto del 2013, l'incapacità di fornire statistiche rilevanti dopo più di 20 anni di lotta al riciclaggio, sembra essere un sintomo di una carente volontà politica nel contrastare efficacemente il fenomeno. Secondo gli osservatori privilegiati se la Germania fosse davvero un paradiso per i riciclatori, ciò non sarebbe collegabile ad un deficit legislativo, dato l'impegno del governo nella lotta al riciclaggio, negando, quindi, l'accusa rivolta dai media per cui i criminali sceglierebbero il paese tedesco ai fini di riciclaggio di denaro sporco sulla base delle lacune normative. Agli intervistati è stato chiesto di evidenziare aspetti positivi e problematici della legislazione. Tra i più rilevanti vi sono: la necessità di bilanciare il bisogno di punire la condotta di riciclaggio e rispettare i principi fondamentali del sistema giuridico, il disinteresse da parte degli istituti finanziari nell'indagare l'origine del capitale investito dai clienti, anche in caso di sospetto di provenienza criminale, a causa della possibile conseguente perdita di reputazione nell'ipotesi di apertura di investigazioni da parte delle autorità sul cliente sospetto. Vi è poi una difficoltà materiale nel condurre indagini finanziarie, che spesso, conducono a condotte illecite commesse all'estero; sul punto si osserva che le condotte di riciclaggio, intese come operazioni atte ad ostacolare la provenienza delittuosa, non avvengono su territorio tedesco, bensì all'estero, il denaro che entra in Germania, è, quindi, già "pulito". Inoltre, l'articolo 261 è stato introdotto nel sistema tedesco come trasposizione di una direttiva Europea e non rifletteva una necessità interna dello Stato; la formulazione così vaga, infatti, si presta più per il sistema giuridico degli Stati Uniti, in cui non vige l'obbligo dell'azione penale, mentre in Germania, dove i pubblici ministeri hanno l'obbligo di azione penale, tale norma porta ad iniziare numerose indagini senza avere la capacità di proseguirle. In generale, gli intervistati rappresentanti dei Ministeri rilevano la forte pressione subita da parte del GAFI e dell'Unione Europea per l'emanazione della legge anti-riciclaggio e concordano nel dire che se la norma fosse stata creata sulla base di una necessità e di un dibattito nazionale sarebbe stata scritta diversamente. C'è chi individua nel sistema penale le cause di inefficacia dell'articolo 261, nello specifico, la limitata possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche, le restrizioni in materia di inversione dell'onere probatorio, e lo scarso utilizzo della confisca dei proventi di reato a causa del disinteresse da parte delle procure (gestite a livello di Bundesländer) nell'investire risorse in tal senso dato che i beni confiscati non resterebbero in mano al Bundesland ma verrebbero raccolti in un fondo federale e poi spartiti. Si osserva una generale mancanza di risorse pubbliche che porta ad una carenza di personale coinvolto nelle investigazioni e, quindi, ad una incapacità di far fronte ai processi in corso in modo efficace. Per questo motivo, i pm non hanno la capacità di indagare più a fondo casi di riciclaggio all'apparenza semplici, ma che potrebbero portare alla luce organizzazioni criminali operanti nell'ombra. Alla totalità degli intervistati è stata chiesta un'opinione sull'efficacia della legge. L'articolo 261 del codice penale tedesco è stato definito da un soggetto "una legge scritta in modo indecente, che produce risultati banali sul piano delle statistiche criminali, soprattutto con riferimento alle condanne per riciclaggio in grossi casi di criminalità economica". Il reato è così difficile da provare in giudizio, che risulta facile, per la difesa, sfruttare le lacune legislative per evitare una condanna per riciclaggio. I rappresentanti dei Ministeri confermano che la lettera dell'articolo 261 crea confusioni e che quindi l'accusa, pur trovandosi di fronte ad un caso di riciclaggio spesso preferisca perseguire i delitti presupposto. Questo non è, però, un sintomo di inefficacia, dato che l'effettività a cui mira il Ministero dell'interno non è data dal numero di condanne per riciclaggio, ma dal numero di casi risolti, e quindi dal numero di condanne in generale, a prescindere dall'imputazione. D'opinione opposta un altro intervistato che ritiene che l'articolo 261 non abbia alcuna capacità deterrente nei confronti della criminalità organizzata, "la norma ricorre così raramente nella prassi giudiziaria che di fatto non rappresenta una "minaccia" per i potenziali criminali". I soggetti intervistati esprimono più soddisfazione a riguardo della legislazione di prevenzione (GWG); in particolare, con riferimento alle piccole e medie imprese, per le quali è difficile riconoscere tra i partner commerciali coloro i quali investono denaro di provenienza illecita, la possibilità di affidarsi alle autorità investigative, in caso di sospetto è fondamentale. Un avvocato specializzato in compliance per società, descrive la norma preventiva come molto efficace e severa, tanto che è impossibile per le aziende, specialmente per quelle di medie o piccole dimensioni, adempiere a tutti gli obblighi prescritti dalla norma, ma, egli osserva, l'efficacia del sistema sta proprio nel fatto che le autorità di controllo, consapevoli dell'elevata rigorosità della legge, chiudono un occhio di fronte a lievi inadempienze. Una legge meno severa e un controllo più fiscale non otterrebbero la stessa efficacia, perché la norma non avrebbe lo stesso potenziale deterrente. L'efficacia all'interno delle amministrazioni responsabili per la lotta al riciclaggio è interpretata come efficienza dell'apparato, per questo motivo, non ci sono verifiche sull'efficacia degli strumenti giuridici sulla base degli scopi dichiarati, quanto piuttosto sulla correttezza del funzionamento dell'amministrazione e sulle possibilità di migliorarlo; il punto è capire come migliorare, non se il sistema sia efficace o no. Agli intervistati è stata chiesta un'opinione sull'eventuale efficacia simbolica della legislazione. La maggioranza delle risposte è stata negativa, gli sforzi compiuti da parte dello Stato -e quindi delle procure, della autorità competenti e della polizia- nel contrastare il riciclaggio e la criminalità economica non possono essere considerati simbolici. Alcuni intervistati ritengono assolutamente necessaria e strumentale – e quindi non simbolica- l'esistenza del reato nel codice penale come demarcazione di illegalità di tali condotte e come strumento atto a contrastare la criminalità economica perché mette in chiaro entro quali limiti le società possano perseguire profitti in modo legittimo. Di opinione diversa, invece, gli avvocati penalisti i quali si sono detti favorevoli a tale definizione sulla base dello scarso numero di condanne e soprattutto