La crisi del formalismo, la rivolta dell'antiformalismo e la ricerca dell'equilibrio, è frutto dell'attività di ricerca svolta nella Biblioteca dell'Institut für Römisches Recht dell'Universität zu Köln. Si tratta di un lavoro che susciterà reazioni e che è duplicemente interessante per i giuristi, storici e teorici del diritto. Innanzi tutto per la impostazione metodologica. Il lavoro si basa su un felice connubio di Filosofia del diritto e Diritto Romano, che si completano l'un l'altro: la prima trova nel secondo un campo di "verifica" di quanto sostenuto a livello teorico, essendo l'esperienza giuridica Romana ricca di spunti di riflessione e sorprendentemente viva nella ricchezza delle sue implicazioni filosofiche; il secondo si completa nella prima, ricevendo conferma, non soltanto della sua "utilità" nel campo del diritto, ma anche e soprattutto della sua natura giuridica e non soltanto storica, per effetto appunto, della scelta teorica di ampliare la nozione di diritto fino a comprendervi l'intera esperienza giuridica, incluso, naturalmente, il suo profilo storico. In secondo luogo, non può essere taciuta l'originalità con cui è affrontato il tema del formalismo giuridico: senza perdersi nei distinguo che caratterizzano la tradizionale impostazione, si isola -facendo uso della letteratura, non solo Europea, ed in particolare delle Opere di Giuseppe Capograssi, ma anche Anglo-Americana, ed in particolare di Form and Function in a Legal System. A General Study di Robert S. Summers- una nozione positiva di forma, che, ben lungi dall'essere in contrasto o, anche solo in contraddizione con i contenuti del diritto, o le altre componenti non formali, si integra con esse, in una composizione unitaria e tendenzialmente equilibrata. Accanto all'alternarsi di formalismo e antiformalismo, quali tendenze ciclicamente prevalenti nella Storia, anche Romana, del pensiero giuridico, questo lavoro evidenzia come sia possibile isolare una tendenza, nella Filosofia del diritto contemporanea, a perseguire un equilibrio tra formalità e sostanzialità del diritto. Lo scopo del lavoro infatti, non è tracciare o esplicare il formalismo e l'antiformalismo, nelle diverse connotazioni storiche e/o filosofiche, ma dimostrare come entrambe siano dei riduzionismi giuridici: il primo perchè riduce il diritto ad una "carriola vuota", che può essere riempita di qualunque contenuto, ed è quindi "insensibile" rispetto alla realtà, che con la sua immediatezza, dà origine al diritto; il secondo per il suo scetticismo nei confronti della forma, che alla fine finisce per annullare l'autonomia del diritto, riducendolo alla politica. La struttura della tesi si articola in un crescendo, complesso, ma che non difetta di unitarietà: non manca il collegamento tra i capitoli, che tuttavia sono, ognuno, compiutamente sviluppati e singolarmente fruibili. L'incipit è il significato di "crisi del diritto", espressione ricorrente nella letturatura giusfilosica Europea degli anni Venti del XX secolo, del Secondo Dopoguerra e degli inizi del Terzo Millennio, in cui, come in passato, si rimprovera al diritto una superfetazione legislativa ed una strutturale carenza valoriale. Quale interprete della "crisi del diritto" degli inizi del XX secolo si è scelto Lopez De Onãte, non soltanto per la sua capacità di sintetizzare lo stato del diritto e degli animi del suo tempo, ma anche per la sua intuizione che la crisi del diritto è un aspetto di quel poliedro che è la crisi dell'individuo. È un filone di pensiero che ha già quale interprete il giovane Giuseppe Capograssi del Saggio sullo Stato, in cui la crisi dell'autorità è intesa quale profilo della crisi dell'individuo e del diritto. Interessante è la lettura che si fa nel primo capitolo della "crisi del diritto", quale argomento che chiude il cerchio della produzione di Giuseppe Capograssi, dal momento che evidenzia non solo come tale tema sia un filo rosso che attraversa le opere Capograssiane, ma anche come, in realtà, se la letteratura tende ad isolare la crisi del diritto del Secondo Dopoguerra, ricostruendola come diversa ed in nessun modo ricollegabile alla crisi del diritto degli anni Venti, in realtà un legame c'è. Emerge l'idea che la storia del pensiero giuridico sia segnata dall'alternarsi di formalismo ed antoformalismo, di cui Bobbio, non è soltanto interprete nel suo Giusnaturalismo e positivismo giuridico, ma diretto testimone, essendosi affacciato agli studi giuridici proprio negli anni Venti – Trenta ed avendo assistito ad un ripetersi della stessa crisi del diritto anche negli anni Cinquanta. È a questo punto che si delinea la nozione di formalismo giuridico che è utilizzata nel lavoro: la crisi del formalismo giuridico è il vero volto della crisi del diritto. Quando nel testo si parla di formalismo giuridico non ci si intende riferire ad una nozione concettuale, ma ad un fenomeno storico, il cui verificarsi ha un carattere ricorrente, se non ciclico. La delineata nozione di formalismo giuridico comporta la necessità di chiarire quale sia il rapporto tra le nozioni di formalismo giuridico e di forma giuridica. Emerge in questo modo il carattere peggiorativo con cui è inteso il formalismo: la sua versione positiva è la forma. Partendo dalla ambivalenza della forma in Platone e passando attraverso la doppia connotazione, positiva e negativa del formalismo giuridico nella forma Aristotelica, il lavoro approda al Giusnaturalismo Romano ed al modo di intendere il rapporto tra ius e natura in Cicerone, al fine di proporre una nuova chiave interpretativa del formalismo Romano dell'età Arcaica. La lettura tradizionale del Diritto Romano Arcaico quale esempio di un diritto che, per effetto dell'astrazione dai suoi contenuti, è ridotto a mera forma, è decisamente antistorica, non tenendo conto del modo in cui, nel pensiero giuridico Romano, era intesa la natura, il ius e soprattutto il rapporto di queste due nozioni, sia tra loro, sia con l'uomo. Gli argomenti utilizzati per la confutazione della tradizionale interpretazione del formalismo Romano Arcaico si ritrovano anche nella critica del formalismo Kantiano, seguendo le tracce dell'evoluzione che gli studi su Kant hanno avuto soprattutto negli Stati Uniti d'America, e nella critica Capograssiana del formalismo Kelseniano. Si condivide con Capograssi e con la letteratura su Capograssi, che il formalismo giuridico è un fallace riduzionismo del diritto alla sua componente formale, dal momento che elemento costitutivo del diritto non è soltanto la forma, ma anche il suo contenuto. Anche se è generalmente condivisa la inaccettabilità della Teoria pura del diritto, con la sua pretesa di prescindere dalla componente valoriale del diritto, il dibattito formalismo versus antiformalismo è ancora aperto ed acceso nella Filosofia del diritto contemporanea. Il lavoro ne offre un esempio con specifico riguardo alla posizione assunta da Natalino Irti nel suo ultimo lavoro Il salvagente della forma ed alla risposta che al nichilismo ed all'indifferenza contenutistica del diritto offre Bruno Romano, con l'idea centrale ed innovativa di formatività della giustizia nell'opera d'arte dell'ermeneutica. Il lavoro si sviluppa attraverso la serrata critica della negazione nichilistica della possibilità di una fondazione meta-positiva del diritto, dimostrando come lo Stato Costituzionale di diritto, non è la radicalizzazione di un dato contenuto di norme, assunto come fermo e statico, ma segna nuovi percorsi di speculazione filosofico- giuridica, oltre il positivismo giuridico. Inaccettabile è pure la tesi nichilistica della morte del Diritto Romano per effetto della dissoluzione del rapporto tra diritto e tradizione: il ruolo del Diritto Romano, nel pensiero giuridico contemporaneo, non è infatti legato alla nozione di tradizione, ma a quella di esperienza giuridica. Il diritto non può non avere un profilo storico, come affermato da Riccardo Orestano, sulla scia dell'insegnamento di Giuseppe Capograssi. È questo il momento, nel percorso di ricerca seguito, in cui maggiore è la sintesi tra Filosofia del diritto e Diritto Romano, forse perchè il loro legame è evidenziato dal richiamo che il Romanista fa del Filosofo del Diritto. D'altra parte, a sconfessare il ruolo di mera digressione dei contenuti di Diritto Romano presenti nel lavoro, è sufficiente l'impostazione che agli studi Romanistici dà Okko Behrends, la cui ricostruzione dell'evoluzione del rapporto tra le fonti del diritto nel Diritto Romano Classico non solo fornisce un illuminante esempio di equilibrio tra regole formali ed esigenze di giustizia sostanziale, contribuendo, per altro verso, a dimostrare la inconsistenza di ogni pretesa separazione "scientifica" della Filosofia del Diritto dalle altre branche del diritto, siano esse storiche o positive, ma illumina, sotto una luce nuova, il dibattito che si consuma nelle grandi aree che segnano il campo della Filosofia del diritto contemporanea: da un lato, la filosofia razionalista, analitica e positivista, specie nella sua versione anglo-americana, che, pur conservando intatta la razionalità logica, quale fondamento del diritto, si apre alle implicazioni di scopo, e, dall'altro, la filosofia che, rivendicando la ricerca di una autonoma ed indipendente razionalità del diritto, trova un emblematico ed ancora attuale esempio di conciliazione tra formalità e sostanzialità, legalità e giustizia, certezza ed equità, nella nozione di esperienza giuridica di Giuseppe Capograssi, quale emerge da due sue opere decisive: Analisi dell'esperienza comune e Studi sull'esperienza giuridica. Altro esempio di come, sul piano metodologico, non vi siano invalicabili steccati tra la Filosofia del diritto ed il Diritto Romano è offerto dalla Teoria generale della forma di Robert S. Summers, il quale utilizza, a fondamento della sua costruzione filosofica, il pensiero Jheringhiano, realizzando un duplice obiettivo: sul piano della teoria del diritto, la enucleazione di una nozione nuova di forma; sul piano degli studi romanistici, una interpretazione della produzione di Jhering, che supera la contrapposizione tra la componente sistematica e l'approccio teoleologico al diritto, attraverso la dimostrazione di come la loro equilibrata composizione sia il più efficace antidoto contro gli unilateralismi ed i riduzionismi giuridici. Il lavoro arriva così alle conclusioni, e, conservando, fino alla fine, lo spirito che ha informato tutta l'opera, non poteva mancare, anche nell'affrontare il problema della Scienza del diritto, la combinazione di Filosofia del diritto e Diritto Romano. Il Problema della Scienza del Diritto di Giuseppe Capograssi offre un valido ed impagabile ausilio alla soluzione del dualismo presente tra teoria e pratica del diritto e tra costruzione sistematica di concetti ed esegesi pragmatica di fatti. La problematicità, quale carattere costitutivo della scienza del diritto, riceve una conferma dall'esperienza giuridica Romana, essendo il metodo casistico dei Pithanà di Labeone la dimostrazione di come affrontare le questioni giuridiche in termini problematici, non implichi la negazione della certezza del diritto, ma sia la maggiore attestazione della sua scientificità. Questo lavoro merita attenzione, al di là delle imperfezioni, non soltanto per il modo nuovo e comunque originale di affrontare i temi del formalismo e dell'antiformalismo, ma anche perchè ricorda quale è il compito principale della ricerca scientifica: non risolvere in via definitiva ed incontrovertibile i problemi, ma più modestamente, porli.
The paper addresses the history of excavations of the largest Roman tomb, the Mausoleum of the Emperor Caesar Augustus. The author focuses on the results of recent archaeological activities and how they have transformed the perception of the monument. The tomb of the fi rst Roman Emperor in the post-classical era underwent various transformations and was repeatedly plundered. As a result, the tomb has preserved in a severely damaged condition. The monument had been used for utilitarian purposes until the 1930s. The mausoleum was used as a quarry, a fortress which has been repeatedly destroyed, a vineyard, a garden, an amphitheater for bullfi ghting, a theater, and a concert hall. The fi rst archaeological excavation in the territory of the monument was carried out in the 16th century. It is them which marked the beginning of the monument's study history. The material obtained during these fi eld works is still of great importance for scholars who engage in the study of the monument. For a long time after the Renaissance era the Mausoleum was studied only periodically due to construction works carried out in its territory. The archaeological study of the monument has intensifi ed since the beginning of the 20th century. Ambitious works were carried out in the 1920s and 1930s. Their implementation was not dictated by scholarly interest: Benito Mussolini sought to use the heritage of Ancient Rome for his propaganda. Nevertheless, as a result of the completed excavations, the mausoleum was not only freed from the post-antique layers, but the obtained results laid the foundation for the modern idea of the monument. New interest in the monument arose only after seventy years. The immediate reason to that was the government's plan for the reconstruction of the mausoleum and the surrounding area. Excavations were carried out by the Department of Cultural Heritage of the Capital of Rome. The obtained archaeological data have greatly changed the modern perception of the monument and make it possible to put an end to the discussion of the issue. ; В статье рассматривается история раскопок крупнейшей римской гробницы, а именно мавзолея императора Цезаря Августа. Основное внимание уделяется результатам недавних археологических работ и тому, как они повлияли на представление о памятнике. Гробница первого римского императора в пост-античную эпоху претерпела различные трансформации и неоднократные грабежи, в результате которых сильно пострадала. Памятнику находили практическое применение вплоть до 1930-х гг. За многовековую историю мавзолей использовали как каменоломню, крепость, которую не раз разрушали, виноградник, сад, амфитеатр для корриды, театр и концертный зал. Первые археологические работы на территории памятника проводились уже в XVI в. Именно с них начинается история исследования монумента и результаты, полученные тогда, до сих пор имеют большое значение для науки. На протяжении длительного времени после эпохи Ренессанса объект изучался только периодически, в связи с какими-либо строительными работами, проводившимися на его территории. Работы на памятнике активизируются с начала XX в. Масштабные раскопки состоялись в 1920-30-е гг. Их проведение диктовалось не научными целями: Бенито Муссолини стремился использовать римское наследие в своей пропаганде. Тем не менее, в результате проведенных работ мавзолей был не только освобожден от пост-античных наслоений, но полученные тогда результаты заложили современное представление о памятнике. Интерес к мавзолею возобновляется только через семьдесят лет. Непосредственным толчком было решение реконструировать мавзолей и площадь вокруг него. В результате раскопок, проведенных департаментом культурного наследия столицы Рима, были получены археологические данные, изменяющие взгляд на внешний облик монумента и позволяющие поставить точку в дискуссии по данному вопросу. Библиографические ссылки Agnoli N., Carnabuci E., Caruso G., Maria Loreti E. Il Mausoleo di Augusto. Recenti scavi e nuove ipotesi ricostruttive // Apoteosi. Da uomini a dei. Il Mausoleo di Adriano, Catalogo della Mostra / Eds. Abbondanza L., Coarelli F., Lo Sardo E. Roma: Munus, Palombi, 2014. P. 214–229. Albers J. Die letzte Ruhestätte des Augustus: Neue Forschungsergebnisse zum Augustusmausoleum // Antike Welt. 2014. №4. P. 16–24. Betti F. Il Mausoleo di Augusto. Metamorfosi di un monument // Mausoleo di Augusto. Demolizioni e scavi. Fotografi e 1928/1941 / Ed. F. Betti. Milano: Electa, 2011. P. 20–41. Borg B. Roman Tombs and the Art of Commemoration: Contextual Approaches to Funerary Customs in the Second Century CE. 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Il seguente lavoro si propone di analizzare uno dei dipinti più complessi e misteriosi del pittore fiorentino Sandro Botticelli, la Calunnia di Apelle, realizzato tra il 1494 e il 1495, in pieno umanesimo, e fortemente legato al contesto politico-sociale della Firenze del tempo. La difficoltà di interpretazione dell'opera è data sia dalla moltitudine di personaggi e scene figurative che animano la composizione, con particolare riferimento all'iconografia dell'architettura di fondo, sia dalla scelta peculiare di una tematica come quella della calunnia che, oltre a rimandare necessariamente all'opera perduta del pittore greco Apelle (IV secolo a.C.) allude, con molta probabilità, alle vicende contemporanee alla realizzazione del dipinto. Nel corso dei secoli, l'opera è stata oggetto di interpretazioni discordanti relative, in particolare, all'analisi dell'iconografia del fondale, alle possibili fonti utilizzate da Botticelli, al motivo della sua esecuzione e ai significati morali e politici sottesi ad essa. Lo scopo di questo lavoro è quello di fornire un'analisi dettagliata del dipinto e tentare di risolvere i principali dubbi interpretativi sul suo conto. Dopo un breve accenno all'autore e al contesto storico a lui contemporaneo, si procederà alla presentazione dell'opera, con particolare riferimento al dipinto perduto del pittore Apelle, da cui Botticelli trae ispirazione, e all'ekphrasis di Luciano di Samosata, che ne testimonia l'esistenza. Si passerà, quindi, ad analizzare la ripresa del trattato di Luciano in Occidente e le sue traduzioni in latino, privilegiando la citazione che Leon Battista Alberti ne fa all'interno del suo trattato sulla pittura, da sempre considerato la fonte principale del dipinto di Botticelli. Nel terzo libro del De Pictura, Alberti fornisce alcune considerazioni generali sulla figura dell'artista e afferma che un pittore debba essere il più possibile dotto in tutte le arti liberali. Dopo aver instaurato un parallelismo tra la figura del pittore e quella del poeta, sottolinea l'importanza dell'invenzione di una storia e inserisce l'esempio della descrizione di Luciano, «per ammonire i pittori in che cose circa alla invenzione loro convenga essere vigilanti». Il passo di Alberti sarà oggetto di analisi e verrà affrontato il problema della discordanza tra la descrizione presente nel De Pictura e l'effettiva realizzazione del dipinto di Botticelli. L'individuazione di sostanziali differenze porterà alla ricerca e alla valutazione di possibili fonti alternative, con particolare attenzione all'ipotesi proposta dalla studiosa Angela Dressen: il commento di Cristoforo Landino alla Commedia di Dante come fonte principale dell'opera di Botticelli. Landino inserisce la descrizione del dipinto di Apelle nel commento relativo ai vv. 142-144 del XXIII canto dell'Inferno, in cui si parla delle principali caratteristiche del Diavolo, tra le quali spicca la calunnia. La descrizione presenta numerosi punti di contatto con la scena dipinta da Botticelli e si differenzia da quella di Alberti per una serie di dettagli che verranno analizzati con attenzione. Pertanto, la questione verrà affrontata operando un parallelismo tra la descrizione di Landino, quella di Alberti e il dipinto di Botticelli. Verrà dato ampio spazio anche alle possibili fonti iconografiche dell'opera, in particolare alla miniatura realizzata da Bartolomeo Della Fonte nel 1472, che presenta forti punti di contatto con la Calunnia botticelliana. Si procederà, poi, a un'accurata descrizione della scena principale del dipinto e di tutte le scene che animano il fondale, tenendo conto del particolareggiato lavoro di Stanley Meltzoff sull'argomento. Per quanto riguarda l'analisi dell'architettura di fondo, verrà rispettata la suddivisione di Meltzoff in basamenti, plinti, architravi, soffitti e nicchie, procedendo da sinistra verso destra. Parte delle scene presenti nel fondale e ciascuna delle statue alloggiate nelle nicchie centrali verranno interpretate alla luce dei passi del commento di Landino alla Commedia dantesca. Una parte del lavoro sarà dedicata a Boccaccio, rappresentato in una delle nicchie, e alla cospicua presenza dei suoi scritti all'interno del dipinto, vero e proprio ipertesto di tutto il fondale, con particolare attenzione alla tematica amorosa e al suo ruolo cruciale di difensore della poesia. Si accennerà, infine, alla complessa situazione politica contemporanea alla realizzazione della Calunnia e all'acceso dibattito sulla theologia poetica, con l'intento di fornire una lettura non soltanto politica, ma anche filosofica ed etica del dipinto. Sulla base di quanto precedentemente esposto, verranno tratte le debite conclusioni. Il lavoro sarà corredato di un esauriente apparato iconografico, supporto fondamentale per l'intera argomentazione.
