La guerra delle Malvine/Falkland nella letteratura argentina: tre generazioni in conflitto è frutto di un lavoro di ricerca svolto presso l'Università di Roma Tre nel triennio 2013-2015 e ha l'obbiettivo di analizzare la trattazione del breve scontro militare tra Argentina e Inghilterra (2 aprile-14 giugno 1982) in una produzione letteraria che va dai mesi immediatamente successivi fino ai giorni nostri (1982-2015). La ricaduta sociale del conflitto – oltre diecimila coscritti inviati a combattere, provenienti da tutto il territorio nazionale, 659 morti e 1068 feriti di parte argentina – mi ha spinto ad affrontare l'analisi utilizzando come variabili le diverse relazioni tra gli autori e l'esperienza della guerra. A seconda del rapporto che intercorre tra gli eventi e la loro narrazione, si delinea inoltre un panorama generazionale in cui risaltano principalmente tre approcci diversi. Il testo comprende la ricognizione dello stato dell'arte circa le ricerche sull'argomento. Si articola quindi in tre sezioni: la prima, denominata "L'urgenza della genesi", è dedicata a Los pichiciegos di Rodolfo Fogwill (1982), identificato con il capostipite della letteratura sulla guerra delle Malvine. Fogwill crea un referente necessario per le generazioni successive che si fonda sulla sostituzione dell'eroe epico, abitualmente protagonista della letteratura di guerra, con un antieroe le cui vicende si muovono a cavallo tra la rappresentazione picaresca e quella farsesca. La seconda sezione, "L'urgenza della denuncia", si occupa della generazione più prolifica sul conflitto attraverso la lettura dei romanzi Banderas en los balcones di Daniel Ares (1994), Las Islas di Carlos Gamerro (1998) e Sobrevivientes di Fernando Monacelli (2012). La distanza temporale tra le pubblicazioni, insieme al divario nelle scelte stilistiche e tematiche, estende gli orizzonti narrativi e consolida gli elementi comuni ai romanzi, caratterizzandoli come tratti costitutivi di un corredo genetico appartenente alla letteratura sul conflitto nel suo complesso. Nei romanzi s'innesca un meccanismo di esclusione dei protagonisti dalle vicende belliche che si identifica con quello degli autori dalle dinamiche della vita politica. Questi si pongono l'obbiettivo di dare voce a una generazione dispersa, assorbendo e consolidando all'interno di questo filone letterario scelte stilistiche autonome. La terza sezione, "L'urgenza della memoria", raccoglie lo sguardo della generazione successiva, quella di Federico Guillermo Lorenz (autore di Montoneros o la ballena blanca, 2012), di Sebastián Basualdo (Cuando te vi caer, 2008) e di Patricio Pron (Una puta mierda, 2007). La generazione degli anni Settanta-Ottanta raccoglie da un lato l'elemento della marginalità sul quale si fonda la narrazione direttamente precedente, dall'altro crea un ponte con quella che ha esperienza del conflitto attraverso il tema della memoria, per colmare con il linguaggio il vuoto di quanto non è stato vissuto né detto. Ogni sezione viene contestualizzata storicamente all'interno del periodo in cui i romanzi sono stati scritti, al fine di porre i testi e gli autori in dialogo con gli eventi che influenzano sia la produzione sia la ricezione da parte del pubblico e della critica. L'approccio teorico utilizzato si fonda principalmente sul lavoro svolto dalla critica letteraria argentina, che si dedica all'argomento a partire dalla fine degli anni Ottanta, con particolare attenzione agli studi di Martín Kohan, Beatriz Sarlo, Rosana Guber, Federico Guillermo Lorenz, Lara Segade e Julieta Vitullo. Seguendo le orme di tali autori, si è risalito alle fonti teoriche a cui si sono appoggiati –Michail Bachtin e Walter Benjamin, in particolare ai saggi Epos e romanzo e Il narratore – per proporne una lettura autonoma. Per essere identificata all'interno di un filone narrativo a sé, la letteratura sul conflitto deve confrontarsi con l'elemento epico, con la rappresentazione dell'eroe e con il concetto di esperienza. Michail Bachtin sostiene che il romanzo è il risultato del processo di distruzione della distanza epica, ovvero la distanza tra il presente della narrazione e il passato assoluto in cui si colloca il mondo raffigurato dall'epica. L'annullamento della distanza con la materia narrata obbliga il narratore a relazionarsi con l'incompiutezza del presente, tempo in fieri. Eliminata la distanza che rende possibile esaltare le gesta del passato, il romanzo non può rappresentare le figure eroiche presenti nell'epica. Proprio perché gli autori hanno accesso a strumenti quali l'esperienza personale e l'invenzione creativa, nella rappresentazione della contingenza il valore dell'eroe si dissipa per trasformare i protagonisti in uomini comuni o in anti-eroi. Anche secondo Walter Benjamin il declino della narrazione epica coincide con la nascita del romanzo e in particolare con il suo legame con la trasformazione della narrazione da orale a scritta in età moderna (nascita della stampa). Per esemplificare il crollo insieme dell'epica e delle stesse condizioni di una narrazione, utilizza l'esempio dei soldati di ritorno dalla prima guerra mondiale, ammutoliti, privati della possibilità di raccontare la propria esperienza. La guerra è evento collettivo traumatico che genera una produzione letteraria posteriore di almeno dieci anni, in nulla corrispondente a quell'esperienza non trasferibile da chi l'ha vissuta. Obbiettivo di questa ricerca è dunque quello di inserire la letteratura prodotta in Argentina sul conflitto delle Malvine all'interno del discorso più ampio sulla ricostruzione della memoria collettiva del Paese, identificandone i canoni che ne delimitano l'esistenza come un filone letterario a parte.
La finalità di questo lavoro è quella di ricostruire il processo attraverso cui nella Grecia arcaica si giunse gradualmente alla tutela dei diritti del cittadino. Tale tutela fu il frutto di una graduale articolazione e definizione di un potere centrale della polis che si esplicava, come dice Aristotele, nei suoi organi deliberativi e giudiziari, il cui accesso era riservato ai soli cittadini (politai) e che si impose a discapito dell'autotutela. Il lavoro si concentra sul caso di Atene che, insieme a Sparta, è anche quello sul quale siamo meglio informati. Nello svolgersi della ricerca si è anche utilizzata documentazione proveniente da altre poleis, laddove funzionale a chiarire il caso ateniese, e laddove si sia potuta dimostrare una evidente analogia con quest'ultimo. Si è deciso, inoltre, di partire dai dati a noi noti dal mondo omerico ed esiodeo dal quale provengono le informazioni a nostra disposizione sulle fasi più antiche del problema da noi affrontato. Il lavoro si articola in tre parti all'interno delle quali si innestano a loro volta cinque capitoli. La prima parte cerca di chiarire cosa i Greci intendevano con il termine polites, partendo da Aristotele ed allargando l'indagine alle fonti a lui contemporanee in un periodo all'interno del quale abbondano le informazioni, per poi fissare in un secondo momento i punti di riferimento per poter tornare indietro nel tempo e affrontarne lo studio nella Grecia arcaica (cap. I). La seconda parte (cap. II) è dedicata al mondo omerico ed esiodeo. Che quella omerica sia una realtà prestatale che non si pone il problema della tutela dei diritti del privato (cfr. il caso di Telemaco nel II libro dell'Odissea) è stato efficacemente messo in luce (Mele). Nel nostro lavoro si osserva che in essa non si ritrovano, o si ritrovano soltanto in forma embrionale, vari elementi sui quali poggerà in età successiva lo svolgimento dell'amministrazione della giustizia che garantisce la tutela dei diritti del cittadino: non vi è ancora la coercizione a presentarsi in giudizio e le contese giudiziarie si svolgono con la presenza della folla che influenza il verdetto delle autorità. A Esiodo che ha subito un'ingiustizia non resta che appellarsi all'intervento punitivo degli dèi; analogo il caso di Telemaco che, durante la seduta assembleare da lui convocata per discutere le pressioni dei pretendenti del suo oikos, va incontro all'indifferenza del demos. Soltanto in un secondo momento questo rappresenterà un potenziale pericolo per i pretendenti, come si evince dalle parole di Antinoo il quale constata che l'atteggiamento del popolo non è più favorevole ai pretendenti (nonostante sia poi Odisseo a ripristinare il suo potere con la forza), cambiamento che si spiega tenendo conto del fatto che Telemaco è membro della casa regnante con la quale la comunità deve attentamente gestire i rapporti nel suo interesse. La terza parte si sofferma sul caso ateniese. Il VII secolo (III cap.) mostra non soltanto la nascita di un apparato legislativo più sofisticato rispetto alle themistes omerico-esiodee, ma vede anche la istituzionalizzazione di un potere giudiziario il quale acquista una maggiore indipendenza (istituzione dei Tesmoteti). Tutto ciò altro non è se non l'esito di una crescita demografica che ha avuto come conseguenza una crescita del numero dei conflitti all'interno della comunità e che ha indotto la polis a farvi fronte rendendo più sofisticato il suo apparato legislativo e giudiziario. Il VII secolo culmina con la legge di Draconte (IG I3104) che sostituisce l'autotutela insita nella vendetta privata con l'intervento della polis nei reati di sangue e che, come il lavoro ha mostrato, riflette tutta l'evoluzione politico-costituzionale dei decenni precedenti. La crescita demografica della polis genera un numero maggiore di omicidi e quindi di vendette, aumentando i conflitti all'interno della comunità e mettendone quindi a rischio la stessa esistenza. Il problema del singolo coincide sempre più con quello della comunità. Se il conflitto tra Odisseo e i pretendenti era terminato con l'intervento divino di Zeus e Atena che avevano messo pace tra i due partiti, Draconte, con la sua legge emanata all'indomani del conflitto tra Alcmeonidi e Ciloniani, segna il passaggio verso una dimensione più "laica", nella misura in cui è adesso la razionalità delle leggi della polis a risolvere il conflitto. Con Solone (cap. IV) vi sono mutamenti essenziali: non è più possibile che un cittadino sia fatto schiavo a causa dei debiti e vi sono delle leggi soloniane che tutelano tutti i cittadini indigenti liberati dal legislatore dalla schiavitù (fr. 30 G-P). Le leggi diventano adesso immutabili e l'assetto politico-costituzionale stabilito da Solone rimarrà sostanzialmente valido nel futuro, a parte, si intende, mutamenti all'interno dei vari organi destinati a sfociare nella democrazia. Ma soprattutto, vi è la ephesis eis to dikasterion che si rivela indispensabile per la sopravvivenza della polis, nella misura in cui le assicura un equilibrio, come riconoscerà lo stesso Aristotele nel IV secolo, aprendo l'amministrazione della giustizia a tutto il demos. È necessario però che il demos mostri il suo impegno politico. Se Esiodo poteva esortare Perse a non dedicarsi alla vita politica impegnando tutto il suo tempo nel lavoro, Solone, rivolgendosi a tutti gli Ateniesi, ne rimprovera la passività e ne richiama l'impegno civico. L'ultimo capitolo (V), dedicato alle varie fasi del rapporto tra aristocrazia e demos da Omero a Solone, consente di far luce sulla (ri)conquista del potere da parte delle masse con Solone. In esso è emerso quanto segue: il divario economico tra i due strati è aumentato nel corso del tempo preso in esame, cioè il VII sec., e ha avuto come conseguenza l'emanazione di leggi suntuarie volte ad impedire il collasso della comunità. Contemporaneamente (sempre nel corso del VII secolo) si riscontra un livellamento all'interno dell'esercito cittadino (non vi sono più le aristeiai omeriche, aumentano le pressioni della società sui doveri del cittadino-guerriero e aumenta pure l'esigenza di difesa del proprio podere) dovuto alla sempre crescente esigenza di difesa della polis e del suo Lebensraum civico, destinato a sfociare nella falange oplitica, impegnando sempre più il cittadino in guerra. In altre parole, all'interno dell'esercito non vi sono più quelle differenze tra gli eroi e le masse che vi erano nel mondo omerico. Gli effetti di un tale mutamento si riverberano nelle contese interne che diventano più acute nonché dannose per la comunità, attestando un ulteriore passo verso quella dimensione "laica" già intravista con Draconte. Mentre per Esiodo, e in parte anche per Omero, gli effetti dell'ingiustizia si vedono nella punizione degli dèi, per Solone essi sono i mali concreti di Atene: staseis e guerra civile. Chi subisce un'ingiustizia non si appella più agli dèi: i cittadini degli strati inferiori della società, in quanto divenuti opliti, possono dar vita a pericolose staseis. Il problema del singolo coincide ancora di più con quello della comunità nel suo complesso. Fu così che si raggiunse con Solone la tutela dei diritti del cittadino nell'Atene arcaica. Il ruolo attribuito alla evoluzione militare ateniese è contrario alla communis opinio formatasi a partire dal Frost (1984). Questa è stata messa in discussione recentemente dal van Wees e dal presente lavoro, attraverso una rivalutazione di alcune campagne militari condotte da Atene in età arcaica.