sulla mancata previsione da parte del Governo di mezzi adeguati per l'implementazione della legislazione. Lo stesso è osservato dal terzo settore, il quale sostiene che, a fronte di una legge complessa, oggetto di svariati emendamenti nel corso degli anni, non c'è stato un sufficiente impegno sul versante dell'implementazione; il coinvolgimento del GAFI e dell'OECD nella lotta al riciclaggio è percepito come un modo per creare posti di lavoro e nuove figure professionali, più che un'arena dove discutere efficaci strumenti di lotta ai reati economici. Altri elementi interessanti riscontrabili nelle interviste sono i conflitti di interessi che emergono dall'applicazione delle leggi anti-riciclaggio. Tra essi, vi è il dibattito tra il Ministero dell'Interno e quello di Giustizia in riferimento all'adeguatezza dello strumento penalistico nel contrastare la criminalità economica, dibattito già affrontato dalla dottrina, a cui, però finora, non è stata data una risposta univoca. Da una parte il Ministero dell'Interno auspica un intervento giuridico più deciso, che, per esempio, ricomprenda il reato di riciclaggio nella responsabilità penale degli enti (non ancora esistente in Germania) e sollecita una svolta politica generale in tema di criminalità economica dalla deregolazione del mercato finanziario all'intervento dello Stato in ambito economico ai fini di chiarire i comportamenti leciti e quelli illeciti. Dall'altra parte, il Ministero della Giustizia considera erroneo il ricorso al diritto penale ai fini di risolvere problemi di tipo economico o finanziario e cerca di frenare la tendenza moderna alla proliferazione penale, a favore di un intervento di tipo preventivo-sociale. A tal proposito, si osserva che agli incontri del GAFI a cui partecipano i rappresentanti dei Ministeri di Giustizia, coloro che provino a richiamare l'attenzione sulla necessità di rispettare i principi fondamentali costituzionali e di limitare l'intervento penale a tutela dei cittadini, vengano tacciati di non voler combattere la criminalità organizzata in modo efficace. In conclusione riapro la prospettiva a livello globale ed inserisco il reato di riciclaggio in una riflessione più ampia sulla governace finanziaria. In una prospettiva storica di analisi delle politiche economiche recenti si osserva come vi sia stata una tendenza a deregolare il mercato per mano delle istanze tradizionali pubbliche, e al contempo un aumento di strumenti transnazionali di cosiddetta soft-law che si sono fatti portatori di interessi particolari. Finché questa conflittualità non verrà risolta sarà impossibile impedire il riciclaggio di denaro sporco. Con particolare riferimento al contesto europeo, si prende atto che è stato molto più facile chiudere le frontiere per le persone fisiche e non a quelle giuridiche o ai capitali. ; This paper aims to question the sociolegal1 effectiveness of the money laundering offence.2 The literature that assesses the effectiveness of the anti-money laundering system is abundant. While most of it does not question the regime's goals this paper takes a step back and critically looks at the law-making process. In addition, while most studies have assessed the effectiveness of anti-money laundering law by looking at statistical outcomes, this paper takes a step forward and tries to explain those statistics by looking at legal praxis and at indirect effects. The significance of the research derives from the insertion of the analysis on money laundering offence in a broader political, economic and historical context. The methodology adopted is qualitative, with the intended purpose of underlining the complexity of the issue tackled, rather than reducing it through a quantitative approach. While most of the existing literature has quantitatively assessed the effectiveness of the anti-money laundering regimes on the basis of statistical data and other quantitative indexes and has tried to reduce the complexity of the issue by measuring it numerically, this research adopts a qualitative methodology, which instead highlights the entanglement and the different perspectives on the question. Money laundering is the process of giving profits originated illegally an appearance of having been made lawfully.3 Due to the tightening of economic criminal policies that limit the possibility of integrating ill-gotten gains in the legitimate economy, offenders have developed more and more complex methods and subterfuges to launder proceeds of crime, so the rise of a proper 'money laundering industry' (industria del riciclaggio) is mentioned.4 The total volume of money laundered is estimated to amount to between 2,5 and 5, 5 % of the world GDP.5 Due to the borderline nature of money laundering, which happens between the so-called 'legitimate economy' and the 'dirty economy', and thus involves different actors such as banks, the financial sector, certain professions and businesses, offenders, victims and law enforcement agencies, the legal response needs to compromise with all the various economic, political, social and financial interests at play. Furthermore, where legitimate business intermingles with illegal business and legitimate funds with illicit funds, it is very difficult to distinguish what is legal from what is not. The criminalisation of money laundering was specifically supposed to tackle this fine line. The goal of this research is to assess whether the choice of criminalising money laundering has been effective to tackle this fine line. In order to assess the impact of the domestic implementation of the existing legal framework, the research uses a case study that specifically questions the effectiveness of the money laundering offence in the German national criminal legal system. The interest in the German case derives from the fact that, according to the IMF, the OECD and the FATF, Germany might have 'a higher risk profile for large scale money laundering than many other countries'.6 There are some factors identified as enablers of money laundering activities, such as the large economy and financial centre, the strategical location in the middle of Europe, with strong international links, the substantial proceeds of the crime environment involving organised crime operating in most profit generating criminal spheres, the open borders, the large informal sector and a high use of cash, the large and sophisticated economy and financial sector, the important role in world trade, and finally the involvement in large volumes of cross-border trade and financial flows. The media have kept on reporting the fact that Germany is an ideal country, or even a paradise for money launderers.7 According to most recent media reports, corruption is increasing in Germany along with money laundering and organised crime,8 and illicit financial flows