La ricerca svolta in un dottorato universitario rappresenta un'iniziativa culturale che, come tale, ha l'opportunità di farsi carico di alcuni interrogativi che sono maturati nella società attuale. In particolare, nell'ambito del dottorato in "Progetto Urbano Sostenibile" è necessario rispondere ad una serie di riflessioni sulle modalità e gli strumenti a disposizione per soddisfare le esigenze della città contemporanea, secondo azioni e processi che la rendano maggiormente sostenibile, meno "assetata" di risorse quali acqua, energia elettrica, suolo, denaro ma al contempo capace di produrre meno rifiuti ed inquinanti e ovviamente meno segregante dal punto di vista sociale. La ricerca intende fornire un contributo a quel settore della progettazione urbana che si occupa di recuperare l'esistente in chiave sostenibile e che fonda le proprie basi da una parte nelle ragioni già esposte e legate appunto alla sostenibilità, dall'altra nelle più recenti interpretazioni del concetto di tutela e patrimonio culturale riferiti ai tessuti storici delle città. In quest'ottica la tesi rappresenta uno di quei tasselli che fanno parte di una sorta di grande mosaico di strumenti atti a perseguire l'obiettivo di rendere maggiormente sostenibili le nostre città; la sostenibilità è qui intesa nella sua ampia accezione di corretta gestione delle risorse – naturali, sociali ed ambientali – a propria disposizione. A ben vedere la cultura della rigenerazione urbana e della sostenibilità hanno radici remote e comuni. All'origine della volontà di recuperare e conservare sta la convinzione, infatti, che utilizzare con parsimonia le risorse e mantenere i propri beni territoriali costituisca il modo migliore di perseguire il benessere degli insediamenti umani mantenendo vivo il valore del bene culturale e il senso di appartenenza di una comunità. Nel mosaico di strumenti, politiche e metodi a disposizione, senza dubbio la rigenerazione urbana, se intesa secondo i tre canonici aspetti della sostenibilità, può rappresentare una strategia efficace per la "digestione" dei problemi urbani: in particolare secondo i suoi risvolti di riduzione di consumo di suolo, riqualificazione del tessuto sociale e innesco di processi di rivitalizzazione economica. Proprio la rigenerazione urbana applicata ai tessuti storici, è l'ambito della ricerca: ci si rivolge in particolare a quelle parti di paesaggio storico urbano in cui notevoli e diffuse sono le situazioni di degrado dovuto principalmente alla presenza di edifici in parte o completamente in disuso che, di conseguenza, determinano uno stato di abbandono anche dello spazio pubblico ad essi afferente. Se l'isolato è stato il luogo privilegiato della sperimentazione per la città ottocentesca che "riempiva" gli spazi da urbanizzare con edifici di varia natura (a corte, a blocco, in linea), così il "vuoto" - che vuoto in effetti non è mai, ma sempre luogo denso di segni e potenziali latenti, palinsesto di usi e disusi - finora trascurato dal processo aggressivo di occupazione di suolo della città in ogni dove, può proporsi quale materiale inedito e nodale della contemporaneità. Il lavoro è stato svolto con particolare riferimento ai nuclei storici delle città collinari pugliesi, accomunabili per caratteri morfologici e distributivi dell'impianto urbano, per la costituzione di epoca medievale, per l'utilizzo di pietra e tufo come materiali da costruzione, la presenza di vani abbandonati al piano interrato o seminterrato negli edifici. Il tema concerne infatti lo studio dei limiti e delle possibilità del recupero dei vani abbandonati al piede degli edifici e dell'interfaccia con lo spazio pubblico ad essi prospiciente, recupero visto come enzima di una possibile rigenerazione urbana dei nuclei storici. Il metodo che si vuole applicare è di tipo induttivo: si vuole cioè studiare il tema applicato ad un caso specifico, quale il centro storico di Altamura, per poi dichiararne l'efficacia per casi analoghi e appartenenti alla stessa già citata categoria dei centri storici medievali collinari pugliesi. Il centro storico su citato è perfettamente rappresentativo dei caratteri tipici delle città medievali collinari pugliesi. Un'attività di mappatura e classificazione ha inoltre evidenziato come al suo interno il tessuto urbano storico annoveri un notevole numero di "sottani", i suddetti vani abbandonati, e "claustri", peculiari corti urbane dalle variegate forme e dimensioni, che però in molti casi soffrono di mancanza di vitalità, tipica invece dei tempi in cui essi si sono sviluppati. L'obiettivo di tale impostazione metodologica è la volontà di mettere a punto uno strumento che possa dare indicazioni sul recupero diffuso del sistema sottani-claustri. L'attenzione dello studio è stata rivolta a quei manufatti che, pur non rientrando nella categoria dei beni monumentali, sono contrassegnati da valori storici ed architettonici connaturati e veicolati nel tempo: la cosiddetta edilizia storica minore, costituita da edifici che non presentano particolare pregio dal punto di vista architettonico, se visti individualmente, ma che formano nel loro insieme la sostanza della tradizione edificatoria, e che proprio in tal modo acquistano valore di documento storico. La tesi che si vuole provare a dimostrare è che attraverso l'analisi delle prestazioni di comfort, sicurezza, accessibilità, uso e aspetto offerte dai sottani e dai claustri e dalla loro interfaccia, si possa dar seguito ad indicazioni di recupero di spazi interni e spazi esterni, e verificare il funzionamento del fenomeno connettivo tra gli spazi, fondamento costitutivo della persa vitalità del nucleo storico. Il sistema sottani-claustri rappresenta un'interfaccia molto diffusa nel tessuto storico e, attraverso la fitta maglia di assi viari principali e secondari, costituisce una sorta di substrato linfatico dal cui funzionamento dipende la vitalità, la vivacità, la sopravvivenza stessa del nucleo antico. Le indicazioni fornite per il recupero degli spazi interni ed esterni serviranno a definire una strategia per la riqualificazione fisica, sociale ed economica del sistema diffuso sottaniclaustri. Alla base della ricerca vi è la convinzione che il recupero del sistema sottani-claustri, con la riutilizzazione dei vani abbandonati e la riqualificazione degli spazi aperti, possa avere una ricaduta determinante come fattore di rivitalizzazione economica, sociale e culturale del nucleo storico: se si riesce a rendere consapevole la cittadinanza dell'importanza che riveste il patrimonio storico e ad evidenziarne le potenzialità commerciali e turistiche, allora probabilmente si sarà riusciti ad attivare un circolo virtuoso che potrà portare alla rigenerazione urbana auspicata. Quello che ci si aspetta, in particolare, è che le botteghe artigianali possano tornare a popolare il centro storico, così come accadeva fino ad un ventennio fa. Insieme ad esse anche micro-attività culturali legate al territorio e alla promozione dei suoi prodotti e non solo: basti pensare a nuovi modelli di condivisione degli spazi da parte di professionisti, come il coworking. Limiti e possibilità del recupero sono stati stabiliti grazie alle analisi di compatibilità tra le prestazioni offerte e i requisiti richiesti dalla nuova destinazione d'uso, secondo un approccio esigenziale-prestazionale: lo strumento che si vuole dunque ottenere è una strategia di intervento sul sistema sottani-claustri che, a partire dall'analisi dello stato di fatto, ne definisca le prestazioni disponibili e ne ipotizzi funzioni con valenza economicosociale, i cui requisiti siano soddisfatti mediante interventi di adeguamento soft, quindi a basso costo e impatto ambientale. I destinatari di un siffatto strumento possono senza dubbio essere le amministrazioni locali che si trovano a dover affrontare problemi di perdita di valori architettonici, sociali ed economici di un tessuto storico della città, e ovviamente anche i privati possessori di vani inutilizzati da riqualificare, a cui bisogna trovare una nuova funzione capace di riaccendere l'interesse da parte della collettività. Nell'ottica di una sensibilizzazione dei privati alla tematica del recupero di vani inutilizzati o abbandonati, vitale importanza riveste l'eventuale possibilità di poter ricevere agevolazioni fiscali se non addirittura contributi per le opere di riqualificazione, seguendo schemi di partenariato pubblico-privato, già utilizzati e risultati efficaci in altre realtà, che possono quindi essere applicati anche ad un intervento diffuso. La tesi si articola in tre parti, così come indicato nel diagramma di flusso allegato, che contiene i punti chiave della ricerca esplicitati in forma grafica. La prima parte definisce i termini teorici all'interno dei quali si muove la ricerca e accentra la propria attenzione alla lettura delle fasi della scelta del tema che si traducono nei capitoli introduttivi, in cui vengono esplicitati obiettivo e metodologia della ricerca (cap.1), e della definizione del tema, in cui si approfondiscono le tematiche legate ai tessuti storici da una parte e alla rigenerazione urbana dall'altra, con l'individuazione del ruolo del sistema sottani-claustri come enzimi per la rivitalizzazione del tessuto storico (cap.2). La seconda parte affronta le fasi di indagine e rilievo descritte nel capitolo inerente il caso studio, che riguarda nello specifico l'analisi storica e urbanistico-morfologica della città di Altamura, la mappatura, campionatura e rilievo di sottani e claustri ed infine l'analisi di suscettività, che mira ad evidenziare le potenzialità degli elementi rilevati (cap.3). La terza e ultima parte, che si articola nelle proposte ed indicazioni di processo, consta di un capitolo che fornisce l'indicazione delle funzioni compatibili per i sottani e delle possibilità di fruizione dei claustri (cap.4), e di un capitolo conclusivo in cui si sono trattate le potenzialità di incentivazione dello strumento ottenuto e le eventuali possibilità di sviluppo e applicazione in altre realtà (cap.5). E' inoltre prevista una sezione bibliografica dedicata ad ogni capitolo, che fornisce i riferimenti utilizzati nello svolgimento dei temi trattati in ciascuno di essi. Le sezioni bibliografiche singole confluiscono poi in una conclusiva che comprende anche testi e siti internet utilizzati per informazioni di carattere generale per la stesura della tesi. Queste bibliografie non intendono essere esaustive per tutti gli argomenti trattati, piuttosto esse rappresentano uno strumento essenziale per orientare le conoscenze di base.
Questa ricerca propone un'analisi della struttura complessiva, dei principi e delle ricadute applicative della proposta bioetica laica generale di Hugo Tristram Engelhardt jr. Partendo dalla disamina di The foundations of bioethics del 1996, che rappresenta la versione più esaustiva e sistematica della riflessione engelhardtiana, l'analisi procede, nella prima parte, all'individuazione e all'interpretazione critica dei presupposti categoriali socio-antropologici che definiscono le premesse concettuali dell'impianto laico generale. La liquidità (fluidità o leggerezza) proposta da Bauman, come dimensione socio-culturale essenziale alla definizione della contemporaneità, contribuisce alla configurazione di un orizzonte dell'umano i cui frammenti si riorganizzano, individualmente o comunitariamente, lungo le direttrici di una tensione processuale articolata secondo dinamiche pluralistiche (par 1.1). In uno spazio sociale in continuo assestamento, le nuove identità umane assumono la forma dell'individualizzazione che, descrivendo la riconfigurazione processuale dello status personale, veicola l'estraneità come condizione invasiva degli assetti sociali. Nello spazio dialettico che separa la società, come dimensione delle differenze, dalla comunità, in quanto struttura aggregativa, è possibile rintracciare il prodotto sociale dell'incontro tra estraneità ed individualizzazione: lo straniero morale incarna l'essenza problematica dello status relazionale di identità mutevoli, destinate ad interagire in forme e secondo logiche situazionali. Le differenze in termini di visione del mondo e, più specificamente, rispetto agli approcci alla vita morale caratterizzano una condizione sociologicamente rilevante, nella misura in cui l'estraneità prodotta all'interno dei processi di individualizzazione si definisce nel duplice orientamento verso l'inderogabile prassi interattiva dell'incontro con l'estraneo o verso la tendenza, di origine variabile, a forme aggregative ad assetto comunitario. Questo duplice andamento descrive, in sostanza, quella che Engelhardt definisce dialettica tra stranieri ed amici morali: da un lato le differenze strutturali in termini di visione ed approccio, dall'altro le spinte aggregative in direzione di identità e credenze comuni (par 1.2). Al centro di questa struttura socio-relazionale Engelhardt delinea i tratti fondamentali di un'antropologia minima fondata sul concetto di persona come categoria funzionale. Attori determinanti della dialettica sociale, tra individualizzazione, estraneità ed aggregazione, sono le persone, entità viventi e relazionali funzionalmente strutturate secondo un ordine quadruplice determinato dalle categorie di autocoscienza, libertà, razionalità e moralità. In questo modello antropologico minimo, la capacità di scegliere presupposti e condizioni determinanti per l'interazione sociale, sia essa tra stranieri o tra amici morali, costituisce un requisito moralmente essenziale. In tal senso, l'autocoscienza rappresenta la funzione centrale per la definizione categoriale della persona, in quanto nucleo decisionale minimo. Attraverso la consapevolezza del sé, la sua caratterizzazione e la sua ridefinizione progressiva, nella forma dell'individualizzazione, la condizione di autocoscienza definisce i margini della presenza situazionale. L'autocoscienza costituisce, quindi, la soglia primaria della capacità di scelta e dello status di persona. Funzionalmente complementare all'autocoscienza, la razionalità si riferisce alla capacità di connessione tra la concretezza della prassi decisionale e le conseguenze, altrettanto concrete, di tale prassi: è una ratio