Dottorato di ricerca in Storia e cultura del viaggio e dell'odeporica nell'età moderna ; I capitoli introduttivi di questo lavoro di tesi delineano la storia del viaggio, analizzando le esperienze del patrimonio collettivo, strettamente legate alla mobilità, in un excursus che attraversa le varie epoche. Si sono esaminati i viaggi degli eroi alla ricerca della conoscenza e di orizzonti sempre nuovi da scoprire e il pellegrinaggio che trae origine dal viaggio di espiazione di Adamo e Eva ed ha come scopo la purificazione dalle proprie colpe, per affrontare poi il pellegrinaggio dell'anima volto all'edificazione di chi lo compie, attraverso la conoscenza dei luoghi santi. Nell'XI XII secolo fiorisce la cultura profana e con essa i viaggi a scopo culturale, verso le università e i centri di sapere, ma anche i viaggi dei mercanti verso l'estremo oriente, regno delle spezie e delle meraviglie. Le prime esplorazioni africane e atlantiche permettono infine di aprire nuove vie al mercato delle spezie, ma anche di convertire nuovi popoli alla fede cristiana. Nel cinquecento nasce il viaggio moderno: saranno soprattutto i giovani inglesi aristocratici o i ricchi rampolli della classe borghese ad attraversare le Alpi, accompagnati da un tutor, alla volta dell'Italia, per osservare di persona i luoghi di cui hanno letto sui libri. Fondamentale sarà il saggio baconiano Of travel del 1597, che definirà le norme per il viaggiatore dando utili consigli per preparare e affrontare il viaggio.Le strade del vecchio continente si popolano di giovani stranieri, ormai non più soltanto inglesi, ma anche francesi e tedeschi, ben presto il fascino dell'Oriente, dell'India e delle mete esotiche subisserà le mete europee. Con il Grand Tour il viaggio diventa finalmente un tempo di piacere e con le scoperte archeologiche alla metà del settecento l'itinerario si arricchirà di nuove tappe nell'Italia meridionale. Nel XIX secolo nasce il turista moderno: nel 1841 Thomas Cook organizzerà viaggi di piacere dapprima per le classi operaie, per rivolgersi poi alle più ricche.Infine, le spedizioni geografiche a scopo di studio, troveranno ampio risalto nelle riviste specializzate: si sono prese in esame le pubblicazioni dei Fratelli Treves.Nel 3 capitolo, invece, si è preso in considerazione un manoscritto conservato presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma. Si tratta di un quaderno che racchiude le Memorie storiche della deportazione del Canonico Telesforo Galli, avvenuta tra il giugno 1810 e l'aprile 1814, a causa del mancato giuramento di fedeltà a Napoleone. Galli ripercorre nelle sue Memorie gli anni memorabili tra il 1808 e il 1814, quando il governo francese prese ostilmente possesso della città di Roma e usurpò ingiustamente il governo di tutto lo Stato Pontificio, deportandone il legittimo sovrano, Papa Pio VII, dapprima a Savona e poi in Francia. La scrittura è molto sintetica, si susseguono nomi, date e luoghi che lasciano poco spazio all'evocazione d'immagini paesaggistiche, ma è ugualmente interessante seguire l'autore in questa diaspora che lo porterà dapprima come deportato e poi come detenuto a Piacenza, Alessandria, Genova e, infine, nelle carceri di Bastia, in Corsica, dove resterà fino alla liberazione.A tratti il manoscritto presenta le caratteristiche del pellegrinaggio dell'anima, qui, diversamente dal viaggiatore medievale, che si reca nei luoghi sacri per edificarsi, sono i protagonisti della deportazione a rendere i luoghi di detenzione meta di numerosi benefattori, ai quali sono dedicate queste Memorie, edificati dalla fede di questi coraggiosi.Quando tutto sembra ormai concludersi nel migliore dei modi, durante il viaggio di ritorno ecco scatenarsi una paurosa tempesta, che mette nuovamente in pericolo di vita il protagonista e i suoi compagni; si concluderà con una breve quarantena nel porto di approdo e il ritorno a Roma, dove Galli assisterà al trionfale ritorno di Pio VII. ; The introductory chapters of this thesis work outline the travel history, looking at the experiences of the collective heritage, closely linked to mobility, through various ages. Heroes travels were examined searching knowledge and new horizons to be discovered and the relative pilgrimage originated from Adam and Eva atonement travel the purpose of which is them faults purification, in order to face the soul pilgrimage aimed to reward who is doing it, through the Saint Places knowledge. During XI and XII century the profane culture blooms and also the cultural travels, towards universities and the knowledge centres, but also the merchant's travels towards the Far East, spices and wonders kingdom. Initials Atlantic and African explorations allow to open then new spices market ways, but also to convert new people to the Christian faith. In the XVI century, starts the modern concept of travel: English aristocratic young people or scions of the rich bourgeois class, will cross the Alps, accompanied by a tutor, to travel through Italy, to observe personally about the places they have read on the books. Fundamental will be the baconian text Of Travel, (year 1597), which will define the traveller rules, giving them useful suggestions to prepare and face the travel. Old continental streets start to be populated by young foreigners, now not English only but also French and German, but soon they will prefer the Oriental or Indian charm or the other exotic destinations.At the Grand Tour age, travel finally becomes a time of pleasure, with the archaeological discoveries around the half of the XVIII century, the itinerary will enrich of new stages in the southern of Italy. In the XIX century born the modern tourist: in 1841 Thomas Cook will organise pleasure travels first of all for the working class, then for the richest people. Finally, geographical expeditions for study, will find wide prominence in specialised magazines. Brothers Treves publications were taken into consideration. In Chapter 3, instead, was taken into consideration a manuscript kept at the Vallicelliana library of Rome. It is a notebook that encloses the historical memories of Canon Telesforo Galli deportation, it took place between June 1810 and April 1814, due to the non-oath of allegiance to Napoleon. Galli retraces in his Memories the memorable years between 1808 and 1814, when the French Government took hostilely possession of Rome and it usurped unjustly the Church State Government , deporting Pope Pius VII, the legitimate sovereign, first in Savona and then in France. The way to write is very synthetic, names, dates, and places come one after the other, leaving small space for the landscape images evocation, but is equally interesting to follow him into this diaspora that will lead him first as deportee and then as prisoner to Piacenza, Alessandria, Genova and, finally, in Bastia and Corsica's prisons, where he will remain until the liberation. Sometimes the manuscript presents soul pilgrimage characteristics, here, unlike the medieval traveller, who goes to holy places for reward himself, deportation protagonists make detention places a destination of many benefactors to which are dedicated these memories, rewarded by the faith of these courageous. When everything seems to be concluded in the best way, during the return journey a dramatic storm starts, which puts again in danger the protagonist life and his companions; it will conclude with a short quarantine in the arrival port and the return to Rome, where Galli will assist the Pius VII triumphant return.
Affrontare la questione dell'antimperialismo in José Martí risulta particolarmente impegnativo sia per l'ampiezza e la multiformità dell'opera dell'eroe nazionale cubano, attraversata da questo tema in tutte le sue declinazioni, sia per la mole di studi che da più di un secolo hanno cercato di approfondirla, prendendola in considerazione da molte angolazioni diverse. Attorno al progetto di integrazione dei popoli dell'America latina come unico modo per affrontare l'incipiente imperialismo nordamericano, intuito da Martí nelle sue basi socio-economiche, ruota un intreccio di implicazioni politiche, filosofiche, culturali, artistiche. La dialettica costante tra esperienza e capacità di rielaborazione creativa sotto il profilo artistico e filosofico, che ha sempre trovato la sintesi sul piano dell'azione, rende l'opera multiforme di Martí un unico "sistema", alla cui costruzione permanente concorrono una molteplicità di trame e di percorsi, affidati a linguaggi diversi, dalla poesia all'articolo di giornale, dalla lettera al racconto per l'infanzia, dal teatro al romanzo. Accanto a studiosi, come il cubano Roberto Fernández Retamar, che hanno proposto una chiave di lettura complessiva dell'antimperialismo martiano, ve ne sono moltissimi altri che hanno affrontato il tema a partire dallo studio di specifici aspetti del pensiero e dell'opera di Martí, guardando ad esso da prospettive diverse, dalla critica letteraria, alla storia, all'antropologia, e contribuendo ad arricchirne la comprensione sempre più profonda. Purtroppo, se in America Latina e in primo luogo, ovviamente, a Cuba, gli studi martiani continuano ad essere fiorenti, e, in concomitanza con i processi di integrazione continentale in atto da circa quindici anni, vivono una fase di particolare fermento, altrettanto non si può dire dell'Europa, dove Martí è ancora poco conosciuto. Questo lavoro si propone di individuare e approfondire alcuni filoni tematici, seguendone il dipanarsi all'interno dell'opera martiana, con l'obiettivo di approssimarsi ad una visione di insieme della dimensione antimperialista del pensiero e dell'opera martiani, permettendo di indagarne la complessità attraverso l'analisi di alcuni testichiave, e di stabilire relazioni all'interno della sua produzione. Nel primo capitolo, ripercorrendo brevemente la traiettoria della vita e dell'azione di Martí, dalle cospirazioni giovanili alla fondazione e alla guida del Partito Rivoluzionario Cubano, strumento della guerra di liberazione, si metteranno in evidenza le tappe principali della presa di coscienza della sottomissione a cui andava assoggettandosi l'America latina ad opera della crescente potenza nordamericana, e della necessità di concepire la lotta di liberazione di Cuba dal dominio spagnolo all'interno di un progetto di integrazione continentale. Nel secondo capitolo verrà analizzata l'esperienza di Martí in Messico, Guatemala e Venezuela, mettendo in risalto il percorso che porterà il cubano a quella che Fernández Retamar, nel suo saggio Martí en (su) Tercer Mundo, ha chiamato «la rivelazione della "nostra America"»: nei tre paesi latinoamericani, Martí si inserisce nella vita politica e culturale, e assume progressivamente la coscienza della profonda unità del continente, che chiamerà "nostra America", e della necessità che il progetto di liberazione ed integrazione latinoamericana segua percorsi politicamente e culturalmente autonomi rispetto ai modelli delle metropoli coloniali. Si farà riferimento in particolare al lavoro portato avanti da Martí prima con il tentativo di pubblicazione della "Revista Guatemalteca" e poi con i due numeri della "Revista Venezuelana", per poi gettare uno sguardo alla visione martiana dei grandi uomini della "nostra America", degli "eroi" latinoamericani, prendendo in considerazione la relazione di Martí con la figura del Libertador Simon Bolívar. Il terzo capitolo è dedicato alle Escenas nortemericanas, il corpus degli articoli scritti da Martí durante il suo soggiorno di quindici anni negli Stati Uniti. L'esilio gli permise di conoscere a fondo l' "altra" America, quella a nord del Messico, caratterizzata dall'ascesa di un nuovo, feroce modello di sviluppo economico e culturale, che iniziava a rivelare in quegli anni le proprie ambizioni imperialiste verso l'America latina. Martí entra nel marchingegno del nascente imperialismo, cogliendone i fondamenti socio-economici e culturali, e il sostrato di sfruttamento e sottomissione, e descrivendolo nel caleidoscopio delle sue cronache, destinate a pubblicazioni giornalistiche di vari paesi latinoamericani e determinante terreno di sperimentazione per un profondo rinnovamento della lingua. Martí raggiunge una comprensione profonda dei caratteri della modernità nordamericana, da un lato fonte di stupore e di apprezzamento, dall'altro vista, nei suoi risvolti "mostruosi", come inadatta ad essere importata in America latina, oltre che come una delle cause stesse del permanere di quest'ultima in una condizione di arretratezza e sottosviluppo. Preso in esame il percorso che porta il cubano a cogliere le dinamiche dell'imperialismo statunitense, si analizzeranno alcune cronache che rivelano la visione martiana della modernità, e alcuni ritratti martiani di nordamericani, figure eminenti della politica e dell'arte contemporanee, attraverso i quali è possibile cogliere una strategia educativa rivolta ai lettori latinoamericani, attraverso la presentazione di modelli e antimodelli di comportamento: al centro delle cronache si colloca l'esigenza di mettere in guardia da un'adesione acritica a modelli alieni dalle specificità della "nostra America", e di denunciare il pericolo mortale costituito dall'imperialismo. Infine si prenderanno in considerazione, analizzando alcune cronache che raccontano gli scioperi operai e le proteste anarchiche del maggio 1886 a Chicago, le idee di Martí rispetto ai problemi sociali e al ruolo delle classi lavoratrici; le esperienze e le riflessioni elaborate negli Stati Uniti saranno determinanti al momento di gettare, pochi anni dopo, le basi teoriche e organizzative della guerra di liberazione, quando Martí riconoscerà negli operai e nei lavoratori i soggetti principali che avrebbero potuto condurre, in nome dei valori del lavoro e della giustizia sociale, la battaglia antimperialista. Negli anni trascorsi in America latina Martí ha individuato nel mestizaje, ovvero nel confluire di europei, indios, afroamericani nella costruzione dell'identità latinoamericana, il tratto distintivo di quella che ha chiamato "nostra America"; nel quarto capitolo si proverà ad approfondire questa concezione, rispondendo ad alcune domande, che chiamano in causa aspetti fondamentali dell'antimperialismo martiano. Qual è la visione martiana della storia dell'America latina? Quale posto occupano gli indios discendenti delle grandi civiltà precolombiane nel progetto di integrazione latinoamericana? Si ricostruirà, attraverso una selezione di testi, la concezione martiana della Storia del continente, e i tratti del suo pensiero indigenista, che risulta caratterizzato in senso antimperialista, distinguendosi nettamente dalla visione della componente indigena dell'America latina propria, ad esempio, del contemporaneo Domingo Faustino Sarmiento. Si vedrà come gli indios rappresentassero per Martí una delle componenti che concorrono alla definizione identitaria del continente, portatori di valori e forme di pensiero con cui ogni latinoamericano è chiamato a confrontarsi: ogni forma di razzismo nei loro confronti è rigettato. Martí immaginava l'America latina futura non come mera risultante di una coesione politica, ma come spazio nel quale si sarebbe realizzata pienamente l'identità "mestiza". In altre parole, riconosceva nitidamente che era la cultura il terreno dove si doveva giocare la partita politica. L'attenzione rivolta alla cultura come arma dei popoli oppressi da un sistema non ancora definito "imperialismo" ma del quale aveva colto di fatto i nodi più profondi, si traduce in Martí in una costante preoccupazione per la questione della formazione dell'uomo. Si vedrà come nella raccolta di racconti per bambini intitolata La Edad de Oro, diversi testi, come "El padre Las Casas" e "Las ruinas indias", sono dedicati alla presentazione di personaggi e vicende della storia del continente, nei quali emerge chiaramente l'importanza attribuita da Martí alla componente degli indios. Il quinto ed ultimo capitolo si propone di sviluppare alcune considerazioni a proposito della riflessione martiana sulla cultura. La letteratura e l'arte emergono, in relazione al suo progetto storico antimperialista, come una vera e propria esigenza strategica: l'arte coeva gli appariva inefficace in quanto non era espressione dei tempi, e se lo scopo di Martí era quello di raccogliere attorno alla cultura la frammentazione sociale del continente latinoamericano, non era possibile scindere il percorso verso l'emancipazione dell'America latina da un'arte che fosse all'altezza del progettato rinnovamento. Si metteranno in luce in particolare le caratteristiche dell'ideale di intellettuale e di uomo di lettere latinoamericano, impegnato attraverso la sua opera creativa nella battaglia per la liberazione del continente dal colonialismo culturale, e della nuova letteratura concepita da José Martí, valutando come in essa confluiscano i tratti principali dell'antimperialismo studiati in questo lavoro: si vedrà come essa debba essere riflesso del mestizaje, incorporandone tutte le componenti per tendere ad una espressione originale, che rifiuti la copia di stili e correnti letterarie proprie aliene dall'autenticità latinoamericana. Gli ideali martiani riguardo alla letteratura e all'arte avranno un'influenza fondamentale su molte delle correnti del '900 latinoamericano: risulta particolarmente interessante valutare i punti di contatto tra le idee espresse da Martí e la teorizzazione del "real maravilloso" da parte del cubano Alejo Carpentier, autore impegnato, in continuità con Martí, in una riflessione costante sull'identità latinoamericana, che attraversa tutta la sua opera di giornalista e di romanziere.