are estimated to amount to 50 Billion Euros annually.9 Renowned banks such as Commerzbank, Deutsche Bank, and Hypovereinsbank have been the focus of recent scandals due to their involvement in large tax evasion and money laundering schemes, investigated mostly by US law enforcement agencies.10 The legal framework has been considered as not being sufficient to tackle the estimated volume of money laundering. In 2007 and 2010 the European Commission initiated two proceedings against the German government for having contravened the European treaty by not having effectively transposed into national law the European framework to tackle money laundering and terrorist financing.11 In response to this wave of criticism, some important changes have been made.12 With specific regards to penal law, the legislature has amplified the scope of the money laundering offence and the sphere of criminal liability in order to improve the effectiveness of the existing legislation.13 Yet the continual expansion process has raised legal challenges that could constitute an obstacle for the effective enforcement of the measure. With regards to international legislation, scholars have often criticized the ineffectiveness of the anti-money laundering regime to not be able to achieve its goals and thus to be only appearance of public action. 14 While there is theoretical support for the perception that policies have contributed to a decrease in the incidence of money laundering, there is no evidence that this goal has actually been achieved.15 The official discourse describes the regime as a crucial tool to prevent and combat money laundering, and lawmakers have been focusing on expanding the reach of anti-money laundering laws. This work however takes a critical approach towards the existing legal framework and presents the view that questioning the effectiveness of the money laundering offence is essential before expanding the scope of the existing legal framework.16 On the background of the reflections based on the sociolegal framework that sets the definition of legal effectiveness with specific respect to criminal law, and on the critical literature on the inadequateness of the international anti-money laundering system to eliminate the targeted activity recalled in the introduction, the hypothesis underlying the case study is the following: Article 261 Gcc may be an example of a symbolic legislation, whose latent functions prevail on its declared functions. In particular, it is hypothesised that the law is an example of a 'compromise-law' that satisfy all parties taking part in the law-making process, thanks to the vagueness of the wording that allows a broad range of possible interpretations, and also thanks to the actual ineffectiveness, which pleases those who were contrary to the introduction of the provision. It is here necessary to recall the considerations on the 'legislator' being an heterogeneous group of parties not only constituted of members of the Parliament but often also by external actors, who can influence more or less transparently the law making-process. While the manifested function of tackling money laundering has in fact remained in the background, the thesis hypothesises that other latent goals have been pursued. It is further hypothesised that the 'law inaction' is part of a process of decriminalisation that intentionally grants impunity to a certain group of actors, in this case those laundering money, while giving the appearance that the practice is not accepted by law by labelling it as criminal. By using the concept of function, the study focuses on eventual conflicting interests emerging throughout the policy-making process and/or being displayed through the implementation of the provisions. In order to verify these hypotheses the research proceeds with a case study that aims at empirically assessing the sociolegal effectiveness of Article 261 Gcc. In particular, by applying the 'elastic' definition of effectiveness, the following chapters analyse the law-making process, the level of acceptance by legal scholars, the implementation, and the opinions of legal experts and professionals. The methodology adopted is qualitative. The research consists of a case study that includes a documental research, a qualitative analysis of statistical data and the conduction of interviews with privileged observers and legal actors. The study is a macro-sociological assessment of the effectiveness of a criminal legislation through the analysis of the motives that have triggered lawmakers to enact the current legal framework and the practical effects of the 'law in action'17 and of the 'law inaction'.18 Thanks to the use of sociological conceptual tools, as the ones of function, symbolic effectiveness, power, labelling, and legal culture, the research critically approaches the legal framework. In addition, the sociolegal perspective allows us to take into account the multidisciplinary nature of the phenomenon of money laundering and of its countermeasures and the diverse conflicting interests at play. The work has been conducted by a single person and not by a team of researchers; this has imposed a limit on the interviewing sample and the impossibility of undertaking, along with the qualitative analysis of the provision, a qualitative analysis of the jurisprudence and a quantitative analysis of the case law. In addition, criminal provisions have a deterrent purpose, yet in certain cases it is almost impossible to quantify the deterrence effect of those provisions, as in the case of the money laundering offence, and this represents a shortcoming of the current research. Official numbers are highly problematic, this element, despite impeding an objective quantification of the phenomenon, can represent a partial result for the qualitative analysis, because it highlights the complexity of the matter. The anti-money laundering regime is constantly evolving, and this would require continuously updating the assessment, instead the research provides a picture of the current situation. Yet the work offers the reader an instrument to critically interpret also possible changes in the wording of the money laundering offence that may be made following the publication of this work. The outcomes of the critical study on the reasons and effects of the current legislation can be used as a starting point for further research; the methodology set for the empirical analysis can be applied to assess the effectiveness of following developments. The structure of the thesis is the following: The first chapter presents the theoretical sociolegal framework and provides an operational definition of the concept of effectiveness that directs the empirical research. At the end the chapter describes the methodology of the qualitative research. Chapter