procedurale interna al sistema della scelta personale che comporta la facoltà di valutare le conseguenze. La capacità decisionale delle persone deve comportare anche l'imputabilità della scelta, presupponendo, in tal modo, la libertà: soltanto una decisione autonomamente presa può caricarsi delle proprie conseguenze, del proprio significato e può configurarsi coerentemente come atto autocosciente. La moralità, infine, sintetizza la funzionalità complessiva del modello antropologico nell'orizzonte valutativo della lode e del biasimo, veicolando prospetticamente il riferimento ad una comunità morale laica pacifica regolata dall'autorità morale laica delle persone in quanto entità funzionali (par 1.3). Una tale impostazione, determinando la centralità operativa e strutturale delle persone, implica un modello stratigrafico degli assetti sociali che si costruisce trasversalmente partendo, appunto, dalla composizione funzionale minima delle persone in quanto tali. In tal senso, Engelhardt propone una prima distinzione funzionale tra persone in senso stretto (dotate del pacchetto funzionale minimo) e persone per considerazione sociale (prive o dotate soltanto in forma parziale delle funzioni minime) e una seconda distinzione, tendenzialmente tipologica, tra persone "1" (le persone in senso stretto) e persone "2, 3, 4, 5" (persone per considerazione sociale) distinte in base a connessioni temporali con lo status funzionale delle persone 1 (entità che furono, entità che saranno ed entità che non saranno mai persone in senso stretto). La dialettico rispetto a cui si definisce la tensione dinamica di inclusione/esclusione per lo status di persone è determinata dal binomio funzione/considerazione: il possesso delle funzioni minime consente una presenza operativa nello spazio sociale, mentre la considerazione, priva delle funzioni, definisce uno status sociale derivato (operativamente compromesso) (par 1.4). Il ruolo sociale delle persone in senso stretto assume valenze differenti e problematiche non soltanto nella misura del confronto e dell'interazione generalizzata tra stranieri morali, né limitatamente alle dinamiche relazionali relative alla considerazione sociale di entità non funzionalmente personali; uno spazio cruciale per l'indagine bioetica - ma non solo - è rappresentato dall'universo sanitario-assistenziale e della ricerca biomedica. In questi contesti, irriducibili all'unità astratta di un modello esplicativo, all'estraneità morale si aggiunge, e spesso si sovrappone, l'estraneità professionale (i linguaggi teorici ed applicativi della medicalizzazione e della ricerca), generando una variabilità situazionale all'interno della quale la legittimità funzionale delle persone in senso stretto e i margini della considerazione sociale impongono interrogativi essenziali rispetto alla definizione di procedure giustificabili sul piano morale (dalle varie forme di paternalismo all'autonomia del consenso libero ed informato, dalla sperimentazione alla terapia) (par 1.5 e 1.6). Nella seconda parte della ricerca, i presupposti categoriali socio-antropologici introducono la struttura complessiva della general secular bioethics e contribuiscono alla determinazione e all'interpretazione critica dei suoi principi costitutivi. Partendo dalla constatazione della crisi delle pretese onnicomprensive dell'orizzonte morale cristiano e dalle difficoltà interne del progetto di unificazione morale di stampo illuministico, Engelhardt evidenzia le tendenze centrifughe e centripete che separano il piano sociale, pluralistico e mutevole, dagli spazi comunitari, caratterizzati dalla costruzione di identità collettive spesso significativamente stabilizzate, e individua la necessità di un'etica (e bioetica) laica generale come risposta ad una tale frattura strutturale. Analizzare la portata della proposta etica engelhardtiana significa, prima di tutto, comprendere la duplice accezione laica e generale che rappresenta la cifra costitutiva di uno schema procedurale aperto ai meccanismi funzionali delle persone. La laicità è una dimensione aperta, attraversata da una variabilità profonda e compatibile con la pluralità di proposte sostanziali: nello spazio della laicità ogni proposta etica ha il suo posto e la sua giustificazione nella comunità di persone che ne condividono i principi. La laicità, nella sua accezione funzionale più ampia, descrive un territorio denucleato, all'interno del quale realizzare processi di interazione e negoziazione tra persone spesso accomunate soltanto dalla reciproca estraneità. Allo stesso tempo, l'accezione generale definisce la legittimità sul piano applicativo della proposta etica: nella definizione dello spazio operativo di un'etica laica generale si configura la possibilità di fondare un'autorità etica valida per stranieri morali che descriva la grammatica minima capace di fondare giustificatamente un orizzonte coesistenziale. In tal senso, l'impianto morale complessivo sarà essenzialmente procedurale e formale, ossia privo di riferimenti sostanziali e orientato secondo un modello generale di comunità morale laica pacifica incentrata sulla prassi del rispetto reciproco (par 2.1). Attraverso l'analisi critica di alcuni dei principali modelli fondativi di un'oggettività etica sostanziale (par 2.2), la ricerca giunge all'individuazione dei principi costitutivi dell'etica laica procedurale: il permesso, la beneficenza, la proprietà, l'autorità politica e l'allocazione in campo sanitario. Il principio del permesso incarna e sintetizza il senso procedurale complessivo di un'etica formale del rispetto reciproco; in quanto rielaborazione (più terminologica che strutturale) del precedente principio di autonomia (1986), il principio del permesso racchiude tre livelli funzionali essenzialmente affini (permesso, consenso, accordo) che descrivono i meccanismi minimi di interazione legittima - in quanto fondata sull'autorità morale delle persone concretizzata nel permesso - tra stranieri morali (par 2.3). Il principio di beneficenza, subordinato - come tutti gli altri principi - al permesso, definisce l'ineliminabile e fondamentale tensione morale verso il bene, ma ne evidenzia anche la strutturale problematicità in un orizzonte laico pluralistico. Permesso e beneficenza coesistono all'interno di una tensione dialettica radicale, mitigata da una costitutiva complementarietà (par 2.4). Tra permesso e beneficenza si colloca la libertà, che Engelhardt considera vincolo collaterale essenziale alla legittimità procedurale del permesso e declinabile nella classica distinzione libertà da/libertà per, ma fondamentalmente rappresentabile nell'assenza di vincoli (par 2.5). Il principio di proprietà e quello di autorità politica esprimono, in contesti specifici, modalità applicative del permesso connesse alla legittimità procedurale della sua prassi fondata sull'autorità morale delle persone (legittimità della proprietà privata e limiti dell'autorità statale sulle persone) (par 2.6). Discorso a parte merita, in conclusione, il principio concernente le allocazioni in campo sanitario: la proposta engelhardtiana di un sistema sanitario a più livelli (legittimato da un'applicazione diretta del principio del permesso, della proprietà e dell'autorità politica) e le aporie allocative riguardanti il sistema sanitario pubblico si incrociano con il tema della diseguaglianza naturale e sociale e con gli interrogativi sulla giustizia sociale. La priorità funzionale del permesso sulla beneficenza (in considerazione della problematicità laica generale dell'applicazione e valutazione del bene in contesti pluralistici) comporta l'accettazione tendenziale delle diseguaglianze e un conseguente rischio di collasso della giustizia sociale. Nella prospettiva laica generale, l'impossibilità di rintracciare un criterio oggettivo di valutazione della giustizia (se non nella forma procedurale del rispetto della libertà come vincolo) e le critiche al modello della giustizia come equità proposto da John Rawls conducono Engelhardt all'elaborazione di un modello debole di giustizia ridotta sostanzialmente alla beneficenza e attraversata dalla stessa fragilità strutturale. L'uscita da questo riduzionismo sarebbe possibile a condizione di adottare l'approccio delle capacità proposto da Amartya Sen che permetterebbe di misurare sulla base della libertà effettiva (capacità) di acquisire funzionamenti (stati d'essere e stati d'azione) il livello di diseguaglianza e, dunque, di giustizia sociale. In tal modo, gli interventi pubblici sarebbero individuati, orientati e legittimati secondo un criterio formale (che evita la riduzione sia ad uno spazio limitato del rispetto procedurale che a una giustizia distributiva fondata esclusivamente su beni o risorse) compatibile con la libertà come vincolo quale fondamento del principio del permesso e dell'autorità morale delle persone.
2010/2011 ; Il presente lavoro intende sviluppare una riflessione a partire dall'individuazione di due aree tematiche: - la definizione del concetto di impoverimento; - una riflessione attorno ai concetti di soggettività a valori da cui far scaturire la ricerca empirica. A partire dalla scelta del titolo si è voluta mettere in evidenza la progressiva fragilizzazione degli attori sociali nel passaggio dalla modernità societaria (Magatti, 2006) alla seconda modernità (Giddens, 1994), passaggio caratterizzato da un'indefinitezza del sistema sociale nel quale sono inseriti gli stessi attori sociali, indefiniti anch'essi dal punto di vista identitario. Da questo sfondo scaturisce la struttura del presente lavoro, che si compone di due parti: nella prima ci si pone l'obiettivo di andare a definire i concetti di povertà ed impoverimento, operando una contestualizzazione degli stessi ai livelli europeo, italiano e del Friuli Venezia Giulia, regione questa in cui si è svolta l'analisi empirica del presente lavoro; nella seconda parte invece si è sviluppata una riflessione a partire da possibili definizioni teoriche dei concetti di soggettività e valori per poi passare alla costruzione metodologica dell'indagine e all'analisi empirica. Si è partiti dalla domanda di fondo: "quante povertà?". Da un approccio dicotomico su relativo/assoluto, oggettivo/soggettivo, essere/sentirsi poveri, si è passati attraverso i concetti di vulnerabilità (Levi Strauss 1969, Simmel 1989, Castel 1996), rischio povertà (Giudicini e Pieretti 1988, 1995, Francesconi 2003) per arrivare al concetto di povertà provvisorie o oscillanti (Siza 2009) che è diventato l'assunto di base per la riflessione attorno alle soglie di povertà relativa. Si sono poi presi in considerazione gli studi su quella che si è definita la "povertà del benessere"; Dal consumo vistoso (Veblen 1899) alla teoria della deprivazione relativa (Stouffer 1949), dai concetti di gruppi di appartenenza/riferimento e di funzioni manifeste/latenti (Merton, 1971) ai poveri "consumatori" (Nanni, 2006). Si è poi arrivati a considerare gli studi relativi al concetto di impoverimento, la sua polisemicità, multidimensionalità, processualità, relativizzazione e soggettivizzazione. Il lavoro è proseguito con un confronto tra concetti e misure, cioè con esperienze di applicazione di modelli teorici a sistemi di welfare. Dall'uguaglianza di capacità (Sen 1980) con il lavoro della commissione britannica EHRC all'uguaglianza di opportunità (Arneson 1989, Cohen 1989, Fleurbaey 2005, Roemer 2009) con il Libro Bianco britannico sino alle riflessioni su esclusione/inclusione/coesione sociale (Lenoir 1974, De Hann 1997, Barry 1998, Burchardt 2000, Rovati, 2003, Barca 2009) con le esperienze della Comunità europea in tema di politiche sociali. Si è partiti da questo lavoro sulla letteratura per poter andare a costruire una definizione del concetto di impoverimento. La prima definizione "oggettiva" presa in considerazione è quella di "rischio povertà" e da questa si è costruita la definizione assunta per la tesi e cioè l'impoverimento . Si passa quindi dalla spesa per consumi ai redditi e si assumono le oscillazione, analizzate dalla letteratura, della condizione di impoverimento che colpiscono quelle famiglie che si trovano nella vita a fluttuare attorno alla linea di povertà relativa con un movimento che, più che di scivolamento verso il basso, è appunto ondulatorio tra la condizione di quasi poveri e appena poveri. Definito il concetto di impoverimento, ci si è soffermati sulla contestualizzazione del tema povertà ed impoverimento attraverso il problema degli indicatori e delle fonti per l'analisi. Si è provveduto ad operare un'analisi secondaria relativa alla dimensione europea (Eu-Silc), italiana (Istat, Banca d'Italia, Isae) ed infine del Friuli Venezia Giulia. Per questa ultima analisi si sono considerate le stime nazionali (Istat), il tema dei redditi, dell'esclusione sociale, del rischio povertà, del disagio economico e dell'intensità del lavoro (Eu-Silc), gli utenti e gli interventi dei Servizi Sociale dei Comuni (Regione Friuli Venezia Giulia) e gli utenti e gli interventi dei Centri d'Ascolto Caritas (Osservatorio Caritas FVG). Infine si è provveduto ad analizza gli strumenti messi in campo dalle stesse Caritas del Friuli Venezia Giulia per sostenere le situazioni di impoverimento collegati alla crisi economico-finanziario con una valutazione specifica del progetto di Accompagnamento Economico della Caritas di Trieste. Nella seconda parte del lavoro si è voluto costruire una cornice di riferimento teorico a partire dai concetti di soggettività e valori per poi andare a definire l'oggetto di interessa conoscitivo, la costruzione metodologica dell'indagine ed infine l'analisi empirica. ; Obiettivo conoscitivo della ricerca intende essere quello di evidenziare similitudini e differenze nel vissuto quotidiano delle famiglie socialmente inserite, di quelle che sono state definite in una condizione di impoverimento ed infine di quelle che si trovano in situazione di povertà conclamata. In particolare si è cercato di rispondere alla seguente domanda: a parità di condizioni economiche, vi sono differenti percezioni dell'impoverimento, collegate alla sfera della soggettività e, quindi, a reti di relazioni, ad aspetti valoriali, alla partecipazione sociale