The Third Reich towards the Church in Upper Silesia. Fr Jan Macha (1914-1942), martyr of the Christian charity. Upper Silesia is a unique part of Europe and Poland. In the past centuries, this region changed its nationality several times. It is a region with a very complex history. What remains unchanged is the faith standing by the Catholic Church and Christian values. During the Second World War, many inhabitants of Upper Silesia were persecuted by the Nazis. Among them there were many clergymen from the diocese of Katowice. One of them is Rev. Jan Macha, who for his commitment to charitable activities for suffering people, was arrested by the Germans, tortured, and at the end guillotined in the prison in Katowice. In the article, history of his life, work for people who needed support, and his martyr's death are depicted against the background of the political, social and religious situation in Upper Silesia during the German occupation. ; Bibliografia: Fonti d'archivio: Archivio della Famiglia Macha di Chorzów Stary (AF), Ricordo della Prima Santa Comunione di Jan Macha. AF, Decreto della Curia Diocesana di Katowice n. P M LV 3/39 del 29.08.1939. AF, Diploma di maturità di Jan Macha, Królewska Huta, 20 giugno 1933. AF, I ricordi di Róża Trojan riguardanti Hanik. AF, Invito all'ordinazione sacerdotale e alla prima messa di don Jan Macha. AF, L'ultima lettera ai genitori, Katowice, 2 dicembre 1942. AF, Rosario Perpetuo - tessera di Jan Macha. AF, Sterbeurkunde, n. 1263/1942 z 7.12.1942. AF, Tessera dello studente di Jan Macha - Facoltà di Giurisprudenza dell'Università Jagellonica. Archiwum Archidiecezji Katowickiej (AAKat) [Archivio dell'Arcidiocesi di Katowice], Akta Personalne ks. Jana Machy (AP) [Gli Atti Personali di don Jan Macha], Curriculum vitae, Chorzów, 20 luglio 1933. AAKat, AP, Certificato di cresima di Jan Macha, Królewska Huta, 24 giugno 1933. AAKat, AP, Certificato di moralità rilasciato da don Stefan Szwajnoch II, Chorzów, 2 luglio 1934. AAKat, AP, Decreto del vicario nella parrocchia di San Giuseppe a Ruda, Katowice, 6 settembre 1939. AAKat, AP, Documento del 24.06.1939, scritto da Bieniek a Macha. AAKat, AP, Lettera segreta scritta da Joachim Gürtler dal carcere.AAKat, AP, Opinione del rettore riguardante il candidato all'Ordine, Cracovia, giugno 1939. AAKat, Akta Rzeczowie [Atti di Materiali AM], Sezione: Pastorale penitenziaria, vol. I: 1923-1962, segn. ARZ 632, Relazione del cappellano penitenziario don Joachim Besler - frammenti, il cosiddetto "Taccuino rosso". Archivio dell'Istituto Storico Militare [attualmente Archivio Militare Centrale a Rembertów], n. prot. III/100/8, parte I: Uwagi o Śląsku [Considerazioni sulla Slesia]. Bundesarchiv Berlin-Lichterfelde (AB), segn. R 3017, Atto di accusa di don Jan Macha, di Joachim Gürtler e di Leon Rydrych, Katowice, 14.02.1942. BA, segn. R 3017, Sentenza della condanna a morte emessa contro don Jan Macha, Joachim Gürtler e Leon Rydrych, Bytom, 23.07.1942. Archivio del Seminario Maggiore della Slesia di Katowice (ASMK), Associazioni clericali 1930-1938, n. prot. D-10, La composizione del Presidio della sezione slesiana dell'Aiuto Fraterno dei Teologi dell'Università Jagellonica del 25.01.1937. ASMK, Associazioni clericali 1930-1938, n. prot. D-10, Relazione dell'attività della sezione slesiana dell'Aiuto Fraterno dei Teologi dell'Università Jagellonica del 19.01.1938. ASMK, Registro degli Alunni, Ricezione degli ordini dal 1938, n. prot. C-21, Certificato degli ordini conferiti del 01.05.1938. Fonti edite: Adamski Stanisław, Orędzie J. E. Ks. 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INTRODUZIONE KRAMSKOJ : L'ARTE L'inizio dell'attività di Kramskoj riguarda gli anni 60 del XIX secolo: è un periodo in cui la Russia vede il primo sviluppo della borghesia e, conseguentemente, di avanzate lotte sociali da parte delle truppe popolari. Ciò si riflette in tutti gli aspetti del vivere russo, dopo le riforme apportate dallo zar a favore dei feudatari. Manifesta negli stati d'animo della massa popolare, questa lotta viene condotta da intellettuali di estrazione modesta, tra i quali il nostro artista. La sua vocazione artistica risiede proprio nel rappresentare le immagini e nel 1857 entra nell'Accademia degli artisti per apprendere la grande arte del passato. Ci sono pervenuti alcuni articoli e una vasta corrispondenza di Kramskoj con artisti, scrittori, critici, in cui l'arte rappresenta l'argomento principale di queste lettere. Una considerevole quantità della corrispondenza è formata dalle lettere del pittore a P.M. Tretjakov, fondatore della galleria nazionale dell'arte russa. Egli è il primo pittore ad aiutare Tretjakov in questa grande impresa: le sue lettere lo orientano nella scelta dei quadri per la sua galleria, secondo gli obiettivi e le caratteristiche dell'opera degli artisti russi. Inoltre, particolare attenzione merita una parte della corrispondenza dedicata alle lettere destinate ai redattori giornalistici A.N.Aleksandrov e a A.S. Suvorin. Spinto da un appassionato desiderio di facilitare la pubblicazione delle sue idee sull'arte ma completamente disinteressato ad ottenere fama, Kramskoj dona a questi uomini il suo pensiero, riassume la sua opera creativa in un modello, mantiene la tendenza democratica dell'arte propagandistica con fervore, un'arte diretta al servizio del popolo, e non della classe borghese, più propensa a preoccuparsi del proprio guadagno e della propria popolarità. In Occidente gli ideali democratici si rivelano limitati ai soli paesi con interessi inerenti alla borghesia, in Russia trovano un senso gli ideali incarnatesi soprattutto nella società oppressa e interessata al trionfo della democrazia. Questo pone le fondamenta per portare le questioni sullo sviluppo sociale al centro dell'attenzione degli intellettuali progressisti: proprio in Russia sorge un'arte capace di riflettere le aspirazioni e gli ideali dell'uomo contemporaneo. In questa posizione, venutosi a creare un punto di riferimento nella sua teoria estetica, l'arte, in particolare quella plastica, acquisisce il significato di una specifica attività umana. In una delle sue lettere egli stabilisce così la facoltà dell'arte plastica: ". ogni uomo abbastanza intelligente, vivendo nel mondo, sforzandosi di usare la lingua umana, sa molto bene che ci sono cose che il linguaggio non può assolutamente esprimere. Egli sa che proprio l'espressione del viso viene in aiuto a tempo debito, altrimenti la pittura non ha ragione di esistere". Questa sua espressione può essere facilmente compresa in maniera errata, come negazione del ruolo chiave delle idee nella creazione dell'opera artistica, ma naturalmente questo non è sminuire il ruolo dell'arte; anzi, egli porta come esempio la fortuna dell'arte nell'Antica Grecia e nel Rinascimento europeo a dimostrazione che, come allora, l'arte raggiunge l'apice perché partecipa alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita popolare e esprime i desideri,gli ideali e la fede del popolo. Prima di tutto egli considera lo sviluppo dell'arte democratica nella sua liberazione dal potere "feudale" dell'Accademia."Penso, - scrive già nel 1886, - che in ciò si racchiude l'eliminazione di tutte le anomalie a favore di una sana crescita". C'è però da considerare che la liberazione della personalità cela in sé un nuovo pericolo per l'arte democratica: il pericolo dell'individualismo. Per salvare l'arte da questa calamità il pittore propone come uno dei capisaldi fondamentali dell'arte la sottomissione dell'aspirazione individuale del pittore a favore dell'interesse del popolo. Ottenendo la libertà della rappresentazione artistica, egli si pone la domanda: "libertà da cosa?". E risponde: "Naturalmente, solo dalla tutela amministrativa, tuttavia è necessario che il pittore presti la più alta obbedienza e dipendenza.agli istinti e ai bisogni del popolo, all'armonia del sentimento interiore e al moto personale al servizio degli altri". Ciò che Kramskoj definisce "armonia del sentimento interiore e moto personale al servizio degli altri", noi la chiamiamo unità dialettica, ovvero gli interessi personali e sociali dell'uomo. E' notevole che egli viva in un'epoca caratterizzata da opposte tendenze, la rottura tra personale e sociale, poiché nell'unità dell'una e dell'altra egli individua il caratteristico limite della natura umana, la sua naturale, normale manifestazione. Basta quindi soffermarsi su queste straordinarie parole, scritte dall'artista F.A. Vasilev: "Voi umani siete la dimostrazione del mio pensiero, e cioè che la vita individuale, felice o infelice che sia, cominci con un immenso, sconfinato spazio, in cui i suoi ideali sono comuni a tutta l'umanità. E ci sono degli interessi, capaci di far vibrare il cuore, che pensano quotidianamente, che vanno oltre le gioie e le tristezze familiari,e sono di gran lunga più profondi". Se l'unità del personale e del sociale è stata definita come caratteristica della natura umana, allora per Kramskoj la sottomissione dell'arte agli interessi del popolo non significa assolutamente porre violenza alla personalità umana, il limite della libertà creativa dell'uomo, la libertà della creazione artistica è per il democratico pittore il libero Sviluppo dell'artista, il suo impegno sociale. Ma l'artista può servire il popolo solo conoscendo i suoi interessi, solo incarnando i suoi ideali nelle immagini, in modo chiaro e affine. Alla radice del problema occorre esaminare ancora una condizione avanzata dal pittore, quella sul carattere nazionale dell'arte: "Mi batto per l'arte nazionale. Penso che non esista altra forma di arte che quella nazionale". Egli pensa bene, che la forma nazionale stabilisca la possibilità di fare un'arte comprensibile e accessibile alla massa, anche se non racchiude la possibilità d'espressione di tutta l'umanità: secondo il pittore, ciò penetra nell'arte di quella nazione che si trova "davanti allo sviluppo dell'umanità". Un'altra regola generale che egli stabilisce in base all'analisi dell'esperienza riguarda la tendenziosità dell'arte, considerandola non nel senso di manifestazione delle sue idee astratte, prese da fuori; ma come rivelazione estetica del rapporto dell'artista con la realtà, che gli appartiene, poiché egli è uomo e cittadino. L'arte cessa di essere parziale, quando nell'artista muore la percezione della sua appartenenza all' "idea della vita umana", allora l'arte, come ad esempio nell'arte greca, nel Rinascimento, nell'arte fiamminga, privata della tendenziosità, "degenera nel puro diletto, nel lussuoso ornamento, così finisce col diventare artificiosa e muore". Il suo pensiero sullo scopo sociale dell'arte va ricercato proprio negli stretti rapporti con l'impostazione della questione nello specifico, essa fa parte dell'educazione morale dell'uomo, in particolare l'arte realizza la sua funzione educativa, il suo specifico. "L'artista, - scrive - non deve dare consigli edificanti", ma "rappresentare immagini, vive, reali, e su questa strada arricchire gli uomini": basandosi sulla realtà, l'arte attinge al suo stesso modello ed esempio, e aiuta l'uomo a essere migliore. Nell'impostazione della questione sul ruolo educativo dell'arte egli studia l'autorità dell'estetica illuminista, da Diderot, che aveva come ideale l'edificante arte di Greuze, prende a modello l'opera di L.N.Tolstoj e di I.E.Repin . Comprendendo giustamente la questione dell'arte pubblica come educativa, il pittore sbaglia quando pensa che l'educazione morale possa risolvere comodamente le contraddizioni della vita: ciò si ricollega con la sua incomprensione per la natura antagonista fra classi nella società contemporanea. Non per niente egli riporta con stupore il racconto di M.E. Saltykov – Ščedrin1: "il carassio idealista"2, dove si riconosceva nel personaggio. La sua idea sul cammino guida verso il riassetto sociale è, così, utopistico. A sua volta ciò, naturalmente, deriva dall'interpretazione idealistica della storia, caratteristica della concezione illuminista. Ma non bisogna trarre la conclusione che l'arte, e in primo luogo quella dei pittori realisti russi, non giochi un suo ruolo nella soluzione dei problemi sociali: chiarendo le vistose contraddizioni della realtà e insieme a queste manifestando nella lotta forze avanzate, formulando ideali democratici, l'arte russa contribuisce alla realizzazione della rivoluzione sociale e la sua forza è aspirare proprio ad arrivare fino all'origine, al realismo. Partendo dalla condizione fondamentale sulla natura dell'arte e dell'opera artistica,egli risolve la questione che riguarda la forma realistica nella tappa avanzata del suo sviluppo, manifestando costantemente il senso determinante dell'arte grandiosa. L'artista esorta a seguire l'arte del passato e quella a lui contemporanea: la rappresentazione artistica è sempre perfetta e può avverarsi solo se l'artista si sforza di rendere l'incarnazione della sua idea nel migliore dei modi: ". non gli scopi tecnici fanno progredire la tecnica, ma il perseguimento dell'incarnazione dell'idea". Nei giorni nostri una parte degli artisti pensa che la perfezione della produzione artistica ostacoli la percezione dell'arte di massa, e gli occorre un grande lavoro per chiarire il suo metodo formale affinché l'opera risulti comprensibile allo spettatore. E' interessante confrontare con quest'ultimo punto di vista il ragionamento di Kramskoj: "L'uomo riceve l'impressione dell'opera artistica solo attraverso gli occhi. Per inchiodare lo sguardo dello spettatore e richiamare la sua attenzione, è necessaria un'affascinante apparenza: in questo modo, se nel quadro c'è un non so che di persuasivo, penetra nel cuore dell'uomo, altrimenti la pittura non è comprensibile a tutti e spesso rimane nella sfera circoscritta degli amanti, degli intenditori, dei critici o di qualsiasi altro ruolo in cui l'arte pubblica risulta inoperosa". Così, secondo il pittore, l'eccellenza della forma artistica "è un'affascinante apparenza" ,vale a dire una condizione obbligatoria dell'arte di massa. Da autentico democratico, egli esprime fiducia per il senso estetico del popolo, dicendo che: " mai il signore si offenda di ciò che è semplice e non stupido, come la critica d'arte". Riconoscendo il parere di "migliaia di spettatori", "supreme autorità di giudizio per l'artista",egli parla in questi termini: "Chi fra tutti è più difficile accontentare? Gli uomini che si trovano tra due poli opposti di sviluppo: l'uomo semplice ma intelligente e il luminare". Nel concetto di " uomo semplice ma intelligente" si manifesta la sua profonda fiducia per il senso estetico, compreso nella stessa natura umana, corrotto dalla borghesia ignorante e dalla ricercata perfezione della persona illuminata. Tale è il suo atteggiamento riguardo alla questione del rapporto fra idea e forma nell'arte in generale; perciò i suoi sforzi si concentrano sull'elaborazione di questo problema a proposito dell'arte a lui contemporanea. Per lui il suo secolo è soprattutto un secolo "di conoscenza e di convinzione", quindi la prima esigenza che si presenta nell'arte contemporanea è l'attività creativa concepita non in rapporto alla comprensione intuitiva della realtà, capace di far fallire il pittore, ma in rapporto alla conoscenza scientifica delle imparziali leggi della natura. In queste parole è espresso il monito contro il soggettivismo, contro l'atteggiamento arbitrario nei confronti della natura, che conduce l'artista all'identificazione con il suo punto di vista distorto. Egli presta molta attenzione al problema che concerne la perfezione dell'arte e imposta la sua soluzione secondo il tipo di percezione che ha l'uomo contemporaneo. In termini scherzosi dice: "Vorrei soddisfare una mercantessa, che per niente non vorrebbe vedere sotto il naso Il "Nero". Cos'è questo "nero", che non vuole vedere la mercantessa? In concreto è la rappresentazione dell'ombra, e, nello stesso tempo, la percezione della tinta di colore nero come chiazza. Per principio, questa è la franchezza del procedimento artistico. La perfezione del procedimento artistico deve racchiudersi nell'impalpabilità del procedimento, realizzazione completa di tutti gli elementi della forma e contemporaneamente trasmissione del finissimo passaggio plastico e coloristico in forme realistiche. "Cosa occorre adesso, per non dire cose risapute? Non solo