two traces the genesis of the money laundering offence, as well on an internal, European and domestic level. The chapter analyses legislative intents, parliamentarian debates and other external contributions as declarations of intents and opinions through a desktop-study. The third chapter is dedicated to the doctrinal debate about the money laundering offence regulated in the German penal code. In particular the chapter highlights the controversial issues that have emerged through the abundant legal scholarship production, which might affect the effectiveness of the money laundering offence. Chapters four and chapter five present the empirical research. The fourth chapter analyses the quantitative data of the implementation of the money laundering offence from a qualitative perspective. The last chapter presents the results of the interviews. The main outcomes of the research are that the interests expressed more or less manifestly from the actors taking part in the initial phase of the creation of the anti-money laundering regime were strongly conflicting with each other. One representative example is the question whether to use the policy also to tackle large scale tax evasion or to leave proceeds deriving from fiscal crimes outside of the regime. Very different justifications were given for the criminalisation of money laundering at different stages. Often the declared motives did not correspond to the real goals of the actors taking part in the law-making process. The rhetoric connected to the seriousness of the drug issue was the manifest function of the new criminalisation of money laundering. However, other latent goals, for instance, the desire of financial institutions to clean their reputation and gain customs confidentiality or the interest of some governments to curb tax evasion were already present during this initial phase. Another controversial issue concerns the fact national states have adopted anti-money laundering measures under the pressure of the FATF, which is led by most industrialised countries.19 Despite lacking democratic legitimation, the FATF has imposed worldwide a brand new regime of criminalisation, prevention and enforcement. The legal framework has been used to address ever-new challenges, and this expansion process has been coupled by a rhetoric that scholars have defined the securitisation rhetoric.20 The most recent function manifestly attributed to the anti-money laundering legal framework, that is, in short, the protection of the soundness of the financial system. Especially in times of financial insecurity, the tendency of hardening laws against economic crimes increases. Having previously deregulated the financial system to enhance economic liberties, legislatures resort to criminal law to control illegality in the economy. As a response to the European financial crisis of 2007-2011, legislatures, instead of rethinking the approach towards the protection of the global finance, called for a tightening of economic crimes regulations. The European discourse on money laundering has mostly been related to the destabilisation of the market, the abuse of capitals' movement liberty, the disintegration of the internal economy. But, why was the EU so keen on imposing a common standard for the criminalisation of money laundering, without even enjoying competence in penal matters? The introduction of a common anti-money laundering control policy served to a latent function, namely to the purposes of the creation of the 'Single Market', by way of avoiding that Member States would have adopted measures inconsistent with the completion of the Internal Market, while taking action to protect their own national economies from money laundering.21 This was done by avoiding that domestic regulations implemented for protecting national economies from the infiltration of ill-gotten capital could have hampered the freedom of movement of capital within the European borders. The tension emerges, also in the wording of the most recent EU money laundering Directives, due to lack of Community action against money laundering could lead Member States, for the purpose of protecting their financial systems, to adopt measures which could be inconsistent with completion of the single market.22 There are thus conflicting interests between the claim for regulation to avoid the infiltration of illicit capital, and the demand for deregulation to foster the free market. The European legislature, however, did not declare completely this intention and justified, instead, the imposition of anti-money laundering rules given the threats posed by money laundering to the financial system and thus to society. According to this critical approach, the criminalisation of money laundering turns out to be more of a political tool aimed at achieving governance within the EU, while being presented to the public as an essential intervention to guarantee security and well-being. Once again, thus, the declared goals of the lawmakers did not correspond with the real intentions. It is especially in the interest of a research on the law's effectiveness to unveil functions that were undeclared, in order to evaluate the outcomes in a more critical way. Also from the analysis of the national law-making process emerged divergent opinions and expectations relating to the criminalisation of money laundering. The Parliamentarians debate that took place with regard to the introduction of the money laundering offence and other instruments to tackle drug-trafficking shows that the discussion was deeply embedded in the political-historical context. Given that Germany was just reunified after a period of two dictatorial regimes, the hearing gives the impression that lawmakers felt the responsibility of creating a new legal system against such historical background. In order to balance the very different legal cultures, the divergent approaches had to be compromised. The introduction of a new crime was particularly delicate due to the discriminatory and arbitrary use of criminal labels by the previous dictatorial regimes. Therefore, delegates would not easily give up on fundamental rights for the cause of persecuting criminals. The legislation can be seen as an attempt to balance the need to adopt more effective measures to tackle crime and the necessity of respecting the rule of law and creating a 'militant democracy'. Yet, given the external pressure of the FATF, the EU and of the media, the text was less of a compromise and rather a ratification of 'internationally' accepted standards. The rule of law was not the only issue emerged in the initial phase of the political debate. Controversial opinions were raised also with regard to the questions of the mens rea and the interest protected by the new criminal provision: Certain