e più in generale al well being? Lo scopo è stato quindi quello di realizzare uno studio empirico che non si concentrasse solamente sul disagio sociale ma anche sugli aspetti del vissuto quotidiano delle famiglie, allo scopo di poter effettuare utili confronti tra "famiglie della normalità", famiglie in situazione di difficoltà conclamata e, infine, famiglie che si trovano in situazioni a rischio povertà. Il confronto tra le varie tipologie di famiglie ha avuto lo scopo di cogliere in modo anticipato i segnali del disagio, del rischio sociale soggettivamente percepito anche tra le famiglie della "normalità". Per questi motivi, si è privilegiata l'analisi dei "processi dinamici", cioè l'individuazione di fattori di entrata/uscita nelle situazioni di disagio attraverso analisi che non si limitassero ad una semplice "fotografia" delle varie situazioni patologiche in atto, per poter cogliere alcuni segni di impoverimento, la cui percezione è generalmente diffusa ma che, la ricerca sociologica fatica tuttora a delineare. In quest'ottica si è avuta una particolare attenzione per quei gruppi sociali più vulnerabili. Con l'approccio utilizzato però si è voluto spingersi a sondare non solo gli aspetti economici del problema ma, come detto, soprattutto le dimensioni legate alle reti di relazioni e agli aspetti valoriali e culturali che si è ipotizzato possano incidere nell'attribuzione di significati dell'impoverimento vissuto. Si è voluta quindi predisporre un'analisi delle possibili variabili che incidono significativamente nelle traiettorie biografiche degli individui e che influenzano la capacità/incapacità di fronteggiamento degli stessi nel caso sopravvengono situazioni di vulnerabilità che coinvolgono persone e famiglie le quali, nel volgere di breve tempo, si vedono costrette a ridimensionare il loro tenore di vita, ad affrontare rischi che non pensavano di dover correre, a cercare soluzioni che non erano nemmeno psicologicamente preparate ad affrontare e a rivedere al ribasso i loro progetti futuri. Tutto ciò nel contesto storico legato alla profonda crisi economico-finanziaria che ha colpito diffusamente la società a partire dalla fine del 2008. È risultato interessante indagare questi aspetti delle biografie personali per far emergere, in una dimensione processuale, quella fluidità sociale che, seppur limitata agli strati sociali inferiori, possa individuare processi coesivi in un'ottica di prevenzione e/o accompagnamento sociale rispetto a situazioni conclamate di povertà. Il riferimento territoriale è quello del Friuli Venezia Giulia. Il confronto è stato realizzato tra famiglie prese in carico dai progetti di contrasto della crisi, messi in campo dalle quattro Caritas di Friuli Venezia Giulia e famiglie nella "normalità". Per operare questa distinzione si è fatto riferimento alle sogli di povertà definite dall'Istat nell'annuale studio sulla povertà in Italia con degli aggiustamenti legati all'inflazione del 2010. ; Per la costruzione di una prospettiva teorica si è partiti dal rapporto tra soggettività e ricerca sociale tracciando l'evoluzione che, con riferimento all'individuo come unità di analisi, ha portato a spostare l'asse dalla dimensione strutturale all'approfondimento sulla qualità della vita e quindi agli studi degli anni settanta con la costruzione di indicatori soggettivi sul benessere (self-reported satisfation). Si è dedicato uno spazio alla riflessione su contemporaneità e soggettività partendo dal minimalismo sociologico per poi soffermarsi sul quadro di riferimento adottato nella tesi e che fa riferimento alla nuova prospettiva del costruzionismo umanista (Cesareo e Vaccarini, 2006). Il prospettiva "costruzionista" prende spunto dal costruzionismo sociale (Corcuff 1995) e dal solco tracciato da Simmel, Schutz e dall'interazionismo simbolico con la necessità di non prescindere dall'azione degli individui e dai loro scambi simbolici ma anche da modelli teorici di studiosi che hanno cercato di raccordate approcci sistemici con sociologie dell'azione e dell'interazione sociale (Elias 1988, Giddens 1991, Bordieu 1995). Il logica "umanista" nasce dall'idea che l'essere umano partecipa alla costruzione della realtà sociale non come individuo ma come persona. Si passa quindi dall'astrattezza intesa come astrazione dal contesto relazionale di riferimento, considerato nella sua generalità, all'unicità data dalla storia e dai legami sociali che connettono le storie degli uomini. Infatti, per quanto si riconoscono contesti socio-culturali che trascendono l'essere umano, le sue condotte non sono mai prevedibili. Il costruzionismo umanista riconosce quindi alla persona una potenziale capacità di liberarsi dai condizionamenti dei contesti stessi. Dal un punto di vista di storicizzazione di tale pensiero, ci si riferisce al 1971, anno in cui esce Una teoria della giustizia di Rawls con la sua forte impronta liberista a cui si contrappose il pensiero dei cosiddetti communitarians (Mac Intyre 1988, Sandel 1994, Etzioni1998). Due concezioni differenti di uomo sono alla base di questi due approcci: da un lato un'idea atomista e astratta e dall'altro di un sé fortemente contestualizzato. Anche se negli anni le posizioni si "ammorbidirono", una sintesi equilibrata di questi due approcci fu portata avanti da Charles Taylor a partire dal suo Le radici dell'Io (1993), in cui traccia una prospettiva etico-politica, centrata sul tema dell'identità. Due sono i cardini di tale riflessione: l'autonomia di scelta e la responsabilità che si traducono sul piano dell'operativizzazione in soggettività e significatività esistenziale. La prima si compone di tre elementi: riflessività, autonomia di scelta e originalità; la seconda fa riferimento ad un'identità realizzata che trascende dalla routine quotidiana attraverso un quadro di riferimento valoriale con cui l'essere umano giudica se stesso e gli altri. Collegato a questo, si sono presi a riferimento i "classici" della sociologia e le riflessioni attorno al concetto di valore. Ed è proprio questo complesso quadro di riferimento valoriale a costituire il frame nella costruzione dell'indagine oggetto di questo lavoro. ; Rispetto alla ricerca empirico, le cui linee generali di indirizzo si sono già delineate sopra, ci si è posti i seguenti obiettivi conoscitivi: - analizzare le caratteristiche strutturali degli intervistati partendo da una ridefinizione delle soglie di povertà dell'Istat, tenendo conto delle variazioni collegate ad aspetti inflattivi ed individuando nella fascia gravitante attorno alla soglia di povertà relativa la "soglia di impoverimento"; - sondare alcuni aspetti collegati all'utilizzo del credito al consumo e i rischi connessi ad un suo utilizzo non aderente alla reale capacità economica di quanti ne fanno uso. Si è analizzata anche la percezione di rischio causato da eventi imprevisti e le possibili reti di contrasto attivabili. Inoltre si è costruito un indice, denominato di rischio insolvenza, che, mettendo in relazione i dati economici relativi a redditi e finanziamenti con una serie di indicatori di rischio, ha cercato di individuare delle soglie di pericolosità nella capacità delle famiglie di far fronte agli impegni economici collegati al mondo dei finanziamenti; - rispetto ai percorsi biografici non collegati ai bisogni collegati al disagio ma al normale svolgimento della vita quotidiana, si è analizzato il capitale relazionale delle persone intervistate, rispetto alla rete primaria, a quella secondaria e ai tempi di vita. L'obiettivo è stato quello di individuare, incrociando queste informazioni con le soglie di povertà, possibili affioramenti di dinamiche di disagio che possano lasciare prefigurare possibili sviluppi in direzione dell'impoverimento se non proprio della povertà e dell'esclusione sociale; - si è voluto analizzare il vissuto delle persone intervistate rispetto alla dimensione spirituale, legata ad una propria fede. L'obiettivo è stato quello di misurare l'influenza che un credo religioso possa avere negli stili di vita e di consumo. Per fare ciò si sono incrociati i dati relativi all'uso delle finanziarie e le motivazioni di tale utilizzo; - l'ultima parte del lavoro empirico si è invece soffermato sulla dimensione valoriale. Attraverso l'utilizzo di domande aperte, si sono volute sondare le opinione sul concetto di povertà e ricchezza e si sono ricondotte le risposte a dimensioni afferenti alle categorie dei valori materialistici e post materialistici (Maslow 1973, Inglehart 1983). Anche in questo caso si sono incrociati i dati con le fasce di povertà per comprendere similitudini e differenze all'interno delle differenti soglie. ; XXIV Ciclo
La tesi si interessa alla dimensione spaziale della prostituzione di strada, prendendo le mosse da tre motivazioni principali: il fatto che la presenza del sex work ci interroga sulla dimensione di genere dello spazio urbano; il fatto che la rimozione dei corpi delle sex workers dalle strade delle città italiane ci interpella sulla concezione e sul governo dello spazio pubblico nella sua interezza e sulla cultura civica urbana attuale che esso esprime; il fatto che le sex workers che esercitano in strada sono spesso testimonianza di una marginalità che nasce nella dimensione economica e sociale, ma può essere contrastata o amplificata nella dimensione spaziale. Chi si occupa di pensare lo spazio, dunque, ha il dovere di interrogarsi sul ruolo fondamentale che esso può avere nelle traiettorie di emancipazione, affermazione o marginalizzazione di chi lo vive. Il primo capitolo problematizza le pratiche di gestione e rimozione della prostituzione di strada come forme di governo spaziale. La ricognizione di studi portati avanti sul tema, in particolar modo nell'ambito anglosassone della geografia critica, e l'analisi delle politiche europee e italiane in materia hanno evidenziato come tale politiche sembrino essere riconducibili a due paradigmi di governo principali, quello del contenimento e quello dell'esclusione. Entrambi i paradigmi ottengono la rimozione dei corpi indesiderati e inopportuni dalla vista di un certo tipo di cittadinanza, ma attraverso due azioni nettamente diverse: la prima legittima, la seconda vieta. Il caso italiano, inoltre, ha poi evidenziato come l'esclusione spaziale si espliciti in particolar modo nelle politiche legate alla retorica del decoro e nell'uso delle ordinanze sindacali come strumento di governo del territorio. Sempre rispetto al caso italiano, la tesi problematizza la costruzione del discorso predominante sulla prostituzione (alimentato da una parte della letteratura prodotta sull'argomento) per il suo effetto di negazione delle sex workers in quanto soggetti di diritto. In estrema sintesi, il mancato riconoscimento di una loro agency sembra essere strumentale alla legittimazione di due diversi livelli di politiche: le strategie messe in atto per la difesa dei confini nazionali dalle migrazioni indesiderate e quelle per un'epurazione dello spazio pubblico in nome del decoro di cui sopra. Attraverso una riflessione sulle resistenze, sui concetti di strategie e tattiche e sulle tecniche di produzione spaziale messe in atto dalle sex workers, emerge la necessità di una nuova lettura, interpretazione e rappresentazione delle loro geografie. Il secondo capitolo esplora l'intersezione tra diversità, sicurezza e femminismi, ma partendo dalla convinzione che alla "diversità" siano ascrivibili anche quelle soggettività o quelle pratiche che consideriamo inquietanti, disturbanti, perturbanti (nonostante siano legali, come il sex work). La questione del rapporto tra progettazione e diversità è significativamente sviluppata dai contributi degli studi di genere e queer alla critica a una pianificazione "classica", focalizzata su un utente della città teoricamente neutro, ma evidentemente connotato dal punto di vista di genere, razza e reddito: contributi sia in termini di individuazione dei caratteri normativi ed escludenti della disciplina della pianificazione, ma anche di suggerimenti di possibili passi nella direzione di una città che accolga la diversità di corpi e usi dello spazio come base della convivenza urbana. La tesi segnala come i tentativi più istituzionali di governo dello spazio pubblico con un'attenzione al genere si muovano su un terreno insidioso, concentrandosi sempre più spesso sul legame tra femminile e sicurezza, e correndo il rischio di formulare politiche ulteriormente escludenti nei confronti di comportamenti considerati extra-normativi (e dunque non considerati meritevoli di sicurezza). La conseguenza indiretta di tali politiche sembra essere l'autodisciplinamento di alcune soggettività: invece di elaborare una città a misura di donne, si suggerisce alle donne come diventare a misura di città. Una via per esorcizzare tali pericoli sembra essere quella di confrontarsi con i contributi elaborati dai movimenti transfemministi queer italiani. La riflessione formulata da molti segmenti di tali movimenti, che evidenzia il carattere dello spazio pubblico come palcoscenico di conflitti aventi come posta in gioco l'appropriazione simbolica e l'uso dello spazio stesso, ha lucidamente intuito la pericolosa deriva delle strategie di governo urbano che si stanno tacitamente imponendo in Italia. Il terzo capitolo si concentra su un'analisi del cosiddetto Daspo urbano, il nuovo strumento di gestione della sicurezza urbana proposto dal noto Decreto Minniti, e della concezione di spazio pubblico che esso sottende. Il tipo di misure e sanzioni e di luoghi in cui possono essere applicate sembra essere volto all'epurazione dagli spazi dei flussi urbani dei soggetti che, pur non avendo commesso reati, sono da considerarsi scomodi per la loro stessa presenza. Un'analisi a mezzo stampa ha permesso di evidenziare come il Decreto stia venendo recepito dalle amministrazioni dei comuni italiani e ha confermato come esso si stia rivelando uno strumento estremamente efficace: per un lato, il suo meccanismo di funzionamento non lascia segni evidenti, se non l'assenza del corpo che ha permesso di rimuovere; per l'altro, la sua estrema versatilità permette di ridefinire continuamente i confini delle aree in cui è applicabile, o i segmenti