la mente occupa una posizione di rilievo, ma non deve anche farsi notare",".più è vicino alla verità, alla natura, più è impercettibile il colore". Egli ripete in continuazione che l'uomo contemporaneo è diverso da un modello coerente, da quegli "ingenui giganti" che dipinsero Velazquez e Rubens: ricordiamo ancora una volta che la sua è un'epoca di rottura con i vecchi principi e che questa crisi tocca l'animo umano; nella coscienza del pittore s'instaura un processo di sopravvalutazione di tutto ciò che pare incrollabile, che "ritorna" e che "è limitato", come se il conflitto interiore dell'uomo lo portasse definitivamente ad intraprendere la strada del dubbio e dell'esitazione. Egli vuole trasmettere e percepire non decisione, ma lavoro di coscienza. Sull'impostazione di tale questione psicologica egli è straordinariamente vicino a Tolstoj, personalità determinante per lo sviluppo generale del realismo russo in quel periodo: Černyševskij 3: definisce l'originalità dello psicologismo di Tolstoj "la dialettica dell'animo umano". Ciò si può dire sia per lo psicologismo dell'arte figurativa russa di questo tempo, stabilita teoricamente da Kramskoj, sia brillantemente personificata nella sua opera. Alla luce del problema, impostato in questo senso, deve cominciare a diventare chiara la ricerca della forma, capace di trasmettere la delicatissima fase di transizione, "la minima deviazione del piano di rilievo", del semitono nel luminismo e nel colorismo. Nell'organizzazione del suo pensiero estetico, occupa un posto importantissimo la questione sull'ideale dell'arte contemporanea: il senso estetico dell'Europa si sviluppa in quel tempo nel trionfo del vivere borghese, propenso a diventare l'inconfutabile norma del vivere umano; ciò contribuisce alla stabilizzazione dei rapporti borghesi, sui quali si è già detto sopra. Un'altra cosa che è già stata affrontata è la realtà russa, che penetra con il pathos della lotta di liberazione, generata dall'eroismo e dagli eroi: negando l'ideale come espressione del bello, "non evidente fra gli uomini", egli è estraneo alla negazione dell'ideale generale. Da democratico, egli sostiene ciò che ama e vuole il popolo:"da quanto so di quella parte di popolo che conosco (e di cui io faccio parte), questo è ciò che vuole: racconti eroici, e nient'altro"; perciò questi racconti non devono essere inventati, ma basati su eroi autentici. La loro autenticità è la dimostrazione " dell'esistenza reale della loro onestà e della loro schiettezza nel trionfo della verità". Quella della perfezione della creazione artistica ha rappresentato finora una delle questioni più discusse dell'arte sovietica, perciò sarebbe particolarmente interessante ricordare l'esatta definizione di limite di perfezione, dato da Kramskoj: "Osservando da molti anni compositori, pittori e architetti, so che in generale sbagliano quando, raggiunto il senso, la massima espressione, di solito pensano che è possibile ancora migliorare. E'questo appunto il concetto ed è un errore. Il concetto psicologico è tale che, se una volta la forma in questione manifesta il problema, ogni altra sarà solo peggiore [.] Se, attraverso il disegno e la lavorazione dettagliata, diventa in genere leggermente (e sottolineo: leggermente!) migliore, non sarà peggiore,ma maggiore, Dio me ne guardi!" . Con ciò noi ci imbattiamo nel giudizio scherzoso sulle eroine dal naso camuso del quadro di Kostandi "Gli uomini"4: "Non per controbattere, nella vita quei nasi lasciano profondamente a desiderare, ma nel quadro sono addirittura sospetti". Il ruolo di Kramskoj è importante non solo come teorico dell'arte, ma anche come critico degli avvenimenti artistici a lui contemporanei: fissando il corso dello sviluppo dell'arte russa a lui contemporanea, egli, con la stessa attenzione, segue il cammino dello sviluppo dell'arte in Europa, soprattutto in Francia, poiché, in quel periodo, Parigi è il centro attivo dell'arte in Europa. Sarebbe errato pensare che egli si accosti all'arte europea solo Dal punto di vista del suo superamento, anzi: tutte le lettere riguardo alle mostre che ha visto, senz'altro mantengono il pensiero su "a cosa corrisponde imparare". Egli riconosce la necessità per l'arte russa di uscire alla luce, così esclama: "Come fare per non perdere lungo il cammino il pregio più prezioso dell'artista, il cuore?" Ma è proprio nell'arte europea che egli non scorge il cuore e a questo proposito scrive: "Magari Patti5 ha il cuore? Ma perché, quando l'arte della borghesia consiste proprio nella negazione di questo pezzo di carne: ostacola il guadagno; è scomodo togliere di dosso la camicia al povero per mezzo delle truffe borghesi". Così, egli collega il carattere dell'arte contemporanea europea con la sua natura borghese, prendendo come riferimento il famoso artista spagnolo Fortuny6: "A volte la massa dei borghesi non può ricordare il suo nome più di una volta.eppure egli. è il loro portavoce". E'possibile comprendere cosa vuol dire Kramskoj dalle sue seguenti parole: "Non c'è persona che ha degli scopi sull'arte da portare avanti. ma dove sono? Non credete più a questi. E' meglio! Le opinioni dominanti, ovvero la loro assenza, è elevata a principio." In mancanza degli ideali comuni l'arte si chiude nell'ambito dei suoi obiettivi professionali e tutti i suoi sforzi si concentrano nel raggiungimento del virtuosismo: gradualmente il ruolo dell'arte si riduce alla funzione di puro svago, decorazione, che accontenta il gusto del borghese. Nel corso dell'arte europea comincia il periodo in cui, "tutti diventano uomini illuminati, perfino i maiali, in qualità d'illuminati, ritengono che il loro parere sia straordinariamente saggio e sono tutti obbligati ad accettarlo, non si può essere da meno, sebbene uno sia al corrente anche degli altri". I gusti borghesi, ovvero "la voce dell'aurea mediocrità", come la definisce il pittore, si prendono il potere nei confronti dell'arte: così accade che un talento come Fortuny si riveli, senza averlo previsto, portavoce dei gusti della borghesia, che può anche non sapere il suo nome. Tale è, fatte poche eccezioni, l'arte che si presenta alle mostre del Salone parigino. Giustamente Kramskoj rileva in quest'arte, che travisiamo in bellezza accademica, la "sfrontatezza" del rilievo e del colore, guarda con desolazione agli entusiasmi nei confronti di quest'arte da quattro soldi, che è molto simile ai grandi monumenti del passato. Egli scrive a proposito del Salone sulla mutata condizione dell'innovazione artistica in un unico stimolo, come dall'arena di una lotta concreta tra artisti. Ed ecco che, nella stessa corrente artistica europea, nasce un movimento che si contrappone al Salone:l' "impressionismo", o, come lo chiama il pittore, "Impressionalismo", vede la luce. Forse è sbagliato affermare che Kramskoj, senza tanti preamboli, tratti negativamente del nuovo movimento, anzi, inizialmente vi scorge qualcosa di vivo, che resiste alla routine salone – accademica. Nell'arte russa egli vi osserva una situazione completamente diversa: qui vi vede, contrariamente all'anarchia e alla competizione, che caratterizzano la vita in Europa, "un gruppo di uomini che operano contemporaneamente e che professano gli stessi principi" per questo egli scorge negli artisti russi il sincero interesse per la realtà, il desiderio di esprimere nell'opera il proprio atteggiamento verso di essa, e prende corpo in lui come "tendenziosità". Il pittore scopre la peculiarità dell'arte russa, in nome degli artisti russi, " per rendere il quadro tendenzioso non tendenzioso". Il criterio del pubblico russo, con la coscienza non ancora corrotta, nella quale persiste un briciolo di sano ideale, lo obbliga a cercare "la piena manifestazione di tale ideale" nell'arte, creando lo stimolo per lo sviluppo dell'arte in Russia, che corrisponde effettivamente alle nobili aspirazioni dell'uomo. Così, secondo il pittore, l'arte russa, che si manifesta con molta cautela, e nonostante ciò è sufficientemente chiara, ha tutti i requisiti per diventare la continuatrice della grande tradizione del passato nel XIX°secolo. Egli comprende che il valore nobile dell'arte può manifestarsi solo nella forma varia: ""L'inferno" dantesco è senza dubbio importante in poesia, ma anche "Le anime morte" di Gogol' non è da meno". Al pragmatismo dell'arte europea , basandosi sull'esperienza dell'arte russa,egli contrappone l'idea della poesia contemporanea come poesia "concetto, nobile slancio e sdegno per il male". Il pittore è profondamente convinto che l'arte russa stia affrontando un giusto percorso, che porterà inevitabilmente alla sua fioritura, non lo turba che per il momento "gli artisti russi dipingono con freddezza, troppo dettagliatamente, la loro mano è impacciata",e che essi "sono assolutamente incapaci con il colore, sono proporzionati con i loro modelli" etc.etc…; tuttavia con quale gioia, senza invidia, loda il successo di ogni artista russo, ogni notevole avanzamento della "scuola" ! Lo slancio sociale, che passa sotto il segno del democratismo d'umile estrazione e che si fonda in Russia dalle più favorevoli condizioni per lo sviluppo dell'arte, in condizioni di grande pathos ideologico, culminando verso gli inizi degli anni '80, termina dopo la sconfitta del populismo da parte dello zarismo: il crollo organizzativo comporta il disincanto sociale negli ideali del populismo, il terrore e l'oppressione della reazione politica provocano un calo dello slancio, ripercuotendosi anche nell'arte russa e facendo disperdere gradualmente i membri dei pittori ambulanti. Non capendone il vero motivo, Kramskoj soffre per questi cambiamenti così difficili, arriva a pensare ad una riconciliazione con l'Accademia, si spinge alla ricerca del cammino verso la salvaguardia dell'idea nella parola stampata, che anima la Società. Ma anche in questo suo momento difficile egli non abbandona la convinzione che la fioritura dell'arte russa, a cui si è dedicato una vita intera, è solo rimandata, che egli è ancora in testa. Il suo sogno unisce la futura fioritura dell'arte russa con l'arrivo di quel momento nella storia dell'umanità in cui "conclusosi inevitabilmente il periodo di transizione,in fin dei conti si arriverebbe a quella organizzazione che un tempo era, dicono, in terra, la preistoria, dove gli artisti e i poeti erano uomini, come gli uccelli che cantano per il puro gusto di cantare [.] solo a queste normali condizioni l'arte diventerà autentica e pura, e verranno concepite creazioni che le tradizioni nazionali attribuiranno a Dio, talmente sono belle, pure e impeccabili nella forma". Molte questioni sull'opera artistica, che animavano gli animi al tempo di Kramskoj, non perdono ancora oggi la propria attualità. I suoi enunciati sono interessanti non solo dal punto di vista dello studio dell'arte del passato, ma anche da quello degli interessi dell'arte del nostro tempo. La sua corrispondenza è la più ricca miniera sul pensiero dell'arte: in questa è racchiusa la sua argomentazione democratica e realistica, la più concreta nell'opera dei pittori realisti.
Questa tesi analizza gli elementi religiosi delle culture selk'nam e mapuche, utilizzando una prospettiva comparativa. In questa direzione, la tesi pone un'enfasi particolare sulla storia, sulle pratiche culturali e sulla posizione geografica nei territori abitati e popolati da entrambe le etnie. Attraverso approssimazioni storiche e antropologiche, possiamo osservare e riflettere sulla loro spiritualità e, più in particolare, sulla loro concezione del mondo; passando per miti, riti, simboli ed espressioni religiose di vario tipo, riusciremo quindi a ricostruire un corpus di credenze unico. Il presente lavoro utilizza una metodologia etno-storica, ma anche storico-religiosa, conducendo la discussione ad indagare la pertinenza dell'uso di queste discipline nello studio dei popoli indigeni e considerando, da un lato, i problemi metodologici nel loro studio (come quelli di un «religiocentrismo»), e, dall'altro, la difficoltà nell'identificare la veridicità di quelle implicazioni etnocentriche che, in lavori antecedenti, individuano processi di sincretismo religioso. Molti di questi problemi sono sorti durante una fase missionaria sia nel corso della conquista dell'America che della nascita delle Repubbliche in Sud America. Inoltre, un'osservazione dei processi di evangelizzazione dei popoli indigeni costituisce parte integrante delle nostre analisi. L'analisi comparativa presuppone una serie di problemi teorici e metodologici, il cui primo livello è costituito dalla storia. Non è semplice inquadrare cronologicamente le culture studiate, principalmente perché le informazioni che possediamo —provenienti da diverse fonti— indicano datazioni differenti. Tuttavia, l'antropologia ci permette di lavorare con una maggiore flessibilità temporale nello studio comparativo, assicurandoci una comprensione più ampia dei fenomeni indagati. Questo perché, a differenza della storia, l'antropologia si concentra su un'analisi di lunga durata delle pratiche culturali, non limitandosi a un periodo di tempo specifico. In primo luogo, la tesi si propone di presentare una prima approssimazione generale in merito alla pertinenza di questa ricerca, muovendo dalle ragioni che rendono necessario uno studio della religione dei popoli indigeni. Successivamente, la tesi espone gli aspetti teorici e metodologici della ricerca, indagando il dibattito riguardante la storia, l'antropologia e l'etno- storia delle religioni. L'elaborato tenta dunque di offrire un contributo alla definizione del concetto di religione dal punto di vista dei popoli indigeni e dal punto di vista delle difficoltà che presuppongono lo studio della religione. A partire da questa premessa metodologica, la tesi cerca di proporre alcuni concetti religiosi di validità universale che aiutino a studiare i casi particolari dei selk'nam e dei mapuche. La tesi non svolgerebbe il proprio compito senza un'analisi preliminare del panorama culturale indigeno in America, motivo per cui si sofferma brevemente sulla storia indigena dell'America Latina, incluso il dibattito relativo alle più recenti tesi relative ai primi insediamenti americani, alle origini dell'uomo alle latitudini più meridionali, alla storia precolombiana e - naturalmente - al problema delle fonti legate ai cronisti e all'evangelizzazione. Tutto ciò ha lo scopo di introdurre il lettore nel contesto storico e archeologico antecedente all'apparizione delle culture mapuche e selk'nam. Per quanto riguarda le questioni storico-culturali, la tesi affronta il passato dei selk'nam, i primi contatti successivi alla scoperta dello Stretto di Magellano, della Grande Isola della Terra del Fuoco e della mobilità dei gruppi nomadi nel Sud australe. Una sezione importante della tesi riguarda la relazione fra le comunità selk'nam e gli allevatori che cominciarono a stabilirsi nella Terra del Fuoco durante il XIX secolo. Questi prolungati contatti ebbero un grande impatto sulla cultura locale, sia per quanto concerne lo sviluppo di strumenti e armi sia per quanto riguarda l'acquisizione di alimenti e materie prime. Questo emerge anche nella mobilità di alcuni gruppi che passarono da uno stile di vita nomade a uno stile di vita sedentario, permettendo lo stanziamento in vicinanza di allevamenti che avrebbero successivamente lavorato. Per quanto riguarda il popolo dei Mapuche, la storia culturale appare maggiormente complessa. Prima di tutto, la definizione del concetto di cultura mapuche, in relazione alla denominazione storica di araucano, appare controversa e - inoltre – emerge una grande diversità interna, che permette di individuare diversi gruppi come i picunche, i puelche, gli huilliche, i pehuenche e i lafquenche, che si trovano geograficamente dispersi nei territori del Cile e dell'Argentina odierna, rivelando una grande mobilità geografica attraverso la Cordigliera delle Ande come costante storica. Per comprendere il passato dei mapuche è necessario quindi fare riferimento ai primi contatti avvenuti con gli spagnoli durante la scoperta e la conquista del Cile, dopo che questi stessi arrivarono nella zona centrale e avanzarono verso il Sud. Proprio in questa fase, infatti, i conquistatori incontrarono la resistenza araucana. Per gli scopo di questa ricerca, è necessario anche tenere in considerazione i