political parties supported the broadest criminal liability to ensure an effective prosecution of money laundering, other parties were worried that a widespread liability would have been cumbersome for the economic system. Moreover, along with the expansion of the international criminal legal framework to fight against money laundering, also the scope of Article 261 Gcc was extended to include ever-new predicate offences. From the analysis of the doctrinal debate, it emerged that legal scholars have revealed technical hindrances that hinder the provision's legitimacy and thus hamper a positive integration of the act in the criminal legal system. In addition, given that most controversial issues are caused by the wording of the offence, the chapter seems to uphold the idea of an intentional potential decriminalisation of money launderers. The wording of Article 261 Gcc has the potential of frustrating some of the intentions expressed by the legislature in occasion of the adoption of the provision. While the vague formulation of the money laundering offence was thought to tackle ever-new emergencies and has been justified by legislatures as necessary to ensure a more effective fight against money laundering, it has also raised issues that, far from being purely dogmatic, have undermined the acceptance of such law. If law makers have designed the offence in a broad way to allow the criminalisation of conducts that could not have been prosecuted by the existing offences before, the large discretion left to prosecutors, has resulted in a cumbersome element for the prosecution of money laundering. In addition, criminalising the reckless conduct without envisaging a specific criminal liability for security positions has widened the scope of the offence to the point that the law has missed its function of isolating criminals by criminalising gate-keepers' activities. In addition it emerged that there are some open questions with regard to the wording of the offence, for example the question of the interests protected by Article 261 Gcc. On one side a state intervention is considered necessary to contain the impact of economic misbehaviours to protect citizens, on the other side it is important to limit the resort to criminal law only for safeguarding individual or collective situations and not for defending an existing economic structure. The economic system may, in fact, not be considered as a collective interest that needs protection. Also, safeguards provided by penal law need to be substantial and not symbolic, because they urge to change a given situation of inequality, where criminals can profit from illegal practices while legitimate economic actors undergo unfair competition. From the doctrinal analysis it has instead emerged that the legislator seemed to be more interested in drafting a symbolic legislation that can be hardly integrated in the legal system and that raise strong challenges. Lawmakers have been focusing on expanding the reach of anti-money laundering in order to improve its effectiveness, yet without providing legitimacy for such expansion. One of the most meaningful fact observed in the qualitative analysis of statistical data is that organised crime and 'gross money laundering' are not persecuted through Article 261 Gcc. This fact can be inferred by the low number of convictions pursuant to Article 261 (4),23 by the low number of money laundering proceedings categorised as organised crime and by the low number of investigations in the field of money laundering, tax crimes and economic crimes recorded by public prosecutors offices in 2013, where more than one person was involved (18 %). Yet, this does not mean that the criminal justice system does not act against them, but rather that it uses other tools to achieve the goal. While the low conviction rate for serious money laundering cases could be also a symptom of a high degree of deterrence of the provision, it seems that law enforcement uses the money laundering charge as a fallback for authorities who are unable to acquire sufficient evidence in a preliminary phase for the predicate crime and necessitate further information otherwise not accessible. The charge of money laundering allows investigators to access the vast amount of information recorded pursuant to the GwG, which would not be otherwise accessible. Yet, after the investigative phase, prosecutors seem to prefer to modify the charge and opt for indictment for predicate offences instead. The law seems to be effective to the extent that it facilitates the initial investigations, while it does not serve directly the function of punishing money launderers. Besides having a substantial nature, the provisions seem to have a procedural function. It can be inferred that prosecutors find particularly difficult to bring evidence against organised money launderers also due to the fact that professional offenders do not leave traces. From the scarce use of Article 261 Gcc for tackling organised criminality, it can be inferred that the measure is not serving for one of the purposes declared by the legislature when introducing the offence. In addition, it can be hypothesised that other measures may be more suitable to tackle 'gross money laundering'. Given the high number of STRs filed and the low number of money laundering charges and of convictions deriving from the STRs since the introduction of the laws, it can be assumed that the system has been anyway maintained because it still provides some sort of benefits. It can be hypothesised that one benefit is the number of information provided to law enforcement agencies. This amount of recorded information is helpful not only to support further indictments, but also to increase the personnel awareness about the ever-changing money laundering techniques and schemes. Again the effect of the 'law in action' differs in respect to the declared legislative intentions, which justified the criminalisation of money laundering with the necessity of tackling organised crime's economic power. By spelling out this function, the assessment on the effectiveness of the law - as the possibility of collecting information - can be positive. Yet, this effect could be considered a social cost rather than a benefit. On a theoretical side, many scholars see the recording of personal information by private actors as an infringement of the right to privacy.24 On a more practical side such mechanism imposes significant costs on the designated businesses and professions that are in charge of collecting the data.25 When compared to the effective outcomes of the preventive regulations, in terms of law enforcement results, this aspect does not seem to win a cost-benefit analysis, as showed in the quoted researches. If one considers the advantages in terms of information