Negli ultimi anni è possibile rintracciare diversi progetti, mostre, iniziative che rimandano al tema del riciclo. Attraverso una breve storiografia delle esperienze più importanti che si riconoscono nel riciclo è possibile segnare come questa strategia vada oltre l'eccezione. La multidisciplinarietà del tema si colloca nel dibattito contemporaneo, in quelle riflessioni che cercano di fissare i mutamenti del pensiero di una società in crisi perché si confronta quotidianamente con l'esaurirsi delle risorse e con la necessità di reinventare, a partire dallo scarto, nuove politiche di gestione dei territori e delle città. I rifiuti, i resti, gli scarti costituiscono un tema centrale nelle attuali politiche di gestione dei territori e delle città perché ritenuti elemento di distorsione e risorsa: possono interrompere il ciclo di riproduzione della città o reintegrarsi nel suo sviluppo. Le città, come le campagne, hanno convissuto con i loro scarti. Riuso e riciclo sono termini antichi, costantemente presenti nei diversi modi di produzione economica e di vita sociale. Il suolo urbano è fatto di stratificazioni, di un'accumulazione di resti: nelle mura delle costruzioni troviamo materiali ed elementi edilizi che provengono da fabbriche più antiche, distrutte, abbandonate, saccheggiate. I depositi di rifiuti, come i cimiteri, fanno parte della storia e della vita urbana, ma mentre per i cimiteri troviamo un'attenzione culturale, religiosa, simbolica, per i rifiuti l'attenzione è stata da sempre solo funzionale. Tra sviluppo della città e trattamento dei rifiuti c'è stato un lungo equilibrio; la città tradizionale riusciva ad assorbire i suoi scarti. I rifiuti diventano un problema con la città moderna, con l'industrializzazione, con l'espansione demografica, con la grande dimensione dei consumi. Alle origini della città moderna i rifiuti urbani diventano un fattore negativo, sono un male da porre sotto controllo, da occultare. L'urbanistica moderna trova i suoi primi fondamenti nella medicina e nell'igiene. Le reti fognarie, come le strade, organizzano l'espansione urbana. Con lo sviluppo della città, lo smaltimento e la gestione dei rifiuti diventano una pianificazione settoriale, specialistica; non fanno più parte integrante del piano della città. Probabilmente anche questa scissione ha contribuito a determinare la fine dell'equilibrio e della visione unitaria del ciclo vitale che teneva insieme sviluppo urbano, produzione, consumo e smaltimento. Oggi i rifiuti sono al centro della crisi delle grandi città: la loro produzione supera spesso la capacità di gestirli in modo efficace e sicuro. Hanno assunto una dimensione economica rilevante al punto da diventare uno dei settori d'intervento più frequentati dalle organizzazioni criminali. Il caso di Napoli e della Campania è per molti versi un vero paradigma anche per questi aspetti. Qui i rifiuti generano altri rifiuti, altri sprechi, altri rischi. Il controllo sfugge intenzionalmente di mano: aumenta l'inquinamento dei terreni e delle acque, crescono gli effetti negativi sulla salute delle comunità locali, aumenta lo spreco di suolo e il degrado del territorio e del paesaggio. La città, ma in fondo stiamo parlando del pianeta, potrebbe morire soffocata dai suoi rifiuti. In un mondo sempre più urbanizzato (nel 2050 avremo circa 9 miliardi di abitanti di cui l'80% vivranno in città) il tema dei rifiuti diventa determinante per la sopravvivenza dei sistemi urbani. Già oggi troviamo due modelli: aree metropolitane come Tokio che riescono a controllare la gestione dei rifiuti con tecnologie e logistiche avanzate e città come Il Cairo dove gran parte dei rifiuti della città viene raccolta e trattenuta in appositi quartieri maleodoranti (Zabaleen City, non molto distante dalla Cittadella) per essere selezionata, trattata e riciclata da una popolazione di oltre 50.000 persone che vivono letteralmente nella spazzatura. Molto probabilmente sarà il modo di trattare i rifiuti a segnare la differenza tra le grandi città. Ovunque nel mondo emerge, tuttavia, una questione assolutamente 5 nuova: i rifiuti sono una rete decisiva per la vita della città, non più rete invisibile e oscurata, ma sempre più evidente per la sua ingombrante presenza. Tuttavia il tema dei rifiuti non si esaurisce con la spazzatura, le nuove forme di produzione e di distribuzione dell'economia hanno determinato la dismissione di aree industriali, di terreni agricoli, di infrastrutture obsolete, di interi quartieri residenziali, come a Detroit. Non sono anche questi resti, elementi da recuperare, riciclare, riportare dentro un progetto, un piano? L'arte ha già scoperto la centralità dei rifiuti nella nostra vita, facendone oggetto di riflessione estetica: Kevin Lynch nel 1990 con Wasting away è stato tra i primi a restituire al tema dei rifiuti una dignità disciplinare; Rem Koolhaas ne ha cinicamente intuito la omologante presenza, sublimandola nello Junkspace; per Alan Berger il territorio è già un Drosscape. Attraverso l'analisi del rapporto tra città, produzione, scarti e reti infrastrutturali coadiuvato da una strategia di azioni programmatiche è possibile pensare ad "un ripensamento tecnico e procedurale del "progetto di bonifica" per superare le pratiche settoriali tradizionalmente utilizzate e identificarlo quindi come un sostrato irrinunciabile di un più complessivo progetto urbano e di paesaggio ecologicamente orientato" come insegna Carlo Gasparrini. È necessario quindi definire attraverso la ricerca, che sto portando avanti, una chiave di lettura ed una visione condivisa del territorio a partire da un'azione combinata di strumenti operativi e concettuali che portano alla definizione di un progetto contemporaneo di paesaggio attento al rapporto tra ecologia, progetto, pianificazione e paesaggio stesso. Oggetto e obiettivi della ricerca Negli ultimi trenta anni, i vocaboli che hanno raccontato quello che in italiano significa "scarto" si sono spesso alternati, prendendo forza o scomparendo dal dizionario urbano e architettonico, ritornando sommessamente nelle pagine dei libri e in quelle delle riviste di settore o assurti a titoli: Blanc, dèchet, drosscape, espaces delaisses, friches, garbage, junkspace, non-lieu, ruines, terrains vagues, tiers paysage, vacant land, vides, wasting away, zone, sono alcune delle voci utilizzate nella letteratura per raccontare la necessità di un dialogo del progetto con realtà marginali. Ognuno dei termini individuati da Sara Marini in Nuove Terre, riportano con forza la condizione di indeterminazione e di appartenenza a determinati ambiti del sapere pur mantenendo la possibilità di travalicare i confini. Ad esempio il termine "Friches" ricorre in testi che si occupano in particolare della dismissione industriale nonché del verde incolto, spontaneo così come spesso possiamo leggere nei testi di Gilles Clement, "Zone" resta legato agli studi di Geoges Betaille, "Non lieu" ha avuto particolare fortuna con Marc Augè grazie agli scritti che hanno avuto come oggetto lo studio del territorio. Ed è in questo contesto che le cosiddette zone di scarto si presentano come territori senza ruolo, in attesa di definizione, in attesa di una nuova opportunità: ed è solo attraverso il cambiamento di ordine economico, ecologico, sociale, che si può ottenere un nuovo disegno del reale che porta alla definizione di nuove linee di sviluppo. La cronaca racconta di un mondo nel quale la dismissione e lo scarto che ne consegue viene generato ad una velocità incompatibile con le tempistiche con le quali si costruiscono gli strumenti di gestione dei territori. Eppure è negli anni settanta del Novecento che Matta Clark decide di guardare ai luoghi abbandonati come materia architettonica sui quali costruire il proprio manifesto di ricerca. 6 Egli focalizza attraverso la sua ricerca due passaggi chiave del rapporto scarto/progetto: l'attenzione a spazi dimenticati come materia di nuove azioni e la messa in evidenza di nuove logiche normative rispetto all'attribuzione di senso dei suoli. Questo artista, proponendo come opere d'arte documenti catastali, fotografie e mappe di un territorio, rende esplicita la relazione che intercorre tra i diversi livelli di pianificazione e percezione del reale. Tali esperienze sullo scarto sottolineano come il tempo si fa materia di progetto nonché strumento vero e proprio sia nella costruzione del paesaggio sia nella determinazione del ciclo vitale di un oggetto. Il ruolo del tempo nel progetto di paesaggio segna una distinzione netta con il progetto architettonico: se il primo tende ad un istante preciso di realizzazione dell'opera, il secondo si attua con un percorso nel quale insistono fattori che possono definire l'esatto tracciato processuale. Ed è in questo contesto che l'opera esaspera la mutazione dei grandi fatti urbani in spazi dell'abbandono, dove riprende campo un mondo primitivo fatto di spazzatura e pratiche arcaiche, minute. Viene, quindi, naturale pensare che è giunto il momento di apprendere dallo scarto, dalla sua storia (che è la nostra), dalla sua contraddizione, dal suo male, ma anche dalla sua risorsa. Come riportare la sua ingombrante presenza all'interno del progetto di architettura, di paesaggio, di città, di territorio? Come trasformare la sua organizzazione in una rete integrata e strutturante il sistema insediativo? Cosa impedisce di trasformare le loro infrastrutture di raccolta, distribuzione e smaltimento in opere di qualità? Come reintegrare nella città e nel paesaggio i manufatti, le infrastrutture, le aree un tempo produttive e ora abbandonate e inquinate? E' possibile attraverso una linea di ricerca che muovendo dalla nozione di scarto e da uno scenario sempre più degradato e sommerso dai rifiuti, la promozione di strategie per riportare nel piano e nel progetto la pluralità dei materiali che compongono il territorio dei drosscapes? È possibile una concettualizzazione metodologica dello scarto? Sono queste alcune delle domande a cui vorrei rispondere attraverso una ricerca volta a chiarire il ruolo che occupa il riciclo all'interno della questione ambientale provando a concettualizzare il significato che nel tempo ha acquisito il termine scarto in rapporto al progetto architettonico e di paesaggio.
Dottorato di ricerca in Storia e cultura del viaggio e dell'odeporica nell'età moderna ; La famiglia Volkonskij appartiene a un ramo tra i più antichi della nobiltà russa. I suoi membri si distinsero per spirito di abnegazione e coraggio sia che fossero al servizio della zar, come Nikita Grigor'evič o Petr Michajlovič, sia che ne contestassero apertamente le politiche come il giovane Sergej Grigor'evič, che prese parte alla rivolta decabrista del 1825. Anche le rappresentanti femminili annoverano personaggi di spicco, su tutte Marija Nikolaevna Raevskaja, moglie di Sergej, che decise coraggiosamente di seguire il marito nel lungo e difficile esilio siberiano al quale era stato condannato. Un altro membro che fece onore al prestigio di questa famiglia, divenendo celebre tanto in Russia quanto in Europa fu Zinaida Aleksandrovna Belosel'skaja-Belozerskaja, moglie di Nikita. Il suo nome rimbalza praticamente in ogni memoria dei personaggi a lei contemporanei sparsi per tutto il continente europeo. Zinaida era la figlia del raffinato principe Belosel'skij-Belozerskij, ambasciatore di Caterina II prima a Dresda e poi a Torino, che aveva affascinato i suoi contemporanei distinguendosi per i suoi principi, le idee illuministe e l'enorme cultura nel segno della quale aveva cresciuto la sua incantevole figlia. Zinaida era la degna erede di suo padre: dopo aver trascorso l'infanzia tra Dresda e Torino, si era trasferita molto giovane a San Pietroburgo e qui era presto entrata a palazzo in qualità di dama di compagnia dell'imperatrice vedova attirando le attenzioni dello zar Alessandro I. Dopo aver fatto parte del seguito imperiale durante la marcia trionfale in seguito alla vittoria nella guerra patriottica del 1812, la Volkonskaja partecipò al Congresso di Vienna, a quello di Verona, affascinò la corte austriaca, quella francese, inglese e papale, stringendo rapporti profondi e stimolanti con gli uomini più influenti del suo tempo, fossero essi politici, intellettuali o artisti. In Russia il suo nome divenne celebre grazie al suo salotto sulla via Tverskaja, nel palazzo che attualmente ospita i magazzini Eliseev. A Roma era universalmente nota non solo per risiedere in una delle ville più belle della città, divenuta oggi residenza dell'Ambasciatore inglese in Italia, ma soprattutto per il suo generoso mecenatismo volto a sostenere la colonia degli artisti russi e, negli ultimi anni della sua vita, come fervente cattolica convertita. Gli ospiti dei suoi salotti erano luminari dell'università di Mosca, come Ševyrev, Del'vig, Odoevskij e Pogodin, poeti del calibro di Puškin, Mickiewicz e Belli, artisti affermati e alti prelati quali Thorvaldsen, Walter Scott, i cardinali Consalvi e Mezzofanti così come Kipreenskij, Bruni, Ščedrin e Gal'berg, giovani promesse dell'arte russa. In una parola: chiunque fosse amante del bello, della cultura o frequentasse il bel mondo a Mosca come a Parigi, a Odessa come a Roma fu almeno una volta suo ospite. Da parte sua Zinaida Volkonskaja fu cantante, mecenate, compositrice, membro delle principali società intellettuali di Russia e Italia, ispiratrice di alcuni tra i più bei versi dei poeti più acclamati e intima amica dello zar. Intratteneva fitte corrispondenze con intellettuali e funzionari e si distingueva per intelligenza, arguzia e innato savoir faire. La sua biografia, per quanto attraversi fasi assai differenti fra loro, è costantemente popolata da figure di primo piano e la vede presente nei luoghi dove si fa la Storia. In primo luogo Zinaida fu un'instancabile viaggiatrice. Iniziò a viaggiare fin da piccola per seguire il padre da Dresda a Torino, poi il ritorno in Russia, la marcia europea al seguito di Alessandro, l'entrata a Parigi delle truppe russo-prussiane, i festeggiamenti in Inghilterra, i congressi di Vienna e Verona. E ancora i soggiorni in Italia nel 1815 e nel 1820, quello a Parigi, Odessa, Mosca e di nuovo l'Italia e Roma. Anche quando si stabilì col suo salotto nella vecchia capitale russa, si rimise in cammino per il (quasi) definitivo trasferimento in Italia dopo soli quattro anni. Dei primi quarant'anni della sua vita, ne trascorse circa quindici in viaggio. La principessa è stata celebrata dai suoi contemporanei e in molti si sono prodigati nella descrizione della sua lunga e intensa vita: esistono infatti almeno cinque biografie, ciascuna delle quali si distingue dalle altre per l'approfondimento di un tratto peculiare o lo studio di un particolare periodo. La biografia pubblicata da N.A. Belozerskaja su «Istoričeskij vestnik» e il libro Pilgrim princess di Maria Feirweather offrono i resoconti più completi della vita della Volkonskaja, sebbene in entrambe le opere si riscontrino inesattezze o informazioni mancanti e spesso imprecise circa avvenimenti e periodi della biografia della principessa. Dalla bibliografia presa in considerazione emerge la mancanza di un approfondimento circa i salotti di Odessa e Parigi, ma la lacuna più evidente riguarda i lunghi anni trascorsi da Zinaida in viaggio. Solo Ettore Lo Gatto e Giulia Baselica trattano l'argomento, sebbene restringendo il campo al solo viaggio del 1829 alla volta dell'Italia, unico tra tutti sul quale si hanno notizie più dettagliate, non tanto per i frammenti delle memorie pubblicate da Zinaida (presentate qui in traduzione integrale, corredate da due lettere inedite provenienti dall'archivio statale russo di letteratura e storia dell'arte di Mosca – RGALI), quanto per il dettagliato resoconto che il prof. Ševyrev, compagno di viaggio della principessa, trascrisse sui suoi diari pubblicati in patria su numerose riviste e successivamente in un libro sulle Impressioni italiane. Sugli altri viaggi non ci sono testimonianze dirette e possono essere ricostruiti solo grazie a fonti indirette. La ricerca è stata resa particolarmente complessa dalla scarsa accessibilità dei documenti: se si escludono i manoscritti conservati nell'archivio statale e i materiali della biblioteca nazionale di Mosca – successivamente pubblicati sui «Severnye cvety» del 1830 e 1831, la maggior parte delle fonti si trova nell'archivio della Houghton Library dell'Università di Harvard, mentre pochi altri documenti sono sparsi nelle biblioteche di Francia, Germania, Polonia e Inghilterra. L'archivio privato della principessa, dopo la sua morte, in pochi anni è andato disperso tra i discendenti, riaffiorando non di rado nelle collezioni private e nelle aste degli antiquari romani. Il barone Lemmermann, dopo averne raccolto una parte consistente, lo donò nel 1967 ad Harvard, dove dovette attendere molti anni prima di essere catalogato. Unica testimonianza dei contenuti di tale archivio, sebbene parziale, è costituita dal libro di Bayara Aroutunova Lives in Letters, che raccoglie alcune tra le missive più significative ricevute dai numerosi corrispondenti della principessa. Il presente lavoro raccoglie e organizza per la prima volta tutti i materiali disponibili circa i viaggi della principessa Volkonskaja, con lo scopo di metterne in luce la centralità in un'esistenza votata alla realizzazione del progetto che Pietro il Grande aveva solo vagheggiato qualche decennio prima: quel ponte tra Russia ed Europa che Zinaida attuerà tanto nel privato dei suoi salotti, quanto nelle diverse ambascerie. Inoltre questa tesi presenta una nuova biografia dettagliata dalla quale sono state eliminate le frequenti imprecisioni, rivaluta l'attività letteraria della Volkonskaja e mette in luce la rilevanza delle opere pie che contraddistinsero gli ultimi anni della sua vita. Infine l'Appendice Documentaria presenta, accanto ai già citati resoconti di viaggio, la traduzione di alcune delle opere più significative della principessa e frammenti della sua corrispondenza privata inediti in italiano. Malgrado tutti gli sforzi compiuti la ricerca non si definisce né può essere completa: i documenti conservati in archivi inaccessibili, quali gli archivi segreti vaticani o gli archivi imperiali russi, potrebbero costituire materiale prezioso per far luce su alcuni punti della biografia della principessa rimasti oscuri o fornire nuovi dettagli sulla sua figura: interi periodi sono stati ricostruiti finora solo grazie alle testimonianze indirette di chi conobbe la Corinna del Nord. Tali lacune sono da attribuirsi inoltre all'azione censoria che Aleksandr Nikitič operò sull'archivio privato di sua madre dopo la morte di Zinaida per salvaguardarne l'onore distruggendo informazioni e materiali potenzialmente compromettenti, ragione che spinse anche Propaganda Fide a secretare le lettere dell'archivio del cardinal Consalvi, tra le quali alcune della Volkonskaja, e probabilmente anche i custodi delle memorie della famiglia imperiale russa. Il più accessibile resta l'archivio statunitense, di cui è disponibile una dettagliata catalogazione alla luce della quale è possibile ipotizzare la possibilità di rinvenire informazioni se non del tutto nuove, quantomeno più dettagliate su questa donna straordinaria che tanto diede alla cultura del primo Ottocento europeo. ; Volkonsky family have been one of the older and nobler branches of Russian aristocracy. Its members stood out for abnegation and bravery, whether in favour, such as Nikita or Petr, or against the Emperor, such as the decembrist Sergey Grigorevich. The female branch includes high ranking personalities as well: amongst all Maria Nikolaevskaya Raevskaya, Sergey's wife, who decided voluntarily to follow her husband to the Siberian exile, to which he had been condemned. Another woman, who honoured the name and the prestige of this family was Zinaida Aleksandrovna Beloselskaya-Belozerskaya, Nikita's wife. Her name can be found in quite every memory of her contemporaries all over Europe. She was the daughter of the sofisticated prince Alexander Beloselsky-Belozersky, Catherine the Great's ambassador first in Dresden, than in Turin, who fascinated his contemporaries with his principles, Illuministic ideas and huge culture. Princess Zinaida was educated following her father's steps. She was his worthy heiress: grown up in Dresden, than in Turin, she left for Petersburg in her early adolescence, becoming after few months lady-in-wating of the Empress Dowager and drawing the attentions of young Emperor Alexander I. After Napoleon's defeat in the great patriotic war of 1812, Zinaida followed the imperial entourage across Europe, took part in the Congresses of Vienna and Verona, fascinating Austrian, English, French and Vatican courts, establishing heartfelt and stimulating friendships with the most influential figures of her times, might they be politicians, intellectuals or artists. In Russia her name became famous thanks to her salon in Tverskaya street, in the building now housing Eliseev's stores. In Rome she was well-known not only for her beautiful villa, in which nowadays England's ambassador resides, but particularly thanks to her patronage in support of the roman Russian artistic colony and, in the last days of her life, for her passionate support to catholicism. The guests of her salons were eminences from Moscow university, such as Shevyrev, Delvig, Odoevsky and Pogodin, distinguished poets like of Pushkin, Mickiewicz and Belli, prominent artists and prelates like Thorvaldsen, Walter Scott and cardinals Consalvi and Mezzofanti, as well as Kipreensky, Bruni Shchedrin and Galberg, who showed promise as painters and artists. Everyone who loved culture, beauty and elegance was at least once in her place. Zinaida herself was a singer, a philantropist, a composer, a member of the most important intellectual societies both in Russia and in Italy, inspired many acclaimed poets and was an intimate friend of Emperor Alexander I. She also had correspondences with intellectuals and officials and distinguished herself for cleverness, intellect and innate savoir faire. Her biography, though it includes very different periods, is constantly featured by prominent figures and during her entire life she was in every place, where History was made. First of all she was an unceasing traveller. She began travelling since she was a child in order to follow her father from Dresden to Turin, then their journey back to Russia, the European march following the tsar, the Russian-Prussian army entry to Paris, the celebrations in England, the Congresses of Vienna and Verona. The sojourn in Italy in 1815 and 1820, in Paris, in Odessa, in Moscow and once again in Rome. Even when she decided to open her salon in Moscow, her stay lasted not more than four years, before she moved (quite) definitely to Rome. As she was forty she had already spent fifteen years travelling. Princess was celebrated by her contemporaries and many of them wrote about her: there are at least five biographies and each of them particularly focuses on a single stage or a peculiarity of her life and personality. Biographies published by A.N. Belozerskaya and M. Fairweather seem to be the most complete works on Volkonskaya's life, even if in both of them there can be found mistakes and lack of information. Considering the analyzed bibliography, there are so far poorly examinated seasons of her life, such as the salons in Paris or in Odessa, but the most evident lack concerns her travels. In Italy only Ettore Lo Gatto and Giulia Baselica wrote about this topic, but only analyzed the 1829-year travel, the only one about wich we have detailed information. Zinaida, actually, wrote some travel memories (here presented in their first Italian complete translation, with two non-published letters from the Moscow State archive for literature and arts), but mainly we have details about this journey thanks to the diaries of Shevyrev, who took part in this travel. Researches about Volkonskaya were also difficult on account of hard access to documents: the main part of sources from Zinaida's private archive can be found at Harvard's Houghton Library, while some manuscripts and few other materials are conserved in Moscow (RGALI and Russian State Library) or in French, German, Polish or English libraries. Princess Volkonskaya's private archive, firstly scattered in numerous private collections, was out together by baron Lemmermann, who in 1967 donated it to Harvard University, where it was classified only many years later. The only direct, but partial, evidence of the content of this archive is Aroutunova's Lives in letters, a book collecting some of the most significant letters received by Zinaida from her correspondents. The present work is aimed to gather and organize all available information and materials about Volkonskaya's travels, in order to underline their importance in a life dedicated to the realization of Peter the Great's long for dream about a bridge connecting Russia and Europe. Finally the Appendix presents the Italian translation of some of the most significant literary works of princess Zinaida and few fragments of her private correspondence. In spite of all the efforts made this work is not, and it can't be complete: documents stored in unaccessible archives, such as the Vatican or the Imperial ones, might reveal helpful knowledge about some obscure years in the life of princess Volkonskaya. These lacks are due, furthermore, to the censorship by Alexander Nikitich of the private collection of his mother, in order to preserve her memory from likely compromising materials. Maybe the same reasons forced Propaganda Fide and the imperial Russian officers to take the same action. Harvard University is the main accessibile archive: thanks to its detailed cataloguing we can hold that there is a possibility to reveal accurate information about this extraordinary woman, to whom XIX century european culture owes so much.