problemi relativi all'evangelizzazione, delineando premesse sia di carattere generale che specifico. La ricerca trova dunque avvio dalle difficoltà riscontrate in merito all'analisi delle missioni stabilite nel territorio dei selk'nam, e anche al di fuori del loro territorio, così come nel caso delle missioni di Candelaria in Argentina e di San Rafael in Cile. Queste missioni finirono per decimare la popolazione indigena locale, conducendo inoltre a un indottrinamento religioso e culturale che produsse la cancellazione dello stile di vita degli indigeni, reclusi e forzati a effettuare lavori di qualsiasi genere per le missioni dei salesiani. Da questo punto di vista, l'evangelizzazione ha avuto un impatto diretto sulla morte di un gran numero di indigeni selk'nam, a causa del confinamento avvenuto principalmente a Dawson Island e dell'applicazione di restrizioni relativa all'abbandono della missione e alla violazione dei diritti degli indigeni, questione ancora in discussione dal punto di vista storiografico e politico. L'evangelizzazione dei mapuche si è basata sulle riduzioni e su missioni itineranti, con le conseguenti difficoltà e benefici generati dalle stesse missioni. In entrambi i casi furono stabiliti gli ordini religiosi incaricati di cristianizzare i popoli dei villaggi indigeni nel Centro- sud cileno. In questo ambito, il sincretismo religioso è molto evidente e fa leva su elementi comuni utilizzati dai missionari sfruttando la concezione del mondo delle culture locali. Per questo motivo, prendiamo ad esempio quanto accade nell'epoca della colonizzazione, avvicinandoci allo studio delle cronache come fonti storiche e mostrando il collegamento fra missionari e militari che scrissero degli aspetti religiosi di distinte comunità mapuche. Un elemento di assoluta importanza emerge quando si sottolinea la responsabilità degli studiosi storici in relazione al genocidio e al negazionismo storico. È per questo che abbiamo considerato pertinente l'inclusione di un capitolo a riguardo al genocidio degli indigeni commesso nei villaggi selk'nam e mapuche. Il genocidio caratterizzò diversi momenti della storia indigena, riducendo la popolazione di queste etnie in maniera significativa; si parte dunque dagli allevatori della Terra del Fuoco per poi passare alla colonizzazione e alla caccia dell'oro in territorio selk'nam, passando quindi per gli zoo umani e continuando con le migrazioni forzate delle comunità distinte selk'nam. Nel caso dei mapuche, la tesi osserva il tentativo di sterminio intrapreso dagli stati del Cile e dell'Argentina, ovverosia l'«Occupazione dell'Aracaunía» che la Conquista del Deserto. In questo caso, la tesi indaga l'azione degli eserciti e la persecuzione di stili di vita e costumi ancestrali; termina quindi con uno sguardo al tema dei diritti dei villaggi indigeni ai nostri tempi, considerando sia le loro condizioni che le loro esigenze storiche. Per quanto concerne l'ambito religioso, la tesi prende avvio con una esposizione della cosmogonia dei selk'nam, in cui vengono descritti i miti della creazione e dell'origine della Terra, così come lo studio degli antenati e degli eroi più significativi. Riteniamo importante includere anche una descrizione della cerimonia dell'Hain, costituendo questa un asse fondamentale della cultura selk'nam. La cerimonia era considerata come un rito di passaggio alla vita adulta, riservato soltanto agli uomini appartenenti a una società segreta e conformata da tempo immemorabile. Per quanto riguarda gli aspetti spirituali, la tesi indaga le credenze relative alla tradizione degli spiriti del bosco, delle superstizioni e delle manifestazioni rituali. Inoltre, indaga anche le forme dello sciamanesimo, dando enfasi alla figura dello sciamano come autorità spirituale che possiede poteri associati alla cura dei malati e delle pratiche magico-religiose. Infine, la tesi indaga la concezione del mondo selk'nam, concentrandosi su lavori etnografici antecedenti. Nel caso dei mapuche, e per quanto riguarda la religione, l'elaborato descrive la cosmogonia, esponendo in particolare il problema del sincretismo religioso e delle sue interpretazioni, tenendo dunque conto che i primi a documentare queste informazioni furono i missionari; continua quindi con le cerimonie di Nguillatún e Machitún, di fondamentale importanza per la comprensione delle esperienze spirituali e religiose nella comunità, oltre a costituire un fattore di grande coesione sociale. Per quel che riguarda la spiritualità e la simbologia, la tesi riprende gli studi relative alle credenze tra i mapuche sull'esistenza di distinti tipi di spiriti e sulla simbologia implicita delle cerimonie stesse. Nel caso dello sciamanesimo, la tesi affronta le figure (femminili e maschili) dei Machi che, come sciamani, operavano diversi trattamenti medici e di magia spirituale; pratiche che persistono tutt'oggi. In questo ambito, è possibile osservare una complessità nel campo religioso di un villaggio indigeno, principalmente per quanto concerne i problemi derivanti dal sincretismo e dall'acculturazione prodotti dalle conquiste militari e spirituali. Questo lavoro si prepone di chiarire il panorama spirituale delle culture selk'nam e mapuche tramite una visione comparativa, che rifletta sull'esistenza dello spirito come parte di una religione conforme. Anche se non si dispone di scritture o testi religiosi del tempo, questa tradizione è stata tramandata per via orale alle generazioni successive, fino ad arrivare ai giorni nostri. Gli elementi della convergenza in temi di pratiche e credenze, conducono all'idea generale che le culture studiate, oltre a non aver avuto contatti con altre etnie in precedenza, condividessero elementi in comune che potevano essere attribuiti a un'origine naturale, alla cosmologia, all'interpretazione dei fenomeni atmosferici, al tempo, al contatto con il soprannaturale e, soprattutto, alla particolare visione del mondo degli indigeni. Probabilmente entrambi i popoli si riferiscono a un passato comune, impossibile da rintracciare seguendo la storia o l'archeologia, ma che dà conto del carattere millenario delle loro tradizioni che, all'interno delle proprie culture, hanno subito profondi cambiamenti. Interi gruppi umani sono stati dislocati in luoghi geografici diversi, adottando caratteristiche delle aree stesse, che fossero esse costiere, montane o circondate da foreste autoctone. Questo contributo alla storia e all'antropologia delle suddette popolazioni ha inteso quindi prendere in considerazione le due culture e le loro pratiche spirituali in uno studio comparativo nel quale storia culturale e problemi teorici hanno favorito una riflessione generale sui fenomeni religiosi dei villaggi indigeni in America del Sud. ; This thesis analyzes the religious elements in the Selk'nam and Mapuche cultures from a comparative perspective. The emphasis is placed on their history and cultural practices, as well as the geographical situation of the territories inhabited by both human groups. By using anthropological and historical approaches, analytical observations and reflections are made concerning spirituality in general and cosmovision in particular, examining myths, rituals, symbols and the most varied religious expressions that constitute a diverse corpus of beliefs. This work uses a methodology characteristic of ethnohistory, with a focus on the anthropology and history of religions. It includes the discussion on this discipline's suitability for the study of indigenous peoples, considering both the methodological issues —such as religiocentrism— and the ethnocentric implications of previous works, as well as those derived from the processes of religious syncretism and evangelization. An emphasis is placed on the theoretical discussion about the concept of religion from an Americanist point of view, with the purpose of examining the idea of a supreme being or of supreme beings in the indigenous peoples, identifying the processes of cultural and religious domination, and analyzing the historical legacy of both cultures on the basis of documents by chroniclers, travelers, militaries and official authorities. ; Esta tesis analiza, desde una perspectiva comparada, los elementos religiosos de las culturas selk'nam y mapuche. Para ello, pone especial énfasis en la historia y prácticas culturales de estos grupos humanos, así como en la situación geográfica de los territorios habitados por ellos. Mediante aproximaciones antropológicas e históricas, se observa y reflexiona analíticamente sobre la espiritualidad en general, y sobre la cosmovisión en particular, pasando por los mitos, ritos, símbolos y las más variadas expresiones religiosas que constituyen un corpus de creencias diverso. El trabajo cuenta con una metodología propia de la etnohistoria, con un enfoque en la antropología y la historia de las religiones. Se presenta la discusión sobre la pertinencia del uso de esta disciplina en el estudio de los pueblos indígenas, considerando los problemas metodológicos —tales como el religiocentrismo— y las implicaciones etnocéntricas en los trabajos previos, así como los derivados de los procesos de sincretismo religioso y evangelización. Se enfatiza una discusión teórica acerca del concepto de religión desde la mirada americanista, con el objetivo de examinar la idea de ser supremo o de seres supremos en los pueblos indígenas, identificando los procesos de dominación cultural y religiosa, e incorporando un análisis respecto al legado histórico de ambas culturas basado en documentos de cronistas, viajeros, misioneros, militares y autoridades oficiales.
Scopo di questo lavoro è proporre una comparazione a livello tematico tra l'Odissea e il poema I Lusiadi, cui dà vita, nel 1572, Luìs Vaz de Camões, il maggiore scrittore di lingua portoghese. Dopo questo primo capitolo introduttivo, l'esposizione si focalizzerà sulla relazione che sussiste tra la cultura portoghese e quella classica. Nel secondo capitolo verrà introdotta l'episteme storica e culturale entro cui si situa il secolo de I Lusiadi: il secolo delle scoperte, delle Gesta Dei por Lusos, che vede assurgere ad eroe primario un Ulisse nuovo, dantesco, che con il suo "fatti non foste a viver come bruti" spinge a seguire nuove rotte e diviene - diremmo oggi, idolo, di naviganti e navigatori. Poi verrà introdotta, nel quarto capitolo, una sinossi del poema di Camões, funzionale all'indagine comparatistica. Dopo aver individuato riprese, riformulazioni e novità prenderà avvio lo sviluppo delle correlazioni individuate: nel quinto capitolo verrà analizzato il transito marittimo ed il suo fine, nel sesto capitolo il ruolo degli dei, nel settimo la struttura delle narrazioni e degli espedienti tecnici messi in opera per strutturarle (mise en abyme, flashback e flashforward). A seguire vengono dunque presentate, nel paragrafo 1.2, le peculiarità che fanno de Lusiadi un poema epico. In 1.3.1, la presentazione del cronotopo de I Lusiadi permette di avvalorare queste affermazioni. Nel paragrafo 1.4, infine, viene presentata la componente più innovativa del poema camoniano. 1.2 L'epica de "I Lusiadi" Nell'introdurre lo statuto epico del poema camoniano, vanno considerate non solo le radici profonde che legano quest'opera cinquecentesca all'epica classica, ma anche le variazioni sul tema che permettono al poema di rispecchiare in pieno la propria epoca. Camões canta il viaggio di Gama considerandolo molto più di un avvenimento concluso: quel viaggio rappresenta il culmine non solo delle esplorazioni della costa africana occidentale, iniziate con il vigoroso impulso dell'Infante Dom Henrique, ma della storia stessa del Portogallo che con tali esplorazioni si identifica a partire dal 1415. L'essenza ultima del poema non è però solo questa. Si è discusso a lungo, infatti, sulla natura simbolica del viaggio che viene rappresentato nei poemi epici. Questo schema definisce i tre momenti fondamentali della chiamata, del viaggio propriamente detto e del ritorno. Di contro, dal punto di vista della comunità, il ritorno dell'eroe costituisce l'obiettivo e l'unica giustificazione della sua lunga assenza. 1.3 Il cronotopo dell'epica Nel riflettere sulla capacità di autoanalisi di una comunità, è interessante notare come l'epica letteraria, a giudicare dalle sue migliori produzioni, non sbocci mai nei tempi d'oro di una nazione, ma nel momento del suo declino. Se ciò accadesse solo in un caso, potremmo ascriverlo al temperamento del poeta e considerarlo nei termini di tale specifica occorrenza. 1.3.1 Il cronotopo de "I Lusiadi" Camões vive alla fine di grandi avventure e all'alba di grandi cambiamenti. Così decide di cantare la grandezza della sua nazione e di coloro che l'hanno costruita. 2. Dalla follia di Ulisse alle gesta Dei por Lusos: esegesi di una rivoluzione mentale 2.1 Il Portogallo Rinascimentale Non è semplice riuscire a comprendere pienamente l'ascesa e il declino dell'Impero coloniale portoghese rinascimentale. Il Portogallo detiene una posizione di preminenza nella storia delle scoperte geografiche grazie a tre grandi imprese: l'apertura delle rotte oceaniche verso Oriente, la colonizzazione del Brasile e la diffusione della cristianità in terre lontane, soprattutto ad opera dei Gesuiti. I portoghesi del Rinascimento non erano tutti grandi pensatori; molti di loro, come Álvaro Velho e Pero Vaz de Caminha, erano uomini semplici, non colti, che presero parte con modestia alle scoperte e che, senza dubbio, sapevano come resistere alle difficoltà marittime. Intelligenze acute, come il vate Camões, combinarono una innata capacità di resistere alle avversità della vita con una disincantata, realistica visione del mondo, degli uomini, del Portogallo, che sottende l'apparente ottimismo patriottico dei Lusiadi. Forse queste qualità possono aiutarci a capire come tali uomini siano riusciti a raggiungere quasi tutti i lidi del mondo perseverando nel sacrificio. Molti della ciurma erano in realtà veterani dei viaggi di Dias. È probabile che questo resoconto di viaggio sia il diario di bordo di uno dei quattro vascelli – il São Rafael – che salparono dal Restelo, il porto di Lisbona, alla volta delle Indie. Eccone l'incipit: Nel nome di Dio. Uno degli scopi dei viaggi portoghesi era quello di scoprire se e che tipi di evidenze cristiane vi fossero in India. L'ideale sarebbe stato trovare qualche monarca cristiano e stringere alleanze politiche e religiose con lui, per quella convinzione secondo cui le navigazioni intraprese sotto l'egida della diffusione del Cristianesimo potevano avere buon fine e portare prestigio alla madrepatria. 2.2 Un caso tardomedievale: l'impresa dei Vivaldi In epoche anteriori al Rinascimento, comunque, si rendeva già manifesto un cambiamento culturale che, considerando superata l'idea del non più oltre, tentava la via del mare alla ricerca di nuove rotte. Vi furono già nel Medioevo alcuni che, salpati alla volta dell'Atlantico suscitando la meraviglia di chi li vide partire, non fecero più ritorno. Come sostiene Nardi, non è inverosimile che Dante abbia avuto notizia dell'accaduto e, ispirandosi a questa storia, sia riuscito ad animare della stessa intraprendenza la figura del suo Ulisse. Se l'Ulisse di Omero, al sicuro nella propria reggia, può lì attendervi una decorosa vecchiaia, tale sorte non si addice all'eroe dantesco, che personifica la ragione umana insofferente ai limiti e ribelle al decreto divino che interdice il trapassar del segno . L'Ulisse di Dante non nasce dallo sforzo erudito di un tardo umanista, abilissimo nel riprodurre fedelmente modelli; quanto poi il dantesco sia lontano dall'omerico è visibile al primo sguardo. Forse spira veramente, nel pathos con cui Dante dà ali al discorso del suo Ulisse, il futuro spirito dei viaggi intorno al mondo. L'oceano era la parte del globo terracqueo negata ai viventi, dove l'unica terra emersa era la montagna del Paradiso Terrestre; nessun mortale l'aveva impunemente violata. Dante sceglie di seguire un cammino differente da quello del suo Ulisse, una strada luminosa, non folle, ma sublimata da una visione cristiana delle cose e del mondo. L'Ulisse trecentesco incarna la nascita del mondo moderno e lo fa grazie ad una poesia di altissimo valore che sgorga dalla realtà dei fatti, da un evento tanto impensabile allora quanto la grandezza dei sogni e delle speranze umane. 