di popolazione che può colpire. Questa parte del lavoro si chiude con una riflessione sullo spazio pubblico, descrivendo la declinazione che esso sta assumendo nella contemporaneità: nettato e iperfunzionalizzato per una valorizzazione ottimale, in una città epurata progressivamente dei suoi luoghi per qualsiasi uso non basato sul consumo. Come è stato poi confermato dal lavoro di campo, sono spesso invece gli spazi non "imbrigliati", non normati, a rivelarsi luoghi di libertà per le pratiche che sfidano alcune relazioni di potere istituzionalizzate nella società, la cui rimozione ci impedisce di coglierne contraddizioni e ingiustizie. La ricerca si è proposta di strutturare una riflessione sul ruolo dello spazio e della sua gestione in un fenomeno complesso come quello del sex work di strada. Per far ciò ha interpellato, direttamente o indirettamente, alcune delle diverse soggettività coinvolte dal fenomeno, (clienti, sex workers, residenti) provando a far emergere la dimensione spaziale delle loro testimonianze. Il lavoro di campo vede un'analisi dell'articolazione degli spazi (pubblici) del sex work nella città di Roma, cercando di delineare le caratteristiche di tali spazi, e come questi si generino nei luoghi all'intersezione fra discrezione e visibilità, fra isolamento e flussi di passaggio costante, ma anche come le geografie del sex work si distribuiscano per nazionalità e connotati socio-economici del quartiere. Tale analisi è integrata dal sistematico monitoraggio dei materiali di un forum, lo spazio in cui i clienti si scambiano le informazioni relative alla localizzazione delle sex workers. Lo spazio virtuale ha permesso un'osservazione di come la categoria dei clienti, alla quale mi era altrimenti impossibile un accesso diretto, vivesse la dimensione spaziale del fenomeno prostitutivo, e mi ha permesso di aprire un'inaspettata finestra sull'autorappresentazione degli utenti e sulla loro elaborazione collettiva di alcune tematiche. La ricerca ha poi tentato di restituire parzialmente, la storia di vita di una sex worker trans, Paulette, realizzata con un confronto dialogico approfondito. Paulette si rivela a-topos, fuori luogo, una spostata, e vive questa condizione di incongruenza per ben tre motivi contemporaneamente: per la sua condizione di migrante, per la sua occupazione come sex worker, e per il suo essere transgender. Il racconto della sua vita si è strutturato rispetto ai luoghi abitati nel tempo, e comincia ad affrontare il tema della convivenza, approfondendo quali relazioni è riuscita a tessere con chi le stava intorno e come "la città" si è relazionata con la sua presenza. L'individuazione delle difficoltà del suo "percorso urbano" evidenzia inoltre chi e come ha contribuito a rendere la sua vita più difficile, esposta e precaria e il ruolo rivestito dal governo dello spazio in questo senso. La storia di Paulette ha messo in luce le sue geografie negli spazi pubblici romani, tra gli abusi delle forze dell'ordine e la tessitura di relazioni con i vicini del quartiere. Il suo racconto ha permesso di confermare come le politiche di gestione del sex work nello spazio pubblico non abbiano alcun effetto permanente sulla sua rimozione, ma solo sulla sua dislocazione temporanea, e come invece contribuiscano a rompere le eventuali relazioni stabilite con il quartiere: a impedire, insomma, di abitare liberamente nella città d'elezione. Il capitolo seguente affronta un focus particolare sull'area di piazzale Pino Pascali e Casale Rosso, nella zona di Tor Sapienza, dove il disagio provocato dalla presenza di un'importante quantità di sex workers ha spinto il comitato di quartiere locale a promuovere un tavolo per affrontare la questione e formulare una proposta di zoning. La vicenda permette di toccare il tema ben più ampio della contesa dello spazio pubblico e della legittimità dei diversi attori urbani nell'esigerne il controllo. Evidenzia il ruolo dei comitati di quartiere e le nuove forme di corpi intermedi, che possono rivelarsi un potente veicolo e amplificatore di paure collettive e comportamenti discriminatori. Il processo che ha portato alla proposta di zoning, basato su metodi di mediazione del conflitto, suggerisce invece il ruolo di cui l'amministrazione pubblica si dovrebbe far carico: il riconoscimento delle risorse territoriali rappresentate dai comitati di quartiere per un verso, ma anche l'innesco di percorsi collettivi di elaborazione di senso dei processi di trasformazione in atto sul territorio, promuovendo forme di dialogo e mediazione tra i diversi attori in campo. La proposta di zoning, tuttavia, presenta ancora dei forti limiti: il luogo individuato è decisamente isolato, aspetto che confinerebbe le sex workers nell'invisibilità. Inoltre, il processo decisionale messo in atto per formulare la proposta non abbia coinvolto le dirette interessate, delegittimandole nuovamente nell'essere riconosciute come soggetti portatori di istanze e di diritti. L'ultimo caso, riguardante la cosiddetta favela del Quarticciolo, ha approfondito la situazione abitativa di un gruppo di sex workers trans che hanno trovato riparo in una soluzione decisamente precaria, quella dei due edifici occupati nella storica borgata romana. La messa a fuoco della favela consente di descrivere i motivi per cui si arriva ad abitarla, perlopiù legati all'assenza di politiche abitative, ma permette allo stesso tempo di riconoscere le pratiche di sopravvivenza e le tattiche di resistenza messe in campo dalle e dagli abitanti: l'ecosistema della favela riesce a elaborare strumenti non solo per la sussistenza di base, ma anche per la mediazione dei conflitti, producendo relazioni inedite e in continua trasformazione. In questo senso, se osservata come laboratorio di convivenza urbana, consente di osservare i conflitti e le mediazioni attuate spontaneamente tra chi esercita il sex work e gli altri residenti. Pur ammettendo che tale conciliazione è resa possibile dalla condizione di illegalità che accomuna tutti gli occupanti, tale contesto sollecita una riflessione sul privilegio di essere legittimati nell'uso dello spazio urbano: nel momento in cui è impossibile stabilire chi ha diritto o meno di usare gli spazi della città, coloro che la abitano innescano dinamiche di negoziazione diretta che hanno come obiettivo il raggiungimento della coesistenza. La comprensione di tali tattiche non deve però distogliere l'attenzione dall'individuazione di alcune precise responsabilità: parte del degrado del Quarticciolo è generato dalla precarietà in cui vengono situati molti dei suoi abitanti, a causa di un deliberato disinteresse da parte degli attori istituzionali. I casi tratteggiati rappresentano piccole finestre sulla totalità delle dimensioni spaziali che il fenomeno prostitutivo assume a Roma, l'apertura di queste spaccature vorrebbe complessificare l'approccio con cui si governa il sex work, anche perché l'ambiguità della città e del suo governo è particolarmente evidente in questo campo. Le politiche di gestione del sex work sono spesso strumentali all'attivazione, all'assecondamento, all'accelerazione o all'arresto di determinate trasformazioni urbane. Le lavoratrici del sesso, in questo senso, appaiono come utili pedine su un immaginario tabellone di gioco: utili, perché al contrario di homeless o mendicanti (e analogamente agli spacciatori) forniscono un servizio di cui i cittadini per bene fanno largo uso; pedine, perché considerate corpi muti da spostare secondo le circostanze del momento. I diversi casi studio cercano di dimostrare, invece, come intorno al fenomeno si generino e tessano relazioni che intrecciano soggetti e spazi, contribuendo così alla costruzione del territorio urbano: assumendo che al di fuori dello spettro della legge, sono le relazioni a costruire la città in cui viviamo, nonché a definire cosa è o meno accettabile o legittimo. Per quanto la città tenti di allontanare e confinare le presenze che percepisce come perturbanti, tale confinamento genera la tessitura di una notevole quantità di relazioni: riconoscerle può supportare la legittimazione delle sex workers come membri attivi della comunità urbana in cui risiedono, e che in quanto tali sono da considerarsi soggetti di diritto. Questo lavoro sceglie di affrontare l'inquadramento spaziale del problema, partendo dalla convinzione che il governo del sex work su strada apra questioni che riguardano il disagio che emerge nel rapporto con un'alterità e la sua pratica, e che dunque uno dei suoi possibili inquadramenti sia l'essere un problema di convivenza. Un problema che non va sottovalutato, perché rimette in discussione le categorie con le quali ordiniamo l'esistente, e nella sua complessità esplode in quelle che sono invece questioni di ripensamento dell'accezione universalistica di spazio pubblico, ma anche di definizione di diritti e di cittadinanza.
Ieri. I viaggi come strumento culturale cominciano già a partire dal XVIII secolo quando i giovani aristocratici europei si spingono sulle coste del Mare Nostrum per studiarne la cultura, la politica, l'arte e le antichità. Nei secoli successivi il Mediterraneo consolida il suo ruolo di meta privilegiata. Nell'ambito del Grand Tour, le città erano tappe significative di un viaggio più complesso. Raggiunte prevalentemente da mare, presentavano la loro immagine al viaggiatore che ne coglieva lo skyline da lontano e poi le raggiungeva per farne esperienza, preparato a recepirne l'anima e a volte anche a rappresentarne il corpo. Oggi. Le grandi compagnie marittime a proporre modelli di tour comparabili (come estensione e qualificazione delle mete) con il viaggio di formazione culturale degli intellettuali europei. Ma assolutamente incomparabili come esperienze di viaggio perché incomparabili con il passato sono le variabili tempo e spazio dentro le quali "la massa", contenuta in queste città galleggianti sceglie di muoversi; approfittando della varietà delle rotte offerte dalle maggiori compagnie di navigazione e attirata dall' idea di poter assaggiare, seppur in una logica "mordi e fuggi" l'essenza delle città mediterranee e del mare che le unisce. Ma il senso più proprio del viaggio nel Mediterraneo e nelle sue città, in apparenza elemento unificatore delle vacanze in crociera e sponsorizzato dalle compagnie, viene all'atto pratico negato dalle modalità e dai tempi ristretti di questo genere di esperienza. Talvolta la delocalizzazione delle banchine dedicate alle crociere, stravolge il primo approccio con la città che, raggiunta da mare, non sarà più quella vista e raccontata dai grandi viaggiatori del passato, da Goethe a Le Corbusier, ma un luogo spesso anonimo, senza tracce di identità locale e che sembra aver cancellato l'immagine legata all'immaginario collettivo: e questo vale anche per le città del Mediterraneo. Posto che la finalità della ricerca è quella di provare, attraverso un'architettura, a trasformare lo scalo veloce in un'occasione per aggiungere all'esperienza crocieristica un qualcosa in più che possa "aumentare" anche a distanza e in un tempo breve la conoscenza della città coinvolta, e posto che il luogo scelto per effettuare la sperimentazione è stato proprio lo spazio di soglia tra città e porto, è stato naturale aggiungere all'obiettivo principale anche la creazione di una relazione tra crocieristi e cittadini nella dimensione materiale e immateriale di un comune attrattore. Il termine edutainment , il neologismo coniato da Bob Heyman mentre produceva documentari per la società National Geographic, nasce dalla fusione di due termini educational (educativo) e entertainment (divertimento): si potrebbe tradurre come divertimento educativo. Considerata la premessa della ricerca che tende a ragionare sul "residuo" di mediterraneità che è possibile recuperare nel breve spazio/ tempo della sosta tecnica dei porti, questo concetto può incrociarsi con la nozione di portus, così come raccontata da Donatella Calabi: "un luogo chiuso, comunque protetto, utilizzato come deposito, o come tappa di un viaggio per il carico e scarico merci. È il senso originario di ingresso, imboccatura, passaggio, attraversamento, traghetto, assai più che quello figurato di meta ultima, rifugio, asilo che pare fornire qualche suggerimento in proposito. (…) Mercati e fiere sono periodici, il portus è una piazza permanente. È il centro di transito ininterrotto (vanno ad approvvigionarsi di continuo genti vicine e lontane); è un agglomerato di mercati che non solo lo hanno eletto come luogo della residenza, ma vi hanno collocato i propri fondaci. (…) si tratta (quindi) di considerare i vari centri finanziari e internazionali, nei quali lo scambio di merci, di persone, di informazioni, di modelli culturali e artistici è interrelato con funzioni amministrative, religiose, d'istruzione quanto mai complesse" (Calabi, 1993). Ecco che torna ancora la questione dell'edutainment (educare divertendo e divertire educando): considerato il passaggio da viaggio a vacanza, di cui si è parlato nel capitolo precedente, è possibile ritrovare nelle tipologie dei portus/mercati mediterranei, considerati nella loro nuova vocazione di spazi per l'edutainment, il riferimento che consente di interpretare in termini di architettura le complesse questioni poste. L'obiettivo di questa ricerca si inserisce in un processo di contaminazione produttiva tra porto e città proponendo un punto di vista più mirato: come si è detto prima punta a intercettare un target specifico, proprio quello dei crocieristi tradizionalmente convertiti in "truppe" che si muovono compatte verso un obiettivo. L'annullamento del tempo e dello spazio, nell'ottica sperimentale che questa tesi propone, può essere un modo per raccontare la città in una logica edutainment con le modalità cadenzate che le compagnie crocieristiche richiedono reinterpretando gli spazi, che Marc Augè identifica come non luoghi, come un'occasione positiva. Tre sono i punti di contatto con la più generale volontà di lavorare nella relazione città-porto sono evidenti: il primo è la necessità logistica di disporsi sul confine tra i due sistemi; il secondo è quello di ricorrere a un elemento architettonico-urbano che sia in grado di contenere in forma sintetica