L'obiettivo di questo lavoro è mettere in luce il modo in cui il Partito comunista italiano ha giudicato la popular music, nella consapevolezza che il discorso sulla musica rappresenta al contempo un aspetto marginale della politica culturale del PCI e un elemento fondamentale nello studio della condizione giovanile. La musica non costituiva infatti uno dei campi in cui si combatteva la "battaglia delle idee", come invece l'arte, la letteratura o il cinema, non essendo considerata propriamente «cultura», che presupponeva l'esistenza e l'opera degli intellettuali. La nozione che la musica abbia una portata euristica nello studio della condizione giovanile si fa avanti, negli ambienti comunisti, intorno alla fine degli anni Settanta, ad opera della nuova generazione di iscritti e funzionari che avevano collaborato con riviste del settore, testimoniando così che solo la vicinanza biografica o il ricambio generazionale consentivano l'adozione di un'ottica disposta a considerare la musica un argomento di vitale interesse nel rapporto tra il partito e i giovani; d'altro canto, la stessa storia degli studi rispecchia una distanza da questo tipo d'impostazione promiscua, al confine tra storia politica e musicale . Quando parliamo di musica, anzi, di popular music, ci riferiamo a tutto ciò che non è musica classica, seguendo la terminologia anglosassone che ha fatto la sua comparsa in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta, principalmente tra gli studiosi e qualche critico. A questa espressione in italiano corrisponde una costellazione di traduzioni: quella letterale di musica popolare è fuorviante, perché sovrapponibile a folk; usare semplicemente pop è a sua volta scorretto, perché limiterebbe o estenderebbe la portata del termine; seguendo le versioni italiane dei libri di Adorno, musica di consumo ha avuto un certo successo, come anche musica contemporanea/moderna/leggera; secondo altri ancora, la parola più appropriata in italiano è semplicemente canzone , usata come nome collettivo, ad esempio, per il Festival della canzone italiana o per parlare di canzone napoletana, popolare, di protesta; anche il termine canzonetta, che indicava dall'Ottocento ciò che non era opera, ma operetta, viene riferito alla musica leggera, non necessariamente con significato dispregiativo (giacché con senso puramente descrittivo lo usavano anche Mina o Mogol), ma escluderebbe tutta la produzione nata, o ascoltata, in contrapposizione alla musica leggera in stile sanremese canonico, già a partire dagli urlatori di fine anni Cinquanta . Fatte salve tutte queste cautele e precisazioni, non useremo tuttavia una terminologia univoca, che risulterebbe forzata, ma adotteremo di volta in volta la definizione più appropriata e più conforme al contesto. Conseguentemente agli obiettivi enunciati, abbiamo escluso in toto dalla nostra ricerca la musica classica (che invece godeva dello status di cultura ed era legata a forme di fruizione e produzione minoritarie il cui rapporto con la società dei consumi è forse più assimilabile alle evoluzioni del teatro di prosa) e – forse più sorprendentemente – il jazz, che nonostante le maledizioni adorniane si era affermato ufficialmente nel panorama della musica di qualità e della popular music in generale; tuttavia il jazz, diversamente dal rock e da molta della musica di cui si parla – e che nasce – negli anni che esaminiamo, non è una musica dei giovani , non rappresenta cioè un elemento identitario che rispecchi una distanza generazionale . Inoltre, la provenienza statunitense (o angloamericana) di molta parte della produzione musicale tra gli anni Sessanta e Settanta ha fornito una peculiare prospettiva sui cangianti modi in cui si entrava in relazione con qualcosa che, nonostante le connotazioni o l'uso che se ne faceva, arrivava dal "campo avversario". Nell'individuare dei termini cronologici, la scelta è stata guidata dall'intersezione di più piani: musicale-sociale-culturale e politico-documentario. Il 1963 è l'anno del lancio dei Beatles a livello internazionale, che portò all'esplosione mondiale della musica giovanile (anticipata nel decennio precedente da Elvis Presley) e alla complicazione di un fenomeno a tutta prima commerciale con caratteristiche d'interesse sociale, estetico, culturale ; in Italia questo coincide con una fase di maggiore benessere materiale all'esaurirsi del miracolo economico, in cui gli adolescenti nati dopo la Seconda guerra mondiale rappresentano la prima generazione italiana ad essere nel complesso omogenea in termini di lingua, gusti e riferimenti culturali . Nel 1978 chiude dopo più di trent'anni il rotocalco Giorni – Vie Nuove, storicamente legato alla funzione di propaganda e informazione, il cui ristretto organico non consentiva più di competere con le più agguerrite riviste di approfondimento politico; frattanto sul Contemporaneo (supplemento culturale di Rinascita) compare un estemporaneo speciale sulla musica dei giovani e l'anno successivo chiude la Città futura, l'unica rivista comunista ad aver dedicato un interesse continuo e approfondito alla musica, riconoscendone l'importanza per i giovani e per capire i giovani, lasciando non tanto un vuoto quanto una traccia dell'evoluzione dei giovani comunisti; la fine degli anni Settanta inoltre rappresenta il primo momento di analisi e autoanalisi sui movimenti giovanili del decennio precedente, in cui si formulano riflessioni sulla loro evoluzione storica e sul loro legame con i movimenti contemporanei, con tonalità molto simili – perché riferite ad elementi connaturati – a quelle con cui si parla dell'evoluzione della popular music e dei suoi esiti individualistici o individualizzanti nel punk e nella disco music. Considerando quindi la musica degli anni Sessanta e Settanta come una delle propaggini della cultura di massa, abbiamo scelto come fonte la stampa di partito, che si configura da subito per il PCI repubblicano non solo come un mezzo di propaganda, ma come uno strumento educativo capace di fornire ai lettori e ai militanti le coordinate principali per capire la società; il marcato orientamento pedagogico – e talora didascalico – è fortemente presente nel campo della stampa periodica e la scelta di utilizzare materiale tutto interno alla cultura comunista permette di «osservare una pluralità di situazioni anche molto distanti dalla dimensione monoliticamente normativa ed "ufficiale", o dalla retorica del "dover essere"» ; s'intuisce, inoltre, la permanenza del tentativo di evitare l'isolamento dalla società che contraddistingueva la stampa comunista dall'epoca postbellica. Le fonti che abbiamo scelto sono i periodici di partito, perlopiù settimanali, in cui l'argomento musicale viene affrontato e declinato nei diversi modi che la differente natura della rivista prevedeva: dal rotocalco Vie Nuove, da Rinascita, dalla rivista dei giovani comunisti La città futura, abbiamo estrapolato quegli articoli che ci hanno consentito di evidenziare la presenza o assenza di una linea editoriale, o politica, sulla musica dei giovani italiani. L'utilizzo dell'Unità è stato marginale e di supporto, ma ha talora permesso di ricostruire con maggiore precisione i contorni di dibattiti che altrove erano soltanto episodici; crediamo tuttavia che la natura del settimanale, caratterizzata dall'approfondimento su temi d'interesse, si confacesse meglio alla ricerca che abbiamo svolto, offrendo spesso analisi di maggiore intensità rispetto agli articoli di un quotidiano, orientati perlopiù sulla cronaca. Per la natura fortemente esplorativa di questa ricerca, si è deciso in molti casi di lasciar parlare le fonti e di farle dialogare, nella convinzione che potessero restituire in modo autonomo un quadro autentico e multiforme dei dibattiti affrontati e un resoconto scevro da semplificazioni ex post.
La seguente Tesi di Dottorato si articola in cinque saggi che esaminano alcuni importanti aspetti legati all'energia in Africa subsahariana, e in particolare all'interazione tra lo sviluppo socio-economico e le sue implicazioni per l'ambiente a livello regionale e globale. I saggi sono introdotti da un capitolo di avvicinamento generale ai temi trattati. Questo capitolo prepara il lettore offrendo un riassunto delle principali sfide legate all'energia nel contesto subsariano e formulando le domande di ricerca e gli strumenti sui quali si basa la tesi stessa. Le principali implicazioni di ciascuno dei saggi, sia per la ricerca che per i decisori politici, vengono poi presentate in un capitolo di discussione finale. Il primo saggio esamina la problematica dell'accesso all'energia, e in particolare all'elettricità. Viene illustrato il ruolo dei dati satellitari e dell'analisi statistica dei dati geospaziali nel migliorare la comprensione della situazione dell'accesso all'elettricità in Africa subsahariana. Il saggio include un'analisi delle disuguaglianze che caratterizzano la qualità dell'accesso all'elettricità nella regione. Il risultato principale è che, dopo decenni, la disuguaglianza nell'accesso all'energia sta iniziando a diminuire. Essa rimane però prominente, in particolare per quanto riguarda la quantità di energia consumata. Viene stimato che gli sforzi di elettrificazione tra il 2020 e il 2030 debbano triplicare il loro passo per raggiungere l'obiettivo di sviluppo sostenibile SDG 7.1.1. Il secondo saggio consiste di una piattaforma di valutazione della domanda energetica bottom-up spazialmente esplicita per stimare il fabbisogno energetico tra le comunità in cui l'accesso all'elettricità è attualmente carente, come identificato con la metodologia introdotta nel primo saggio. La valutazione non si limita al fabbisogno energetico residenziale, ma include un resoconto dettagliato, basato sugli usi finali, del fabbisogno energetico di scuole, strutture sanitarie, pompaggio dell'acqua per l'irrigazione, lavorazione delle colture e microimprese, i principali motori dello sviluppo rurale. Viene condotto uno studio nazionale per il Kenya per dimostrare l'importanza di considerare molteplici fonti di domanda oltre al residenziale quando l'obiettivo è sviluppare una strategia di elettrificazione che supperisca veramente alla povertà energetica. Si dimostra poi che esiste un notevole potenziale di crescita della produttività e della redditività rurale grazie all'apporto di energia elettrica. In molte aree, questi profitti locali potrebbero ripagare gli investimenti nelle infrastrutture di elettrificazione in pochi anni. Il terzo saggio analizza un aspetto specifico dell'interazione tra pianificazione dell'accesso all'elettricità, domanda di energia residenziale e adattamento ai cambiamenti climatici. Vengono combinati dati e scenari climatici, satellitari e demografici per produrre una stima globale spazialmente esplicita della domanda di circolazione e condizionamento dell'aria non soddisfatta a causa della mancanza di accesso all'elettricità. Sulla base di modelli integrati di elettrificazione climatica-energetica e geospaziale, risulta che in Africa sub-sahariana, l'hotspot globale della povertà energetica, tenere conto del fabbisogno di circolazione e condizionamento dell'aria locale stimato (in aggiunta agli obiettivi di consumo residenziale di base) determini una riduzione sostanziale della quota di sistemi standalone come l'opzione di elettrificazione meno costosa entro il 2030, e un importante aumento della capacità di generazione di elettricità e dei requisiti di investimento. Tali risultati suggeriscono la necessità di una maggiore considerazione delle esigenze di adattamento climatico nella pianificazione dei sistemi energetici dei paesi in via di sviluppo e nella valutazione del trade-off tra l'espansione della rete elettrica centrale e sistemi decentralizzati per raggiungere un'elettrificazione universale. La pianificazione dell'elettrificazione deve essere tecnicamente efficiente, ma deve anche considerare l'ambiente politico-economico in cui gli investimenti vengono canalizzati. Il quarto saggio valuta il ruolo della governance e della qualità regolatoria nel quadro di modellazione dell'accesso all'energia elettrica. In particolare, si introduce un indice di governance dell'accesso all'elettricità basato su più indicatori che viene poi implementato nel modello di elettrificazione IMAGE-TIMER. L'effetto dell'indice viene modellato attraverso il suo effetto modificatore sui tassi di sconto privati (una misura del rischio e della disponibilità ad accettare costi futuri rispetto ai costi attuali). I risultati mostrano che la governance e la qualità regolatoria nell'accesso all'elettricità hanno un impatto significativo sul mix tecnologico ottimale e sui flussi di investimenti privati per raggiungere l'elettrificazione universale in Africa subsahariana. In particolare, un ambiente rischioso scoraggia l'investimento da parte dei fornitori privati di soluzioni di accesso decentralizzato all'energia, con il rischio di lasciare molti senza elettricità anche oltre il 2030. Il quinto e ultimo saggio analizza il settore energetico africano da un punto di vista 'Nexus'. Il saggio valuta l'affidabilità del sistema energetico nei sistemi energetici dominati dall'energia idroelettrica (come in molti paesi dell'Africa centrale e orientale) e del ruolo che i cambiamenti climatici e gli eventi estremi possono esercitare su di esso. Il lavoro combina analisi qualitative e quantitative per (i) proporre un solido framework per evidenziare le interdipendenze tra energia idroelettrica, disponibilità di acqua e cambiamento climatico, (ii) analizzare sistematicamente lo stato dell'arte sugli impatti previsti dei cambiamenti climatici su l'energia idroelettrica nell'Africa subsahariana e (iii) fornire evidenza empirica sui trend passati e sulle traiettorie di sviluppo futuro del settore. I risultati suggeriscono che il cambiamento climatico influenzerà l'affidabilità e la sicurezza della fornitura elettrica attraverso diversi canali. Ad esempio, molti dei principali bacini idrologici sono stati caratterizzati da una diminuzione del livello idrico nel corso del ventesimo secolo. Si evidenzia come tuttavia una diversificazione del mix di generazione elettrico sia finora stata promossa solo in un numero limitato di paesi. Si suggerisce infine che l'integrazione delle fonti rinnovabili variabili con l'energia idroelettrica possa aumentare la resilienza del sistema. ; This dissertation is a collection of five essays examining some important energy-related aspects at the interplay of sub-Saharan Africa (SSA)'s development and its interactions with the regional and global environment. The essays are introduced by a general overview chapter – highlighting the core energy-related challenges of SSA and the scope of this work. The main implications of the essays, both for research and for policymakers, are then considered in the final discussion chapter. The first essay focuses on access to modern energy, and chiefly on electricity. I illustrate the role of satellite data and the statistical analysis of geospatial data in improving the understanding of the electricity access situation in sub-Saharan Africa. The essay includes an analysis of inequality characterising the electricity access quality in the region. The main finding is that after decades, energy access inequality is beginning to decline but it remains prominent in particular as far as the quantity consumed is concerned. I find that electrification efforts between 2020 and 2030 must triplicate their pace to meet Sustainable Development Goal 7.1.1. The second essay develops a spatially-explicit bottom-up energy demand assessment platform to estimate the energy needs among communities where access to electricity is currently lacking, as identified with the methodology introduced in the first essay. The assessment is not restricted to residential energy needs, but it includes a detailed, appliance-based account of power needs for schools, healthcare facilities, water pumping for irrigation, crop processing, and micro enterprises, the key drivers of rural development. I carry out a country-study for Kenya to show the importance of considering multiple demand sources beyond residential when the aim is developing an electrification strategy which truly overcomes energy poverty. I also show that there is considerable potential for rural productivity and profitability growth thanks to the input of electric energy. In many areas, these local profits might pay back the electrification infrastructure investment in only few years. The third essay analyses a specific aspect at the interplay between electricity access planning, household energy demand and climate change adaptation. I combine climate, satellite, and demographic data and scenarios to produce a global spatially-explicit estimate of unmet ACC demand due to the lack of electricity access. Based on integrated climate-energy and geospatial electrification modelling, I find that in sub-Saharan Africa, the global hotspot of energy poverty, accounting for the estimated local ACC needs on top of baseline residential consumption targets determines a substantial reduction in the share of decentralised systems as the least-cost electrification option by 2030, and a major ramp-up in the power generation capacity and investment requirements. My results call for a greater consideration of climate adaptation needs in the planning of energy systems of developing countries and in evaluating the trade-off between the central power grid expansion and decentralised systems to achieve universal electrification. Electrification planning must be techno-economically efficient, but it must also consider the political-economic environment where investment needs to be channelled. The fourth essay evaluates the role of governance and regulatory quality in the electricity access modelling framework. In particular, I introduce an Electricity Access Governance Index based on multiple indicators implement it into the PBL's IMAGE-TIMER electrification model through its modifier effect on private discount rates (a measure of risk and willingness to accept future costs vis-à-vis present costs). The results show that governance and regulatory quality in electricity access have a significant impact on the optimal technological mix and the private investment flows for reaching universal electrification in sub-Saharan Africa. In particular, risky environment crowd out private providers of decentralised energy access solutions with the risk of leaving many without electricity even after 2030. The fifth and final essay takes a nexus perspective in the analysis of the African power sector. It deals with the reliability of the energy system in hydropower-dominated power systems (such as in many countries in Central and East Africa) and the role that climate change and extreme events can exert on it. The essay combines qualitative and quantitative analysis to (i) propose a robust framework to highlight the interdependencies between hydropower, water availability, and climate change, (ii) systematically review the state-of-the art literature on the projected impacts of climate change on hydropower in sub-Saharan Africa, and (iii) provide supporting evidence on past trends and current pathways of power mix diversification, drought incidence, and climate change projections. I find that climate change can affect supply reliability and security in multiple ways. For instance, several major river basins have been drying throughout the twentieth century. Nonetheless, I highlight that diversification has hitherto only been promoted in a limited number of countries. I suggest how integrating variable renewables and hydropower can increase system resilience.
La presente ricerca muove dall'esigenza di verificare la portata attuale, nel sistema, della tesi tradizionale che ricostruisce la categoria dell'obbligazione naturale in maniera unitaria, nonostante il codice civile vigente assegni tale nomen iuris tanto agli obblighi della morale sociale (art. 2034 c.c., 1° comma c.c.) quanto ai "doveri altri" ex art. 2034, 2° comma c.c., doveri che, al pari dei primi, sono regolati attraverso il binomio denegatio actionis/soluti retentio. E' questo un problema sul quale la civilistica italiana a cavallo tra ottocento e novecento, come pure la scuola dell'esegesi, ha molto dibattuto e che, per questo, è sembrato opportuno ripercorrere nella prima parte del lavoro, dedicata alla ricostruzione, anche in chiave critiche, delle varie linee interpretative proposte riguardo alla natura (giuridica o extragiuridica) dell'o.n. Oltre alle c.d. tesi abolizioniste, che nonostante il chiaro disposto dell'art. 1237 c.p.v. del c.c. 1865 addirittura negano la vigenza in diritto moderno dell'istituto, quale inutile retaggio di un'esperienza ormai conclusa, è possibile riscontrare nella vasta letteratura sul tema almeno tre diverse linee interpretative. Secondo una prima prospettiva, che affonda le proprie radici nell'insegnamento di Pothier, l'o.n. dovrebbe essere ricostruita come dovere di contenuto patrimoniale che trova fondamento nella sola morale sociale e del quale il diritto positivo si disinteressa fintanto che la prestazione che costituisce il contenuto di tale obbligo non viene eseguita. Per altri, invece, l'o.n. del diritto moderno, in piena sintonia con il modello romanistico, sarebbe da qualificare come obbligazione giuridica incoercibile, ovvero, nella dimensione delle teorie patrimoniali dell'obbligazione di matrice tedesca, come situazione di debito puro scisso dalla corrispondente responsabilità patrimoniale del debitore. Per altri ancora,infine, l'o.n. sarebbe da considerare come un dovere extragiuridico nella sua fase statica (ossia prima dell'adempimento) che però assume la dignità della vera e propria diviene un obbligo giuridico a seguito dell'atto esecutivo. Tale diversità di linee ricostruttive presenta una notevole rilevanza anche sul piano operativo, in quanto permette di risolvere in maniera diversa il problema delle c.d. vicende dell'o.n., ossia quello della possibilità di sottoporre l'o.n. a vicende dinamiche, modificative ed estintive, analoghe, in tutto o in parte, a quelle previste dall'ordinamento positivo per il rapporto giuridico obbligatorio. L'esame della dottrina maturata dopo l'entrata in vigore del codice vigente, a partire dalla fondamentale opera di Giorgio Oppo, mostra, invece, la tendenziale prevalenza della tesi che qualifica l'o.n. come dovere extragiuridico, anche se non mancano voci in senso contrario. Si è riscontrato, comunque, che gli A. sono pressoché concordi nel ritenere che la categoria dell'o.n., nonostante il riferimento codicistico ai doveri "altri", sia da considerare unitaria, tanto sotto il profilo della natura del fenomeno quanto sotto quello della disciplina ad esso applicabile. Nella seconda parte del lavoro si sono cercate di porre in evidenza, in primis, le difficoltà logiche e sistematiche che emergo dalla ricostruzione unitaria dell'istituto, ricostruzione che induce l'interprete a distinguere solo tra doveri morali e sociali atipici (art. 2034, 1° comma) e tipici (art. 2034, 2° comma). Oltre ad aver evidenziato i profili di distinzione tra o.n., obblighi giuridici perfetti e doveri morali puri, aver esaminato il problema della necessaria patrimonialità dell'o.n. ed aver cercato di tracciare un confine mobile tra donazione e adempimento di o.n. (con particolare attenzione verso l'atto esecutivo del dovere di riconoscenza), l'indagine si è incentrata sulla ricostruzione sistematica dell'o.n. come dovere morale e sociale nel quadro della dialettica tra ordinamenti. In questa prospettiva la tesi unitaria e la conseguente elaborazione di doveri morali e sociali tipici è sembrata determinare una vera e propria defunzionalizzazione dell'istituto, profilo di criticità tanto insuperabile da giustificare il tentativo di una ricostruzione alternativa del fenomeno. A tal fine la linea di indagine che si è cercato di seguire è quella della ricostruzione storica. Lo studio dell'o.n. dalle sue origine nel diritto romano classico ha mostrato i caratteri di una figura del tutto peculiare, nata per risolvere alcune problematiche inerenti alla condizione giuridica dello schiavo e dei figli di famiglia. In questa sede si è riscontrato che il modello originario di o.n. è quello dell'obbligazione giuridica imperfetta, fondata su di un patto incoercibile in ragione del difetto di capacità giuridica di una delle parti. Con il diritto giustinianeo, poi, si assiste ad una vera e propria esplosione dei casi di o.n. e, al modello originario, si affianca quello dell'o.n. come dovere extragiuridico rispondente ad esigenze morali, nozione che poi si affina e trova la sua completa elaborazione nel diritto canonico dell'età dello jus commune. I legisti basso-mediovali, invece, sia pure senza una precisa uniformità di pensiero, sfruttano l'archetipo romanistico dell'obbligazione imperfetta nel quadro della teorica della distinzione tra patti e contratti, specie con riferimento all'o.n. da patto nudo. Il modello canonistico e romanistico giungono infine nell'età dei codici attraverso l'insegnamento di Pothier e Domat. Alla luce dell'emersione di due species di o.n. (distinte tra di loro sia per la natura che per il fondamento) nella storia dell'istituto e quindi della coesistenza continua di due modelli, si è cercato di appuntare l'indagine su quella che è da subito sembrata la figura archetipica dell'o.n. (romanistica) ex contractu nel diritto moderno, ovvero il debito puro da gioco e da scommessa "tollerati". Si è così riscontrato che nella scuola dell'esegesi, come pure nella dottrina italiana maturata nella vigenza del codice unitario, non mancano opinioni che permettono di ricostruire il gioco e la scommessa "tollerati" come archetipo di contratto valido ma incoercibile per la meritevolezza non piena della ragione dell'obbligarsi, contratto che produce, quale effetto, appunto l'o.n. romanistica. L'analisi della disciplina in materia nella codificazione italiana vigente, poi, sembra aver confermato tali indicazioni, sia in riferimento alla qualificazione contrattuale del gioco tollerato ex art. 1933 c.c. (analizzato anche sotto il profilo della natura consensuale o reale), sia alla possibilità di concepire il debito di gioco come rapporto giuridico ma incoercibile. Si è inoltre affrontato il problema dogmatico degli "effetti di doveri" e delle vicende nel quadro della distinzione ontica tra species di o.n., concludendo che il puro debito da gioco o scommessa tollerato può costituire idoneo presupposto causale di atti negoziali diversi dall'adempimento ed aventi effetti giuridici limitati, quali, ad esempio la c.d. fideiussione "naturale". Nella terza parte della ricerca si sono cercati di porre in evidenza i tratti peculiari della categoria di o.n. disegnata dal 2° comma dell'art. 2034 c.c., formulando una ipotesi ricostruttiva che si allontana da quella professata dalla dottrina dominante. In particolare si è cercato di ripercorrere il tema della causa del contratto, evidenziando la possibilità di scindere il piano della esistenza della causa (e quindi del contratto) da quello della sua coercibilità. A tal fine, attraverso la disamina del problema della meritevolezza degli interessi sottesi all'operazione negoziale ex art. 1322, 2° comma c.c., intesa (sulla scorta di autorevole dottrina) quale valutazione che concerne la sostenibilità del costo sociale della coercizione del vincolo, si è giunti ad individuare una figura atipica di contratto incoercibile fonte di o.n. romanistiche nella c.d. "promessa di volontariato". Sempre in questa prospettiva di indagine, si è cercato poi di tratteggiare l'area di rilevanza del contratto incoercibile fonte di o.n. (quali doveri "altri" -giuridici ma incoercibili- ex art. 2034, 2° comma c.c.) in contrapposizione all'area dello scambio, anche cercando di distinguere tale figura dalla categoria dei contratti reale. Da ultimo si è approfondito la relazione tra o.n. romanistiche ed autonomia privata, concludendo per la possibilità di concepire, su di un piano dogmatico generale, un rapporto giuridico non obbligatorio quale effetto di un contratto incoercibile per immeritevolezza. Tratteggiate le linee essenziali del modello romanistico di o.n. sul piano della fattispecie e dell'effetto giuridico e posto in evidenza come tale figura possa acquistare un rilievo indipendentemente da una espressa previsione legislativa tipizzante, in forza della valutazione di liceità/immeritevolezza di coercizione degli interessi regolati dal contratto ex art. 1322, 2° comma c.c., la ricerca si conclude con lo studio del problema dell'esistenza, nel sistema, di casi di obbligazioni imperfette "nominate" ulteriori rispetto a quella del debito di gioco ex art. 1933 c.c. Si sono così esaminate, da un lato, la disposizione fiduciaria, ipotizzando la presenza di due fattispecie regolate dall'art. 627 c.c. e dall'altro lato, la relazione tra le due categorie di o.n. ed il debito prescritto o prescrittibile. Infine si è cercato di approfondire i problemi dello "scontro" tra norme imperative ed o.n. (canonistiche e romanistiche) e della relazione tra quest' ultime e la conferma e l'esecuzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni nulle.