2.4 Colombo e Vespucci: dall'arte alla vita. La realtà del Nuovo Mondo affonda l'incubo dantesco: la poesia si inoltra nel mare, seguendo stavolta Ulisse senza biasimarlo, diventa vita, vissuta e vera. Le gesta dei Portoghesi ricevono così il sigillo di Dio. 3. Ulisse e Lisbona: un legame da sempre 3.1 Le radici leggendarie Al fine di introdurre l'eziologia della città di Lisbona pare opportuno riportare l'episodio mitologico seguente che narra della fondazione della città . Nel frattempo, il nemico sconosciuto e occulto era in cerca di Ulisse. Si avvicinò alla donna che gli parlava. La regina, consapevole del proprio trionfo, continuava a incantarlo nel suo sguardo enigmatico. Aveva nostalgia del mare e sete di nuove battaglie. La presenza femminea, in primo luogo, rimanda all'archetipo del matriarcato, tipico delle civiltà mediterranee arcaiche. In seconda istanza, la presenza dei serpenti. Il serpente, nelle società matriarcali africane, viene considerato signore delle donne e della fecondità. Lorenzo Valla, tra il 1445 ed il 1446 al servizio del re di Aragona, afferma che in Portogallo si usa una forma del nome di Lisbona a pretesto di una derivazione etimologica da Ulisse, e sostiene che la referenza greca può notarsi al massimo in un ipotetico, sebbene infondato, elemento finale della parola, ossia in –hìppoi , in cui mito e realtà si incontrano . / Ulisse è quel ch' alza la sacra casa / alla dea che gli diè lingua faconda. / Dopo aver Ilio in Asia al suolo rasa / su terreno europeo Lisbona fonda) . In questo passo Paolo da Gama illustra al catual di Calicut gli stendardi di seta che svettano sulle navi portoghesi, su cui è dipinta la storia del Portogallo. Rodrigues parte da un'osservazione sul titolo del poema camoniano, sostenendo che Resende fu uno degli innovatori della parola Lusiadae, impiegandola per la prima volta – in vece della forma Lysiadae, molto usata dai latinisti rinascimentali – proprio nel seguente passaggio del Vincentius: …urbemque [ Olysses] suo de nomine primum Finxit Odysseiam, quae nunc carissima toto Cognita in orbe, ducem fama super astra Pelasgum Tollit. 3.3 Una Laudatio Urbis: letteratura apologetica a sostegno del mito. La laudatio si articola in maniera peculiare: si esaltano la strategica posizione della città, l'opulenza del porto, la salubrità del clima. 3.4 L'Ulisseia: Lisbona mulher à espera Se si guarda al secolo XVII, infine, Gabriel Pereira de Castro, autore nel 1636 dell'Ulisseia, altro poema epico con l'intento di narrare le avventure che portarono Ulisse alle sponde lusitane, ricorre all'Odissea come modello. L'evolversi di questa programmaticità è ben visibile fin dall'apertura, con l'invocazione alla musa, la dedica al re e l'inizio della narrazione in medias res, passando attraverso l'utilizzo della mitologia, il ricorso alla profezia ed una certa varietà stilistica che stempera il tono epico talvolta con episodi lirici, talaltra con inserti bucolici. Questa aspirazione letteraria incontra, nel Portogallo del secolo XVI, fatti grandiosi appena occorsi. Fin dall'esordio del poema è enunciata la poetica della verità e realtà dell'epos narrato. La varietà di inserimento della materia è strutturata in maniera armoniosa: è possibile notare infatti una lunga analessi costituita dalla narrazione di Vasco de Gama ai canti II – IV; seguono l'ekphrasis delle scene rappresentate sugli stendardi portoghesi al canto VIII e la profezia al canto X. Questi tre blocchi narrativi sulla storia portoghese sono assai istruttivi perché mostrano il procedere del poeta. Oggetto della narrazione è il passato portoghese, fino ad anni prossimi alla composizione del poema; l'ottica che caratterizza questo incedere muta di continuo: nel primo blocco dona una visione travagliata della monarchia portoghese, nel secondo è colma d'ammirazione verso i più fulgidi esempi di eroismo dei suoi servitori, nel terzo guarda alla colonizzazione futura. Il passato portoghese appare segnato dalla fragilità umana; non va mai dimenticata la situazione psicologica in cui de Gama è narratore. Canto I – il poeta dichiara la sua intenzione di cantare le gloriose imprese d'Asia e Africa dei portoghesi. Invoca per questo le ninfe del Tago e dedica il suo poema al giovane don Sebastiano. Bacco, dal cielo, non tollera la buona sorte dei portoghesi. Canto II – all'arrivo a Mombasa, un messo del re locale invita de Gama a sbarcare; i due degredados che de Gama manda in perlustrazione a terra sono ingannati dagli abitanti e da Bacco. Gli infedeli lasciano le navi insieme al pilota mozambicano che teme sia stato scoperto il suo inganno. Vasco de Gama invoca la Divina Provvidenza e Venere, per soccorrerlo, si reca da Giove chiedendo al padre di confermare l'aiuto ai portoghesi. Qui il re accoglie favorevolmente i portoghesi, e chiede di essere informato sulla storia del popolo lusitano e sulle traversie affrontate dai naviganti per giungere fino alla sua città. Canto III – Vasco de Gama dà avvio alla sua lunga risposta al re di Malindi. Inizia descrivendo la collocazione geografica del Portogallo e, dopo un cenno alle antichità portoghesi, tra mito e storia, ricostruisce la nascita del regno a partire da Enrico di Borgogna e dal figlio di lui, Afonso I, le cui vicende sono descritte in dettaglio. Il pianto del gigante, sotto forma di tempesta, segna la fine dell'angoscioso incontro. La narrazione al re termina con l'esaltazione della veridicità delle scoperte dei portoghesi. Camões canta infine a sua volta la grandezza delle opere portoghesi, esaltando il valore della poesia che le celebra. All'alba viene avvistata Calicut, meta tanto sospirata; de Gama, in ginocchio, rende grazie a Dio. Il poeta conclude il canto esaltando l'onore raggiunto grazie al valore individuale e al rischio della vita, non tra le mollezze e fondandosi sulla nobiltà dei propri predecessori. Canto VII – Camões celebra con ardore il valore dei portoghesi, introducendo poi una descrizione sintetica dell'India e dei suoi abitanti. Monçaide riferisce le principali vicende del regno del Malabar, a partire dalla conversione all'Islam del re Perimal, illustrando anche gli usi sociali e religiosi degli Indù. De Gama viene accompagnato fino alla reggia da un catual mandato dal re e, nella sala del trono, propone allo zamorino l'alleanza con i portoghesi; l'indiano rimanda la decisione all'incontro con il suo consiglio, facendo ospitare i portoghesi negli appartamenti del catual. Il poeta interrompe allora la descrizione per rivolgere alle ninfe del Tago e del Mondego una nuova invocazione in cui ricorda l'impegno profuso per la poesia e la scelta di cantare gli eroi che misero a repentaglio la vita per Dio e per il re. L'animo del re è mal disposto verso i portoghesi sia per i responsi degli auspici, che ne predicono il dominio, sia perché Bacco, assunti i panni di Maometto, appare in sogno ad un sacerdote musulmano esortandolo a contrapporsi ai cristiani, provocando così i maneggi dei musulmani e dei catuali. Venere, mentre i portoghesi sono sulla via del ritorno, appronta per loro il meritato riposo: una splendida isola oceanica in cui i naviganti possano provare le gioie dell'amore con le ninfe del mare. Canto X - Un sontuoso banchetto è pronto nel palazzo di Teti, che canta le future glorie dei lusitani, ricordandone le più brillanti figure: tra gli altri, Duarte Pacheco e Francisco de Almeida, Afonso de Abuquerque e João de Castro. Infine Teti conduce de Gama – privilegio straordinariamente concesso ad un mortale – a contemplare la macchina del mondo, illustrata secondo il modello geocentrico tolemaico, retta dalla Provvidenza Divina, mentre gli dei sono, dice Teti, solo bei nomi di cui Dio si serve per le cause seconde. Il poema si conclude con la dura invettiva contro l'insensibilità nazionale nei confronti della poesia e con l'invito al re a ricompensare i suoi fedeli servitori che rischiano la vita per lui; la poesia del poeta non cesserà di celebrarlo. La tematica dell'attraversamento, del transito, del viaggio che si compie in un moto dalle più disparate sfaccettature è stata numerose volte oggetto d'indagine e di riflessioni. Ad esempio, finita la narrazione al banchetto di Alcinoo, così possiamo leggere tra i primi versi del libro tredicesimo: [….] Ricordo e ritorno costituiscono un'endiade in cui i due termini sono inscindibile rinvio dell'uno all'altro: dimenticare il ritorno equivale alla perdita della propria identità, della propria destinazione, equivale alla condanna allo smarrimento errante senza un fine. Nel libro dodicesimo, ai versi riportati nel paragrafo precedente, riguardanti l'episodio della terra dei lotofagi, l'oblio è una terrificante evenienza che viene oggettivata da Omero nel loto. Tale meccanismo rimanda inferenzialmente ad un'altra oggettivazione presente in un altro mito: la mela offerta ad Eva nel giardino dell'Eden oggettivizza in sé la possibilità della conoscenza del bene e del male. In corrispondenza ossimorica con questa oggettivazione troviamo appunto il loto: se la tentazione propugnata ad Eva conduce alla conoscenza del bene e del male, quella offerta dai lotofagi porta all'oblio. ( Odissea, IX, 224 – 225 / 228 – 230 ) Possiamo vedere come contenga il germe del mito dantesco di Ulisse: "O frati", dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. La continua ridefinizione e rielaborazione di se stessi attraverso l'acquisizione dell'ignoto permette di prendere coscienza della propria finitezza, di avvertire l'urgenza della conoscenza, di spostare i baricentri epistemologici dagli infiniti celesti alla limitatezza mortale, che però racchiude in sé l'infinito della mente umana. 6.Il ruolo degli déi In questo capitolo verrà esposta in maniera sistematica la funzione degli dei all'interno dei due poemi presi in esame. 6.4.1 Atena. Per sollecitare la capacità decisionale del padre, Atena sottilmente agisce suscitando la commozione di Zeus. La dea, nel perorare la causa del proprio protetto, nel primo libro dell'Odissea dispiega in toto la propria capacità intellettuale e, appunto in sede di concilio, la vediamo fare leva in maniera incalzante proponendo il suo argomento preponderante: Ma il mio cuore si spezza per Odisseo cuore ardente, misero!, che lunghi dolori sopporta lontano dai suoi, nell'isola in mezzo alle onde, dov'è l'ombelico del mare: [………………………………….]Se però tale attributo avvicina ad una dimensione umana il dio, eccolo nel V libro riportare l'adorata figlia glaucopide alla lungimiranza divina, con una risposta che riguarda la punizione che attende i pretendenti. Infatti ai vv. 21 – 27 ricorda alla figlia che proprio a lei è affidato il compito di punire le malefatte degli usurpatori della casa di Odisseo. È ciò che Ermes, su comando del Cronide, riferisce a Calipso nel V libro, quando il messaggero degli dei viene inviato dalla ninfa per comunicarle la decisione del concilio riguardo all'eroe itacese: Ma certo il volere di Zeus egìoco non può Un altro dio trascurare o far vano. Quando infatti il Sole, nel XII libro, si lamenta del sacrilegio compiuto ai suoi danni ad opera dei compagni di Odisseo, ossia l'aver osato cibarsi delle vacche sacre a lui, protesta in maniera clamorosa ed estremistica: abbandonerà la terra per trasferirsi negli Inferi qualora i Greci non venissero puniti. (XII, 385 - 388) Oltre che le lagnanze del Sole, Zeus riceve anche le rimostranze di Poseidone, che, progenitore dei Feaci, si sente tradito da loro perché hanno reso troppo facile il ritorno di Odisseo, che pure il dio del mare sa di non potere impedire, in quanto assicuratogli dal destino e quindi dallo stesso Zeus che ne è garante. Che pietrifichi una nave al suo ritorno in patria, quando è già visibile dalla città, e copra la città stessa con un gran monte. Nel libro XX troviamo Odisseo in ascolto del pianto di Penelope, finalmente ritrovata e accanto a lui; crede sia una fantasia, e chiede a Zeus conferma del lieto presagio; vuole un segno divino ed uno umano che lo rassicurino sulla contingenza dell'evento che sta vivendo. (XX, 102 – 105 / 111 - 119) L'epifania gratuita garantisce la validità del segno, e risulta gratuita in quanto proveniente, nella sua manifestazione umana, da persona estranea al conflitto. Tale evenienza svolge una funzione maieutica nel procedere degli eventi; Odisseo comprende che è l'ora di agire, che il fato e gli dei lo accompagnano. L'ultima performance del padre degli dei ha luogo nel libro ventunesimo, e decreta la fine dei pretendenti dando il via alla gara con l'arco: […………….] 6.1.3 Poseidone Il ruolo di Poseidone può essere considerato quello dell'antagonista primario, portatore di distruzione, ma sopra ogni cosa figurazione del caos, della furia devastatrice che, nella propria ira, diviene causa primaria del lungo peregrinare. All'inizio, nel libro I, durante il concilio degli dei, il dio non è in sede: sta smaltendo i bollori nel paese degli Etiopi, dove gli vengono tributati lauti sacrifici. Così Camões, affidandosi al proprio amore per l'antichità, sceglie di reintrodurli, e di dare loro una posizione preminente nel proprio schema principale. Gli dei sono comunque reali, nel senso che incarnano forze potenti nel cuore umano e nello scorrere della vita. Nel Rinascimento questi due mondi potevano convivere fianco a fianco. Non è il dio del vino e dell'estasi dionisiaca, ma lo spirito orientale nella propria vanità, astuzia e disordine. A Giove - come a Zeus nell'Odissea - spetta la decisione finale, ma egli è al di fuori della battaglia. A Mozambico diffonde cupe voci, ma viene frustrato nel suo intento dall'accortezza di Gama. Camões si concede una fantasia bizzarra nel rappresentare Bacco rogante all'altare. Tutto ciò non è mera fantasia; ha delle basi nella storia. Determinato nell'impedire che la flotta raggiunga l'India, Bacco invoca i poteri del mare affinché scatenino una tempesta. Avendo sofferto a causa della malignità degli uomini, adesso soffrono per la malignità degli elementi. Una volta ancora Venere e Bacco fanno le veci dei poteri sovrumani che aiutano o ostacolano i portoghesi. Le benefiche forze del mondo che nascono dalla civiltà non vengono spesso mostrate in natura; le forze del male, che riempiono il cuore dell'uomo di nefandezze e menzogne sono simili alla violenza dei poteri naturali che gli esploratori devono affrontare. In Venere e Bacco Camões mostra una dicotomia fondamentale del mondo, una lotta tra gli opposti nella quale uno dei due deve necessariamente cedere il passo all'altro. Alla fine Venere vince. Nella propria mitologia pagana Camões crea nuovi simboli per mostrare la reale situazione che intravede come sostrato del viaggio di Gama. Dall'apertura del concilio degli dei nel canto I alle ultime parole di Venere nel X non smette di prendere il massimo da ogni opportunità che gli si presenta. La prima riunione degli dei avviene in un immenso aere olimpico. ( I, 20, 5 – 6 ) Qui, Giove, assiso sul trono; e quando gli dei si dispongono secondo l'ordine previsto si rivolge loro con un linguaggio che si addice alla loro olimpica posizione: O Eterni Abitatori del lucente Polo e del vasto chiaro Firmamento. I poteri che lavorano nell'universo hanno la gloria e la maestà che l'entusiasmo dei giovani conferisce all'oggetto della propria devozione. In questi esseri, al di sopra del tempo e delle altre limitazioni proprie della finitudine mortale, Camões trova l'antitesi delle proprie tribolazioni e il fulcro dei suoi desideri. La protettrice del Portogallo è ancora la dea dell'amore e della bellezza, ed il poeta è fiero del fatto che il suo Paese sia favorito da lei. Gli uomini hanno la loro gloria, ma la gloria degli dei è al di sopra delle possibilità umane. Libero dalle inibizioni teologiche del Medioevo e duramente colpito dalla controriforma, egli lavora in maniera certosina al fine di inserirli nel proprio poema. L'accanita lotta degli esploratori portoghesi è una parte del racconto; l'altra parte contiene tutto ciò che gli dei rappresentano: la gioia e la gloria che portano con sé, l'ordine che istaurano. Aderendo a questa convenzione della poesia epica Camões ottiene un successo trionfale. Come Correggio e Raffaello, Camões comprende gli antichi numi e adatta il loro significato al proprio tempo. 