collected, the policy may be considered worth the burden imposed, instead. However, the fact that the laws would have an effective impact on the long run on the fight against money laundering and organised crime may be seen as a diminished deterrence effect, because perpetrators would have the time to adapt to the new laws and find new ways of circumventing them. A collateral effect of the long-run effectiveness of the policy hypothesised on the basis of the outcomes of the research on the implementation is the fact that perpetrators could take advantage of the initiated but not completed cases, by acquiring knowledge about law enforcement strategies and thus develop subterfuges to elude them. On the contrary, it seems that the legislature is always running after to cope with the offenders' ever-new strategies. In fact, regulations about a new sector are updated when there is evidence that there is a risk of money laundering in that specific sector. Yet, offenders might have already moved their laundering activities to another sector. On the assumption that the inclusion of the reckless conduct would have potentially criminalised daily activities, a focus was posed on the number of convictions related to Article 261 (5) Gcc26 to verify the target of the criminal provision. Since 2005 a high number of convictions have been actually referring to reckless money laundering. This shows that the offence is used to punish primarily 'petty money laundering'. This fact can also be inferred from the relevant number of money laundering cases to the detriment of senior citizens, signalled by the FIU in the recent years. Also the fact that a significant number of STRs is filed in relation to the 'financial agents' phenomenon' is a symptom that the preventive mechanism targets more 'small fishes' rather than big perpetrators. Individuals convicted for the reckless conduct may be even victims of a fraud perpetrated by criminal networks. However, the criminal network acting behind the offender remains undetected. If on the one side it cannot be claimed that such offenders, given the lower degree of culpability should not be punished at all, on the other side this effect of the law involves a change of paradigm. The money laundering offence was initially introduced with the goal of tackling serious crimes. The observed effect, however, changes the function and the nature of the law, so that Article 261 Gcc could be considered rather a 'blue collar crime' more than a 'white collar crime'. From the analysis on the quality of STRs filed to the FIU, it can be inferred that certain designated professions and businesses are very reluctant in filing STRs, despite their notably exposure to money laundering risks. The list of designated professions and businesses has been amplified over the years exactly with the goal of facing this transfer of crime from one area to the other. Yet some professionals, such as legal advisors, do not report them, although they possess the capacity of recognising illicit transactions. The fact that some sectors do not actively participate in the effort of preventing money laundering, by allowing criminal proceedings to enter the legitimate economy, may lead to a general ineffectiveness of the system, because it can significantly hinder the capacity of the whole anti-money laundering system to respond to the ability of offenders to move their field of activity there where the law is lax. The provision does generate some instrumental effects by punishing offenders and by triggering a cooperation directed at signalling suspicious transactions between the obliged entities and law enforcement. However, some of the effects do not seem to completely fulfil the legislature's declared goals. For example the chapter seems to prove wrong the legislature's expectation of tackling the grey area by punishing gate-keepers or the attributed function of eliminating organised and serious crime. Given the high costs of implementation highlighted by the cost-benefits analyses, the rather low outcomes seem to be insufficient to fulfil the legislature's goals. Since it is sufficient that without latent functions it would be impossible to explain the adoption and maintenance of a legal act,27 it can be concluded that the intents declared by lawmakers do not satisfy the reasons why the provision was introduced. This opens up the hypothesis that Article 261 Gcc is an example of a symbolic legislation, which has been enacted with the purpose of compromising a complex parliamentarian debate. The analysis of the law-making process has revealed the existence of different expectations attributed to the introduction of Article 261 Gcc. Expectations that were conflicting with each other had to be negotiated and were compromised through the formulation of a vague offence that allowed different interpretations. Yet, the implementation of the law has led to the re-emersion of some of the conflicting situations. In addition, given that the policy regulates a complex and multifaceted issue new conflicts have emerged through its enforcement. The effects triggered by the norm can be indeed perceived positively or negatively by the different actors involved. In particular five principal conflicting situations have surfaced from the interviews. The first issue is the role played by external actors in the law-making process and the constant influence exercised by those actors in the process of updating the policy. The imposition of a US American approach to money laundering control through the role of the FATF has also been highlighted in the second chapter. Specifically, some scholars see the development of a global prohibition regime fostered by the US in the diffusion of anti-money laundering law. According to this literature, the powerful state creates an international regime focussed on achieving its own goals through global acceptance triggered by the securitisation rhetoric and compliance processes imposed through the menace of exclusion by international business relations. The second conflict that emanates from the words of the respondents is the one of the demand for criminal law to face financial misbehaviours and the necessity of limiting the tendency of expanding criminal law on the background of a situation of financial instability. Given the previous deregulation of the market, policy makers need to control and sanction economic abuse in order to protect fair competition and law-abiding individuals. On the other hand, the state needs to respect fundamental principles, such as the rule of law and the principle of ultima ratio that imposes a restriction of the use of criminal law in situations in which no other measures are suitable. This conflict has already been raised along the formulation of the money laundering offence with