alcune delle funzioni tradizionalmente connesse all'edutainment; il terzo è la possibile contaminazione tra crocieristi e cittadini. A proposito del primo, la naturale posizione sul confine tra porto e città è legata all'elemento che tiene insieme tutte le escursioni: il percorso dei crocieristi a un certo punto passa attraverso il confine e spesso lo segue per un tratto, all'interno o all'esterno del territorio portuale. A proposito del secondo, l'elemento architettonico-urbano a cui si fa riferimento in questo caso può coincidere con l'intero percorso che il crocierista compie per uscire dal porto o anche solo con alcuni dei suoi tratti: quel che conta è che sia sufficientemente fluido da non rallentare troppo il percorso e sufficientemente articolato da suggerire delle pause. A proposito del terzo, qui la contaminazione tra cittadini e crocieristi potrebbe anche essere parziale, perché alcuni tratti del percorso per motivi di sicurezza o di fluidità dell'attraversamento potrebbero essere riservati. Ma nella logica della dilatazione "spazio-temporale" imposta o solo consentita ai crocieristi, la connessione con pezzi di vita urbana, anche in forma di eventi, potrebbe essere un elemento fondamentale dell'edutainment. Il lavoro di ricerca, muovendo dalla differenza tra soglia, bordo e limite, punta dunque all'individuazione degli spazi di connessione tra crociere e città: la loro posizione e la loro configurazione è fondamentale per identificare la dimensione conforme dell'area progetto e la sua ricaduta sul territorio. Possono essere sia edifici che spazi aperti; devono essere disposti nello spazio di confine tra il porto e la città; devono essere "disponibili" alla trasformazione, nelle logiche di riassetto delle aree portuali che hanno visto coinvolti negli ultimi anni la maggior parte dei porti nazionali e internazionali; devono trovarsi nel tragitto che i crocieristi fanno quando scendono dalla nave per recarsi in gita. Obiettivo della sperimentazione è dunque la costruzione/ricostruzione/riciclo di uno spazio ( di soglia, di bordo, di limite) capace di accogliere grandi masse che possa essere funzionalizzato per presentare la città a chi la intercetta, attraverso uno sguardo che sia culturale ma anche pop e nello stesso tempo attrarre i cittadini verso il porto. Uno spazio poroso e permeabile, di passaggio e di incrocio interno al porto che si insinui nella scaletta dell'escursione crocieristica. Il tentativo di portare la città (e la sua immagine complessiva) nel porto dovrebbe giocarsi quindi nello spazio di contiguità che viene attraversato dai crocieristi, il "portus", "l'agglomerato di mercati", che alcune volte è sulla soglia, altre volte è nel bordo e altre volte è sul limes/limen. La logica che dovrebbe ispirare l'azione utilizza l'idea di "pubblicità" e si fonda sulle funzioni latamente commerciali (vocazione di ogni porto sin dall'antichità), espositive, informative e formative, che sono chiamate da un lato ad aumentare la possibilità di conoscenza della città dal punto di vista culturale, dall'altro a costruire relazioni fisiche più porose tra porto e città. In questa operazione, la configurazione fisica del "portus" assume un rilievo significativo in sé: non solo per la "precisione" della sua posizione ma anche per la conformazione dei suoi spazi, per i punti di vista che privilegia, per le relazioni – anche a distanza – che costruisce. La ricerca, come si è detto, tenta di rispondere a questa domanda attraverso la costruzione di un percorso che possa in qualche modo rallentare il passaggio tra la nave da crociera e il punto d'inizio dell'escursione programmata e che definisca al suo interno delle pause un po' più significative che si traducano in un "aumento di conoscenza" delle città in senso sia spaziale che culturale. A partire da questi elementi si è provato a capire quale potesse essere lo spazio più adatto a questo genere di operazione: uno spazio che non fosse meccanicamente una connessione fisica sul bordo ma che dovesse, attraverso un esperienza spaziale affidare al tempo – limitato - e allo spazio -fluido - un messaggio che vada al di là del semplice collegamento. Il "portus" potrebbe incarnarsi in una nuova architettura, attraverso il riuso di un edificio esistente, attraverso la costruzione di un percorso che tiene insieme cose diverse, attraverso il montaggio di spazi diversi, che potrebbero contenere al loro interno una serie di funzioni miste che trasformino l'immagine della città in un "immaginario" più ricco, più profondo. La ricerca nata attraverso la formulazione di una forma di "domanda" proveniente dalla realtà esterna (il difficile rapporto tra crocieristi e città), orientata da un punto di vista culturale che collega, seppur a grande distanza, la crociera nel Mediterraneo al Grand Tour, finalizzata ad "aumentare" l'esperienza della città che i crocieristi fanno in uno spazio-tempo limitato e tradotta in termini di architettura attraverso l'identificazione di un concept spaziale del "portus" che si esprime in termini di posizione e relazione, ha bisogno di uscire dalla genericità per confrontarsi con dei casi esemplificativi. Queste applicazioni hanno tra l'altro il compito di verificare la tenuta generale del concept e le caratteristiche della sua possibile articolazione in termini di struttura, di misura, e di spazi, in relazione ad alcune condizioni contestuali definite in termini più articolati. Lo studio più approfondito delle tre città, scelte dunque in base alla struttura, alle misure, al carattere degli spazi di intersezione tra le aree passeggeri e il "confine" del porto, in alcuni casi ha consentito di lavorare sulla soglia (Napoli), in altri casi sul bordo (Venezia) e in altri sul limite (Marsiglia). Le modalità con cui oggi i crocieristi si muovono all'interno dell'area passeggeri hanno consentito di identificare per ognuna di esse l'azione propria relativa alle tre condizioni del confine. Lavorare in un punto specifico quando l'area d'intervento si trovava sulla soglia; su una linea quando bisognava attraversare un'area di bordo; attraverso la costruzione di una rete quando bisognava lavorare sul limite ha consentito di declinare in forme diverse sia il ragionamento sul percorso che quello sul "portus" identificando specifici interventi puntuali per ciascuna condizione. La connessione diventa dunque un percorso che declina la nozione di "portus" e le pause definiscono spazi polifunzionali per l'edutainment: le declinazioni di questi spazi variano a seconda della porzione di territorio che il progetto si tira dentro. I tre casi individuati in relazione alla posizione del terminal crocieristico rispetto alla città si differenziano, infatti, anche per la declinazione del "portus" rispetto alla porzione di territorio investito dalla trasformazione. Questa condizione comporta un'interessante conseguenza che investe la potenzialità del percorso di edutainment - che si concretizza nelle diverse declinazioni del "portus" - rispetto all'aumento di conoscenza dell'origine, della storicità, della contemporaneità della città toccata dal crocierista. È evidente che il senso dell'edutainment contenuto nel "portus" potrebbe andare ben oltre la questione dell'immagine e delle specificità urbane, investendo questioni culturali di diverso spessore; ma nella sua configurazione architettonica è in qualche modo contenuta automaticamente una forma di declinazione conoscitiva di quella che abbiamo definito "porzione di territorio" investita dalla trasformazione. Nel caso di Napoli il "portus" racconterà la città storica, l'antica immagine dell'approdo oggi riconfigurata e la sua trasformazione strutturale segnata dal distacco tra città e porto determinato dall'infrastruttura della Marittima. Nel caso di Venezia racconterà la città ottocentesca, le colmate che hanno dato vita alla Venezia produttiva che occupa il fronte ovest; ma racconterà anche la Venezia dei quartieri residenziali più recenti, del riuso di edifici industriali e dell'arrivo in città dal quartiere di Santa Marta e dal bordo urbano costituito dalla Fondamenta delle Zattere. Nel caso di Marsiglia racconterà la città contemporanea che ha ingombrato progressivamente la zona nord della costa, recentemente ripensata nella sua relazione con il porto che si è esteso nella stessa direzione, attraverso il grande progetto Euromediterranée. Il "passaggio" attraverso la soglia, "l'attraversamento" del bordo e "il traghettamento" lungo il limite, identificano le tre modalità con cui si effettua questa delocalizzazione, identificando, anche in funzione della lunghezza e del carattere della "distanza" che i crocieristi devono compiere, una volta in un oggetto, una volta in un percorso e una volta in un'infrastruttura gli elementi del "portus". Il passaggio determina il più delle volte la necessità di un luogo fisico, un edificio, all'interno del quale è necessario sviluppare il percorso che si misura con il tema del mercato in forma di bazar. L'attraversamento viene inteso sia come vero e proprio "scavalcamento", quando c'è la necessità di bypassare un ostacolo, un fiume, un canale, una porzione di territorio, sia come un modo per attraversare lo spazio aperto: in questo senso sarà la strada-mercato il riferimento tipologico che guida l'ipotesi trasformativa. Il traghettamento è usato per indicare lo spostamento più ampio e discontinuo che trasforma il limes in limen con una logica puntuale finalizzata alla definizione di più punti di contatto, di una rete di passaggi che assume il carattere di un'infrastruttura. Il "portus" è questa infrastruttura che rompe il limite in una maniera puntuale determinando punti di connessione con aree-mercato esistenti, configurandosi come la struttura di quell'"agglomerato di mercati" di cui l'infrastruttura misura e colma la distanza. Stavolta l'architettura del "portus" è articolata in tratti e punti; assorbe e aggrega strutture distribuite sul waterfront e le segnala con elementi seriali e riconoscibili che possono alludere alle caratteristiche dei mercati aperti. Ciò che accomuna queste tre modalità di definizione del "portus" è il tema dell'innesto del percorso rispetto alla nave o alla sua estensione terrestre, identificata dalla stazione marittima. Il "portus" come luogo che media il passaggio dalla nave tende a rendere quanto più fluida possibile questa relazione e allo stesso tempo a privarla della sua condizione di puro "transfer". Considerato che la percezione dalla nave propone un punto di vista sopraelevato rispetto alla quota delle banchine e che il punto di partenza del percorso si colloca proprio alla stessa quota, strutturare questa continuità porta a lavorare su un layer superiore: una condizione che consente anche di non interferire con le normali operazioni legati alla logistica portuale. Attraverso questo layer l'immagine della città che si percepiva dalla nave, quando i porti erano prossimi ai centri storici, e che solo talvolta si ripropone oggi, viene intercettata in modi diversi e più "specializzati" anche con una serie di specifiche inquadrature progressive e rappresenta un "aumento" di conoscenza che dalla nave si estende alla terraferma. L'operazione avviene sia attraverso punti di vista e prospettive privilegiate che aiutano a inquadrare e a sottolineare parti importanti di territorio, sia negli spazi in cui questo percorso rallenta attraverso un'organizzazione funzionale che aiuta la comprensione del paesaggio "contemporaneo" dei porti.
Le politiche nazionali ed europee pongono al centro del dibattito e delle prospettive di governance la transizione da cicli di espansione urbana a cicli di rigenerazione di parti di città in cui diventa elemento chiave l'incremento della qualità ambientale dei contesti esistenti. Le città, infatti, a seguito dei mutati assetti produttivi e socio-economici, si presentano con parti dismesse, abbandonate o degradate che necessitano di trasformazioni profonde per far fronte alle richieste di cambiamento. Poiché le azioni sul costruito esistente sono ormai ritenute una risposta efficace alle problematiche ambientali, se si utilizzano strategie rivolte alle diverse scale che, partendo dai singoli manufatti architettonici, coinvolgono interi comparti urbani e viceversa, è possibile ridefinire e ridisegnare quelle parti di città che si presentano inadeguate sotto il profilo ambientale e sotto il profilo prestazionale. All'interno di queste strategie, l'individuazione di obiettivi finalizzati al raggiungimento di capacità, qualità e prestazioni più coerenti con i mutati assetti socio-economici e comportamentali della contemporaneità non è disgiunta dalla necessità di tenere in considerazione le risorse disponibili e il loro uso razionale ed efficiente. Di conseguenza, agendo sia sul piano funzionale che su quello energetico, si possono ottenere risultati positivi in tema di vivibilità, di comfort e di sostenibilità ecosistemica. Ciò premesso, la ricerca è focalizzata sul "progetto dell'esistente" nella sua specifica accezione di percorso volto alla riqualificazione di edifici e contesti presenti nelle nostre città; tra questi, il focus è su quel costruito recente con destinazione residenziale pubblica i cui progetti pongono come obiettivi prioritari il miglioramento della qualità abitativa e la contestuale riduzione dell'incidenza ambientale. Conseguentemente, la ricerca è condotta attraverso la lente della "sostenibilità in architettura" perché, attraverso questa matrice analitica, è possibile valutare le ripercussioni e le incidenze che ogni trasformazione comporta sul circostante naturale in cui si inserisce. Premesso che ogni azione progettuale, attraverso l'analisi e l'interpretazione del rapporto tra opera e ambiente, tra progetto e luogo, assume responsabilità nell'azione trasformativa del territorio, inevitabilmente assume su di sé le strutture relazionali dell'uomo con il suo circostante. All'interno di questo nuovo sistema complesso di relazioni, la ricerca indaga sul "progetto di architettura" come strumento di riqualificazione dell'esistente nella constatazione che si configura come azione che introduce nuove forme e nuovi contenuti nella città stratificata anche attraverso la trasformazione