Il presente lavoro si pone l'obiettivo di esaminare in modo organico la materia della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, a partire dai primi, timidi, affacci delle neonate associazioni sindacali all'interno delle fabbriche, fino ai giorni nostri. L'esigenza dei lavoratori di essere tutelati anche all'interno dei luoghi di lavoro, indubbiamente primaria, si colloca cronologicamente nello stesso periodo in cui sono nate le prime, embrionali, associazioni a tutela dei lavoratori, ma a tale indubbia esigenza ha fatto il paio una generale reticenza nei confronti della materia, non solo ‒comprensibilmente‒ da parte del datore di lavoro, ovviamente restio a portare così vicino ai suoi interessi l'avversario, ma anche da parte delle stesse associazioni sindacali, da un lato perché preoccupate maggiormente a soddisfare l'obiettivo di ottenere una tutela minima unitaria in tutto il territorio nazionale, specie una CGIL che da sempre privilegiava una disciplina unitaria ad ogni costo, e dall'altro timorose di non riuscire a gestire con efficacia dei bisogni che, a quel livello, guardano necessariamente più alle tasche che ai principi, rischiando così di compromettere ulteriormente un tasso di sindacalizzazione che, nel 1960, si attestava attorno ad un preoccupante 25%. Alla luce di ciò non stupisce l'assetto confusionario che la materia assunse a partire dal secondo dopoguerra, con organismi che, da semplici aggregazioni di lavoratori, diventarono in pochi anni gli interlocutori ufficiali del contropotere datoriale, costringendo i sindacati a "curarsi di loro", riconoscendoli e cercando di farli propri in itinere. Queste sono in definitiva le Commissioni Interne, organismi nati dall'effettività, e solo dopo fatti rientrare nell'universo sindacale per meriti sul campo. Gli anni del c.d. miracolo economico vedono dunque principalmente nelle fabbriche le Commissioni Interne, organismo misto elettivo-sindacale che, abusivamente, si occupava anche di contrattazione, e sporadicamente le Sezioni Sindacali Aziendali, create da e per il sindacato, in aperto contrasto alle prime, per cercare di controllare maggiormente i luoghi di lavoro. La situazione cambierà radicalmente alla fine degli anni '60, quando anche i sindacati verranno travolti dal vento di cambiamento alimentato dalla classe operaia che porterà alla nascita dei delegati, espressione della volontà di uno stretto collegamento tra rappresentanti e rappresentati, senza filtri. Anche in questo caso le associazioni sindacali dovranno riconoscere ex post un organismo di espressione spontaneistica, cercando di ricondurlo entro il proprio alveo. A questo punto il legislatore non può più esimersi da disciplinare una materia che, dati i numerosi aspetti toccati ed i rilevanti interessi in gioco, non poteva più essere posticipata: nasce così nel 1970 il c.d. Statuto dei Lavoratori, volto a regolare organicamente tutte le sfaccettature della presenza sindacale in azienda, eliminando ‒o quantomeno mitigando‒ una situazione di completa anomia che si risolveva in una deleteria incertezza circa i rapporti di forza e gli interlocutori. Da qui la trattazione si sdoppia, seguendo una realtà che vede, ancora oggi, la contemporanea vigenza di due diverse discipline relative alla rappresentanza sindacale in azienda: quella legale e quella negoziale. Ci si occuperà in primis della fonte legale, ed in particolare dell'art. 19 del suddetto Statuto, la porta d'ingresso alla c.d. legislazione di sostegno che, a determinate condizioni, consente alle associazioni sindacali di godere di ulteriori diritti ‒rectius, privilegi‒ in azienda. Il capitolo, dopo una doverosa disamina dei caratteri delle neonate rappresentanze sindacali aziendali, si concentra proprio sui requisiti d'accesso ai suddetti privilegi, oggetto di attacchi da parte delle organizzazioni che non disponevano della chiave per goderne. L'art. 19 quindi diviene oggetto di numerose pronunce da parte della Corte Costituzionale che, chiamata a vagliarne di volta in volta la rispondenza rispetto ai principi costituzionali di libertà sindacale, uguaglianza e solidarietà, fornirà risposte diverse in relazione alle condizioni ambientali in cui si troverà ad operare. Si esamineranno quindi sia le numerosi varianti interpretative dell'articolo 19, sia i profondi cambiamenti intercorsi in occasione dell'amputazione referendaria avvenuta nel 1995. Il secondo binario della rappresentanza sindacale in azienda è costituito dalla disciplina negoziale, nata dopo vari tentativi nel 1993 come massima espressione della c.d. concertazione, sintomo della capacità collaborativa e normativa delle parti sociali, le quali elaborano una forma unitaria di rappresentanza aziendale col pregio di consentire, seppur in parte, la scelta diretta dei propri rappresentanti da parte dei lavoratori. Verranno esaminati pertanto i principali aspetti che necessariamente coinvolgono una così compiuta e particolareggiata disciplina, tenendo in particolare considerazione il suo limite di fondo, e cioè proprio la sua natura di accordo, soggetta inesorabilmente alla mutevole volontà delle parti in causa. Una volta fornito un quadro d'insieme sullo status quo della rappresentanza sindacale, la trattazione approfondisce il famosissimo caso Fiat v. Fiom, che dal 2009 ha tenuto banco nella quasi totalità dei giornali e talk-show televisivi. Una vera e propria battaglia, consumatasi prima nelle fabbriche e poi nei tribunali, che permetterà di ricongiungere le due discipline in una trattazione unitaria, avente come minimo comun denominatore la parola fragilità: la multinazionale italo-americana infatti, riuscirà, come vedremo, ad eludere con ‒relativa‒ facilità entrambe le discipline, escludendo arbitrariamente un sindacato ritenuto scomodo, seppur indubbiamente rappresentativo. Si aprirà quindi una situazione di forte crisi in materia di rappresentanza aziendale, a cui verrà in soccorso la Corte Costituzionale, con la famosa sentenza 231/2013. Ad ultimo, si esaminerà la vigente disciplina, sia legale, come modificata dalla suddetta sentenza, sia negoziale, basata sul "trittico" di Accordi e su una ritrovata unità sindacale, vagliandone i pregi, i limiti, e l'opportunità ‒o meno‒ di un nuovo intervento legislativo.
Il presente lavoro prende le mosse da un'analisi filosofica del determinismo genetico sia nella forma che ha preso negli ambiti del razzismo scientifico e dell'eugenetica classica che nel paradigma che sembra configurarsi nella nuova eugenetica americana. L'esigenza di tale analisi nasce dalla considerazione che il modello deterministico dell'agire umano e la concezione meccanicistica del mondo risultano non aver mai abbandonato la cultura moderna e contemporanea, nonostante l'avvento della ragione illuminista e l'apparente liberazione dell'umanità dalle pastoie della tradizione della necessità e della superstizione. Da tale riflessione scaturisce il bisogno di una comprensione teoretica che abbracci non solo il doloroso e barbaro passato recente del razzismo e dell'eugenetica novecentesca ma anche quelle odierne correnti all'interno della scienza ufficiale che nel nostro presente ripropongono esplicitamente e sotto nuova forma modelli biologici ed etici ritenuti ormai superati ed invalidati. Uno dei concetti attorno a cui ha ruotato tale analisi è stato quello di identità personale, che declinato biologicamente nel credo razzista ed eugenetico diviene il fondamento e la soluzione alla krisis ed alle esigenze di conservazione politiche dello status quo, provando scientificamente in tal modo l'inutilità dei cambiamenti nell'organizzazione sociale, la necessità della stratificazione della società in classi e l'emarginazione socio-politica. Inoltre si è esaminato l'attuale orizzonte normativo relativo alla protezione giuridica del vivente e delle invenzioni biotecnologiche in Italia, approfondendo gli aspetti giuridici dell'istituto del brevetto quando applicato nei campi biochimico e biotecnologico. Nel primo capitolo si ripercorre, a mo' di introduzione, la storia e la preistoria della genetica classica e moderna presentando le figure e le dottrine fondamentali che hanno caratterizzato le diversi fasi di tale disciplina. Dopo aver presentato ed esposta le diverse teorie sull'ereditarietà pre-mendeliane, sia antiche (come quelle di autori classici come Ippocrate, Aristotele e Teofrasto e di enciclopedisti arabi come Al-Jahiz), che moderne (i sistemi e le idee di van Leeuwenhoek, Linneo, Kolreuter, von Gartner, Haudin, Sageret e Lamarck), si passa ad approfondire il lavoro e le leggi di Mendel e del mendelismo, la fondazione della genetica classica (con le teorie di Boveri, Sutton, Morgan, Fischer e Dobzhansky), la scoperta del DNA da parte di Watson e Crick e le recenti teorie evolutive di Gould ed Eldredge. Successivamente si illustra la nascita della teoria e della prassi dell'eugenetica ottocentesca e novecentesca postulandone una natura tra scienza e scientismo che sarà poi confermata dal caso dell'eugenetica nazista. Infine, sempre in tale capitolo, si descrivono e riassumono lo sviluppo della genetica e delle biotecnologie attraverso i progressi tecnologici e scientifici dell'ingegneria genetica e la scoperta di nuove tecniche e metodologie di manipolazione del vivente (PCR e le scoperte di Cohen-Chang e di Boyer) che hanno condotto verso l'esigenza di una sempre maggiore e più approfondita conoscenza del patrimonio genetico umano, favorendo la nascita di grandi progetti di ricerca e di analisi, come lo Human Genome Project a partire dagli anni Novanta e l'International HapMap Project, con finalità di ricerca non solo nel campo della diversità genetica umana e fisico-antropologica ma anche e soprattutto nel settore medico e farmaceutico con lo studio delle variabili genetiche alla base di sintomi e malattie, favorendo in tal modo la nascita della farmacogenomica e della farmacogenetica. Nel secondo capitolo si affrontano le questioni relative agli effetti della dottrina del determinismo genetico (come paradigma filosofico-scientifico) in relazione all'identità biologica. Vengono ripercorse ed illustrate la nascita e lo sviluppo del concetto di razza (correlato a quello di specie) e dell'ideologia del razzismo scientifico a partire da autori come Ray e Bernier ed approfondendo la teorie di Linneo, Leclerc, Blumenbach, De Gobineau e Müller per giungere a trattare dei sistemi e cataloghi razziali di Broca, Deniker, von Eickstedt, Fritzsch, Stratz, Biasutti e Sergi. Segue il riferimento ai lavori ed ai risultati scientifici, che a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo con Montagu, hanno da una parte dimostrato l'inesistenza delle razze umane e dall'altra sviluppato - a partire dagli anni Sessanta grazie a Cavalli-Sforza - un albero evolutivo su basi genetiche delle popolazioni della specie umana invalidando in tal modo alcuni dei modelli delle migrazioni umane alla base del razzismo scientifico (come anche il poligenismo di Coon e l'evoluzione multiregionale di Wulpoff). Ne risulta dunque rafforzato il recente modello teorico detto "Out of Africa" ovvero dell' "origine africana recente". Inoltre vengono citate le recenti posizioni scientifiche di autori e scienziati che a partire dagli anni Novanta hanno tentato di reintrodurre il concetto di razza in antropologia, biologia e nel campo della ricerca medica e della diagnostica clinica (Rushton, Lahn, Shriver e Risch) andando ad avvalorare in taluni casi tesi razziste di natura politica o economica (Herrnstein, Murray, Entine e Duke). Ed è a partire da questa ricostruzione storica e filosofico-scientifica che si vuole evidenziare come il determinismo genetico, proprio di una visione meccanicistica del mondo dei fenomeni fisici, naturali, sociali ed umani, sia il fattore più importante nella formazione e corroborazione scientifica delle ideologie razziste ed eugenetiche. Tale determinismo di natura biologica rientra nella categoria più ampia di tutte quelle concezioni culturali sul mondo di tipo meccanicistico volte a preservare l'ordine sociale e politico vigente e miranti a dare una spiegazione ragionevolmente sufficiente ed esauriente del motivo della diversità degli stati e delle condizioni degli uomini e delle diverse classi sociali. In tali prospettive anche il comportamento e la libertà di scelta dell'uomo vengono predeterminati in modo da ridurre ulteriormente le possibilità di variazione ed alterazione della struttura vigente. Inoltre l'utilizzo e la deformazione politica ed ideologica di alcuni dei risultati e dei dati della ricerca genetica, nonché l'individuazione e l'impiego dei soli dati e concetti isolati dal resto al fine di confermare concezioni e prassi politiche già consolidate, hanno fatto passare in secondo piano il progressivo affrancamento e la crescente liberazione dell'uomo dai vincoli naturali ed assoggettanti della materia avvenute a partire dalla modernità con lo sviluppo della scienza moderna, vanificando il concetto stesso di storia, la quale è storia degli individui e storia delle comunità, ovvero un percorso proprio unicamente all'umanità, che, come Vico ha insegnato, può conoscere con il massimo grado di approssimazione soprattutto ciò che essa stessa ha contribuito a creare. Nel terzo capitolo viene esaminato l'attuale panorama giuridico e normativo italiano relativo alla tutela del vivente globalmente inteso e alla tutela delle biotecnologie e degli organismi geneticamente modificati (considerati all'interno dell'istituto brevettuale sullo stesso piano delle invenzioni progettuali) evidenziando analogie e differenze tra il brevetto classico di origine e derivazione meccanica e quello più recente biotecnologico attraverso il confronto delle trasformazioni che il primo ha subito al subentrare delle pratiche ed interpretazioni brevettuali relative alle innovazioni prima in campo chimico e poi in quello biologico. Tale analisi giuridica si pone come necessaria nell'economia del lavoro di tesi in considerazione del fatto che l'adozione di una teoria sistemica che presenti aspetti sia meccanicistici che deterministici nella spiegazione generale dei fenomeni comporti inevitabilmente, nella sua considerazione e valutazione all'interno del panorama dei valori, la "caduta" del significato dell'uomo e del vivente (e delle metodologie manipolative su tale vivente) ad oggetto, quindi a prodotto o procedura brevettabile alla stregua di ogni altra merce. In una prima parte vengono approfonditi gli aspetti legislativi in riferimento sia alla tutela del vivente, in generale, che alla tutela dell'integrità genetica ecosistemica ed umana. Tali aspetti vengono rilevati a partire da come essi sono sanciti dalla Costituzione e dalle leggi italiane, tenendo conto anche delle specifiche direttive europee e dei principi sottesi a tale direttive: è il caso segnatamente del fondamentale principio di precauzione, che trova largo impiego in molte delle questioni pratiche connesse alla valutazione, alla gestione del rischio, all'immissione ed al rilascio o commercializzazione degli organismi geneticamente modificati, nonché alla biosicurezza ed al monitoraggio nel controllo della diffusione degli stessi. Nella seconda parte si illustrano poi le motivazioni ed i meccanismi che hanno portato all'impiego dei brevetti anche nelle procedure di innovazione biotecnologica e nelle modificazioni di organismi complessi, a partire dal primo brevetto di microrganismi biotecnologici negli anni Ottanta (con rimando alla sentenza statunitense "Diamond v. Chakrabarty"), brevetti che hanno trovato un utile e oggi diffuso impiego in campo farmaceutico. Come noto, il brevetto come diritto di proprietà intellettuale garantisce anche un diritto economico nello sfruttamento dell'opera da parte dell'inventore titolare a cui ne viene attribuita la "paternità" tutelando ed impedendo allo stesso tempo che terzi concorrenti traggano profitti dall'utilizzo o dalla vendita dell'opera. Questa protezione e temporanea esclusività dell'opera costituirebbe per alcuni anche un giusto riconoscimento da parte della collettività verso l'inventore (e verso l'imprenditore) per gli sforzi, l'impegno ed i costi affrontati nella ricerca necessaria al raggiungimento di tali risultati. Inoltre, per essere oggetto di brevetto un'invenzione deve presentare i tre requisiti di novità, non evidenza ed utilità. Come alcuni hanno notato, il brevetto relativo alle "risorse" biologiche e genetiche (ad esempio: materiale biologico, sequenze genetiche, OGM come microrganismi o animali) sono il risultato del "paradigma culturale dell'informazione", in qui il mondo organico e vivente diventa sussumibile e rappresentabile solamente attraverso l'informazione (biologica, genetica o informatica) in esso virtualmente contenuta, ciò a detrimento del supporto dell'informazione stessa – supporto che tende a passare sempre di più in secondo piano. Il meccanismo di passaggio che ha portato la tipologia originale di brevetto artefattuale, ossia quello meccanico e progettuale nato nel Settecento dopo la Rivoluzione Francese, verso quello derivato biotecnologico ed "informatico" è costituito dalla categoria giuridica intermedia del brevetto del vivente vegetale, attraverso il Plant Patent Act del 1930 – atto in cui venne consentita negli Stati Uniti il brevetto di quelle piante che potevano essere ottenute attraverso la riproduzione asessuata, possibilità che inoltre fu successivamente estesa dal Plant Variety Protection Act nel 1970 anche a tutte quelle varietà vegetali in grado di riprodursi per via sessuale. Il brevetto di tipo biotecnologico è stato infine sancito definitivamente come brevetto di "informazione" nella Direttiva Europea 98/44/CE, nonché nella disciplina statunitense. Tale trasformazione ontologica del brevetto non rappresenta solamente il passaggio verso un diverso paradigma giuridico ma l'introduzione e l'adesione ad un modello filosofico-scientifico totalmente diverso nei suoi principi e nelle sue conseguenze. In tale modello il vivente presenta caratteri puramente meccanicistici, non probabilistici e deterministici, dato che la materia organica e quella inorganica giungono ad equivalersi in quanto strutturate e dirette dalla medesima composizione di elementi fisico-chimici e di forze in moto (gli organismi come macchine o bio-artefatti). Contro tale mutamento di paradigma si sono comunque verificati casi di opposizione in ambito giuridico, come nel caso della Corte Suprema del Canada che ha escluso di principio la brevettabilità di organismi biologici al fine di impedire la brevettazione dell'essere umano stesso, o di sue parti. Inoltre possiamo osservare che il modello della "macchina vivente" qui tratteggiato, quando viene applicato al mondo vivente ed organico, a partire dal mondo vegetale fino a quello umano, è animato dal principio di "riduzione" della complessità di tale vivente, riduzione che è frutto della distorsione teoretica ed epistemologica delle possibilità di variazione, che dapprima si presentano come errore e casualità nell'ambito vegetale ed animale, per configurarsi come intenzionalità, libertà ed autonomia nella strutturazione del pensiero e dell'azione decidente in ambito umano. Un ulteriore aspetto della brevettabilità biotecnologica è la critica economica e politica rivolta al modello economico all'interno del quale il brevetto ha origine e trova il suo luogo naturale e al fatto che la maggior parte dei brevetti vengano detenuti da società ed imprese multinazionali determinando in tal modo una nuova forma di colonialismo commerciale nei confronti dei paesi emergenti e del Sud del mondo - un colonialismo biologico e genetico definito bio-pirateria. Divenendo molte delle risorse genetico-biologiche sia vegetali che animali di tali paesi oggetto di brevetto da parte delle multinazionali occidentali, secondo alcuni teorici verrebbe a porsi l'esigenza di una revisione dell'istituto brevettuale alla luce dei principi della democrazia e della giustizia internazionale.