regards to the question of the interests protected by the law. Despite the legislator tying to limit the scope of the offence by attributing to Article 261 Gcc the protection of the administration of justice and of the interests protected by the predicate offences, this explanation was not considered suitable to the peculiarity of the offence. Indeed, shortly after the enactment, legal scholarship and the judiciary entered in a vivid debate in order to identify more suitable interests protected by the law, among them the financial and economic system under different perspectives. However, as chapter three shows, no solution could be found. In fact, the question concerning the suitability of criminal law to tackle illicit financial flows is perceived in the current research as still unsolved. The matter does not only concern money laundering control. On the contrary, it is a fairly widespread issue that has recently emerged due to the tendency of hardening economic crimes on the background of a situation of financial instability. The third conflict can be summarised as the following: on the one hand the policy being required to interfere with the personal sphere of suspected money launderers; on the other hand private institutions being interested in protecting their relations with loyal and trusted customers. Therefore, they are reluctant to give law enforcement the possibility to interfere too much in their business. The interest manifested by the private sector involved in the prevention of money laundering seems thus to collide with the legislative intent of preventing the infiltration of dirty money by way of preventing gate-keepers to help money launderers. The clash emerges at a micro-economic level and is triggered by the fact that the anti-money laundering policy demands an active participation by private sector in the detection of suspects. Private actors, are not appropriate to bear the burden of detecting offenders, moreover they need to protect the relationships with customers by avoiding unnecessary interferences. At the same time, the privatisation of crime control is questionable also from a governance point of view. It seems therefore that the public interest in persecuting crimes through having access to personal information from the private sector only marginally collides with the interest of protecting the right to privacy. Businesses and professions are predominantly interested in not interfering with their clients and in not bearing the burden of detecting offenders. The issue was also addressed during the national Parliamentarian debate, with regards to the degree of mens rea required for money laundering criminal liability. Making everybody taking part in economic or financial activities actively participating in the monitoring of the economic system under the threat of criminal liability for negligent money laundering was considered harmful for the business market. The same debate has been picked up by legal scholarship too. Yet, it seems that, despite the law being the result of negotiations, the question is still open. The fourth issue consists of discording opinions with regards to the opportunity of including tax evasion as predicate offence for money laundering. On one hand there is the interest of tackling tax evasion through the anti-money laundering regime, on the hand the concern of keeping the two phenomena distinct in order to avoid an overrating of money laundering. Since the genesis of the anti-money laundering policy, some actors taking part in the international law-making process, opposed the labelling of 'black money', naming money deriving from tax violations, as 'dirty money', indicating all proceeds of crime typically committed by organised crime. This distinction was based on the perception that tax-related offences were less serious and less harmful than capital flight and were advocated by financial centres in order to maintain a good reputation while still granting peculiar financial services, such as bank secrecy. This issue is a good example of the labelling theory, to the extent that it shows how a practice that was firstly not considered criminal enough to amount to a predicate offence for money laundering, has become part of the scope of the anti-money laundering regime on the basis of a political decision of labelling it as such. Respondents of the current research show to have different perceptions of the degree of the seriousness of tax laws violations and thus about the appropriateness and necessity of tackling them under the umbrella of the anti-money laundering policy. Again, the matter, which seemed to have been resolved through the negotiations on an international and European level, is still being debated at national level. The last two contrasting interests are the necessity of regulating the flows of money and the free movements of capitals in a neoliberal economy. The question is intrinsic in the nature of money laundering, which is a phenomenon that happens at the interface between legality and illegality. Regulations that facilitate the licit exchange of goods, capitals and services do also facilitate the flow of ill-gotten gains; there are thus conflicting interests between the public interest of persecuting crime and the claims for less regulation in a free market economy. From the interviews surfaced that not only opinions on the effectiveness of the law differ, but the very concept of effectiveness is perceived differently among the interview partners. Perceptions about how effective the anti- money laundering policy is appear to be similar among respondents belonging to the same experts' group. In particular, given the fact that the policy triggers many preliminary investigations, investigators work on a daily basis with the provision. This led to their opinion on the implementation of the legislation being rather positive. Positive opinions have common ground: they assert that the policy is not a simple one to implement, however, they believe that the legal practice has found its way through. On the contrary, defence attorneys specialised in economic crimes do not receive a significant amount of clients suspected for money laundering. For this reason they tend to have a rather negative opinion on the policy's effectiveness, also driven by the perception that the policy is not able to achieve the indirect goals. The diverse concepts of effectiveness provided by disciplines close to the sociology of law and the different definitions of effectiveness given by sociologists of law turn out to be useful here. Particularly the notions of 'efficiency' and of 'efficiency regardless of the goals' are proved very useful to interpret the respondents' opinions. Efficiency, is according to the administrative legal approach, the optimal relation between