dell'esistente, evidenziando con ciò la necessità di trovare un equilibrio tra riuso dell'esistente, innesto di variate morfologie e inserimento nel "circostante". Tra tutta la terminologia disponibile, il termine "riqualificare" appare quello più appropriato a indicare le azioni migliorative del costruito esistente perché implica il processo di restituzione di qualità perduta o di ri-attribuzione di qualità mai avuta e, contestualmente, specifica e delimita i significati del termine "qualità dell'architettura", circoscrivendone il campo di pertinenza e gli effetti sia ambientali che prestazionali ed estetico-morfologici. In relazione a questo, il presente studio valuta le potenzialità del "progetto dell'esistente" e la sua capacità di trovare una coerente dimensione operativa che, partendo dall'indagine per un possibile cambiamento, utilizzando strategie adeguate inclusa l'innovazione tecnologica e finalizzando le azioni all'attuazione del potenziale di trasformazione che i vari contesti posseggono, sia in grado di metabolizzare senso e misura di tale complessità, trasformandola in spazi, luoghi, e architetture riconoscibili, in sintonia con l'ecosistema. Il progetto dell'esistente in chiave ecosostenibile, dunque, può diventare il paradigma fondamentale della riqualificazione, una specie di laboratorio attivo di una molteplicità di saperi, apparentemente disgiunti, capace di rielaborare i parametri storicamente costituenti la grammatica e la sintassi dell'architettura attraverso nuovi obiettivi e nuove metodologie di approccio. In definitiva, nell'ampia accezione del significato di ecosostenibilità in architettura, la variazione della configurazione architettonica di ciò che già esiste e le nuove qualità estetico/formali prodotte dal progetto dell'esistente si pongono come esito del progetto di riqualificazione ambientale condotto in vista di una qualità ecosistemica. Sebbene l'esigenza di una azione di riqualificazione sostenibile sul piano ambientale sia necessaria per buona parte degli edifici esistenti costruiti in regime di urgenza dopo la seconda guerra mondiale, l'ambito di studio di questa ricerca è circoscritto all'edilizia residenziale pubblica, ossia a interventi su edifici e contesti sorti già all'origine con una destinazione residenziale che, in fase di riqualificazione, hanno conservato la stessa destinazione, esaminando come, intorno alla costante funzionale residenziale ex ante ed ex post, si possano innestare le variabili morfologiche secondo criteri di ecosostenibilità, di qualità funzionale, spaziale ed estetico-formale. L'edilizia residenziale pubblica, comunemente denominata social housing, indipendentemente dai differenti criteri di gestione vigenti nei vari stati europei, e in particolare quella recente sorta a partire dagli anni '60 fino agli anni '80, è stata realizzata con prodotti e processi costruttivi di bassa qualità o poco sperimentati, tra cui le tecnologie prefabbricate e standardizzate. Poco accorta alle questioni energetiche e ai dettagli dei sistemi di assemblaggio, l'urgenza della ricostruzione aveva dato priorità a criteri di economicità e velocità di realizzazione, a discapito della qualità e della durabilità, causando la rapida decadenza edilizia di interi insediamenti e la conseguente necessità di porvi rimedio. I degradi materiali e i deficit prestazionali che più frequentemente si riscontrano sono: Degrado tecnico-costruttivo tra cui degrado delle facciata, delle coperture, dei serramenti; Deficit termico e impiantistico con considerevole incidenza energetica dovuti alla bassa resistenza termica dell'involucro, ai ponti termici e a impianti fuori norma; Deficit funzionali e tipologico-spaziali quali il sottodimensionamento degli ambienti e l'assenza di aree verdi e di spazi comuni); Degrado e deficit estetico-formali, presenti fin dall'origine o acquisiti nel tempo a seguito di improprie trasformazioni, per esempio la monotonia dell'aspetto estetico, la serialità tipologica e le superfetazioni; Degrado sociale ed economico prodotto dalla concentrazione di cittadini marginali in spazi circoscritti, dal decentramento degli insediamenti rispetto alla città stratificata e dall'assenza di connessioni con la città stessa. Ciò premesso, sono urgenti interventi di riqualificazione non soltanto dei singoli edifici, per lo più privi di qualità architettonica, ma di interi comparti urbani che non posseggono più identità e riconoscibilità: attraverso rielaborazioni progettuali e cuciture complesse, è possibile restituire significato e senso di collettività attraverso lo strumento del progetto di architettura. OBIETTIVI/QUESITI DELLA RICERCA Assunta la necessità di rispondere positivamente alle problematiche di tutela ambientale ed ecosistemica, la ricerca intende indagare le relazioni complesse presenti nel progetto di architettura quando si interviene su edifici esistenti a destinazione residenziale pubblica che abbiano carenze e deficit di vario genere, e come può configurarsi la nuova morfologia nelle sue accezioni topologiche, morfologiche e tipologiche quando si utilizzano procedure ricompositive e processi tecnologici innovativi rivolti principalmente al perseguimento di obiettivi di sostenibilità ambientale dell'organismo architettonico, di qualità indoor e di benessere psicofisico. In sostanza, attraverso l'ampia letteratura esistente ed esaminando una serie di casi studio in Europa, la ricerca indaga: - Quali sono i mutamenti che hanno interessato i criteri 'tradizionali' del progetto di architettura volto alla riqualificazione quando le azioni si rifanno a concetti di sostenibilità e di qualità dell'architettura; - Quali strategie innovative o reinterpretative hanno prodotto mutamenti della morfogenesi architettonica quando si riconsiderano i modelli bioclimatici della tradizione o si integrano i più recenti sistemi tecnologici innovativi; - Come e secondo quali procedure questi obiettivi di sostenibilità e queste differenti strategie hanno generato nuovi processi e nuovi modelli configurazionali di edifici esistenti. La ricerca estende la discussione oltre le questioni che il complesso dei sistemi e delle tecniche volte alla riduzione dei consumi e alla produzione di energie rinnovabili pongono nei suoi aspetti tecnici, dimensionali e quantitativi, perché, ponendo particolare attenzione all'espressione fisica, materica, sociale e figurativa che l'oggetto architettonico stabilisce con l'ambiente e con lo spazio, intende individuare le strategie con cui il progetto architettonico può tradurre le urgenze di riqualificazione ecosostenibile in inedite morfologie, riconfigurazioni e metamorfosi del costruito esistente. Metabolizzando elementi architettonici, sistemi tecnologici e strategie operative, l'indagine ripercorre l'approccio sistemico dell'intero iter progettuale in cui la sostenibilità diviene una condizione "necessaria" per l'architettura ma "non sufficiente" perché, in assonanza con l'affermazione di Le Corbusier secondo cui «La Costruzione è per tener su, l'Architettura è per commuovere» , è fondamentale che attraverso il progetto di architettura la sua espressione si traduca in una nuova grammatica del processo di (ri)generazione della (ri)configurazione architettonica, In definitiva, l'ambito di studio riguarda gli aspetti morfologici, compositivi e iconici risultanti dalla progettazione di interventi di riqualificazione dell'architettura esistente indirizzati al raggiungimento di obiettivi ambientali, funzionali e di comfort. Una volta indagati i significati e i limiti della sostenibilità e della qualità dell'architettura ed esaminate le casistiche e i deficit specifici degli insediamenti residenziali pubblici esistenti in Europa, i quesiti a cui la ricerca vuole rispondere sono i seguenti: Quali sono le strategie ricorrenti adottate sul piano distributivo-funzionale, morfologico e tecnologico per ottenere edifici più performanti (quantitativamente e qualitativamente), capaci di migliorare il comfort e ridurre l'incidenza ambientale, il cui aspetto estetico-formale sia diretta conseguenza del rinnovamento e della riqualificazione? Il progetto di architettura per gli edifici esistenti basato su obiettivi ambientali produce rinnovate e riconoscibili qualità estetico-formali? Dai casi studio e dalla recente letteratura sul tema, si possono desumere criteri, modalità o indicatori/parametri utili alla costruzione di un abaco e di un sistema di segni conseguente alle nuove istanze poste alla base della progettazione che siano nuovi modelli iconici e propongano nuovi linguaggi dell'architettura contemporanea? RISULTATI ATTESI LESSICO: WORD SENSE DISAMBIGUATION - Si mette in evidenza la necessità di approfondire il termine "sostenibilità" per toglierlo da una dimensione di ambiguità che potrebbe ridurre o estendere troppo il suo campo d'azione o potrebbe perfino farlo diventare di moda sollecitando forme di "green washing", senza che vengano effettivamente definiti i limiti del suo territorio di pertinenza. Su questo termine, con specifico riferimento all'architettura, la ricerca svolge una attività di disambiguazione che parte dal suo primo utilizzo e attraversa i vari passaggi cronologici del suo significato (Capitolo 1). Anche il termine "qualità" riferito all'architettura richiede di essere disambiguato soprattutto in relazione alla entità e al discernimento tra ciò che deve intendersi per qualità edilizia (requisiti/prestazioni) e ciò che è comunemente inteso quale caratteristica artistico-figurativa e sistema di segni che costituiscono il linguaggio (Capitolo 3). GLOSSARIO - Trattandosi di interventi sull'esistente, costruire sul/nel costruito, inoltre, può significare "Rinnovare, Riqualificare, Rigenerare, Riciclare, Riconvertire, Ristrutturare" e altro ancora. In particolare, i due termini riqualificare/rigenerare comprendono una serie di significati intermedi che implicano azioni di diverso genere, di diversa intensità e di diverso tenore e modalità di rapportarsi con il costruito quali per esempio: ricostruzione, rivitalizzazione, rinnovo, riuso, riqualificazione, retrofit energetico e altro ancora, in cui è possibile che una pratica sia più ampia e conseguentemente includa le altre. È perciò individuabile una circostanziata definizione delle varie terminologie utilizzate nel campo della riqualificazione/rigenerazione attraverso approfondimenti specifici in maniera che i concetti chiave e i riferimenti relativi alle azioni sull'edificato esistente possano costituire una sorta di "glossario" utile a individuare la variegatezza e la multi-scalarità degli interventi (Appendice/Glossario). REPERTORIO DELLE TIPOLOGIE RICORRENTI DI CARENZA/DEGRADO - Lo studio, attraverso l'analisi di una serie di interventi di edilizia residenziale pubblica realizzati in Europa in forma intensiva negli ultimi sessanta anni (Capitolo 2), consente di produrre un percorso di analisi ragionata dei contesti oggetto di studio e delle condizioni di alterazione e di degrado fisico e sociale verificatisi nel tempo, enucleando anche attraverso i casi studio (Capitolo 5) le carenze funzionali, tecnologiche e di comfort in funzione dei nuovi requisiti posti alla base della progettazione. In considerazione dei rilevanti deficit prestazionali e dell'incidenza ecosistemica, non escludendo i deficit funzionali, spaziali ed estetico-formali presenti fin dall'origine o acquisiti nel tempo a seguito di improprie trasformazioni, la ricerca pone l'attenzione sulla individuazione delle problematiche intrinseche o sopraggiunte e sulle cause che le hanno generate. REPERTORIO DELLE TIPOLOGIE RICORRENTI DEGLI INTERVENTI POSSIBILI - Attraverso i casi studio, sulla base delle tipologie di degrado prese in considerazione e sulla base delle prestazioni richieste nel progetto di riqualificazione (Capitolo 3), la ricerca esegue l'analisi e la valutazione del mutato assetto morfologico degli edifici e dei contesti, con riguardo anche a eventuali criteri di sovrascrittura utilizzati, enucleando le strategie progettuali adottate e le variazioni morfologiche perseguite. Lo studio esegue anche la valutazione delle possibilità/opportunità di miglioramento complessivo ottenute, valutando se esse si traducono - per il manufatto e per il contesto - in maggiore attribuzione di valore sia economico che ambientale, sia ecosistemico che estetico-formale (Capitolo 4). CLASSI DI INTERVENTO – Assunta l'architettura della sostenibilità come un intervento capace di contribuire a migliorare lo stato ambientale preesistente, dopo averle indagate, lo studio struttura famiglie di intervento in relazione agli obiettivi posti in essere e in relazione alle nuove morfologie architettoniche conseguenti (Capitolo 6), con particolare riguardo alle nuove strategie, ai nuovi materiali e alle nuove tecnologie che si sovrappongono all'esistente e che producono metamorfosi dimensionali, geometriche, distributive e volumetriche. NUOVI PROCESSI CONFIGURAZIONALI E NUOVE MORFOLOGIE – In conclusione, si intende desumere una metodologia operativa rivolta al progetto dell'esistente che possa essere raffrontata con la pratica teorica e la pratica operativa dell'iter progettuale, attraverso cui individuare le variazioni morfologiche che, reinterpretando bisogni, clima, luoghi e composizione architettonica, rappresentino le nuove narrazioni dell'architettura (Capitolo 6, Appendice/Interviste). In tal senso, si esamina la possibilità di prendere in considerazione l'ipotesi di riformulazione di una teoria linguistica dell'architettura che, integrando la questione ambientale come generatrice e matrice del processo progettuale di configurazione architettonica, attraverso proposte ecosostenibili possa assumere la valenza di "nuova etica" e di "nuovo deal", aprendosi a nuovi scenari e permettendo di introdurre, all'interno del dibattito sulla consapevolezza delle trasformazioni, argomenti e ricerche oggi dimenticate o desuete, magari non percorse perchè al di fuori delle facili attrazioni delle mode architettoniche contemporanee. UTILITÀ DELLA RICERCA La ricerca sottolinea che, all'interno del "progetto universale di sostenibilità", l'architettura svolge un ruolo strategico se riconquista i criteri di relazione con il contesto