In the final part of my study I shall present Shakespeare's influence on Slovene dramatists from the 1930s to the present time. In this period an almost unbelievable growth in Slovene cultural activities took place. This is also reflected in a very large number of new Slovene playwrights who have written in this time, in their international orientation in dramatic art as well as in the constantly growing number of permanent (and ad hoc) theatre companies. Communication regarding new theatrical tendencies not only in Europe but also in the United States of America and % during the past decades % also in its global dimension has become much easiers than in previous periods and this resulted also in the application of new dramatic visions in playwriting and in theatrical productions in Slovenia. These new movements include new techniques in writing, such as symbolism, futurism, expressionism, constructivism, surrealism, political drama, the theatre of the absurd and postmodernism, which have become apparent both in new literary techniques and in new forms of production. In this period Classical drama still preserved an important role in major Slovene theatres. Plays written by Greek playwrights, as well as plays written by Shakespeare, Molière, Schiller etc. still constitute a very relevant part of the repertoire in Slovene theatres. Besides, Slovene theatres have also performed many plays written by modern playwrights, as for example by Oscar Wilde, L. N. Tolstoy, I. S. Turgenev, Henrik Ibsen, August Strindberg, G. Hauptmann, G. Büchner, G. B. Shaw, A. P. Chekhov, John Galsworthy, Luigi Pirandello, Eugene O'Neill and many other contemporary playwrights. In the period after the Second World War the influence of American dramatists has been constantly growing. This variety also resulted in the fact that direct influence of Shakespeare and his plays upon Slovene dramatists became less frequent and less noticeable than it had been before. Plays written by Slovene dramatists are rarely inspired by whole scenes or passages from Shakespeare's plays, although there are also some exceptions from this rule. It is rather surprising how quickly Slovene theatres produced works written by important foreign dramatists already in the period following the First World War not to mention how quickly plays written by the best European and American playwrights have appeared on Slovene stages during the past fifty years. The connection between Shakespeare's plays and plays written by Slovene playwrights became more subtle, more sophisticated, they are often based on implied symbolic references, which have become a starting point for a new interpretation of the world, particularly if compared with the Renaissance humanistic values. The sheer number of plays written by Slovene dramatists in this period makes it difficult to ascertain that all influences from Shakespeare's plays have been noticed, although it is hoped that all major borrowings and allusion are included. Slovene dramatists and theatre directors have provided numerous adaptations of Shakespeare's plays, which sometimes present a new version of an old motif so that it may hardly be linked with Shakespeare. Slovene artists, playwrights and 4 also theatre directors, have %rewritten%, %reset% the original text and given it a new meaning and/or a new form, and in a combination of motifs and structure they have thus created a %new play%, even stand-up comedies in which the actor depends on a scenario based on Shakespeare's play(s) but every performance represents a new improvisation. Such productions are naturally closer to the commedia dell'arte type of play than to a play written by Shakespeare. I briefly mention such experimental productions in the introductory part of my study. The central part of my research deals with authors in whose works traces of Shakespeare's influence are clearly noticeable. These playwrights are: Matej Bor, Jože Javoršek, Ivan Mrak, Dominik Smole, Mirko Zupančič, Gregor Strniša, Veno Taufer, Dušan Jovanović, Vinko Möderndorfer and Evald Flisar. ; V razpravi o vplivih in o odmevih Shakespearovih dram v delih slovenskih dramatikov, ki so nastala oziroma bila prvič uprizorjena v obdobju med leti 1930-2010, ugotavljamo, da je bilo teh primerov sorazmerno veliko. Pri tem velja še opozoriti, da so v tem obdobju slovenska gledališča (vključno z ad hoc skupinami in eksperimentalnimi gledališči) uprizorila tudi vrsto del tujih avtorjev, ki so se v svojih dramah zgledovali pri Shakespearu oziroma v njegovih umetninah črpali motive za svoje ustvarjanje. Tak vpliv opazimo tudi v raznih priredbah slovenskih avtorjev, ki jih omenjam v uvodnem delu te študije. Pri tem ne gre le za različne predelave, okrajšave ali za izbiro odlomkov iz različnih Shakespearovih dram v novo dramsko delo, temveč tudi za priredbe iz specifično dramskega, klasičnega žanra, v druge gledališke zvrsti, kot npr. v muzikal, v revijsko odrsko priredbo, v lutkovna dela itn. Nekatera tovrstna dela (predvsem iz zadnjih treh desetletij) so tu faktografsko navedena, niso pa detajlno obravnavana. Prav tako niso vključena dela tistih slovenskih dramatikov, pri katerih je Shakespearov vpliv morda posreden, nimamo pa zanj konkretnih vsebinskih ali dramsko-oblikovnih dokazov. Vendar lahko z gotovostjo trdimo, da so v obravnavanem obdobju mnogi slovenski dramatiki dobro poznali Shakespearove drame in da so te na njihovo ustvarjanje tudi posredno vplivale. Med slovenskimi dramatiki, ki so v svoja dela vključili odlomke ali aluzije na Shakespearove drame, so v razpravi posebej predstavljeni naslednji avtorji: Matej Bor, Jože Javoršek, Ivan Mrak, Dominik Smole, Mirko Zupančič, Gregor Strniša, Veno Taufer, Dušan Jovanović, Vinko Möderndorfer in Evald Flisar. Podrobnosti o teh vplivih so razvidne pri analizi Shakespearovih vplivov v delih omenjenih avtorjev. Med značilnostmi, ki so v razpravi navedene, lahko ugotovimo tudi, da sta stopnja in pogostnost aluzij na Shakespearova dela oziroma citatov iz njegovih dram v slovenskih tekstih zelo različna. Medtem ko so bile do osemdestih let dvajsetega stoletja reference iz Shakespearovih dram v veliki večini semantično enakovredne originalnemu tekstu, so bile od tega obdobja dalje pogosto uporabljene ali kot kontroverzne trditve kot tudi predstavljene v ironičnem podtonu ali kot parodije originalnega Shakespearovega teksta. Glede na izredno visoko duhovno, umetniško in etično vrednost Shakespearovih dram ni dvoma, da bodo tovrstni odmevi in vplivi prisotni v slovenski dramatiki tudi v bodoče.
Le città metropolitane, com'è noto, al pari dei Comuni e delle Regioni, vengono definite enti "autonomi" dall'art. 114 della Costituzione novellata dalla l. cost. n. 3 del 18 ottobre 2001, dotati "di propri poteri e funzioni" (da esercitarsi nel rispetto dei princìpi fissati dalla Costituzione) e concorrono assieme allo Stato, a formare la Repubblica. L'avvento delle città metropolitane nel nostro ordinamento è espressione della scelta del legislatore costituente del 2001 di articolare il potere pubblico sul territorio partendo dal "basso", attraverso un processo di progressivo ricompattamento degli enti territoriali in enti di livello superiore, dai Comuni, sino allo Stato. Non poche sono state le perplessità iniziali della dottrina in merito alla loro costituzione, e taluno ha persino vaticinato – facile profezia – il loro possibile tradursi nel «prodotto artificiale di scelte di ingegneria amministrativa ed urbanistica», soprattutto qualora non si fosse dato corso con il consenso delle popolazioni interessate, ed in presenza di reali fenomeni di aggregazione sociale ed economica. Inoltre le Città metropolitane sono enti di rilevanza non solo nazionale, ma anche sovranazionale, visto che l'Unione Europea ad esse destina significative provvidenze economiche nell'ambito della politica comunitaria di coesione. Viene, così, in rilievo, l'aspetto della natura dell'ente funzionale allo sviluppo della comunità che vive all'interno dei suoi confini territoriali, in quanto recettore privilegiato di specifici fondi comunitari. Sotto l'aspetto da ultimo segnalato, la funzione dell'ente vale a connotare significativamente la sua qualificazione giuridica: non si tratta, dunque, di un mero ente territoriale in cui si articola l'ordinamento autonomistico italiano ovvero di un ente unicamente "politico", in quanto in grado di esercitare attività di indirizzo politico entro i limiti fissati dalle leggi statali, bensì anche di un ente di «rilevanza sovrana- zionale, ai fini dell'accesso a specifici fondi comunitari». La riforma del 2001 sembra che, almeno in parte, abbia colto la sfida lanciata dalle profonde modificazioni della struttura economica e sociale del Paese, in epoca di crisi, quale la nostra, in cui si registrano significative trasformazioni delle grandi categorie del diritto costituzionale. Elementi costitutivi dello Stato come il popolo e, quindi, la cittadinanza – ma anche il territorio e la sovranità – sono in fase di cambiamento e il discorso sulle Città metropolitane, in realtà, è un epifenomeno della più generale metamorfosi del territorio verso la perdita dei suoi confini strutturali abituali, sia nell'accezione di confini in senso tecnico, propriamente dei confini statali, sia quando ci si riferisce ai confini in senso atecnico, all'interno dello Stato, nella dimensione delle autonomie locali. Questa tendenza alla intraterritorialità, è, in realtà, un'esigenza emersa su diversi piani, anche se poi non si sono realizzati (si pensi al dibattito sulle c.d. macroregioni). La riflessione sulle città metropolitane, concretamente realizzata attraverso la legge n. 56 del 2014, comunemente nota come legge "Del Rio", ci porta più da vicino a guardare alla trasformazione del territorio come spazio politico, ossia come centro di riferimento di interessi generali: infatti, in ambito locale, è proprio nella dimensione quotidiana che noi vediamo se, in realtà, la gestione degli interessi della comunità migliora le nostre vite. È significativo, al riguardo, considerare come la percezione di vivere in un contesto territoriale ben governato, caratterizzato da servizi pubblici adeguati, sia ritenuta fattore di benessere individuale. Il buon governo e la fiducia nella comunità sono elementi che determinano il livello di benessere di ogni Stato, secondo il "rapporto mondiale sulla felicità", stilato annualmente, a far data dal 2012, dal UN Sustainable Development Solutions Network. Nel World Happiness Report del 2018, la Finlandia è balzata al primo posto della classifica dei Paesi più felici, seguita a breve distanza dalla Norvegia, dalla Danimarca, dall'Islanda e dalla Svizzera. La Svezia, altro Stato nordico, è collocata entro la decima posizione. Nonostante gli Stati scandinavi siano unitari e non federali, i loro sistemi di autonomia locale, pur diversamente concepiti, consentono di affermare che l'amministrazione pubblica sia in realtà fortemente "decentrata" per quanto attiene all'erogazione dei servizi pubblici essenziali. Ora, in questo contesto, l'introduzione nel nostro ordinamento di enti come le Città metropolitane costituisce un elemento che – certo insieme ad altri fattori – consentirebbe all'Italia di entrare nel novero dei "Paesi felici" (o "meno infelici")? Invero, tutti gli Statuti delle città metropolitane italiane retoricamente anelano, nelle loro dichiarazioni di principio, seppur in maniera diversa, alla felicità delle comunità stanziate sul territorio di area vasta. La realtà, ovviamente, è ben diversa, anche per l'incertezza che aleggia sul nuovo ente. Qual è il modello istituzionale prescelto dal legislatore in attuazione del dettato costituzionale? Si è operata una scelta tra modello funzionale e modello strutturale, oppure la determinazione nel disegnare l'assetto, soprattutto territoriale, dell'ente qui esaminato – mutuandolo dalla preesistente Provincia, di cui ha preso il posto – è il frutto di un'estemporanea decisione di politica legislativa? In questa tesi si porrà l'attenzione sulla disfunzionalità del modello istituzionale adottato, soprattutto nell'ultima parte della ricerca, laddove si studierà con particolare attenzione la città metropolitana di Reggio Calabria, costruita sulle "macerie" della Provincia omonima, e si metteranno in luce i pregi del "modello funzionale" nella prospettiva della auspicata futura creazione, semmai, di una "città metropolitana dello Stretto", comprensiva dell'intera area di Reggio Calabria e di Messina (e quindi delle città metropolitane reggina e peloritana). Si porranno in evidenza le difficoltà tecnico-giuridiche concernenti la realizzazione della città metropolitana dello Stretto, e si delineeranno i possibili sviluppi futuri, mutuando la prospettiva funzionalistica dell'ente, anche alla luce di alcuni riferimenti comparati. Invero, proprio da questa prospettiva, è sembrato utile alla ricerca esaminare il modello funzionale della città metropolitana che caratterizza, tra l'altro, la Regione metropolitana di Øresund, la quale comprende le aree metropolitane di Malmö, in Svezia, e di Copenaghen, in Danimarca. L'orografia della regione in esame, fortemente caratterizzata dalla presenza di uno stretto spazio di mare che separa la penisola dello Jutland dalla Scania, ha indotto la suggestione di operare un'ardita comparazione con la "regione" dello stretto di Messina, ove insistono due aree metropolitane, quella di Reggio Calabria, e quella messinese. La circostanza che nel Nord Europa si sia riusciti a superare finanche problematiche connesse alla esistenza di confini territoriali "statuali" induce a sperare nell'adozione di un modello simile per la città metropolitana dello Stretto, dove, in realtà, il "confronto" è fra due Regioni, una a Statuto ordinario ed una a Statuto speciale. Ma proprio il riferimento alla concezione dell'esistenza di un modello funzionale di città metropolitana legittima questa proposta di sviluppo istituzionale dell'area comprensiva delle città di Reggio Calabria e Messina, nonché (almeno in parte) delle loro province. Il modello funzionale di città metropolitana si ritiene sia il più idoneo non solo ad illuminare la connotazione istituzionale, ma soprattutto a far luce sulla natura giuridica di tale ente locale, ancora forse non precisamente delineata. Nell'opinione pubblica, ma anche nell'immaginario di chi non è giurista, la città metropolitana è una specie di "fantasma", perché non vi è ancora una netta individuazione delle sue funzioni ed una netta differenziazione rispetto a quelle della provincia. Il fatto che non si sia ragionato su un territorio "idealtipico" della città metropolitana e che si sia stabilito per legge che ci debba essere una sorta di trasposizione del territorio provinciale sul territorio della città metropolitana, non pare sia stata una mossa "strategica", bensì un errore, ripetutosi a distanza di più di settant'anni da quando si decise di prevedere il disegno costituzionale delle Regioni senza tener conto dei dati reali: antropologici, culturali, economici, commerciali, persino della orografia e della storia dei loro territori. Nondimeno, ciò può essere un bene e può essere un male: il bene è che il legislatore italiano (costituzionale e ordinario) abbia immaginato il nuovo ente; il male è che non abbia, però, predisposto criteri adeguati per la sua concreta definizione in rapporto a parametri minimi uniformi. Non è un caso che, per questo, molti abbiano criticato il fatto che Reggio Calabria sia stata inserita tra le città metropolitane: evidente, plateale, è la sua diversità da molti punti di vista rispetto a tutte le altre. Tuttavia, siccome non solo gli studi dottrinali, prevalentemente comparatistici, ma anche la legge attuativa della riforma del titolo V della Costituzione non ci dà un quadro idealtipico di città metropolitana dal punto di vista territoriale, strutturale, orografico, di popolazione, allora noi possiamo immaginare che la città metropolitana non è tanto il suo territorio ma è la sua "funzione". Dunque si pone il problema dell'individuazione del τέλος di questo ente di area vasta. E si giunge alla conclusione di ritenere che – almeno rebus sic stantibus – esso si concretizzi nella valorizzazione e differenziazione di un territorio specifico, caratterizzato da un centro urbano (genericamente) significativo, rispetto a tutti gli altri, e della sua gestione univoca attraverso la valorizzazione delle differenziazioni interne attraverso le c.d. "zone omogenee". Sembrerebbe registrarsi, invero, una sorta di gioco di specchi tra omogeneità e differenziazione che traduce i principi dell'art. 118 della Costituzione per la prima volta in un modo nuovo, inedito, non si sa quanto consapevolmente condotto da chi ha scritto la legge c.d. Del Rio. Poiché il compito del giurista è anche quello, ove possibile, di ricondurre a razionalità l'opera del legislatore, dovremo cercare di interpretare la l. n. 56 del 2014 nel modo più razionale, anzi "ragionevole", possibile. In questa prospettiva forse è possibile vedere nella città metropolitana di Reggio Calabria l'attuazione di un principio che nella Costituzione purtroppo non c'è più: il principio della valorizzazione del Mezzogiorno e delle isole, che era scritto nel vecchio art. 119, ma che poi è stato cancellato perché considerato qualcosa di antico e di superato nella erronea convinzione che basta cancellare la parola perché sparisca il problema. Purtroppo le cose non stanno così. È interessante notare che in alcuni Statuti delle città metropolitane, come in quello della città metropolitana di Napoli, riaffiori la parola «Mezzogiorno». Parrebbe che in queste "mini costituzioni" – perché la definizione che Martines aveva dato degli Statuti regionali, che era anche all'epoca un po' polemica, si adatta molto bene agli Statuti delle tante città metropolitane – troviamo a volte affermazioni un po' retoriche: si parla di "felicità, di "bellezza", di "cura", ecc. Per fortuna non mancano, però, anche termini giuridicamente rilevanti ("valorizzazione", "differenziazione", "adeguatezza" e…, in fondo, come si ricordava, pure la parola "Mezzogiorno"). L'iter argomentativo che si è inteso sviluppare nel presente lavoro muove dalla disamina della disciplina comunitaria concernente la politica di coesione con precipuo riguardo al ruolo che all'interno di essa svolgono le aree metropolitane; quindi si snoda attraverso la disamina dello scenario normativo italiano, delineando diacronicamente la disciplina positiva di questi enti ed analizzandone, tra l'altro, la forma di governo; si porrà poi attenzione, in particolare, ai profili di incostituzionalità di alcuni aspetti della normativa sulle città metropolitane e l'analisi, quindi, alla fine, si focalizzerà sul "caso" della città metropolitana di Reggio Calabria e sulla necessità di applicare alla stessa il "modello funzionale", perché si ritiene che tale ente dovrebbe andare oltre i limiti del territorio provinciale, e guardare all'area dello Stretto che la separa dalla città (anch'essa metropolitana) di Messina.
L'albo lapillo Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo 1922 a Bologna, prima tappa del lungo peregrinare della famiglia Pasolini imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell'esercito. Carlo Alberto appartiene ad una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini Dall'Onda, nobili degli Stati della Chiesa che da sempre assolvono incarichi importanti in Vaticano. Tuttavia il padre, Argobasto, avvia la famiglia alla rovina a causa del gioco d'azzardo, rovina cui contribuirà a sua volta il figlio Carlo Alberto preda della medesima passione. L'aver scialacquato ciò che restava del patrimonio paterno, lo costringe nel 1915 ad abbracciare la vita militare, carriera che sopperiva ad un destino di degradazione economica. Carlo Alberto aderisce al fascismo e al riguardo, Enzo Siciliano addirittura si esprime con queste parole: "il fascismo apparteneva antropologicamente […] alla sua vanità, al suo evidente vitalismo, all'ombrosità del suo sguardo e ancor di più alla sua dissestata configurazione sociale, alla sua aristocrazia di sangue respinta verso le terre desolate della piccola borghesia" . L'angoscia del fallimento e il senso di solitudine che nasce da una passione non ricambiata spinge Carlo Alberto ai vizi perniciosi del vino e del gioco. Il dramma che suscitò nell'animo di Carlo Alberto lo "scandalo" del figlio, tralignò alla follia e unico rifugio, fino alla morte avvenuta nel 1958 per cirrosi epatica, lo trovò nel bere. Pier Paolo Pasolini nasce pochi mesi prima della storica Marcia su Roma, atto che sancisce la salita di Mussolini al potere. Le velleità dirigistiche e di controllo del fascismo coltivato dalla piccola borghesia che credeva di fare del Colpo di Stato delle camicie nere strumento per i propri fini particolari, viene travolta e rigettata. Questo il clima in cui cresce Pier Paolo Pasolini il quale, stabilitosi con la famiglia alla fine degli anni Trenta a Bologna, termina brillantemente gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Lettere. Pasolini amò profondamente il gioco del calcio, ma nella sua forma "pura": incontaminato, non degradato e inquinato come sarà quello reificato dalla società dei consumi, postindustriale, contro cui lancerà i suoi strali. È risaputo che si teneva in forma: aveva il terrore di invecchiare e negli ultimi anni della sua vita andò addirittura in Romania a fare la cura del Gerovital (a cui sottopone anche la madre). La prontezza del corpo fece di lui, come farà notare il suo amico Italo Calvino, uno dei pochi convincenti "descrittori di battaglie" della nostra letteratura recente. L'apparente normalità della sua vita si spezza l'8 settembre 1943, quando con lo storico armistizio, si frantumano le illusioni fasciste e l'Italia si trova allo sbando. Qui Pasolini prosegue la sua attività letteraria. Divenuto partigiano della brigata Osoppo, vicina al Partito D'Azione, cadrà vittima di quell'orribile episodio della Resistenza italiana che passò alla storia come "strage di Porzus", che vide i garibaldini e gli azionisti uniti contro le pretese territoriali sulle terre di confine delle truppe slovene fomentate dalla propaganda nazionalista e sciovinista di Tito. Questa pagina luttuosa e mesta della vita di Pier Paolo è calata nell'età storica dell'antifascismo segnata dal fenomeno della Resistenza, risultato dell'acuirsi del carattere politico-ideologico del conflitto tra il sistema democratico e i totalitarismi nazi-fascisti e che si traduce in una vera e propria resistenza nei confronti degli eserciti occupanti, sia in forma armata che in forma "passiva" (rifiuto del consenso, attività di intelligence e frenetica attività propagandistica di intellettuali e politici esuli). L'evento bellico della Liberazione attraversa e scuote tutta la penisola italiana, dalla Sicilia alle Alpi, lasciando un paese grondante di devastazione e distruzione. Enzo Siciliano parla di un'"ingenua furia romantica" del poeta Pasolini perché nel suo animo alberga il furore pedagogico di chi crede nella pregnante forza educatrice della poesia, della lingua che si fa storia e cultura attraverso il poeta che la plasma forgiando armi imperiture, vivificando una cultura locale in cui i poveri contadini possano riconoscersi e, insieme, superare l'eclissi e l'oblio dell'arcaicità d'espressione e dei costumi. Discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli, si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, professore di storia della letteratura italiana che segnerà la formazione di Pasolini insieme a Roberto Longhi, professore di Storia dell'Arte, fondamentale nella successiva passione figurativa del Pasolini regista. È affascinato dal Friuli, a cui dona il suo cuore. Pasolini aderisce nell'ottobre-novembre 1945 all'associazione Patrie tal Friul, il cui programma politico era dichiaratamente autonomista. Nel 1947 Pasolini si iscrive al Pci, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e per vivere inizia ad insegnare italiano alle scuole medie statali a Valvasone (dopo una breve parentesi in una scuola privata a Versuta). Il paese lasciato in eredità dalla guerra alla nuova classe politica e dirigente è un paese umiliato, stremato, insozzato dalla ferocia sanguinaria della guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri; un paese che ha perso la sua credibilità all'estero, governato da una classe politica inesperta, conservatrice, che non ha saputo rispondere alle pulsioni modernizzatrici favorendo la sclerotizzazione della frattura tra un nord vivace, propositivo e attivo, e un sud dove ha prevalso l'impulso reazionario che ha favorito il ripristino del vecchio stato, dove le forze dell'ordine e la magistratura sono tutt'altro che convertiti alla democrazia e dove predominano due partiti di massa tra loro antitetici. Il sogno di una cosa viene visto come "lo sfondo mitico e contadino del romanzo "romano" (per) l'epicità del libro che trae sostanza dal senso di avventura che increspa il vivere dei tre protagonisti: soluzione stilistica a cui Pasolini arriva dopo Ragazzi di vita" . La situazione agraria e contadina, soprattutto nel sud Italia, risente fortemente della distruzione e degli sconvolgimenti causati dalla guerra. La manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro a San Vito del Tagliamento per ottenere i miglioramenti che il lodo prometteva agli agricoltori disoccupati e ai mezzadri danneggiati dalla guerra, è rivolta contro quei proprietari terrieri che si sono strenuamente opposti fino a quel momento all'applicazione della legge. La concezione ideologica di Pasolini si incarna in un personaggio del "romanzo" Il sogno di una cosa: una ragazza borghese, Renata, che abiura alle precedenti categorie di pensiero e all'impianto ontologico tipico della sua classe sociale, "che mai gliel'avrebbero perdonato", per farsi marxista. Pasolini dona così forma al suo "inconscio antropologico" (Enzo Siciliano), affidandolo alle parole di questa giovane ma anche a quelle del prete Paolo quando dice, ho