6.4 Che posto per gli Dèi? Il Vate tuttavia non è pagano ma cattolico, suddito di un re cristiano, ed il suo Portogallo doveva gran parte della propria dignità al baluardo della causa cristiana contro gli idolatri, mori ed orientali. Ad ogni modo la spiegazione viene resa inconsistente con ciò che Camões sostiene in un altro momento del poema, parole che non possono ricevere lo stesso trattamento riservato alle sue ultime. Nel canto X l'idea è elaborata. Che questa sia la concezione di Camões è provato dal modo in cui cesella le sue divinità all'interno del poema. Quando Venere o Mercurio intervengono ad aiutare de Gama, non è a loro che egli rivolge le proprie preghiere e le lodi, ma al Dio dei suoi padri. ( II, 65, 3 – 4 ) Quando Venere salva la flotta, de Gama attribuisce l'impresa alla provvidenza e termina con una solenne preghiera al suo Dio: Tu solamente puoi, Guardia Celeste Salvarci dall'insidia che c'investe. ( II, 31, 7 – 8 ) Ancora più impressionante è la grande preghiera di de Gama durante la tempesta nel VI canto. ( VI, 85, 1 – 4 ) Quindi segue l'intervento della dea ed il mare si placa. Poseidone è irato a causa dell'inganno perpetrato da Odisseo nei confronti del figlio Polifemo, Bacco teme che il proprio regno, l'Oriente, in cui ha istaurato il regime del caos, venga paradossalmente scosso da eventuali contaminazioni dell'ordine occidentale. Risulta però interessante notare come gli schemi narratologici che sottendono l'agire delle forze del bene siano sempre diversi tra loro: nel loro intreccio, nel loro svolgersi, nelle dinamiche che li attraversano. L'agire del male, invece, è sempre caratterizzato dalle stesse dinamiche, dallo stesso svolgersi dei fatti, come una iterazione che si ripete in un continuum e che è destinata a non centrare i propri obiettivi. Se le variatio che marcano l'agire del bene possono essere ritenute meno capaci di suscitare l'attenzione del lettore a causa della difficoltà di acquisirle, allo stesso modo le si può ritenere specchio delle infinite risoluzioni di stasis che la vita reale paventa. 7. Struttura delle narrazioni In questo capitolo verranno prese in esame le narrazioni di Odisseo e Vasco de Gama. 7.1 Odisseo narratore Risulta molto utile ai fini di questa comparazione esaminare la funzione assolta, nella costruzione dell'Odissea, dalla figura di Odisseo narratore alla corte dei Feaci, nel libro XI. Dal punto di vista della conoscenza dell'oggetto del canto, l'eroe è nelle condizioni ideali: il lungo racconto dei suoi "errores" è narrazione di una esperienza personale. Odisseo non è visto solo come narratore della propria personale vicenda: all'interno del suo stesso racconto ad Alcinoo lo si vede esporre κατά μοιραν quanto gli viene richiesto, (Ilio e le navi degli Argivi, e il ritorno degli Achei). Quando, nella cortese replica, il re itacese acconsente alla ripresa del racconto, la lega al desiderio degli ascoltatori e accenna, secondo consuetudine, al tema iniziale prima di riprendere il racconto nel punto interrotto. Le mitiche creature posseggono il dono del canto che consente di partire conoscendo più cose: l'oggetto della scienza delle sirene è precisato, non si tratta soltanto del racconto tradizionale delle gesta degli Argivi e dei Teucri, le Sirene conoscono tutto quanto avviene sulla terra. L'eroe canta κατά μοιραν perché ben noto gli è l'oggetto del canto, note gli sono le imprese degli Achei sotto Troia la cui narrazione di Demodoco l'ha mosso al pianto. 7.2 Vasco narratore. L'eroe inizia così la sua narrazione al Re di Malindi, nel III canto: Stavano tutti attenti per udire Quello che Gama avrebbe raccontato. L'eroe afferma di non riuscire a dire tutta l'eccellenza della propria terra, in una ripresa del topos della falsa modestia, qui utilizzato in rapporto alle straordinarie imprese del popolo portoghese e dei suoi re. Più volte, nel quinto canto, con anafora al primo verso delle ottave 16, 17 e 18 questo concetto viene ribadito: vidi i casi che i rudi marinai (….); 7.3. Strategie della metanarrazione. Il procedimento della mise en abyme accomuna infatti anche i due testi presi in esame: la narrazione delle proprie vicende da parte di Odisseo ai Feaci, e quella della propria storia compiuta da Vasco de Gama al Re di Malindi, si configurano come una vera e propria mise en abyme, una narrazione omodiegetica che si inserisce all'interno della più ampia narrazione che è lo stesso poema. Situazione similare si verifica alla corte del Re di Malindi ne I Lusiadi. 8.1. Polifemo Nell'avventura nel paese dei Ciclopi ( libro IX ) si fondono la violenza sanguinaria e l'alterità straniante; può essere davvero considerata il vertice del terrore di tutto il poema. La prima avvisaglia è data dalla definizione dei loro usi che Odisseo dà con l'occhio di poi, descritti come " ingiusti e violenti"; visione che appartiene cioè al narratore Odisseo e non al personaggio che vive la vicenda. La funzione strutturale di quest'isola nella vicenda è quella di permettere ad Odisseo di rischiare una sola nave nell'esplorazione della terra dei Ciclopi. Si trovano ben presto davanti alla grotta di Polifemo, la cui paurosa descrizione è ricavata da dati acquisiti successivamente da Odisseo – personaggio: Polifemo porta alle estreme conseguenze l'isolamento dei Ciclopi, non ha una famiglia, e alto com'è quanto una montagna, appare come un massiccio isolato dagli altri. La prima è il rumore di un immenso fascio di legna, che determina l'arretrare di Odisseo e dei compagni nel fondo della caverna – un movimento che assomma all'angoscia l'automatismo del riflesso. La richiesta di sopravvivenza intrinseca alla supplica è appesa al filo dell'onnipotenza del capriccio del Ciclope. Di fatto, la risposta alle suppliche sta nel gesto violento con cui il mostro afferra due uomini e si ciba di loro. Ai portoghesi in viaggio verso le Indie appare la mostruosa figura di Adamastor, il Capo delle Tempeste, che racconta la sua storia. Esattamente a metà del poema, l'incontro di Gama con Adamastor marca, geograficamente, il passaggio dall'Occidente all'Oriente, dall'Atlantico all'oceano Indiano, ossia dalla fine del mondo conosciuto all'inizio del mondo sconosciuto. L'eroe entra nella regione delle forze indomate. Con riso onesto Rispose Teti: "Quale dea può tale Gigante ricambiar con forza eguale? ( V, 53) Imprigionato nella roccia in cui si trasforma nel tentativo di violarla, Adamastor rimane eternamente carceriero della propria prigione, guardia dei segreti nascosti in cui si è intrappolato. Dunque, il colosso orrendo gli permette l'accesso alla conoscenza delle cose segrete del mare. Dubbio al quale sorgerà Adamastor come risposta, provocando la seconda domanda: [……………….]"Chi sei tu, così tremendo - dissi – all'immensa mole ed all'aspetto?" ( V, 49, 3 – 4 ) Di contro al lungo discorso del gigante, questa breve domanda racchiude, nel suo laconismo, un intenso potere significativo. Lungi dal tradire tremore, la voce del capitano manifesta stupore ed esprime, proprio per queste ragioni, la vittoria del coraggio sulla forza e sulla paura. Non vi è un tentativo di attacco in difesa del bene che gli appartiene, ma il riconoscimento del valore di quella gente che merita non solo di vincere, ma anche di essere testimone del suo dolore e delle sue lacrime. (IX, 317–318; 326; 331–333; 345–347; 361; 366; 372; 382-383) Il primo proposito di Odisseo di fronte alla brutalità del Ciclope è ispirato allo statuto della violenza eroica: pensa di trafiggere il Ciclope con la spada, ma questo proposito non viene realizzato, perché lucidamente l'eroe si rende conto che assieme a Polifemo condannerebbe a morte sé e i suoi compagni, non essendo in grado di rimuovere il masso dalla porta della caverna. L'offerta del vino al Ciclope, e l'accettazione da parte di Polifemo di questo dono, marca fortemente il primo passaggio in cui notiamo il mostro avere un ruolo attivo nel compiersi dell'inganno ai suoi danni. (V, 54, 5–6; 55, 1 – 6; 56.) La similarità sostanziale, sta, credo, nell'identico abbandono da parte dei due giganti ai piaceri sensoriali. Questo abbassamento della soglia di lucidità permette l'interpretazione di un ruolo "attivo", Polifemo e Adamastor divengono coadiutori del loro inganno. Vengono ingannati da Odisseo e da Teti, ma si prestano alla loro parte, partecipano attivamente. .l'agire convulso del Ciclope, il suo scagliare massi contro le navi, l'impossibilità di requie denotano una follia che, lungi dall'essere sterile, produrrà l'ira funesta del padre Poseidone, persecutore senza sosta dell'astuto Odisseo La cifra stilistica di Adamastor diviene invece l'irreversibilità statica della sua nuova condizione,. 8.4. Tracce di un'evoluzione La riformulazione di contenuti della tradizione epica con una feconda capacità stilistica è uno dei tratti più suggestivi dell'opera di Camões. Le dinamiche di attuazione dell'evento sono simili, nel primo caso avvengono realmente, nel secondo si tratta di una proiezione nel futuro: e proprio in quel punto Scilla ghermì dalla concava nave sei compagni, i più vigorosi per la forza del braccio. Come osservato nei precedenti paragrafi, molte sono le caratteristiche che accomunano il Ciclope ed Adamastor, ma la collocazione topografica e l'atrocità dell'agire nei confronti dei naviganti rendono possibile un accostamento del Capo Tormentorio al mostro che abita lo stretto. se nell'Odissea questo percorso viene compiuto dall'eroe in persona ( XI libro ), ne I Lusiadi è l'antagonista, Bacco, a raggiungere un altro posto, il fondo del mare, regno di Nettuno, per chiedere al dio del mare di aiutarlo nella sua lotta contro le navi portoghesi ( VI, 6 – 34 ). Odisseo necessita della sapienza di Tiresia, e tutto ciò che è in suo potere per riuscire ad accedervi egli lo compie senza esitare, esegue alla lettera le disposizioni di Circe ( X, 504 – 540). 9.1. Odisseo: discesa e profezia di Tiresia Odisseo raggiunge i confini della terra, dei Cimmerii che è "avvolta nella nebbia e nelle nubi" (XI, 15 ) e presso il fiume Oceano, al limite dell'esperienza degli uomini, scava una fossa in cui versa – dopo riti di libagione propiziatoria con latte, miele, vino, acqua e un'offerta di farina d'orzo – il sangue delle vittime che Circe gli ha indicato. Merita fermarsi un attimo per far notare il molteplice registro dei simboli. Il sangue, elemento liquido della vitalità, permetterà alle ombre dei morti una effimera ripresa di contatto con il mondo dei vivi. È un contatto limitato alla comunicazione: il morto non può prescindere dalla propria incorporeità. Ciascuno vuol sapere quello che non sa, ciascuno ritaglia una porzione di conoscenza contornata dalla dimensione del proprio universo affettivo. Le pene in casa consistono nella presenza arrogante e dissipatrice dei pretendenti, di cui il lettore già sa, ma Odisseo non ancora. Lo sguardo del profeta si estende poi ad un futuro ancora più lontano, in cui Odisseo si riconcilierà con Poseidone a mezzo di un sacrificio; per un bizzarro contrappasso, l'uomo che ha sconfitto il mare deve rendere omaggio al dio del mare in luogo che gli sia radicalmente estraneo, dopo una lunga peregrinazione alla ricerca di una terra che ignori tutto della civiltà marinara. Nella morte che viene dal mare è forse possibile leggere una allusione alla leggenda della morte di Odisseo per mano del figlio avuto da Circe, Telegono che, sbarcato a Itaca, uccise il padre. È accreditata tuttavia un'interpretazione diversa del passo nel senso che la morte sopravverrebbe a Odisseo "lontano dal mare". (………………………………………………) Scende d'Olimpo infine disperato Per liberarsi della grave soma, e va spedito alla divina corte di chi dei mar l'imperio ha avuto in sorte. ( VI, 6, 5–8; 7, 5–8; 28, 1–4;35, 5–8) La discesa di Bacco negli abissi marini è per il dio, così come è la catabasi per Odisseo, necessaria alla realizzazione del proprio fine. Il dio è disperato poiché vede gli dei del cielo, suoi pari, essere tutti favorevoli alla riuscita dell'esplorazione portoghese che mina il suo reame. Dopo l'introduzione della decisione, vi è nel poema una lunga digressione che descrive il regno di Nettuno, oltre ad una raffigurazione del dio stesso. Vi è un raddoppiamento dei concili divini ne I Lusiadi: il primo, nel I canto, riunito in cielo; il secondo, in fondo al mare. Altro motivo simmetrico è che nel primo il discorso diretto, pronunciato da Venere, era riservato a fiancheggiare i portoghesi; qui, al contrario, Bacco manifesta direttamente le sue recriminazioni contro l'incedere della flotta lusitana. Le invettive del dio fomentano rabbia nel concilio marino, tanto è vero che risulta impossibile prendere una decisione frutto di saggi avvisi: l'intemperanza del momento porta Nettuno ad agire d'impulso. Come considerare a livello strutturale questa evenienza? La profezia fondamentale del poema verrà proferita da Teti nell'isola degli Amori. Il viaggio di Da Gama e dei suoi eroi si conclude, nei canti IX e X, nella migliore maniera possibile, con tutta la gloria che è dato agli uomini di acquisire e con una rinnovata e maggiore esperienza di se stessi, degli altri e del mondo. L'Ilha dos Amores è un'isola divina, sorta in mezzo alle acque come la stessa Venere. È un prodotto dell'Essere primordiale, un locus amoenus la cui descrizione scorre lungo tutto il canto IX, intrecciandosi al rincorrersi dei marinai e delle ninfe e alle loro schermaglie amorose. La chiusa degli amori con un matrimonio collettivo dà l'abbrivio all'incontro tra Gama e Teti, che porta alla visione grandiosa del canto X. L'isola è simbolicamente un punto d'arrivo. Coronati dalle "spose eterne", i naviganti ritornano alla patria. Non si separeranno più da quel sapere acquisito che le ninfe rappresentano; loro, e soprattutto Teti, la loro regina, sono forme di presenza divina, finalmente manifesta a Vasco, ai suoi compagni e, per bocca del poeta, ai portoghesi e al mondo. La differenza di livello è simbolicamente rappresentata dal monte su cui Gama e la dea salgono, da una catabasi che segnala una variatio rispetto al procedere tradizionale della narrazione in caso di rivelazioni. Se infatti, nel caso di Odisseo, è la catabasi a marcare il momento della rivelazione, Camões compie una innovazione facendo sì che de Gama salga sul monte per ricevere la rivelazione della dea. L'atmosfera di elevata aulicità del palazzo di Teti ben introduce alla rivelazione della dea a de Gama, scandita nei modi della profezia in una prima parte, e nell'esposizione descrittiva della macchina del mondo nella seconda. La profezia funzionale allo svolgimento dell'azione, alle vicende dell'eroe – come lo è stata quella di Tiresia – si sviluppa, diviene altro; la conoscenza attraverso l'aiuto della dea sopravviene dopo due altri elementi: la giustizia e l'amore. Una eccezione strutturale dunque, che marca ancora di più la particolarità dell'opera camoniana Una possibile lettura di questa variazione può essere svolta considerando quanto Camões sapesse bene che l'apice della propria storia passata può dalla sua vetta guardare ai posteri, al tempo del vate dunque, carico di aspettative verso un continuum nella stessa direzione. Speranza disattesa, disillusa; al suo tempo il poeta non risparmia le proprie tirate veementi. Eppure conclude con la speranza che la sua Musa ispiratrice, cantando le glorie del suo re, riceva l'accettazione che merita. Questa connotazione contraddistingue Vasco de Gama, l'ansia di seguire la propria curiositas, mediata dall'Ulisse dantesco, si trasforma nel Rinascimento in quello che sarà il pungolo che spinge alle scoperte geografiche, al nuovo mondo, e, ovviamente, a un nuovo uomo. È un umanista anche nelle sue contraddizioni, nell'associare la mitologia pagana ad una visione cristiana del mondo, nei suoi sentimenti conflittuali verso la guerra e l'Impero, nel suo amore per la patria e nel suo desiderio di avventure, nel suo apprezzare il piacere estetico e nella richiesta di uno statuto eroico che fa ai suoi personaggi. Ma è soprattutto un Umanista nella sua devozione agli ideali classici, e nel suo considerarli la forza vitale dell'immaginario europeo del suo tempo. Racconta il suo Portogallo servendosi sia della cristianità che della tradizione classica. Sebbene Camões abbia molto della magnificenza rinascimentale nel suo incedere narrativo, la stempera con una sensibilità che sa sempre quando fermarsi, senza sfociare in pericolosi funambolismi estetici.