e se vi si pone in una dimensione in cui sia consapevole di essere uno dei nodi di tutta la rete ecosistemica. In questo modo, responsabilmente, partendo dalla riappropriazione di strategie tradizionali e declinandole attraverso le nuove tecnologie, si fa garante della conservazione degli equilibri reciproci perché agisce con tutte le potenzialità che il progetto di architettura offre. Tra le strategie che la storia ci offre ci sono proprio il riuso, la trasformazione e la stratificazione dell'esistente che vanno intesi come la "nuova sfida dell'architettura". In questo senso, la ricerca supporta il progetto dell'esistente per la sua capacità di utilizzare risorse disponibili e ne sottolinea le potenzialità morfologiche e linguistiche raggiungibili attraverso processi di riconfigurazione dell'architettura in cui la nuova morfogenesi sull'esistente si può attuare con graduazioni, strategie e risultati figurativi differenti, fino a giungere alla "metamorfosi" che Paolo Portoghesi definisce come "dimensione nobile della trasformazione". Il progetto dell'esistente esce dunque dal suo limbo di una "architettura di ripiego", assumendo i connotati di un vero e proprio processo "creativo" se condotto attraverso i criteri della pratica teorica progettuale perché giunge a produrre segni e sistemi di segni di un linguaggio complesso, contemporaneo e soprattutto connesso con l'ecosistema. Di conseguenza, indipendentemente dalla tecnologia che, nel contesto contemporaneo, rappresenta una variabile legata alle continue innovazioni che nel mercato vengono introdotte, ciò che diventa fondamentale è la costruzione della matrice progettuale che definisce criteri e obiettivi del processo progettuale Trattandosi di percorsi sotto alcuni profili recenti, lo stesso concetto di sostenibilità è recente, definire una grammatica di questo processo di generazione dell'architettura su edifici esistenti e individuare una nuova struttura linguistica è una operazione appena delineabile perchè in parte prematura. La ricerca, attraverso interpretazioni e approfondimenti anche di altri studi, ha intrapreso percorsi di costruzione di abachi configurazionali su cui cominciare a elaborare criteri di decodificazione dei processi compositivi in maniera che possano diventare sistemi di segni specifici dell'architettura. INDIRIZZI PER LA PROSECUZIONE DELLA RICERCA La ricerca potrebbe proseguire soprattutto osservando, analizzando e parametrando i progetti di riqualificazione ancora in corso, molti dei quali sono il completamento di quelli iniziati: gli insediamenti di edilizia residenziale pubblica sono prevalentemente intensivi perciò di grandi dimensioni e conseguentemente, sebbene le azioni di riqualificazione siano iniziate da qualche decennio, molte sono ancora in corso e ricevono continuamente correttivi, sia tecnici e tecnologici che di approccio metodologico, alle soluzioni ipotizzate in partenza. Questo potrebbe essere particolarmente interessante se coniugato con la raccolta e l'esame dei risultati della ricerca europea, appena iniziata, del programma Horizon 2020 che ha dato molto spazio alla riqualificazione sostenibile in generale e soprattutto a quella residenziale. Inoltre, premesso che nei climi freddi gli studi, le ricerche e le applicazioni sono iniziati già da qualche decennio, ulteriore campo d'azione per la prosecuzione della ricerca potrebbe essere lo studio delle strategie, ancora acerbe, specifiche delle aree geografiche del Mediterraneo in cui i cambiamenti climatici richiedono di sviluppare maggiormente misure contro il surriscaldamento piuttosto che quelle specifiche per i climi freddi. Questi approfondimenti, attraverso la decodificazione della morfologia finale e dei segni ad essa relazionati già prodotti e in corso di elaborazione, potrebbero orientarsi alla definizione di indicatori e parametri 'invarianti' da cui partire per costruire una riformulazione dei metodi, dei processi di progettazione architettonica e del linguaggio risultante.
2008/2009 ; Le questioni e i problemi riguardanti il rapporto tra libertà e giustizia, nonché il tentativo operato dal liberalsocialismo di fornire loro risposte e soluzioni, rimandano a numerose e ponderose riflessioni che hanno interessato nel tempo la filosofia politica e l'etica. In termini sbrigativi e sintetici si può sostenere che la questione fondamentale si generi dal rapporto tra libertà e bene, nel senso che si è ben presto messi nella necessità di decidere se la libertà sia un valore assoluto o se valga semplicemente come mezzo per attuare consapevolmente il bene: nel primo caso la libertà si identifica con il bene (a prescindere dalla direzione che intenda prendere), nel secondo la libertà è subordinata alla direzione che intende prendere, tanto da negare se stessa nel caso di una scelta sbagliata. Se questa distinzione sul concetto di libertà è fondata, risulta piuttosto agevole riconoscere due distinte correnti di pensiero volte a privilegiare rispettivamente la libertà (come bene) nei confronti della giustizia (intesa come derivante dalla libertà), oppure la giustizia (come bene) nei confronti della libertà (reclamata temporaneamente per l'abbattimento dell'ingiustizia). Per introdurre il pensiero di Guido Calogero riguardo alla questione è consigliabile riferirsi almeno a due posizioni ottocentesche antitetiche sul problema, come sono quelle di John S. Mill e di Hegel, e, successivamente, sulle convinzioni di Croce e Gentile, che appaiono praticamente inevitabili per la stessa biografia dell'autore. I dissidi fra queste due coppie di pensatori riguardano, com'è noto, fra le altre cose, rispettivamente il concetto di libertà individuale e/o collettiva (universale) e la necessità (o meno) del superamento e della piena realizzazione del liberalismo ottocentesco nel fascismo novecentesco. Guido Calogero (1904/1986), allievo eterodosso di Gentile e aderente all'attualismo, con una formazione logico-gnoseologica costruita sullo studio di Aristotele e dei classici moderni (Kant, Hegel), affronta il problema etico e politico del rapporto fra libertà e giustizia perché deluso dal fascismo, avviato alla dittatura personale di Mussolini. Il fallimento del regime porta il filosofo messinese a riflettere sulla libertà e a riconsiderare la posizione di Croce (soprattutto dopo la lettura della Storia d'Europa del XIX secolo), con cui inaugura un confronto serrato. Contemporaneamente Calogero intraprende una profonda revisione filosofica che, partendo dal presupposto dell'attualismo come forma ultima e compiuta di pensiero filosofico, rifiuta la funzione logica e gnoseologica della filosofia (La conclusione della filosofia del conoscere, 1938), salvandone l'esclusiva funzione etica (La scuola dell'uomo, 1939). Pur dovendo necessariamente muovere una profonda critica al pensiero di Croce e Gentile, Calogero rimane organico alle forme dell'immanentismo attualista e presenta quindi l'etica come l'unica e onnicomprensiva disciplina filosoficamente sostenibile (cioè come filosofia tout court) e, quindi, come sviluppo e superamento dello stesso attualismo gentiliano; portando alle estreme conseguenze la filosofia dell'atto, Calogero ritiene quindi di risolvere nell'etica il senso dell'esistenza umana, nella direzione di un'azione altruistica (come naturale espansione del soggetto) illuminata da una conoscenza che insieme alimenta e trae nutrimento dall'azione e da cui non può essere intesa separatamente. Se l'antifascismo di Calogero risente dello scoramento e del rifiuto di una generazione cresciuta, se non nata, all'interno delle strutture del regime, la svolta etica impressa al suo pensiero è l'esito della maturazione di un pensatore precoce, che giunge rapidamente alla sistemazione definitiva della sua riflessione, che troverà collocazione nei tre volumi delle Lezioni di filosofia (1948). Il carattere etico dell'adesione al fascismo e all'attualismo si riversa interamente nella presa di distanza dal regime e nella revisione filosofica, impegnando Calogero in una severa disamina del rapporto fra libertà e giustizia, nell'ambizione di fornire una solida base etico-politica per l'Italia che verrà, dopo l'inevitabile caduta del fascismo. In questa logica il confronto con Croce – inteso come il campione dell'antifascismo – diventa strategico per Calogero, che cova anche la segreta speranza di riavvicinare il filosofo abruzzese a Gentile. A differenza di Capitini – con cui intraprende l'avventura liberalsocialista –, Calogero sente la necessità di sciogliere i nodi filosofici che lo intrigano e cerca invano di ottenere da Croce il consenso per il suo progetto. Il motivo dello scontro, della reciproca incomprensione, solo parzialmente e tardivamente sanata, verte necessariamente attorno al rapporto di libertà e giustizia, una diade (il famoso ircocervo) che Croce non accetterà mai; d'altra parte l'insistenza di Calogero nel porre come inseparabili la giustizia e la libertà (il motivo per cui deciderà di usare una sola parola per indicare la fusione di liberalismo e socialismo), meglio ancora come un tutt'uno, che solo un ragionamento (o una volontà) corrivo può tenere distinte, riguarda il deciso tratto etico della sua visione politica, oltre che il monismo connaturato nella sua visione filosofica. Anche per Croce, a rigore, non può esservi libertà senza giustizia e giustizia senza libertà ma proprio per questo occorre sussumere la giustizia alla libertà, come una sua naturale conseguenza. Al di là delle motivazioni di ordine filosofico (nella posizione di Calogero Croce riconosce senza sorprendersene la mala pianta dell'attualismo), in Croce sembra resistere inestirpabile la traccia del conservatorismo liberale di origine ottocentesca, che individua immediatamente in ogni perorazione in favore della giustizia una limitazione della libertà. Tale retropensiero non è necessariamente costitutivo del liberalismo (come invece Croce mostra di intendere), tant'è che non appartiene affatto ad un sicuro liberale come Mill: non a caso le critiche che Croce muove a Mill, pur denunciando una supposta debolezza strutturale di ordine filosofico, finiscono con lo stigmatizzare il progressismo del pensatore britannico, che viene presentato come frutto di inconsistenza filosofica ma che urta Croce sul piano banalmente politico. Se è comprensibile che la lettura del Manifesto del liberalsocialismo confermi Croce nel ritenere illiberale la formula politica di Calogero e Capitini, va anche detto che la collocazione politica che assumerà nell'immediato dopoguerra e la tendenza restauratrice del liberalismo prefascista spiega ampiamente l'impossibilità di un'intesa con Calogero. I mutamenti politici e filosofici di Calogero non mancarono naturalmente di interrompere anche i rapporti con Gentile per ragioni simmetriche e complementari a quelle che avevano portato alla ricerca di un confronto con Croce. Era pertento la rinuncia alla libertà individuale (in nome di una libertà dello Stato, etica e universale) e la conseguente fedeltà al fascismo che rendeva ormai difficile il dialogo fra Calogero e il suo maestro, tanto che invano Gentile invitava l'antico allievo a limitarsi (nel suo insegnamento pisano) al pensiero antico; sordo a questo invito Calogero invece cercava proseliti fra i suoi giovani studenti, nel tentativo di contribuire alla formazione della futura classe dirigente, per l'Italia che sarebbe venuta dopo il fascismo. Il Manifesto del liberalsocialismo (a cui doveva seguire un secondo l'anno dopo) esce clandestinamente a Pratica di mare il 21 aprile 1940, nell'immediata vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia. Calogero e Capitini guardano alle nuove generazioni e negano qualsiasi rapporto con l'antifascismo prefascista; liberalismo e socialismo coincidono a meno che non li si identifichi con le loro degenerazioni che sono il liberalismo agnostico (liberismo) e lo stato etico (totalitarismo). La costituzione della nuova Italia dovrà prevedere accanto ai tre tradizionali poteri dello stato un quarto potere affidato ad una Corte costituzionale, destinato a vegliare sugli altri tre (su questo punto Croce fulminerà la sua accusa di illiberalismo), oltre che sui partiti, la stampa, la radio, la scuola… Il forte tratto etico del Manifesto denuncia aspetti difficilmente compatibili con uno stato liberale sia per la preoccupazione preponderante di una rivincita autoritaria (un malinteso senso della libertà ha fatto sì che l'Italia venisse consegnata alla dittatura fascista), che per una tendenza congenita a diffidare dell'uso possibile della libertà (per cui si prevede una fase di passaggio in cui la società sia sotto tutela in attesa dell'espletamento della piena libertà). L'impianto etico non nasconde inoltre il deciso carattere monistico del Manifesto che si esplicita nella tendenza a ricondurre il particolare al generale (con conseguenti riserve nei confronti del pluripartitismo), tramite uno sforzo unificante per il governo della nazione come del mondo intero; si tratta insomma di un progetto politico/istituzionale in cui la libertà va decisamente indirizzata al bene (giustizia), un progetto che, se doveva confermare a Croce tutte le riserve del caso, probabilmente non sarebbe dispiaciuto troppo a Gentile. Questa tendenza che appare già esplicita nel primo Manifesto, viene confermata nel secondo, dove si chiarisce che marxisti, liberali e cattolici (vale a dire l'intero arco partitico per i liberalsocialisti) possono trovare collocazione all'interno del liberalsocialismo, ribadendo in questo modo una preferenza neanche tanto criptica per il monopartitismo. Sulla scorta di quanto già stabilito in sede etica, la giustizia (diversa dall'eguaglianza, che è solo un'apparente giustizia estrinseca) vive come espressione del soggetto nei confronti dell'altro soggetto e, attraverso lui, a tutti gli altri soggetti (senza rischiare di chiudersi in un rapporto duale, sterile e concluso nel rispetto reciproco). L'insistenza con cui Calogero sostiene l'altruismo come necessaria espansione del soggetto verso l'altro, ha sollevato numerose riserve nei suoi critici che vi hanno ravvisato la permanenza di un pesante approccio attualistico. I passi in cui il soggetto sembra