notato quanto siano migliori i giovani del popolo da quelli della borghesia: è una superiorità sostanziale e assoluta, che non ammette riserve. Si insinua insidioso anche un altro tratto autobiografico, che lui avvertirà sempre come una colpa soverchiante e per cui i patimenti emotivi si susseguiranno fino alla fine della sua breve esistenza: l'omosessualità. Trauma inconscio che si riverbera nel suo atteggiamento sessuale adulto per cui Pier Paolo cerca "in folle caccia notturna" i ragazzi, stabilendo una distanza netta dalla sua realtà domestica. Muoio nell'odore di una latrina della mia infanzia, legato per sempre alla vita da una vespa che accende nell'aria l'odore dell'Estate. O anche "ciò che più tortura è il "cedere"/mi trovo al mesto bivio del peccato/e cedo […]". Isolato e epurato dal partito comunista -al tempo duro ed ortodosso in materia-, si decide alla partenza con la madre Susanna. Roma. Pasolini rimane pur sempre un "poeta" inteso, alla Elsa Morante, come scrittore che sa dar voce, anche con irriverenza, al proprio daimon, rimanendo fedele alla propria vocazione. Poeta vicino all'espressionismo, rifugge dalla trasposizione della realtà nella letteratura dove esprime invece tutto il suo disagio esistenziale. Nella capitale della neonata Repubblica Italiana, Pasolini arriva con la madre agli albori degli anni Cinquanta. Nel frattempo avrà l'occasione di un nuovo contatto con il cinema quando Mario Soldati lo invita a collaborare alla sceneggiatura, insieme anche a Bassani, del suo film del 1954, La donna del fiume. La prima opera in omaggio alla romanità è del 1955, Ragazzi di vita. Lapalissiano il fine politico: disvelare una realtà taciuta, volutamente emarginata anche geograficamente nelle borgate, nelle appendici da una società apparentemente riemersa dalle ceneri della guerra, sedicente superstite dell'horror vacui della disperazione e della distruzione che tende a celare a se stessa i propri dolori ed i propri mali. Ciò spiega il perché è addirittura la presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Segni, a muoversi scrivendo esso stesso al Procuratore della Repubblica di Milano, bollando il testo come "pornografico". Contro questi perbenisti piccolo borghesi detrattori di Pasolini, politici e non, Gadda (che definisce Ragazzi di vita una "colonna sonora"), Bertolucci, De Robertis, Bigongiari, Carlo Bo, Cassola, Sereni, Anna Banti, Mario Luzi e con loro altri esponenti della cultura del tempo, costituirono quella giuria che a Parma nell'estate del 1955 assegna al "romanzo" il premio "Colombi- Guidotti". Il plurilinguismo a cui è votato Pasolini lo riporta presto sulle scene con un'opera, forse l'unica che- data l'organicità della narrazione- può essere ascritto alla famiglia dei "romanzi", Una vita violenta (1959). È una sorta di manifesto letterario con cui sancisce il suo riavvicinamento al Partito Comunista. Questo è deducibile dalle parole di Pasolini il quale in un'intervista apparsa sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel 1959 dirà io credo soltanto nel romanzo "storico" e "nazionale", nel senso di "oggettivo" e "tipico". Emblematico è a questo fine il titolo di una raccolta di undici componimenti poetici in lingua, Le ceneri di Gramsci, "i più intensi e profondi esperimenti poetici di Pasolini […] una vera e propria summa al contempo delle posizioni ideali del poeta e della sua visione del mondo" "una delle partiture più ingannevoli e più strabilianti di tutta l'opera di Pasolini" il cui segreto sta "nei poemi, che nelle intenzioni dovevano esprimere l'angoscia dell'inafferrabilità e dell'impermeabilità del reale, si trasformano in un flusso che riproduce il reale nei suoi tessuti e nelle sue strutture, come il continuum sintattico riproduce il continuum del paesaggio" , composti tra il 1951 e il 1956 e stampati nel 1957, precedente di due anni il romanzo Una vita violenta e intervallato da una collaborazione alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, a cui lo invita Federico Fellini, come revisore della parte dialettale romanesca (per cui si servirà della collaborazione di quello che diventerà uno dei suoi due pupilli e tenero amico, Sergio Citti). In questa raccolta di componimenti l'obiettivo è quello di dare un volto nuovo alla storia italiana e per farlo Pasolini indulge sul passato con brani dedicati alle origini medievali del canto popolare, al periodo classico, romano greco e barbarico, al periodo comunale: il tutto in un clima quasi di attesa, di sospensione del popolo che aspetta da sempre "mai tolto al tempo" (Il canto popolare) e quindi non obnubilato dalla modernità ma vivo, sopravvissuto nel Presente e emarginato, confinato, ghettizzato in vacui solitari e fatiscenti paesi di collina, in tuguri o baracche, in squallidi quartieri periferici che circondano, con ferina purezza e semplicità, le baldanzose, bislacche città frutto del tempo breve. L'occasione è data da una visita di Pasolini al "Cimitero degli Inglesi", accanto a Porta San Paolo a Roma, a ridosso del quartiere popolare il Testaccio, in cui era stato seppellito Gramsci. Pasolini contempla amareggiato la rovina storica, "in esso c'è il grigiore del mondo / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita / il silenzio, fradicio e infecondo". In questi versi sono condensate tutte le cocenti delusioni che albergano nel cuore del poeta e la sofferenza per la sorte dell'Italia: i dieci anni di dominio della Democrazia Cristiana al potere, il tradimento della Resistenza, il naufragio delle speranze e la perdita degli affetti. Durante lo srotolarsi del poemetto, Gramsci abbandona le vestigia di ideologo e uomo di partito, di padre e diviene per Pasolini "umile fratello", completamente disarmato, non rivoluzionario bensì il Gramsci della sofferenza riflessiva della prigione da cui gemmano pagine di vibrante lirismo e puntigliosa razionalità, lucidità storica e politica. Confinato nella solitudine dalla mordacità dell'uomo e dalla crudeltà della storia. L'interesse è rivolto al giovinetto Gramsci, umiliato e vilipeso, partorito dalla sensibilità del poeta, non al personaggio storico. La protesta è rappresentata dall'essere "diverso", nella poesia come nella vita. Diverso da chi, da cosa? Diverso dai prodotti della mercificazione, dall'omologazione e dalla massificazione che crea e fa subire al popolo inerme e disarmato l'evoluzione della tecnica. Questo non farà che esacerbare ulteriormente le idiosincrasie all'interno del partito dal quale, in seguito agli scandali legati alla sua omosessualità, era stato espulso. Sono gli anni in cui all'interno del partito domina l'intransigenza teologica dei marxisti ("sono inflessibili, sono tetri, / nel loro giudicarti: chi ha il cilicio / addosso non può perdonare. Nel 1958 pubblica L'usignolo della chiesa cattolica, una summa del suo credo marxista intriso soavemente di pietas cristiana. L'attività critica di Pasolini vede la sua prima momentanea sistemazione nella raccolta saggistica del 1960 Passione e ideologia. Un profondo e drastico mutamento del clima culturale occorse negli ultimi anni prima della guerra. Questo nuovo clima non è infondato ma motivato dalla lotta vittoriosa del paese contro il fenomeno fascista e la riconquista che ne derivò della libertà e della democrazia. Il primo numero compare alla fine di settembre del 1945 e, novità, in edicola perché vuole assurgere subito a organo culturale di massa. Chiude la sua attività nel dicembre del 1947. L'editoriale del direttore Una nuova cultura apre il "Politecnico". Contrasti con la redazione e divergenze di vedute fra Vittorini e esponenti di spicco del Partito Comunista, di cui era un giovane neofita, portò alla chiusura dell'organo. I dissapori con i dirigenti comunisti, in particolar modo con Palmiro Togliatti e lo storico Alicata, ruotano intorno al valore che Vittorini attribuisce alla cultura nell'orientamento della storia e nella rinascita della società, compiti che il partito attribuisce più alla politica che alla cultura. La cultura invece non può non svolgersi al di fuori di ogni legge di tattica e di strategia sul piano diretto della storia. Vittorini tende, esecrabilmente, a mettere in discussione il rapporto organico tra intellettuali e partito che dominerà la vita culturale nei decenni successivi caratterizzando la storia della cultura a sinistra dell'Italia; si rifiuta di porre così dei limiti al suo lavoro, di assecondare i diktat del partito e chiude la rivista "Il Politecnico". Il "ceto intellettuale" svolge una funzione di prim'ordine nell'analisi gramsciana, per la formazione del "blocco storico" perché è l'unico che può condurre al cambiamento la società rifondandola. Da qui, la sua idea di "intellettuale organico" per indicare quell'intellettuale che si lega visceralmente ad una classe sociale e al suo destino e istaura un rapporto dialettico con il suo partito. Una tendenza volta a creare una cultura liberale nell'Italia dopo la Liberazione ma, al contempo, attenta ai problemi del socialismo e della democrazia, corrente di pensiero incarnata da Norberto Bobbio. Per ottenere questo fine, è necessaria la comprensione della realtà. Al cinema e nella letteratura il parlato e il dialetto si impongono sovrani. Asor Rosa parla, per introdurre Pasolini, di "apoteosi e crisi del neorealismo" ricordando al lettore che ogni periodo storico-letterario finisce sempre e comunque o per rottura o per eccesso. Quello fascista, ci dice, terminò bruscamente per rottura e si fa strada l'idea che una nuova fase debba aprirsi per rispondere alle speranze degli italiani, anche nel campo del gusto e della poesia. Si scontra allora con le posizioni ufficiali del Partito Comunista che lo accusa tramite la rivista culturale ufficiale del partito, "Il contemporaneo", fondata nel 1954 e diretta da Salinari e Trombadori, di deviare dalla via del realismo inserendo nelle sue opere elementi decadenti, irrazionalistici e vitalistici. Alla "Guerra Fredda" corrisponde una spartizione del mondo in due parti (a cui nel 1962 si aggiungerà una terza realtà che è quella del blocco dei cosiddetti "paesi non allineati" nata alla conferenza di Bandung), simbolicamente indicate nella carta geografica con due colori differenti, il blu per i paesi schierati con gli Stati Uniti e rosso per quelli che gravitano intorno all'Unione Sovietica. In seguito alla Conferenza di Yalta del 1945, che stabilisce la spartizione delle zone di influenza, l'Italia viene inserita nel gioco di alleanze della potenza americana. Nel nostro Paese, il lungo periodo inaugurato dalle elezioni politiche del 1948, che vedono la vittoria di De Gasperi e della Democrazia Cristiana e l'uscita di scena del blocco delle sinistre, viene vissuto in condizioni di sostanziale equilibrio politico: per quarantacinque anni si succederanno governi a guida democristiana il cui percorso è agevolato anche da quella conventio ad excludendum, grazie alla quale vengono respinte come forze di governo, le due frange estreme dello schieramento parlamentare (Msi, erede delle posizioni della Repubblica di Salò, e Pci) . Un Paese ancora impegnato sulla strada della ricostruzione della propria identità, materiale e spirituale. La quasi totalità degli italiani ancora era impegnata, per vivere, nei settori tradizionali- principe ancora l'agricoltura che all'inizio del 1950 assorbe ancora quasi il 50% della popolazione attiva, concentrata con picchi del 56-57% al Sud (Ginsborg) - a cui corrispondeva un basso tenore di vita legato, nel caso dell'agricoltura, all'arretratezza strutturale che rallentava la crescita e la produzione (unica eccezione quella delle aziende agricole, dinamiche, moderne e produttive della Pianura Padana). Ciò è legato sia ad una perdita di autorità del pater familias, per cui il figlio del mezzadro tende a non voler più seguire le orme del padre sia al fatto che il proprietario, dato il crollo dei profitti e gli alti prezzi del mercato, tende a vendere le proprie terre il più delle volte ai mezzadri stessi. Ugualmente nel sud Italia si avvia un processo di vendita di terra che, insieme alla legge del 1948 che stabilisce il sistema di crediti ipotecari rurali rimborsabili in quarant'anni, agevola la piccola proprietà contadina. La fine del protezionismo diede nuova vita all'economia del paese portandolo, quasi obtorto collo, a rimodernarsi. In breve tempo la produzione industriale, così sollecitata al dinamismo, supera quella di tutti gli altri settori e l'Italia da paese agricolo diviene una delle nazioni più progredite del continente. L'"urbanizzazione" cambia il volto del paesaggio umano e sancisce la morte dell'"homo italicus" (Asor Rosa) legato alla proprietà e alla coltivazione della terra, sovverte totalmente i precedenti rapporti di classe con la crescita esponenziale della classe operaia di fabbrica che sarà al centro delle lacerazioni che seguiranno questo primo periodo di ebbrezza e che trova sfogo nella dura politica antisindacale e persecutoria ai danni di operai di dichiarata fede comunista perseguita dalle imprese. Il clima sociale e politico si scalderà velocemente e le lotte, le manifestazioni, le repressioni e la rabbia sociale che questa realtà esacerberà tingeranno di nero molte pagine della storia politico- sociale della Prima Repubblica italiana. Il "miracolo economico" in realtà cova degli squilibri al suo interno. Ginsborg delinea perfettamente questa situazione: il boom si realizzò seguendo una logica tutta sua, rispondendo direttamente al libero gioco delle forze del mercato e dando luogo, come risultato, a profondi scompensi strutturali. Dunque, l'altro lato della medaglia vede quelle declinazioni obliate dalla vitalità del momento, i contraccolpi che cova al suo interno il "boom" e che, accanto al forte spaesamento culturale, genera bisogni difficilmente soddisfacibili, come la domanda aggiuntiva di case, ospedali e scuole essendo più rivolto alla produzione di beni privati, individuali o al massimo familiari a detrimento dei beni pubblici e dei servizi. Fomenta anche rancore sociale accanto alle rivendicazioni di nuovi diritti dei lavoratori, che cominciano a tradursi in fiammate di combattività, a partire dagli scioperi del 1962- che si concluderà con l'episodio tragico di Piazza Statuto - e soprattutto del 1969 con la rivendicazione di uguaglianza di salario e parità normative tra operai e impiegati (lo Statuto dei Lavoratori è del 1970). Le forme governative non sono pronte alla sfida che questi mutamenti sociali mettono in campo. Avvocato seguace della linea dura, della politica "legge e ordine", opportunista nelle sue strategie di alleanze, Tambroni non si schiera apertamente con l'ala destra o sinistra del suo partito e mantiene buoni rapporti sia con i dirigenti missini che del Psi (anche se sarà bollato come uomo di destra non solo per la politica perseguita contro i manifestanti ma perché ottenne la carica di presidente del Consiglio grazie al voto degli esponenti del Msi e dei monarchici). Tambroni risponde alle manifestazioni che si svolgono a Genova, a Roma e in Emilia Romagna nel 1960 in occasione del congresso nazionale dei missini che provocatoriamente annunciano di tenerlo a Genova, una delle patrie della Resistenza, merito riconosciutole istituzionalmente con una medaglia d'oro. La vicenda Tambroni, ci fa notare Ginsborg, ha il merito di chiarire una volta per tutte una costante della storia politica della nostra Repubblica: l'antifascismo è nel dna dell'ideologia egemone per cui qualsiasi velleità autoritaria o liberticida viene osteggiata fisicamente dalla massa e messa al bando. Inoltre questo episodio favorisce un avvicinamento della Dc con i socialisti con la conseguente avanzata delle sinistre alle elezioni. Nel gennaio 1961 viene eletto alla Casa Bianca il democratico John Kennedy che, dopo il rapporto stilato sulla situazione politica italiana da un suo funzionario, decide di appoggiare l'ascesa del Psi con il doppio scopo di oscurare il partito comunista -che aumenta il proselitismo di massa- e al contempo far uscire l'Italia dallo stallo in cui il vuoto riformista l'aveva incatenato. Un papa ieratico, lontano dal sentire della gente. "Riforme mancate e mancata riforma del sistema politico si intrecciano e si alimentano a vicenda, innescando un "cortocircuito perverso" che agisce in profondità, sotto l'apparente bonaccia che va dal superamento della crisi economica all'"esplosione" del 1968" . Togliatti si aprirà al policentrismo politico e culturale e caldeggerà il superamento dello schieramento ideologico dei due blocchi. Stalin è morto nel 1953 e nel corso del XX Congresso del Pcus, che si tenne a Mosca nel febbraio del 1956, il nuovo segretario Nikita Chruscev diffonde il rapporto segreto sui crimini nefandi commessi da Stalin, favorito in questo dal "culto della divinità" a cui aveva piegato non solo la popolazione ma anche tutti i suoi sodales. La tradizione culturale del comunismo italiano ha allora, con Togliatti e la sua necessità di "vie nazionali del socialismo", l'originalità di confondersi con quella liberale. Quest'ultimo aspetto è interessante perché testimonia un processo di unificazione nazionale frutto sia di un maggior intervento scolastico mirato all'aumento del tasso di alfabetizzazione sia dell'incontro di due realtà fino a quel momento agli antipodi, i contadini del sud e la classe operaia del nord. Affermato poeta e emergente cineasta, interviene nel dibattito sui caratteri dell'italiano nell'epoca del "miracolo economico" e dedica alla nuova questione linguistica una conferenza (apparsa sulla rivista "Rinascita" nel dicembre del 1964) dove denuncia un letale sovvertimento del tradizionale assetto dei rapporti comunicativi, inquinati dall'avvento dell'industrializzazione a-morale e selvaggia e alla diffusione sempre più massiccia della televisione che tende ad unificare al ribasso la lingua italiana dalla cui facies scompare, o comunque si erode irreversibilmente, la genuinità di un dialetto che si vede aggredito dai potenti mass media. I dati statistici sono a questo fine utile: nel 1958 solo il 12 percento delle famiglie italiane possiedono un televisore, nel 1965 la percentuale è già salita al 49, allo stesso modo il possesso di un frigorifero passa dal 13 al 55 per cento, quello di una lavatrice dal 3 al 23 mentre gli italiani che posseggono un'automobile passa da 342000 a 4670000. Cambiano le abitudini alimentari e il modo di vestire degli italiani. Tutto ciò avallato dallo Stato e dal suo lassismo, dalla pigrizia e inamovibilità dei governi che nel ventennio 1950-1960 concedono piena libertà all'iniziativa privata. Fu uno dei pionieri della critica serrata e violenta di questo nuovo stato di cose, sociale e politico e ferventi saranno gli attacchi che lancerà dalle pagine di quotidiani, in particolare il "Corriere della Sera". A lacerare il velo delle illusioni saranno, in campo politico-sociale, atti di terrorismo e violenza vigliacca che dopo il preludio sessantottino, dalla Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 darà il via alla "strategia della tensione", allo stragismo nero e al fenomeno delle Br: vicende che tanto avviliranno la nostra democrazia. Il rifiutato è l'irruzione dell'estraneità e della diversità, l'oggetto inerte e passivo del rifiuto. L'essere del rifiutato è la sua povertà e la sua miseria inseparabili e irreparabili. Pasolini con la sua opera poetica, che contempla non solo la scrittura ma anche il cinema ("la lingua scritta della realtà"), offre al suo pubblico un ampio materiale di riflessione sulla figura del rifiutato, dell'emarginato e sulle sue implicazioni sociali, politiche e morali. Negli anni Sessanta la produzione culturale e artistica si sposta sul cinema perché ha una presa maggiore sul pubblico, è più sensibile alla quotidianità e fedele al paese che cambia. L'avventura del cinema lo porterà a viaggiare costantemente negli anni Sessanta. In Alì dagli occhi azzurri, un volume che raccoglie scritti tra il 1950 e il 1965, c'è un racconto in versi che presta il titolo alla raccolta, Profezia (1962-1964) in cui riversa la sua speranza nelle potenzialità rivoluzionarie dei popoli sfruttati del terzo mondo,essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/essi sempre infimi/essi sempre colpevoli/essi sempre sudditi/essi sempre piccoli […] deponendo l'onestà/delle religioni contadine, /dimenticando l'onore/della malavita/tradendo il candore/dei popoli barbari, /dietro ai loro Alì/dagli occhi azzurri- usciranno da sotto la terra/per uccidere-/usciranno dal fondo del mare per aggredire/scenderanno dall'alto del cielo per derubare […]distruggeranno Roma/e sulle sue rovine/deporranno il germe/della Storia Antica. Accanto c'è anche il filone politico, di denuncia: Le mani sulla città di Francesco Rosi,1963, affronta il tema della speculazione edilizia a Napoli, o a Elio Petri, Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965) etc. Accanto a questi registi Pier Paolo Pasolini è spinto al cinema dalla volontà di dare plasticità visiva alla sua immaginazione antropologica e poetica. Il suo è un cinema tutt'altro che consolatorio, non è foriero di speranze ed è colmo di rassegnazione e amarezza, sentimenti maturati in seguito al sopravvenire della crisi delle ideologie e allo sfigurarsi del mondo del "piccole patrie". Una nuova "Bibbia dei poveri". Un cinema che fa dell'intrattenimento piccolo-borghese una sorta di Moloch e che si staglia contro l'ipocrisia dei benpensanti attraverso l'esibizione del sesso senza veli, almeno finché il consumismo non farà della liberazione dai tabù sessuali un suo imperativo, trasformando lo stigmatizzato Pasolini in corifeo della nuova normalità borghese. In Pasolini il cinema si mostra da subito per ciò che è, "passione per la vita", un mezzo per portare la poesia nella realtà attraverso la chiarezza della prosa. "[…] Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. Sempre del biennio 1968-69 sono La sequenza del fiore di carta e Porcile (a detta dell'autore, il suo film "che più tende al cinema di poesia") mentre successive altre significative produzioni, dall'Edipo Re (1967), a Medea (1969-'70), da la "Trilogia della vita" (stagione 1970-1974) che contempla Il Decameron I racconti di Canterbury Il fiore delle mille e una notte (una trilogia della "mancanza della vita", affermazione disperata di qualcosa che non esiste più) alla quale seguirà un documento scritto nel giugno 1975 (Abiura dalla Trilogia della vita) dove giustifica il suo gesto dell'abiura con la costatazione della scomparsa di quella gioventù capace di libertà e trasgressione a cui quasi lui inneggiava attraverso questi film. L'innocenza che lui aveva perseguito qui è cancellata dal meccanismo di emulazione dei modelli veicolati dalla televisione, figli della società capitalista che tutto ciò che tocca corrompe; alla violenza disarmante e demistificante di Salò o le Centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui la rievocazione in chiave sado-masochista di un episodio della Repubblica fascista di Salò fa da metafora della situazione dell'Italia democratico-repubblicana; a cui avrebbe dovuto seguire Porno- Teo- Kolossal, progetto interrotto, insieme al suo romanzo Petrolio, dalla tragica fine dell'autore all'Idroscalo di Ostia. Riservandoci un'analisi più puntuale in un secondo momento, possiamo tuttavia cogliere la sua convinzione che sia in atto un mutamento socio- antropologico devastante, che oscura la prospettiva popolare della Storia spogliandola così del suo carattere "assoluto". Intuibile è, a questo punto, la sua netta condanna del movimento studentesco del 1968, da cui prende le distanze dichiarandosene estraneo perché avvertito come volontà di emancipazione piccolo- borghese. Lo stato d'animo del Pasolini degli ultimi anni è di "disperata vitalità": sa di non essere compreso. I suoi interventi si fanno sempre più numerosi e appassionati, ruotano intorno a ciò che Pasolini dice soggiacere alla base di questa drammatica realtà: l'esiziale vuoto democristiano, partito arroccato nel Palazzo per semplice tornaconto personale, l'inamovibilità del progressismo e gli errori tattici del Pci, la dissoluzione del mondo proletario- contadino. L'ingordigia dei governi di centro- sinistra che dominano la scena dal 1962 al 1968, rende sordi e ciechi i politici di fronte alle esigenze di un'Italia in rapido cambiamento. Le ragioni salienti del movimento studentesco vanno ricercate nelle riforme scolastiche degli anni Sessanta: con l'introduzione (1962) della scuola media dell'obbligo fino ai quattordici anni, si incentiva un livello di istruzione di massa oltre la scuola primaria ma contemporaneamente vengono alla luce le gravi carenze: dalla mancanza dei libri di testo alle gravissime lacune nella preparazione degli insegnanti, mai aggiornati. Il Sessantotto italiano nasce nelle università con la richiesta di un serio esame di coscienza alla cultura. Nel frattempo, nelle maglie comuniste torna in auge il pensiero marxista con la sua attenzione per i coni d'ombra aperti dallo sviluppo economico e la conseguente condizione della classe operaia. A completare il quadro, si aggiungono presto le influenze "terzomondiste" provenienti dall'America del Sud, a partire dalla morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967 che diviene così il martire simbolo della rivolta. Siamo nell'autunno del 1967 e investe gli atenei a partire dalla facoltà di sociologia di Trento a cui seguono quelli di Milano, Torino, Pisa. La nuova lettura che viene data nel Sessantotto è libertaria e iconoclastica del materialismo storico. I lasciti saranno vari, non tutti della medesima natura: innegabile il forte impulso alla democratizzazione, alla modernizzazione e alla partecipazione con l'affermazione del primato dell'assemblea a detrimento della delega. Gli atti dimostrativi, provocatori, violenti e il disprezzo per le regole furono alla base del fallimento. Ebbero però l'intuizione della necessità di avere al proprio fianco gli operai, classe sociale sclerotizzata in una situazione intollerabile. La propaganda incendiaria