the goals achieved and the instruments used. A subcategory of this concept is the efficiency calculated through a cost-benefit analysis, of which some examples have been presented in the fourth chapter, which defines efficiency as the functioning of a legal order without assessing the goals achieved. This type of analysis focuses on the correctness of the operating system since the purpose of the system is its own existence. It refers to a whole legal order rather than to a specific single provision. Given that the anti-money laundering policy constitutes a legal order, due to the diverse regulations involved and the competent authorities created in order to achieve the goals of the policy, this notion can be applied. In the field of administrative legal theories, the first chapter has focussed on the approach that considers the (in)effectiveness of a law depending on its (failing) enforcement. A high degree of compliance of the anti-money laundering legislation might correspond to a high level of effectiveness of the policy with respect to its direct function, but at the same time to a rather low level of effectiveness with regards to its indirect purposes. The way to evaluate the degree of effectiveness is therefore also different. While compliance with legal provisions is calculated through a quantitative assessment of the processes in force and of the functioning of the system, the achievement of the indirect functions is measured on the impact of the policy. Interview partners have different perceptions about the indirect functions of the legislation too. This reflects, once again, the fact that the policy was a result of a compromise between different expectations and that the legislator was not able to limit the scope of its application to a particular goal. The different expectations and intents, which already emerged in the doctrinal debate about the legally protected interests, appears again in the different perceptions of the interviewees. The respondents were asked about the legislation's effectiveness with regards to one of the indirect functions, namely the capacity to deter organised crime. The legislator enacted the money laundering offence in the context of the fight against drug trafficking and other forms of organised crime, thus Article 261 Gcc's expressed rationale is the prevention and repression of organised crime. Finally, a relevant outcome regards the respondents' opinions on article 261 Gcc's latent symbolic function. Some of them agree with this. Others strongly oppose the hypothesis. They argue instead that the policy has instrumental effects on their daily practice, which cannot be defined as purely symbolic. According to most respondents, the law cannot be defined as symbolic, because it has led to instrumental effects. In the first place information gathered thanks to the GwG is used to start preliminary investigations under Article 261 Gcc. Secondly, the structure enacted to comply with the anti-money laundering policy is attainable and is visible and cannot be denied. Thirdly, the law is considered necessary because it labels a deviant behaviour. In particular, despite the fact that investigations do not lead to a conviction for money laundering they allow investigators to collect information in support of criminal cases for the predicate offences or to start a preliminary investigation for a predicate offence. In this sense, the function of the 'law in action', despite being questionable, is objectively instrumental. However, the fact that the law serves the purpose of tackling predicate offences through the support of investigations does not exclude the hypothesis that the law was enacted to pursue latent functions too. According to the sociologist Aubert, it is not necessary that the latent goal is the only one that plays a role, but it is necessary that the other purposes would not explain the analysed phenomenon completely. Indeed, in the opinions of those who exclude the symbolic function, yet the results achieved through compliance do not legitimate the burden imposed by the legislation. In other words, it seems that they recognise that the purpose of compliance cannot completely explain the policy makers' motivation, which re-opens the doors for the hypothesis of the existence of latent functions. In fact, such a demanding policy cannot be accepted for the sole purpose of re-enforcing the action of the criminal justice system in tackling predicate offences. On the other hand, compliance with the policy in terms of building of a structure and of expertise does not automatically mean fulfilling the policy's purpose. Particularly the creation of new professionalism, has been interpreted by scholars as a sign given to the public that the policy has produced certain effects. In conclusion, on the background of the research's outcome, the paper tries to reply to the question: (How) can the effectiveness of the money laundering offence be improved? While technical hindrances can (and perhaps) will be removed through legal reforms, 28 the inherent political economic and financial conflicting interests that impede a higher level of effectiveness are more difficult to solve. In contemporary industrialised economies there is a complicated and sometimes shifting boundary between legitimate and illegitimate transactions. This is particularly exacerbated in the context of financial capitalism, which 'subordinates the capitalist productive process to the circulation of money and monetary assets and hence to the accumulation of money profits'. Since the very beginning, determining the boundary between an area defined as 'criminal' and the space of 'legality' has been controversial. In fact, money has a neutral nature, pecunia non olet, making profit, irrespective of the monies' origin, is a very strong interest for both private and public entities, which collides with the one of eliminating illicit financial flows. In other words criminal policy goals diverge from purely economic interests. While one can assume the justice and correctness of the current financial system, and thus describes money laundering as harmful because it interferes with the existing economic order, one can also assume that the capitalist system leads per se to injustice and inequality, and that money laundering is actually embedded in this profit-oriented system and represents just the darker side of the capitalist economy. A compromised viewpoint is the one that describes money laundering as an accepted collateral effect of the capitalist system, that is to say 'a certain amount of illicit financial flows may be considered an acceptable price to pay for a market where free mobility of capital is guaranteed'. In other words, money laundering is intrinsic in or at least exacerbated by the capitalist system.