fagocitare l'altro (ed esserne fagocitato) non sono precisamente incoraggianti per chi intenda presentare il pensiero di Calogero come pensiero liberale, tuttavia – come si tenta di dimostrare in seguito – queste legittime preoccupazioni non devono dar corpo ad un atteggiamento pregiudiziale che comporterebbe una sostanziale incomprensione dell'autore. In ogni caso l'altruismo sociale, su cui si regge uno stato libero e giusto, procede dall'abnegazione, alla persuasione, alla coercizione: il soggetto – a meno di non trattenersi egoisticamente in una dimensione naturalistica – muove verso l'altro poiché il suo bene coincide con quello altrui, inserendosi in una catena che regola i rapporti sociali; nel caso di interruzione si passa alla persuasione del soggetto (egoista) che va educato (pedagogia e storia) fornendogli una corretta prospettiva sociale; il perdurare (criminale) dell'asocialità incorre infine nella coercizione con cui il soggetto resistente viene piegato al bene comune (diritto giudiziario). La confluenza dei liberalsocialisti nel Partito d'Azione avviene naturalmente, dopo che Calogero ha patito carcere e confino, e il loro contributo appare esplicitamente nelle Precisazioni programmatiche (aprile '43), che Calogero stende assieme a La Malfa e Ragghianti e che confermano una certa tendenza egemonica e una sorda ostilità al pluralismo. Mentre il confronto teorico con Croce si trasforma in scontro politico, è interessante notare come Calogero approfitti della venuta in Italia del capo del laburismo britannico (Attlee) nell'estate del '44 per sostenere la sostanziale identità di liberalsocialismo e laburismo. A questo proposito vale la pena di sottolineare come, se da un lato sia facile ravvisare l'innata tendenza metabolizzante del liberalsocialismo calogeriano, dall'altro occorra anche riflettere sul fatto che il contatto con questa delegazione non sia del tutto estraneo all'avvicinamento di Calogero all'opera di Mill. Contemporaneamente va tuttavia valutato l'approccio politico (completamente teorico se non intellettualistico) di Calogero che, prendendo nota delle prime difficoltà incontrate dal Partito d'Azione, non si spiega il permanere di un partito liberale e di un partito socialista in presenza del liberalsocialismo rappresentato dal Partito d'Azione; non mancano inoltre difficoltà interne dove la posizione liberalsocialista risulta a sua volta minoritaria. Il rapido volgere a conclusione della parabola azionista verrà analizzata e compresa da Calogero solo molto più tardi mentre rimane subita passivamente e sostanzialmente imprevista nel suo svolgersi; l'attività di Calogero non conosce tuttavia sosta e ne è testimone il tentativo presto abortito di pubblicare una rivista (Liberalsocialismo, due soli numeri nel '46) che dimostra l'impegno teorico, politico ed esistenziale del filosofo messinese. Poco più che quarantenne, Calogero si sente chiamato a dare un contributo importante alla nuova Italia che sta nascendo, da lui fortemente voluta e preconizzata ormai da una decina d'anni, e fatica a comprendere come mai la sua posizione teorico-politica risulti così disperantemente minoritaria. Sono tuttavia questi mesi e questi anni che lo portano a riflettere sul liberalismo e sul socialismo britannici, oltre che ad avvicinarlo a Piero Calamandrei, anni che segnano la rapida eclissi del partito d'Azione e il configurarsi di un panorama politico assolutamente estraneo al progetto liberalsocialista e completamente imprevisto, se non inspiegabile, per Calogero. Le analisi e le riflessioni che verranno nei decenni successivi se serviranno a comprendere e motivare almeno parzialmente gli avvenimenti non basteranno a lenire delusioni e amarezze destinate a condizionare Calogero a lungo nel tempo, anche se non sufficienti a provocarne l'astioso riserbo o il disimpegno politico militante. La ricostruzione proposta da Calogero per interpretare gli avvenimenti di quegli anni e la sua personale militanza politica coglie ampiamente nel segno e può essere quindi tranquillamente condivisa. La differenza fra Calogero e quei fascisti che transitarono nelle file del PCI è pienamente riconducibile nella sua opzione liberale; si è detto sopra come, talvolta, espressioni di autentico liberalismo fatichino ad emergere nel suo pensiero, sia per la costante preoccupazione di equiparare la giustizia alla libertà, sia per il timore della possibilità di un uso distorto della libertà stessa. Detto ciò, tuttavia, in Calogero non viene mai meno la convinzione che la libertà sia soggettiva e che il soggetto sia individuale, per cui la sua libertà non va sacrificata alle ragioni di una libertà collettiva ed etica garantita dallo stato. E' qui che, probabilmente, va individuato il passaggio stretto che lo fa transitare dall'attualismo alla prospettiva offerta dal liberalismo britannico, vale a dire dal soggettivismo particolare/universale dell'immanentismo gentiliano allo schietto individualismo empirista/nominalista anglosassone. D'altra parte, se è vero come è vero, che Calogero inizia la sua militanza antifascista a causa dello scivolamento del regime fascista in un regime mussoliniano (dittatoriale/personale) è lecito evincere che la visione misticheggiante dello stato etico di matrice attualistica viene negata dalla deriva personalistica, tramite la quale il soggetto universale e totalitario dello stato etico finisce col coincidere con la volontà di una sola persona. Lo sviluppo del liberalismo nel fascismo (caro a Gentile) non è a questo punto più sostenibile, mentre il regime, negando la libertà individuale in nome di un più alto livello di libertà, non è che un'impostura che consegna una nazione nelle mani di un individuo. Da qui muove lo sdegno morale di Calogero e di altri fascisti critici, ma da qui muove la riflessione calogeriana del necessario recupero della libertà individuale e quindi del confronto con Croce, un confronto però che, come si è ricordato sopra, non porta ad un semplice riflusso verso le posizioni liberali dell'antifascismo prefascista ma si fa carico della tutela della giustizia, indifendibile senza libertà ma non negoziabile in cambio della libertà stessa. E', d'altra parte, attraverso la mediazione anglosassone che Calogero matura progressivamente la convinzione dell'autonomia della politica dall'etica e il conseguente abbandono del suo antimachiavellismo; è infatti dal recupero della dimensione effettuale, cara al segretario fiorentino, che Calogero attribuisce alla politica la dimensione della possibilità e della contingenza ed è solo partendo dall'autonomia della politica che ci si può impegnare alla costruzione di un'etica universale Il soggiorno londinese all'inizio degli anni '50 conferma Calogero nelle sue convinzioni liberalsocialiste, poiché, a suo modo di vedere, i partiti britannici non sono che fazioni di un unico partito liberalsocialista. Commentando per la rivista "Il ponte" la sconfitta laburista alle elezioni del '51, Calogero non si rammarica particolarmente poiché ritiene che per gli inglesi le cose non cambieranno molto, dato che conservatori, liberali e laburisti non sono che correnti interne di un'unica formazione. I contatti con il mondo anglo-sassone allargano indubbiamente l'orizzonte critico della riflessione calogeriana ma non mancano di venir inquadrati all'interno di una cornice interpretativa che risente necessariamente di una prospettiva pregressa e resistente. Sostenere, come fa Calogero, che l'affermazione dei conservatori non modifichi significativamente la politica britannica è possibile solo tramite un equivoco di fondo che fa scambiare per un partito la dimensione condivisa politico-istituzionale della liberal-democrazia, confondendo lo spazio democratico pluripartitico con la dialettica interna ad un partito unico. Il fatto che la vittoria della destra o della sinistra non intacchi il sistema liberal-democratico fa pensare a Calogero che, in fondo, lo scontro politico sia relativo, dato che mostra di non poter concepire la possibilità di uno scontro, anche molto aspro, all'interno di un quadro di regole condivise, che non metta minimamente in discussione l'assetto del sistema. Questo abbaglio lo conferma inoltre nell'idea della bontà del monopartitismo (una volta che sia liberalsocialista), che eviterebbe ciò che succede in Italia nel confronto fra due fronti alternativi che si riferiscono a sistemi diversi. Se da un lato quindi la situazione italiana lo porta a drammatizzare il rapporto maggioranza/opposizione, dall'altro Calogero continua a ragionare in termini di alternativa (di sistema) invece che di alternanza (all'interno di un sistema condiviso), tant'è che, nel suo schema, una volta tramontati liberalismo e fascismo, avrebbe dovuto farsi largo il liberalsocialismo, invece del centrismo democristiano e del frontismo. L'approccio con la politica britannica lo porta quindi, probabilmente, a vedervi trasportato il suo liberalsocialismo, all'interno del quale sarebbe stato pronto ad ammettere l'esistenza di posizioni diverse, ora moderate ora più spiccatamente progressiste. In questo modo però, pur guardando al sistema anglosassone come ad un sistema da imitare, Calogero pare non coglierne l'intimo carattere, basato sulla lotta politico-parlamentare schietta e decisa e sul rapporto maggioranza/opposizione costantemente intercambiabile attraverso la consultazione elettorale. Messo allora in conto questo deficit di liberalismo anglosassone, come qualificare la posizione politica di Calogero, anche considerando la sua personale militanza politica (fondatore del Partito radicale nel '55, candidato alle politiche per il PRI nel '58, candidato per il PSU nel '68)? Politico laico, aderente al socialismo riformista, Calogero, pur senza mai rinnegare il liberalsocialismo, vive una seconda stagione politica (1955/70) nella quale la carica etica, mai abbandonata, fa i conti con una sincera visione riformistica e laica, che interpreta la pratica politica come tensione infinita e mai risolta del perfettibile verso il perfetto, mentre sconta il corto circuito attualismo/empirismo dovuto alla travagliata riflessione attorno al soggetto/individuo. In questo senso Calogero può apparire allora come il latore di un autentico riformismo, che, pur provenendo dalle retrovie dell'immanentismo attualista, essendo comunque immune da qualsivoglia tentazione spiritualistica, perviene alle conclusioni laiche e liberali di una politica gradualista e progressista. In Calogero, insomma, il riformismo non è mai una subordinata opportunistica alla rivoluzione, né frutto di moderatismo politico ma il costante tentativo di adattamento alle ragioni della realtà, sorretto da un'insopprimibile tensione etica. La forte caratterizzazione politica di Calogero non limita e non ridimensiona l'originaria base filosofica (e quindi etica) dell'intellettuale siciliano e il fatto di poter intravedere uno sviluppo (o uno scivolamento) dal soggettivismo gentiliano all'individualismo anglo-sassone, come un analogo passaggio dalla concezione della causalità al più flessibile adattamento alla probabilità e alla prevedibilità, non comportano alcun "tradimento" quanto piuttosto la testarda volontà di procedere in un percorso avviato da tempo e mai abbandonato. In tempi non sospetti (praticamente da sempre), Calogero aveva colto nel solipsismo l'aspetto debole dell'attualismo gentiliano e questo fatto – frutto della coerenza interna del ragionamento del suo maestro – era probabilmente alla base della sua revisione filosofica e dell'affermazione della "conclusione della filosofia della conoscenza". Se, tuttavia, l'immanentismo attualista rimane lo sfondo filosofico del liberalsocialismo, gli sviluppi verificatisi nella riflessione politica richiedevano un ripensamento dell'etica, una sua rettifica più che un suo stravolgimento, data la sostanziale continuità rivendicata tra il liberalsocialismo e i suoi stessi sviluppi. D'altra parte Calogero resta fedele all'impostazione dei suoi maestri che postula la necessità di un fondamento filosofico per qualsiasi specializzazione teorico-scientifica e quindi continua a ritenere indispensabile non solo il profilo etico della politica ma anche la sua derivazione teorica dall'etica. Facendo della storia (come contemporaneità del non-contemporaneo), una componente irrinunciabile dell'etica, Calogero riprende il discorso etico dall'abnegazione come necessario riconoscimento dell'altro (pena il solipsismo, in caso contario), che non si risolve in mutua (e sterile) reciprocità (egoistico rispetto dell'altro) ma si preoccupa immediatamente del terzo rispetto all'altro, procedendo alla persuasione (storia, pedagogia) e, se necessario, alla coercizione (diritto). Recuperando così il filo rosso della sua etica, passa alla definizione della filosofia del dialogo (che soppianta un non più sostenibile logo) come forma più appropriata per un neo-soggettivismo che superi la vecchia linea Cartesio-Gentile, sostituendo al "Cogito ergo sum", un "Tecum loquor ergo es". In questo modo a Calogero riesce l'impresa piuttosto problematica di fondare la sua nuova concezione dialogica della filosofia e di riproporre, nei termini a lui graditi, l'intuizione più autentica (a suo modo di vedere) dell'intero attualismo, vale a dire l'irriducibilità del soggetto, che vive e prospera attraverso la scoperta dell'altro. Sorretto da queste convinzioni, Calogero prova sconforto e amarezza quando vede interpretare la sua proposta come una formula propedeutica e costruttiva, assolutamente generica e sorretta da semplici buone intenzioni, come una qualsiasi filosofia non aggressiva (e criticamente tendente al relativismo), come una proposta debole tesa piuttosto ad evitare il male che ad edificare il bene. Lungi dall'essere un semplice rimedio post-ideologico (in un secolo peraltro segnato dalla durezza delle ideologie e dalle loro tragiche conseguenze), la filosofia del dialogo fa del soggetto, che si incarica di garantire la libertà all'altro di pensarla diversamente da lui, la pietra angolare di una proposta che, evitando le secche del dogmatismo come del relativismo, intende porsi nucleo fondamentale e condiviso per la crescita e il progresso dell'umanità. ; XXII Ciclo