inibisce qualsiasi istanza modernizzatrice, le modalità di rivendicazione sono corrotte da una torsione del marxismo e del leninismo, per cui la coronazione della lotta di classe si può ottenere solo per mezzo di un furore iconoclasta e casinista. Gli anni dal 1968 al 1972 vedranno un susseguirsi di tiepidi e brevi governi di coalizione, perlopiù di centro-sinistra, che tentano di mediare la protesta con una scialba politica riformatrice che favorirà l'istituzione delle Regioni, la regolamentazione del referendum abrogativo; in campo sociale la regolamentazione delle pensioni, la nascita (maggio 1970) per merito del socialista Giacomo Brodolini dello Statuto dei Lavoratori di cui si comincia da subito a fare largo uso, la conclusione della lunga lotta del Lid per l'introduzione del divorzio in Italia, intrapresasi dopo il progetto di legge del 1965 presentato dal socialista Fortuna, il cui iter parlamentare però venne bloccato dalla Democrazia cristiana. Una condizione di assoluta precarietà su cui si abbatterà la più grave crisi economica dopo quella del 1929 e che influirà sulle politiche economiche internazionali per tutti gli anni Settanta, conosciuta come crisi petrolifera perché generata dalla decisione dei paesi dell'Opec di aumentare del 70 per cento il prezzo del petrolio facendolo schizzare alle stelle e mostrando nella sua drammaticità la totale dipendenza dei paesi occidentali dall'esportazione del petrolio. Questa crisi si abbatte su una situazione internazionale già fortemente problematica: la rottura del sistema Bretton Woods con la conseguente incertezza sui mercati finanziari internazionali, la svalutazione del dollaro, l'esplosione dei tassi salariali europei, un eccesso di offerta sul mercato del lavoro e il rapido declino dei profitti. Interessante è l'analisi che fa dei motivi che soggiacciono a questo estremismo della "nuova sinistra" Silvio Lanaro. Si è molto discettato sull'anomalia del "bipartitismo imperfetto", sul blocco ultradecennale del quadro politico e sul "revisionismo" del Pci, accompagnato dalla tattica terzinternazionalista del far terra bruciata alla propria sinistra: e tuttavia non si è posto l'accento sullo scotoma idiomatico di cui soffre chi vive in un paese privo nel lungo periodo di tradizioni liberali, e dunque costretto ad articolare le proprie concettualizzazioni (e le proprie azioni) a seconda di quanto gli offre il mercato delle idee e dei linguaggi. Immediata l'accusa da parte di polizia e governo alle frange anarchiche con l'individuazione dei responsabili nel ballerino Valpreda (che dopo aver trascorso tre anni in galera, solo nel 1985 sarà prosciolto da ogni accusa) e nel ferroviere Pinelli che "cadrà" dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi durante l'interrogatorio. Alla strage del 12 dicembre e alla tensione successiva si richiamerà il primo documento del Collettivo Politico metropolitano, da cui nasceranno le Brigate Rosse, gruppo che rimarrà isolato fino alle elezioni del 1972, quando il terrorismo si colora anche di rosso con l'incruento ma emblematico sequestro di un dirigente della Sit- Siemens. Nel marzo del 1972, al XIII Congresso del partito, viene eletto segretario Enrico Berlinguer. Alla strage di Piazza Fontana se ne aggiungono presto altre: Piazza della Loggia a Brescia, attentato al treno "Italicus" nel 1974 e attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. L'unico argine, nell'opinione di Berlinguer, sarebbe stata allora una grande alleanza che si concretizzasse politicamente in un accordo con la Dc, presentandolo come una strategia in cui comunisti e cattolici avrebbero condiviso un medesimo codice morale con il quale risollevare le sorti del paese. Questa strategia avrebbe avuto il merito indiscutibile di porre il Pci al centro della scena politica dopo anni di evanescenza. La sensazione che si ha è di essere di fronte alla nemesi del Partito democristiano, come si coglie dall'esigenza pasoliniana di un "Processo etico" al "Potere", ossia al partito che lo ha incarnato, al fine di riscrivere delle regole civili universali e inviolabili. A Pasolini il "coraggio intellettuale della verità" non manca: Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Colpa da cui discende la necessità di un processo, un "Processo come metafora" con cui "determinare nel paese una nuova coscienza politica" sancendo definitivamente la fine di "un'epoca millenaria di un certo potere", rendendo preclara una verità fondamentale, "che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere bensì in relazione al nuovo potere", ossia alle esigenze etiche della collettività civile. Le successive elezioni politiche, 20 giugno 1976 -le prime aperte anche ai giovani tra i 18 e i 21 anni-, confermano la salita del Pci che con il 34,4 per cento dei voti si avvicina alla Dc che resta stabile al 38,7 per cento, grazie alla grande borghesia che fa quadrato intorno al partito (storico l'invito del più famoso giornalista conservatore italiano e direttore del "Giornale Nuovo", Indro Montanelli, a votare Dc "turandosi il naso") mentre il Psi esce indebolito (nel 1976 il segretario De Martino verrà sostituito da un esponente dell'ala destra del partito, Bettino Craxi). I due governi Andreotti che si susseguono tra il 1976 e il 1978 e che includono il Pci nell'area di governo, passeranno alla storia come governi di "solidarietà nazionale" all'interno dei quali si appannerà la diversità comunista, grazie anche all'abilità del fine statista Aldo Moro, che con l'ambiguità e la sottigliezza del suo linguaggio, favorisce il graduale inserimento del Pci nelle logiche del sistema dei partiti, processo vissuto come un tradimento da quegli elettori che avevano riposto vitali speranze in un partito per cui Pasolini spende queste parole: la presenza di un grande partito di opposizione come il Partito Comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. A provocare il fallimento della "solidarietà nazionale" è proprio l'assenza del soggetto "nazionale" con cui unanimemente si indica un agglomerato sociale relativamente uniformato da comportamenti e valori comuni. Questo avvenimento scuote le fondamenta del sistema spingendo alla riflessione parte della società civile sull'importanza di beni immateriali usurati fino a quel momento. La presa di coscienza di Berlinguer del fallimento del "compromesso storico", si ha a Genova dove, nel settembre 1978, durante la festa nazionale dell'"Unità" rivolgendosi alla folla dirà che è giunto il momento in cui "si possono e si devono cambiare" gli equilibri politici del paese. Tuttavia, la rottura della solidarietà nazionale segnerà anche il declino del Pci. Nelle manifestazioni giovanili del 1968, diviene inviso agli studenti, e a larga parte del Pci, per la netta posizione che assume. Individua una forte ambiguità nel movimento, all'interno del quale scorge elementi piccolo-borghesi. La polemica contro/il Pci andava fatta nella prima metà/del decennio passato. siamo ovviamente d'accordo con l'istituzione/della polizia.//a Valle Giulia ieri, si è così avuto un frammento/di lotta di classe: e voi cari (benché dalla parte/della ragione) eravate i ricchi/mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto)erano i poveri. /Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, /o bandire dalla sua anima, una volta per sempre/l'idea del potere. Il "perturbatore della quiete" Pasolini, ospite scomodo della cultura italiana, negli ultimi anni della sua vita sente il bisogno cocente di confrontarsi con l'opinione pubblica, atterrito da ciò che vede: un'omologazione incalzante di costumi e moralità cui si doveva celermente fuggire e contro cui doveva lanciare i suoi strali anche a costo di attirarsi critiche aspre, come fu. Nel frattempo, prende a scrivere caustici pamphlet politici nella prima pagina del "Corriere della sera" (possibilità che gli è data dalla successione a Giovanni Spadolini come direttore di Piero Ottone, più liberale e pronto a violare il moderatismo borghese a favore di una più vivace dialettica politica, al cui fine venne creata una "Tribuna aperta"). I bersagli di Pasolini sono il consumismo, l'esercizio democristiano del potere, il permissivismo nei giovani e la linea ufficiale dei comunisti. Il fine è quello di provocare accese polemiche, assumendo anche posizioni inaspettate, come nel caso del referendum sull'aborto del maggio 1974 la cui vittoria viene aspramente criticata da Pasolini perché dissolve definitivamente l'identità contadina, lasciando un vuoto riempito dalla "borghesizzazione", dai valori vacui ed effimeri di un consumismo sfrenato. La vertiginosa salita del Pci alle elezioni amministrative del giugno 1975, offre a un Pasolini galvanizzato da questa novità politica, da quella che sembra una nuova primavera nata da una restaurazione della sinistra -favorito anche dal consenso accordatogli dai ceti medi, i quali sembrano rispondere a quel sentimento di legittimità costituzionale che suscita nei confronti del Pci il terrorismo di destra-, l'occasione per delineare un suo personale progetto di riforma che prevede l'abolizione immediata della scuola media dell'obbligo e della televisione. Nei confronti del successo elettorale comunista però Pasolini tiene un atteggiamento di distacco . I "fascisti di sinistra" dal punto di vista della prassi, sono frange attive all'interno del partito e simili impurità rischiano di far perdere di vista le necessità della Storia. "Io mi sono sempre opposto al Pci con dedizione, aspettandomi una risposta alle mie obiezioni. Accanto alle passioni, l'eros e le abitudini sono recidive. Nei suoi vagabondaggi notturni si riverbera il deragliamento della società italiana. Sarà vittima di aggressioni, conati di violenze e intolleranza fino al triste epilogo: l'alba del 2 novembre 1975 consegna al mondo il corpo di Pasolini abbandonato su un anonimo terreno dell'Idroscalo di Ostia. Ogni società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue fila. Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, […] ha fatto una serie di film alcuni dei quali sono ispirati al suo realismo che io chiamo romantico ossia, un realismo arcaico, gentile e al tempo stesso misterioso; altri ispirati ai miti, al mito di Edipo ad esempio, poi ancora al mito del sotto-proletariato il quale è apportatore […] di una umiltà che potrebbe portare ad una palingenesi del mondo. Lì si vede questo schema del sottoproletariato. Lo schema dell'umiltà dei poveri Pasolini l'aveva esteso in fondo al Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. […] Allora il saggista era una novità (che) corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene ad un altro aspetto di Pasolini cioè, benché fosse uno scrittore con dei frammenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico tuttavia aveva un'attenzione profonda per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Gli anni del boom economico italiano vedono un'incontrollabile e apparentemente solida crescita industriale a cui si accompagna un decisivo aumento del reddito e il conseguente espandersi dei consumi privati. Questa visione idilliaca è turbata tuttavia da alcune degenerazioni del sistema. La deflagrazione industriale, l'impennata della produzione settoriale e la diffusione del benessere hanno come contraltare una serie di sovvertimenti sociali che si manifestano sempre in maniera più evidente e che vanno dall'abbandono delle terre nel Meridione alla convivenza coatta nelle città industrializzate tra culture antitetiche e sconosciute sino a quel momento l'una all'altra al vuoto etico generato dalla perdita di quei valori diacronici, consolidati e comuni che informavano la vita relazionale. dove non c'è libertà ma un nuovo "dentro": il "penitenziario del consumismo" i cui "personaggi principali" sono i giovani. Il fenomeno della perdita non risarcita dei valori è devastante sui giovani, è l'ipoteca più amara che grava sul loro futuro e la caduta del prestigio irrelato dei valori culturali non poteva non produrre una mutazione antropologica, una crisi. È un sostituto della magia […] Ernesto De Martino lo chiama "paura della perdita della propria presenza" e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l'alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall'alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l'alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall'idea della perdita della propria presenza . Alla distruzione anomica del mondo popolare, sottoproletario e delle borgate che favorisce certi fenomeni di alienazione psichica, è imputabile il clima di criminalità brutale che si diffonderà in Italia. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. La società viene reificata dalla nuova realtà economica. In una lettera al suo amico Alberto Moravia esprime tutto il suo disagio esistenziale, la sua rabbia e la sua disperazione fisica di fronte al cataclisma che sta investendo la società italiana, Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Nel delineare il profilo strutturale della nuova società edonistica e consumistica si serve molto della descrizione delle relazioni individuali e del significato che queste acquistano. Pasolini parla di "genocidio" richiamandosi a Marx, intendendo dunque una totale sostituzione di valori, il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un'affermazione totalmente eretica e eterodossa. Oggi l'Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia- la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese- hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia . La dignità della povertà, elemento caratteristico del mondo contadino e che racchiude quasi in una dimensione sacra il mito pasoliniano, si perde nelle borgate romane degli anni Settanta (unica consolazione per lui sarà la realtà contadina del Terzo Mondo). Sentivano l'ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell'agiato. È attratto dal sottoproletariato di cui delinea il profilo in una delle riflessioni fatte nel corso di una serie di incontri tenutesi nel 1975 con il giornalista inglese Peter Dragadze e che lui stesso definisce un "testamento spirituale- intellettuale", mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura(mentre quella del borghese è volgare); perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente); perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda); perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta); perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del borghese dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa (mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese ironica), perché è pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca) . Pasolini non volge la tua attenzione alla caotica realtà del Nord dove le borgate sono popolate da immigrati spuri, fagocitati dal sistema neocapitalista industriale al quale hanno volontariamente aderito abbandonando le loro terre al Sud. Piuttosto trova analogie tra la cultura del sottoproletariato meridionale e la cultura contadina di quello che chiama Terzo Mondo. Individua l'errore dell'Italia nella rapidità del cambiamento e ricorda spesso nei suoi scritti come il passaggio nel secondo dopoguerra dalla società preindustriale agricola e commerciale a quella industriale sia avvenuta in soli venti anni. Il neocapitalismo è includente, unificante, tende ad inglobare creando una "unità del mondo". Tutto questo perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l'applicazione tecnologica della scienza. Sicché l'unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un'unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi . (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo) . Per Pasolini appare di precipua importanza rifondare i modelli culturali, teorici rinnovando l'analisi marxista e della sinistra del tempo. Il capitalismo cui si riferisce Pasolini non è più quello statico, meno interessato dagli effetti della tecnologia che caratterizzò la prima fase industriale; non a caso lui parla di "neocapitalismo", dominato da una classe borghese almeno potenzialmente egemone, che informa la società dei suoi peculiari valori e caratterizzato, a differenza del vecchio capitalismo, dalla mercificazione della cultura attraverso l'industria culturale e favorito in questo dalla nascita e dalla rapida diffusione su larga scala di mezzi di comunicazione di massa, tra cui domina la televisione. La crescita industriale schizofrenica non permette dunque alle classi sociali di sedimentarsi ma al contrario le obbliga a formarsi in brevissimi lassi temporali. Giulio Sapelli nel suo testo marca la distanza della realtà italiana sia da quella inglese dove, come Engels testimonia nella sua celebre opera del 1845, Condizione della classe operaia in Inghilterra, la formazione del proletariato prende corpo già nell'Ottocento, sia da quella francese e tedesca dove il proletariato è concomitante all'espansione della borghesia. Non siamo di fronte ad una lenta trasformazione culturale, dice Pasolini, ma ad una vera e propria rivoluzione, una "rivoluzione antropologica". Il rifiuto della modernizzazione è assoluto e disperato. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. La tolleranza è l'aspetto più atroce della falsa democrazia . Quello messo in atto dall'edonismo interclassista è in realtà un subdolo razzismo che ha il volto della discriminazione per cui l'unico modello accettato è quello della normalità piccolo- borghese veicolato dalla pubblicità. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico- mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. […] Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace . Ecco allora cosa rimpiange Pasolini, non l' "Italietta" ma l'universo gaio dei contadini e degli operai prima dello Sviluppo. Io credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell'Uomo. Una orrenda "Nuova Preistoria" sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell'antropologia classica, ora agonizzante. L'industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia . È un marxista sui generis Pasolini, non possiede l'elemento principale dei marxisti: la fede nel progresso sociale. "Illuminismo culturale". Il sacro è l'elemento dell'esperienza sottratto alla materialità della vita quotidiana, alla sua relazione immediata con la sfera della vita biologica, e soprattutto con quella della vita raziocinante […] una "sospensione della ragione" che affida l'uomo ad una potenza spirituale più grande e da lui separata […] rappresenta qualcosa di diverso dalla religione, che è diffusa a livello di massa . La crisi della chiesa diventa crisi del sacro. L'ideologia illuministica del capitalismo fa vacillare una delle due uniche possibili resistenze al suo trionfo, l'atavico sentimento cattolico italiano. Richiamandosi al concetto di Engels (Antiduhring, 1878) per cui il socialismo è l'affermazione del passaggio dell'umanità dalla preistoria alla storia, Pasolini ribatte al giudizio espresso dal suo intervistatore Alberto Arbarsino che valuta la diffusione della ricchezza e l'accesso di larghi strati popolari al benessere mai conosciuto prima un fatto positivo perché segna la "liberazione dal bisogno, dalla paura, dal ricatto della fame", con queste parole: Sai cosa mi sembra l'Italia? Un tugurio i cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione, e i vicini, vedendo l'antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge "Sono ricchi! Stanno bene!". Alla domanda di Arbasino "Tu cosa vedi?", la risposta è illuminante: Due Preistorie: la Preistoria arcaica del Sud, e la Preistoria nuova nel Nord. La consistenza delle due Preistorie (e la lenta fine della Storia, che si identifica ormai soltanto nella razionalità marxista), mi rende un uomo solo, davanti ad una scelta egualmente disperata: perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale, nei reami della Televisione. La marxista liberazione dell'uomo non avviene a seguito della serie di cambiamenti che l'avvento della tecnologia mette in atto, non si entra nella Storia ma in una nuova preistoria, quella del cupio dissolvi, dello stillicidio culturale ben rappresentato dalla televisione e voluto dal capitalismo "caro ai liberali", depositari di un'ideologia tipicamente borghese. Tutti i mali del mondo si identificano per me nella borghesia, intendendo naturalmente non il singolo individuo, ma la classe nel suo insieme e per quello che essa rappresenta . Questa borghesia per la prima volta nella storia della società italiana si pone non più come classe dominante, ma come classe egemonica. Per cui si forma una classe borghese avulsa dalle altre, contraddittoria in se stessa perché mentre dovrebbe essere protestante e liberale, nasce nel segno della Controriforma, in un mondo di contadini. Durante un intervento al congresso del partito liberale, delinea il profilo degli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale, quella tecnologica, consumistica, che non sono più identificabili come coloro che semplicemente producono merci ma "nuova umanità", nuovi rapporti sociali. b) è un medium di massa […] è manipolata per ragioni extra- culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli. Non può che dire, da intellettuale, "no" alla televisione (eccetto una collaborazione a Tv 7 che accetta perché la ritiene una forma di contestazione alla televisione fatta dall'interno) perché non individua in questo strumento un'autonomia propria, concreta tipica invece del giornalismo o del cinema o dell'insegnamento (in realtà Pasolini individua un momento autonomo della televisione, la "presa diretta", il cui linguaggio però stenta ad affermarsi). L'idiosincrasia di Pasolini è totale, viscerale. È per questo che Pasolini sente su di sé il dovere civico e intellettuale di proporre una radicale riforma al sistema televisivo e al suo "culturame": Bisogna rendere la televisione partitica e cioè, culturalmente, pluralistica. Ogni Partito avrebbe diritto alle sue trasmissioni […], al suo telegiornale […] e dovrebbe gestire anche altri programmi . La televisione inoltre mette in atto un altro cambiamento: avvia un processo di reificazione al ribasso della koinè linguistica. Pasolini si sofferma molto su questo aspetto perché nella sua analisi la lingua è un elemento imprescindibile dal momento che è dall'ordito del linguaggio che si studia la società nella sua immediatezza. L'ethos borghese tende ad essere introiettato dalla nuova società e ad informare di sé lavoro, disciplinamento sociale e selezione culturale. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle elites) è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità di vita . Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria- in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx)- e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggior repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini . Afasia intellettuale, falsa tolleranza, interclassismo edonista: questo il risvolto drammatico della nuova società neocapitalistica che si presenta inerme, come un re nudo agli occhi di Pasolini. Il pessimismo storico di Pasolini è totale (" […] sono disperatamente pessimista"). Nei teppisti meridionali non c'è un'inconscia protesta moralistica, ma un'inconscia protesta sociale: essi non appartengono […] alla classe borghese […] ma al popolo o al sottoproletariato […] non commettono reati gratuiti, ma reati ben giustificati dalla necessità economica e dalla diseducazione ambientale . Il più emblematico cambiamento nelle abitudini degli italiani, il più lento ma al contempo più parossistico, riguarda la sessualità, fino ad allora il più forte tabù sociale. Non si può tornare indietro, la tradizione ha ceduto alla modernizzazione, all'edonè consumista: Pasolini è apocalittico. Un'analisi dettagliata e chiara ce la offre Sapelli che ci richiama alla memoria l'"economia delle aspettative" scoperta dai grandi classici dell'economia, tra cui spicca Keynes i cui studi sulla logica del consumo descrivono a livello teorico i mutamenti individuati da Pasolini. Oggi, la mancanza di determinati beni privati porta addirittura ad una sorta di isolamento all'interno della società" . Troppo manichea, la posizione di Pasolini a tratti si lascia andare forse troppo al catastrofismo, la sua visione apocalittica inficia l'oggettività dell'analisi. Turba il sistema produttivo, è di ostacolo all'affermazione del neocapitalismo nelle sue diverse accezioni, "anzitutto l'omosessualità è totalmente distaccata dalla produttività puramente umana, quella della specie, nel senso che influirebbe piuttosto negativamente sullo sviluppo demografico se si generalizzasse" . Questo fomenta il disprezzo di Pasolini verso la borghesia, lo assolutizza. Il borghese non subisce questa anomia, non partecipa della sofferenza della classe proletaria e contadina, del disagio dei borgatari ma al contrario "non hanno fatto altro che aggiornare i loro modelli culturali" per cui può affermare stentoreamente di non nutrire alcuna pena per una classe sociale che non ha fatto altro, come afferma Marx nel Manifesto del 1848, che mostrare la sua natura solipsistica tesa ad assimilare tutto a se stessa. L'assoluta (apparente) libertà sessuale, ossia il libero arbitrio sul nostro corpo, è alla base di un pensiero complesso, se vogliamo anche distorto, di Pasolini che parte dall'analisi della "nuova donna" calata all'interno della rivoluzione delle classi medie: l'essere-nel-mondo è esattamente questo, sperimentare le nuove realtà e "codificarle" per farne, conformisticamente, delle abitudini. Il meccanismo di codificazione normativa che un tempo era della matrona, della padrona di casa, ora è della "nuova donna", istruita e colta, borghese e libera nelle sue scelte politiche e sessuali. Ecco il cambiamento antropologicamente drammatico indicato da Pasolini: la piccola borghesia fa propri i comportamenti tipici della destra più gretta e intollerante. Nel corso di un dibattito con la redazione di "Roma giovani" del 1974 alla domanda sul ruolo del Sessantotto nella sua critica all'alienazione della società capitalistica e di conseguenza sulla costruzione di un nuovo discorso politico e culturale, Pasolini risponde con un secco "no". La scissione avvenuta, per opera della classe dominante, tra "progresso" e "sviluppo" viene imputata da Pasolini anche alla sinistra e alla cultura cattolica le quali avrebbero dovuto assumere su di loro la responsabilità del momento, avvertirne l'urgenza e impegnarsi al fine di tutelare i valori. Questa esortazione si collega ad uno degli interventi più dissacratori e oracolari di Pasolini, intitolato "Bologna, città consumista e comunista", contenuto nelle Lettere Luterane, una raccolta di articoli e saggi politici molto pugnaci e demistificatori del sistema di potere italiano, usciti di volta in volta sul "Corriere della Sera", su "Mondo" e su "Vie Nuove" nel corso del 1975. Nel saggio sopracitato descrive il suo strazio nel constatare come anche sull' Emilia, e sulla sua amata Bologna nello specifico, si sia diffuso lo spettro della modernizzazione capitalistica che con la sua furia distruttrice ha demolito alla base la possibilità (ai suoi occhi un tempo concreta) di realizza
The Humbul Humanities Hub was launched in November 1999 as one of the five subject gateways forming part of the Resource Discovery Network's information system, the national British network funded by the Joint Information System Committee with additional support from the Arts and Humanities Research Board and the Economic and Social Research Council. Contrasting the alarming spread of the "invisible Web", the RDN, led by the University of Bath (UKOLN) and King's College in London, aims to provide the British teaching and learning community both with an efficient access to high-quality and cross-searchable subject-selected resources and with a series of value-added free tools such as online tutorials and alerting services, making the user feel part of a living virtual community, tailored to his needs. The relationship between the main network, the RDN, and the inner subject-dedicated gateways, the so-called "hubs", relies on a new strategic interplay of mutual, structural and functional, self-mirrorings that exploit the interlinking nature of the Web and inside which the traditional concept of subject gateway is transformed into something more flexible and malleable, easily adaptable both to envelop something external and vaster and to respond to specific, even individual needs. The idea of the hub model is to create inside the broad network a cluster of subject-cut portals, each conceived as a dynamic, self-planned and self-maintained centre of gravity within its own area. This relationship between the parts and whole is developed through a seemingly paradoxical harmony of centralization and decentralization in an interplay of centripetal and centrifugal forces, inventing a new way of connecting resources in a structured yet flexible data Web, never accessible one way only but, rather, always open to a strictly user-conditioned reading, from the general to the specific or viceversa, depending on the user's needs. Imitating the matrix of the main information network, The Humbul Humanities Hub, which originated as a collaboration project between the Oxford University Computing Services and the Oxford Library Services, hosts both a selected collection of Web resources and a collection of value-added subject-orientated news, tools and broker services. Currently Humbul's database can be searched either by keyword through a simple input box or browsing through subject-selected and then type-selected, period-selected or audience-selected areas. Records are catalogued according to the Dublin Core metadata description scheme and following a precise collection development policy which highlights Humbul's overall target to provide access to a selected database of Web resources broad enough to meet the needs of the Web community as a whole but specifically tailored to meet the information demand of a particular audience such as the British teaching and learning community. Never loosing sight of its aim to build a highly-qualified centre of gravity for online information in a defined subject area, the current tendency of the hub is, however, to move in the direction of a new concept of gateway where the user is called upon more and more to participate actively in the life of the virtual community through a series of services, such as the possibility of suggesting resources to be catalogued, or thanks to new tools, such as My Humbul and the recent My Humbul Include that highlight this new user-orientated approach to the subject gateway model, no longer conceived as a closed, static cluster of selected data but as a subject-focused fulcrum, modelled to cater efficiently for a variety of functions: the hub as a flexible, living entity, with infinite possibilities of adaptation and growth according both to intended targets and to the somehow unpredictable rhythm of the Web itself. ; Lo Humbul Humanities Hub è stato lanciato nel novembre del 1999 come uno dei cinque gateways disciplinari facenti parte del complesso sistema informativo del Resource Discovery Network , il portale nazionale britannico sovvenzionato dal Joint Information System Committee con il supporto dell'Arts and Humanities Research Board e dell'Economic and Social Research Council. In contrasto con l'allarmante diffusione del cosiddetto 'invisible web', scopo dello RDN, sotto la guida di una commissione scientifica facente capo all'Università di Bath e al King's College di Londra, è quello di fornire alla comunità britannica del mondo dell'istruzione e dell'insegnamento un punto di accesso funzionale ed efficace sia ad una rete di risorse disciplinari qualitativamente selezionate e fruibili in modo interdipendente che ad una serie di servizi online gratuiti aventi valore aggiunto, come tutorial e servizi di segnalazione, in modo tale da far sentire l'utente parte di una comunità virtuale attiva, ritagliata sulla base alle proprie esigenze. Il rapporto tra il network principale, lo RDN, e i cosiddetti 'hubs', si fonda su un nuovo gioco strategico di rispecchiamenti reciproci, strutturali e funzionali, che sfruttano in modo ottimale la natura interdipendente della rete e in cui il concetto tradizionale di subject gateway si trasforma in qualcosa di più flessibile e duttile, facilmente adattabile sia ad abbracciare qualcosa di esterno e di più ampio che a rispondere a bisogni specifici o addirittura individuali. L'idea del modello 'hub' è quella di creare all'interno del network principale una costellazione di microportali ritagliati su base disciplinare ciascuno concepito come un centro di gravità dinamico, auto-programmato e auto-gestito, all'interno della propria area specifica. Questo rapporto tra le parti e l'insieme si sviluppa attraverso un'armonia apparentemente paradossale di centralizzazione e decentramento, attraverso un gioco interno di scambi reciproci tra forze centripete e centrifughe, inventando un nuovo metodo di connessione delle risorse realizzato all'interno di una rete di informazioni strutturata eppure flessibile, mai accessibile in un unico senso di marcia ma, al contrario, costantemente aperta ad un tipo di lettura strettamente condizionata dalle esigenze dell'utente, dal generale al particolare o viceversa, a seconda delle necessità contingenti dell'utilizzatore. Imitando la matrice del sistema di informazioni principale, Humbul –nato originariamente come progetto collaborativo interno tra il Centro per i servizi informatici e il Settore Biblioteche dell'Università di Oxford- ospita sia una collezione selezionata di risorse di rete che un'ulteriore raccolta avente valore aggiunto di notizie, strumenti e servizi per l'utente entrambe ritagliate su base strettamente disciplinare. Attualmente si può fare ricerca nella banca dati di Humbul sia per parole-chiave attraverso un semplice box di interrogazione che in modalità browsing attraverso aree selezionate per tipo di risorsa, periodo di riferimento e pubblico di destinazione. I record sono catalogati secondo lo standard Dublin Core di individuazione e descrizione dei metadati e seguendo una precisa politica di sviluppo della collezione che evidenzia l'obiettivo fondamentale di Humbul di fornire accesso a una banca dati selettiva di risorse web abbastanza vasta da incontrare sia le necessità della comunità della rete in senso lato che la domanda di informazioni di un pubblico specifico come quello del mondo dell'istruzione e dell'insegnamento britannico. Senza mai deviare dall'obiettivo-chiave di costruire un centro di gravità altamente qualificato per l'informazione via rete in uno specifico campo disciplinare, l'attuale tendenza del modello 'hub' è quella di muoversi comunque in direzione di un nuovo concetto di gateway in cui l'utente è chiamato sempre di più a partecipare attivamente alla vita della comunità virtuale attraverso una serie di servizi, come la possibilità di suggerire nuove potenziali risorse da inserire a catalogo oppure grazie a recenti strumenti come 'My Humbul' e il nuovo 'My Humbul Include', che mettono in primo piano questo nuovo approccio squisitamente orientato all'utente del concetto di subject gateway, non più concepito come un agglomerato chiuso e statico di dati ma come un nodo vitale ritagliato su base disciplinare e modellato per assolvere in modo efficace a una varietà di funzioni: lo 'hub' come un'entità duttile, viva, dotata di infinite possibilità di adattamento e di crescita, in sintonia sia con i propri obiettivi e intenzioni che con il ritmo in qualche modo tuttora imprevedibile della Rete.
La ricerca si propone di definire le linee guida per la stesura di un Piano che si occupi di qualità della vita e di benessere. Il richiamo alla qualità e al benessere è positivamente innovativo, in quanto impone agli organi decisionali di sintonizzarsi con la soggettività attiva dei cittadini e, contemporaneamente, rende evidente la necessità di un approccio più ampio e trasversale al tema della città e di una più stretta relazione dei tecnici/esperti con i responsabili degli organismi politicoamministrativi. La ricerca vuole indagare i limiti dell'urbanistica moderna di fronte alla complessità di bisogni e di nuove necessità espresse dalle popolazioni urbane contemporanee. La domanda dei servizi è notevolmente cambiata rispetto a quella degli anni Sessanta, oltre che sul piano quantitativo anche e soprattutto sul piano qualitativo, a causa degli intervenuti cambiamenti sociali che hanno trasformato la città moderna non solo dal punto di vista strutturale ma anche dal punto di vista culturale: l'intermittenza della cittadinanza, per cui le città sono sempre più vissute e godute da cittadini del mondo (turisti e/o visitatori, temporaneamente presenti) e da cittadini diffusi (suburbani, provinciali, metropolitani); la radicale trasformazione della struttura familiare, per cui la famiglia-tipo costituita da una coppia con figli, solido riferimento per l'economia e la politica, è oggi minoritaria; l'irregolarità e flessibilità dei calendari, delle agende e dei ritmi di vita della popolazione attiva; la mobilità sociale, per cui gli individui hanno traiettorie di vita e pratiche quotidiane meno determinate dalle loro origini sociali di quanto avveniva nel passato; l'elevazione del livello di istruzione e quindi l'incremento della domanda di cultura; la crescita della popolazione anziana e la forte individualizzazione sociale hanno generato una domanda di città espressa dalla gente estremamente variegata ed eterogenea, frammentata e volatile, e per alcuni aspetti assolutamente nuova. Accanto a vecchie e consolidate richieste – la città efficiente, funzionale, produttiva, accessibile a tutti – sorgono nuove domande, ideali e bisogni che hanno come oggetto la bellezza, la varietà, la fruibilità, la sicurezza, la capacità di stupire e divertire, la sostenibilità, la ricerca di nuove identità, domande che esprimono il desiderio di vivere e di godere la città, di stare bene in città, domande che non possono essere più soddisfatte attraverso un'idea di welfare semplicemente basata sull'istruzione, la sanità, il sistema pensionistico e l'assistenza sociale. La città moderna ovvero l'idea moderna della città, organizzata solo sui concetti di ordine, regolarità, pulizia, uguaglianza e buon governo, è stata consegnata alla storia passata trasformandosi ora in qualcosa di assai diverso che facciamo fatica a rappresentare, a descrivere, a raccontare. La città contemporanea può essere rappresentata in molteplici modi, sia dal punto di vista urbanistico che dal punto di vista sociale: nella letteratura recente è evidente la difficoltà di definire e di racchiudere entro limiti certi l'oggetto "città" e la mancanza di un convincimento forte nell'interpretazione delle trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno investito la società e il mondo nel secolo scorso. La città contemporanea, al di là degli ambiti amministrativi, delle espansioni territoriali e degli assetti urbanistici, delle infrastrutture, della tecnologia, del funzionalismo e dei mercati globali, è anche luogo delle relazioni umane, rappresentazione dei rapporti tra gli individui e dello spazio urbano in cui queste relazioni si muovono. La città è sia concentrazione fisica di persone e di edifici, ma anche varietà di usi e di gruppi, densità di rapporti sociali; è il luogo in cui avvengono i processi di coesione o di esclusione sociale, luogo delle norme culturali che regolano i comportamenti, dell'identità che si esprime materialmente e simbolicamente nello spazio pubblico della vita cittadina. Per studiare la città contemporanea è necessario utilizzare un approccio nuovo, fatto di contaminazioni e saperi trasversali forniti da altre discipline, come la sociologia e le scienze umane, che pure contribuiscono a costruire l'immagine comunemente percepita della città e del territorio, del paesaggio e dell'ambiente. La rappresentazione del sociale urbano varia in base all'idea di cosa è, in un dato momento storico e in un dato contesto, una situazione di benessere delle persone. L'urbanistica moderna mirava al massimo benessere del singolo e della collettività e a modellarsi sulle "effettive necessità delle persone": nei vecchi manuali di urbanistica compare come appendice al piano regolatore il "Piano dei servizi", che comprende i servizi distribuiti sul territorio circostante, una sorta di "piano regolatore sociale", per evitare quartieri separati per fasce di popolazione o per classi. Nella città contemporanea la globalizzazione, le nuove forme di marginalizzazione e di esclusione, l'avvento della cosiddetta "new economy", la ridefinizione della base produttiva e del mercato del lavoro urbani sono espressione di una complessità sociale che può essere definita sulla base delle transazioni e gli scambi simbolici piuttosto che sui processi di industrializzazione e di modernizzazione verso cui era orientata la città storica, definita moderna. Tutto ciò costituisce quel complesso di questioni che attualmente viene definito "nuovo welfare", in contrapposizione a quello essenzialmente basato sull'istruzione, sulla sanità, sul sistema pensionistico e sull'assistenza sociale. La ricerca ha quindi analizzato gli strumenti tradizionali della pianificazione e programmazione territoriale, nella loro dimensione operativa e istituzionale: la destinazione principale di tali strumenti consiste nella classificazione e nella sistemazione dei servizi e dei contenitori urbanistici. E' chiaro, tuttavia, che per poter rispondere alla molteplice complessità di domande, bisogni e desideri espressi dalla società contemporanea le dotazioni effettive per "fare città" devono necessariamente superare i concetti di "standard" e di "zonizzazione", che risultano essere troppo rigidi e quindi incapaci di adattarsi all'evoluzione di una domanda crescente di qualità e di servizi e allo stesso tempo inadeguati nella gestione del rapporto tra lo spazio domestico e lo spazio collettivo. In questo senso è rilevante il rapporto tra le tipologie abitative e la morfologia urbana e quindi anche l'ambiente intorno alla casa, che stabilisce il rapporto "dalla casa alla città", perché è in questa dualità che si definisce il rapporto tra spazi privati e spazi pubblici e si contestualizzano i temi della strada, dei negozi, dei luoghi di incontro, degli accessi. Dopo la convergenza dalla scala urbana alla scala edilizia si passa quindi dalla scala edilizia a quella urbana, dal momento che il criterio del benessere attraversa le diverse scale dello spazio abitabile. Non solo, nei sistemi territoriali in cui si è raggiunto un benessere diffuso ed un alto livello di sviluppo economico è emersa la consapevolezza che il concetto stesso di benessere sia non più legato esclusivamente alla capacità di reddito collettiva e/o individuale: oggi la qualità della vita si misura in termini di qualità ambientale e sociale. Ecco dunque la necessità di uno strumento di conoscenza della città contemporanea, da allegare al Piano, in cui vengano definiti i criteri da osservare nella progettazione dello spazio urbano al fine di determinare la qualità e il benessere dell'ambiente costruito, inteso come benessere generalizzato, nel suo significato di "qualità dello star bene". E' evidente che per raggiungere tale livello di qualità e benessere è necessario provvedere al soddisfacimento da una parte degli aspetti macroscopici del funzionamento sociale e del tenore di vita attraverso gli indicatori di reddito, occupazione, povertà, criminalità, abitazione, istruzione, etc.; dall'altra dei bisogni primari, elementari e di base, e di quelli secondari, culturali e quindi mutevoli, trapassando dal welfare state allo star bene o well being personale, alla wellness in senso olistico, tutte espressioni di un desiderio di bellezza mentale e fisica e di un nuovo rapporto del corpo con l'ambiente, quindi manifestazione concreta di un'esigenza di ben-essere individuale e collettivo. Ed è questa esigenza, nuova e difficile, che crea la diffusa sensazione dell'inizio di una nuova stagione urbana, molto più di quanto facciano pensare le stesse modifiche fisiche della città. ; The research aims to define guidelines for the preparation of a plan that deals with quality of life and well-being. The reference to the quality and well-being is positively innovative, because imposes to organs of the government to relate with the subjectivity of active citizens and, at the same time, makes clear the need for a broader and transversal approach to the city and a more close relationship of technicians/experts with the leaders of political and administrative bodies. The research investigates the limits of modern town-planning theory in front of the complexity of new needs expressed by contemporary urban populations. The demand for services has changed significantly compared to that one of the Sixties, not only on the quantity but also and especially in terms of quality, because of the social changes that have transformed the modern city, from the point of view of the structure and the cultural request: the intermittent citizenship, so cities are increasingly experienced and enjoyed by citizens of the world (tourists and/or visitors, temporarily present) and popular citizens (suburban, provincial, metropolitan); radical transformation of the family structure, so the family-type consisting of a couple with children, solid benchmark for the economy and politics, is now minority; the irregularity and flexibility of calendars, diaries and rhythms of life of the population active, and social mobility, so individuals have trajectories of life and daily practices less determined by their social origins of what happened in the past; the elevation of the level of education and thus the increase in demand for culture; the growth of elderly population and the strong social individualism have generated a demand for the city expressed by the people extremely varied and diverse, fragmented and volatile, and in some aspects quite new. Close to old and consolidated requests - the city efficient, functional, productive, accessible to all - there are new questions, ideals and needs such as beauty, variety, usability, security, the ability to amaze and entertain, sustainability, the search for new identities, questions that express a desire to live and enjoy the city, to fell good into the city, questions that can no longer be satisfied through a welfare simply based on education, health, pension system and social security. The modern city or the modern idea of the city, based only on the concepts of order, regularity, cleaning, equality and good governance was handed over to the past history turning into something very different hard to represent, describe, tell. The contemporary city can be represented in many different ways, both on town-planning way and social way: in the recent literature there is the obvious difficulty of defining and enclose within certain limits the subject "city" and the lack of a strong belief in the interpretation of political, economic and social transformations that have invested society and the world in the last century. The contemporary city, beyond the administrative areas, territorial expansion and urban structures, infrastructure, technology, functionalism and global markets, is also a place of human relations, representation of the relationship between individuals and urban spaces where these relationship move. The city is both physical concentration of people and buildings, but also variety of uses and groups, it's the place of dense social relations where processes of cohesion or social exclusion occur, a place of cultural norms that govern behaviour and identity, expressed physically and symbolically through public spaces of city life. It's necessary a new approach to study the contemporary city, made up of cross-contamination and knowledge provided by other disciplines such as sociology and human sciences, which help to build the image commonly known of the city and the territory, landscape and environment. The representation of the urban social life varies according to what it is considered, in a specific historic moment and in a given context, a situation of well-being. The modern town-planning aimed at maximum level of well-being for individuals and communities, modelling on "real needs of people": in the old urban systems manuals appears a "Plan of services" as an appendix to the master plan, which includes services distributed on the surrounding areas, a sort of "social master plan" to avoid neighborhoods separated by segments of population or classes. In the contemporary city globalization, new forms of marginalization and exclusion, the advent of the so-called "new economy", the re-definition of the production base and the labour market are urban expression of a social complexity that can be defined trough transactions and symbolic exchanges, rather than trough processes of industrialization and modernization towards which the historic city, adopted modern, was oriented. All of this questions are the expression of that complex of matters which are currently described as "the new welfare", opposed to the one essentially based on education, on health, on the pension system and on social assistances. The research has therefore examined the traditional tools of town-planning and territorial programming in their operational and institutional dimension: the main destination of these instruments is the classification and accommodation of services and urban containers. It's evident, however, that in order to answer to the many questions of complexity, needs and desires expressed by contemporary society the actual allocations to "make city" must necessarily overcome the concepts of "standards" and "zoning" that are too rigid and unable to adapt to a growing demand for quality and services and at the same time inadequate to manage the relationship between collective space and domestic space. In this sense it is important to consider the relationship between housing types and urban morphology and hence the environment around the house, which establishes the relationship "from the house to the city" because it is in this duality that it is possible to define the relationship between private domestic spaces and public spaces and contextualize questions of roads, shops, meeting places, accesses. After the convergence from the wide urban scale construction to the architectural scale, the attention moves from the architectural scale to the scale of urban constructions, since the criterion of well-being goes through the different scales of habitable space. Moreover, in territorial systems with a widespread well-being and a high level of economic development there's an emerging awareness that the very concept of well-being is no longer linked only to the ability of collective and/or individual income: today the quality of life is measured in terms of environmental quality and social inclusion. Thus the need of an instrument of knowledge of the contemporary city to be attached to the Plan, containing criteria to be observed in the design of urban spaces in order to determine the quality and well-being, in the meaning of "quality of feeling good", of urban environment. Obviously, to reach quality and well-being it is necessary to satisfy macroscopic aspects of social functioning and living standards, through the indicators of income, employment, poverty, crime, housing, education, etc., and also first needs, basic and elementary, and secondary, cultural and changing, moving through the welfare state to a general feeling of well-being, to wellness in a holistic sense, all expressions of a desire for mental and physical beauty and a new relationship of the body with the environment, then real expression of a need for an individual and collective wellbeing. And it is this need, new and difficult, which creates the widespread feeling of a starting new urban season, much more than physical changes of the city could represent.