In questo lavoro abbiamo analizzato l'annata 1948 del quotidiano del Partito Comunista Italiano, «l'Unità», cercando di cogliere gli elementi che potevano contribuire a definire i confini dell'idea di patria che aveva il PCI. Abbiamo preso in considerazione articoli di fondo scritti dai massimi dirigenti del partito, articoli di personalità indipendenti candidatesi con il Fronte o di semplici simpatizzanti; abbiamo analizzato articoli non firmati, cioè considerati espressione del quotidiano nella sua interezza e alcuni disegni satirici. Abbiamo indagato le retoriche presenti in questi articoli, confrontandole con quelle dei testi canonici che hanno delineato l'idea della nazione italiana. Abbiamo collocato quest'analisi nel contesto dell'Italia del 1948, un anno decisivo per le sorti dell'Italia e per la storia del Partito Comunista Italiano. Abbiamo visto che il personaggio del traditore, fondamentale nelle narrazioni nazional-patriottiche del «canone risorgimentale» è diffusamente presente nelle pagine del quotidiano del PCI in funzione antigovernativa. Ciò non solo nel corso della combattutissima campagna elettorale, ma anche dopo, quando il PCI cercava di riorganizzarsi dopo il disastroso esito delle elezioni e accusava la DC di non avere la volontà di applicare i principi sociali della Costituzione. L'accusa di tradimento sembra peraltro essere un elemento ricorrente nella visione del mondo del comunismo staliniano: il tradimento era ad esempio uno dei capi d'accusa che il partito comunista sovietico muoveva contro i dissidenti nel corso delle sue epurazioni. Il tradimento è anche la chiave di lettura con cui nel libro fatto redarre da Stalin per canonizzare la storia del comunismo sovietico, cioè Storia del partito comunista (bolscevico) dell'URSS, del 1938, venivano interpretate tutte le deviazioni di destra e di sinistra: da Bucharin, a Zinov'iev, da Trockij a Tito.1 Lo stesso procedimento era all'opera nella ricostruzione della storia del PCI fatta redarre da Togliatti in occasione del trentennale del partito: Tasca e Bordiga erano definiti traditori della classe operaia, l'uno per «opportunismo», l'altro per «settarismo». La formula del tradimento era quindi tradizionalmente presente nella cultura marxista-lenista e i massimi dirigenti del PCI erano impregnati di questa mentalità. Molti studiosi che si sono cimentati nello studio del profilo culturale dei comunisti italiani hanno sottolineato questo aspetto: David Kertzer ad esempio ha sostenuto che «at the heart of the PCI's symbolic world was the Manichean tradition of the international Communist movement».2 Per Kertzer questa visione del mondo risaliva alle origini ottocentesche del movimento operaio ed aveva ancor più antiche radici cristiane. On one side lay good, on the other evil. On one side the Communists; on the other, the capitalists and imperialists, Fascists and traitors. On the side of all that is virtuous, the Soviet Union; on the side of all evil, the United States.3 Questa ideologia che portava a identificare i propri avversari come una rete di cospiratori era tipica, aggiunge Kertzer, della retorica del dopoguerra ed aveva un corrispettivo speculare nell'anticomunismo degli USA e dei suoi paesi satelliti, come l'Italia democristiana. Kertzer evidenzia inoltre che il simbolismo manicheo del linguaggio comunista raggiunse il suo acme nel dopoguerra, quando si ebbe la necessità di isolare un nemico interno, come nel caso di Tito in sede internazionale e nel caso Magnani-Cucchi in ambito nazionale. Da questa visione del mondo manichea per Kertzer derivava una «metafora militare», in virtù della quale lo scontro elettorale era letto dai comunisti attraverso un simbolismo militare e gli avversari politici erano identificati come forze reazionarie al servizio degli stranieri.4 Angelo Ventrone ha provato a leggere la storia italiana utilizzando la chiave di lettura del «nemico interno» come strumento di lotta politica. Per Ventrone questo modo di concepire la lotta politica risalirebbe alla prima guerra mondiale quando i neutralisti vennero definiti disfattisti, e prima ancora alla guerra di Libia, e arriverebbe fino ai nostri giorni, passando ovviamente per le elezioni del primo dopoguerra.5 Giuseppe Carlo Marino ha inquadrato il tema nel clima paranoico del PCI postbellico: spie, provocatori e traditori potevano nascondersi ovunque, tanto più in un partito che era diventato di massa, per questo bisognava predisporre criteri rigidi di selezione del personale militante e dirigente. Di qui l'istituzione delle scuole di partito e l'imposizione della pratica autobiografica, perché bisognava conoscere il passato dei militanti per capire se nella loro condotta di vita, nella loro estrazione sociale e familiare, potevano esservi i germi del tradimento. Tutto ciò rendeva necessario spingere alla delazione sistematica: i compagni che notavano elementi potenzialmente anti-comunisti dovevano senza indugio denunciarli alle autorità di partito: il colpevole sarebbe stato poi giudicato e, in caso di colpa grave, sottoposto ad un processo pubblico (cioè alla presenza dei compagni).6 Sempre Kertzer situa questa ricerca del nemico interno nello spazio del mito che caratterizza la sfera politica. Citando l'antropologo francese Raoul Girardet, tra i temi che strutturano i miti politici Kertzer individua quello dell'esistenza di un diavolo cospiratore; l'esistenza di un salvatore; l'arrivo di un'età dell'Oro.7 Per lo studioso americano questi miti sono inoltre al centro della tradizione cristiana, oltre che nell'ideologia del PCI. Per Kertzer i comunisti elaborarono questa mitologia in virtù della loro visione manichea della realtà e della storia, che li portava ad identificare nell'URSS il baluardo del bene, che avrebbe strenuamente combattuto contro il male, cioè il capitalismo e l'imperialismo che in questa fase erano identificati con gli USA.8 Non bisogna però dimenticare che questa visione manichea è presente soprattutto nella prima fase della guerra fredda. Altri studiosi hanno dimostrato che i comunisti non erano una monade nella società italiana ma erano ben inseriti in essa e anche loro furono influenzati dalla cultura di massa americana. Inoltre mito americano, mito sovietico e antiamericanismo erano immagini che erano state variamente presenti nei vari strati della società italiana nel corso del Novecento.9 Due riviste come Il Politecnico e Vie Nuove sono un'ottima testimonianza di questo fatto. Patrick Mc Carthy ha ad esempio mostrato che presso gli intellettuali e i lettori di due delle principali riviste culturali del PCI, Rinascita e Il Politecnico era stato elaborato nel corso degli anni Quaranta un «mito dell'America democratica». Un mito che aveva radici nell'ammirazione della sinistra pre-marxista per l'America e che sembrava essersi rilanciato dopo la «svolta di Salerno» e l'alleanza tra URSS e angloamericani. Esso venne però schiacciato dall'inizio della guerra fredda, che aveva comportato il ritorno ad una visione acritica di un'America imperialistica e consumistica, salvo poi tornare in auge dagli anni '70.10 Stephen Gundle ha poi mostrato in un'analisi comparativa, che il settimanale popolare del PCI Vie Nuove spesso si occupava della cosiddetta «America democratica» e in generale le sue pagine erano familiari con i fenomeni «americanizzanti» che avevano influenzato le abitudini del dopoguerra, dato che si prefiggeva il compito di rispecchiare la mentalità dei suoi lettori.11 Il fatto che questa rivista fosse molto letta è assai significativo.12 Molti studiosi sono quindi concordi nel ritenere quello del tradimento un elemento centrale nella cultura del PCI del primo dopoguerra. In questo lavoro abbiamo cercato di dimostrare che il codice retorico utilizzato per sviluppare il tema in questione è tratto dal discorso nazional-patriottico ottocentesco, anche se quest'ultimo non è ripreso in blocco ma adattato alle diverse esigenze, ai differenti fini, al mutato contesto. Facciamo un altro raffronto, andando a sovrapporre quelle che Banti ha definito «quattro configurazioni sincrone»,13 con il discorso del tradimento lanciato invariabilmente da tutti i dirigenti comunisti su «l'Unità», nei confronti del governo democristiano: per Banti le narrazioni risorgimentali si svolgono sempre passando per le seguenti configurazioni: 1. « l'oppressione della nazione italiana da parte di popoli o di tiranni stranieri; 2. la divisione interna degli italiani, che favorisce tale oppressione; 3. la minaccia al nucleo più profondo dell'onore nazionale, che tale oppressione direttamente o indirettamente comporta; 4. gli eroici, quanto sfortunati, tentativi di riscatto».14 Dal raffronto con le quattro configurazioni delle narrazioni risorgimentali emergono le analogie e le peculiarità che il PCI innesta in questo discorso. Per i comunisti italiani, come abbiamo visto, l'integrità della nazione italiana è minacciata da un lato dallo straniero capitalista e imperialista americano, il quale vuole asservire militarmente il paese; dall'altro lato dall'atteggiamento servile mostrato dalla DC. I comunisti, viceversa, si considerano gli autentici difensori dell'unità e della salute della patria, insieme ai socialisti. A differenza dei patrioti del Risorgimento, però, i comunisti non esprimono avversione nei confronti degli stranieri in quanto tali, cioè gli americani, ma nei confronti del governo italiano, che si è reso servo dello straniero, e del governo degli Stati Uniti, che come abbiamo visto, in questa fase, è identificato con l'imperialismo e il capitalismo. Questo è quanto traspare dalle pagine de «l'Unità». In realtà, come abbiamo visto poco fa, l'atteggiamento del mondo comunista nei confronti dell'America è complesso e variegato nel corso degli anni e l'antiamericanismo può essere considerato un atteggiamento di avversione aprioristica nei confronti degli Usa in quanto considerato il paese in cui il capitalismo si esprime al massimo grado. Il governo d'altra parte è colpevole di accettare servilmente questa politica contraria agli interessi nazionali. Così facendo esso si macchia di tradimento, perché divide irresponsabilmente il corpo nazionale: cioè scinde la classe operaia che nella lettura propagandistica del PCI è rappresentata nella sua interezza dalle forze di sinistra, dal resto della popolazione. Invece nella visione togliattiana la classe operaia per mezzo della guerra di liberazione nazionale era diventata il nucleo della nazione e attorno ad essa si sarebbero dovute coagulare le altre forze sociali interessate ad una riforma in senso «progressivo» delle strutture economiche e sociali dell'Italia. Il PCI, viceversa, ritenendosi il principale e legittimo sostenitore della politica di unità nazionale era per Togliatti il vero sostenitore di una politica indipendente e autonoma dell'Italia in politica estera e interna. Abbiamo visto poi che i massimi dirigenti del PCI nel commemorare i caduti della Resistenza partigiana, hanno fatto ampio uso di immagini impregnate di retorica sacrificale. Le vite lasciate dai partigiani sulle montagne vengono lette cioè come un martirio che ha consentito la redenzione di un paese che si era macchiato della colpa di aver sostenuto il regime fascista e che grazie al sacrificio dei combattenti partigiani ora poteva risorgere. Questo discorso non era esclusivo del PCI: Guri Schwarz ha mostrato che negli anni del primo dopoguerra le neonate istituzioni repubblicane cercarono di ricostruire il paese dal punto di vista simbolico coniando un «patriottismo espiativo» basato sul culto dei caduti, commemorati come vittime, non come eroi. E almeno nei pochi casi che abbiamo visto, sembra proprio che quelle immagini, nelle loro fondamenta, fossero quelle coniate dal discorso nazionalista ottocentesco.15 Abbiamo poi visto che spesso viene evocato «l'onore dell'Italia». In questo caso abbiamo trovato anche alcuni tentennamenti rispetto all'utilizzo del termine «onore». Ad esempio quando l'onore viene evocato dai criminali di guerra nazisti o fascisti, su «l'Unità» si tiene a precisare che essi lo usano in un'accezione diversa o che lo fanno in modo non autentico. L'onore della patria per i comunisti è quello che i fascisti avevano vilipeso, i partigiani riscattato e che i democristiani, adesso, mettevano nuovamente a repentaglio. Ma cos'è l'onore per i comunisti, se è diverso da quello evocato dai fascisti? Evocare l'onore della nazione, da parte dei dirigenti comunisti, non sembra porre in questione la capacità degli italiani di dimostrare il proprio valore militare nel difendere la purezza delle loro donne, e quindi di mantenere puro il sangue dei membri della comunità nazionale, come avveniva nelle narrazioni risorgimentali. Forse perché questa parte del discorso nazionale era quella più compromessa con il fascismo, che aveva fatto della purezza del sangue un dato "scientifico", legato alla cosiddetta scienza della razza. Il concetto di «onore» nel lessico comunista sembra avere un'accezione lata: la parola sembra aver perso il contenuto che aveva nell'Ottocento e ancora nella prima metà del Novecento. Questo cambiamento potrebbe anche essere legato alla crisi di quello che George Mosse ha definito «Mito dell'Esperienza della guerra».16 Dopo la seconda guerra mondiale non era più possibile replicare quel meccanismo per cui dopo la Prima guerra mondiale le stragi belliche erano state trasfigurate e rese nobili per essere sopportabili, pertanto il sistema di valori che lo spazio della figure simboliche metteva in circolo non era più attivabile nella sua interezza. I comunisti sembrano utilizzare il termine «onore» piuttosto nell'accezione in cui esso è usato nell'articolo 54 della Costituzione,17 che rimanda più alla «rispettabilità», così come è stata definita dallo stesso Mosse: cioè un sistema di valori e di comportamenti che a partire dall'Ottocento aveva portato a conferire precisi ruoli agli uomini e alle donne, aveva definito i confini della normalità e dell'anormalità dei comportamenti delle persone, e che grazie all'incontro con il nazionalismo era diventato il sistema di valori dominante.18 Rimane comunque la componente bellica: i partigiani, infatti, per i comunisti hanno restituito l'onore all'Italia con la guerra di resistenza. Guerra di resistenza che, però, come abbiamo visto con Schwarz, era letta, a posteriori, come «guerra alla guerra». Così quando si accusa il governo democristiano di disonorare l'Italia per la politica di asservimento agli interessi di una potenza straniera, non c'è, se non in modo molto implicito, alcun riferimento alla violazione dell'integrità sessuale delle donne. Potremmo pensare, però, che se l'Italia fosse vista simbolicamente come una donna, come nell'iconografia nazional-patriottica, chi la vende allo straniero, di fatto la disonora. Pensiamo a questo proposito ai disegni satirici di Guttuso che abbiamo incontrato, al manifesto elettorale e alla fotografia della ceramica di Leoncillo, riprodotta su «l'Unità» per rammentare la barbarie fascista.19 Però credo che questo elemento agisca semmai a livello inconscio, cioè che sia una conseguenza diretta dell'uso di determinate componenti del discorso nazional-patriottico che, quando attivate, mettono in circuito un certo tipo di elementi simbolici che sono profondamente radicati nel profondo di ciascuno, perché legati a sentimenti percepiti e conoscibili da tutti: l'onore, l'amore, l'odio, il legame genitoriale e quello fraterno, il martirio, la redenzione e la resurrezione. Infine abbiamo visto che viene utilizzato talvolta un lessico legato alla dimensione parentale, sia in riferimento alla comunità nazionale, sia alla comunità di partito. A questo scopo viene utilizzato in blocco il lessico che il discorso nazional-patriottico aveva trasposto dalla famiglia alla patria: si parla infatti su «l'Unità» di figli, di fratelli, di padri e di madri della patria. Soprattutto le madri e i figli sono continuamente evocati. Questo dipende forse dalla vicinanza della Resistenza, che era letta dai comunisti come guerra di liberazione nazionale e come «secondo Risorgimento». Nella guerra partigiana molti giovani erano morti, molte madri avevano perso i loro figli, tanto che avevano costituito associazioni di madri e mogli di partigiani caduti.20 Quindi il tema era molto sentito. Un altro elemento da sottolineare è che il lessico parentale è utilizzato anche per la comunità di partito: i compagni sono anche fratelli, i predecessori padri e i successori figli, secondo quel processo di cui parla Emilio Gentile, per cui gli italiani dopo la seconda guerra mondiale spostarono «la fedeltà patriottica verso altre entità ideali, storiche, politiche – dalla religione, all'ideologia, dall'umanità al partito – considerate eticamente superiori alla nazione e allo Stato nazionale».21 Ed è proprio questo il punto che rende il discorso patriottico del PCI non completamente sovrapponibile al discorso nazional-patriottico ottocentesco: l'internazionalismo che caratterizza da sempre il movimento operaio e che sia pure con le differenze apportate dal comunismo cominternista, non può non caratterizzare anche il PCI, è un elemento nettamente contrapposto rispetto a qualsiasi contenuto del nazional-patriottismo ottocentesco. Quest'ultimo infatti non può concepire una solidarietà di classe che vada potenzialmente in contraddizione con la solidarietà nazionale. Infine abbiamo ricostruito il contesto in cui si verifica questo utilizzo dei tropi nazional-patriottici da parte del PCI: sin dal 1943 esso era impegnato nella costruzione di una propria tradizione, con la qual legittimarsi come partito italiano e nella diffusione presso i propri militanti di tale tradizione, nell'ambito della costruzione del «partito nuovo». Al contempo questa volontà doveva coesistere con il profilo internazionalista e di classe a cui il partito non rinunciava, di qui le oscillazioni che abbiamo visto negli interventi sopra riprodotti, che chiamano in causa quella che è stata da molti definita la «doppiezza» del PCI. Cioè la fedeltà da un lato alla patria statale, dall'altro a quella ideale.22 Poniamo l'attenzione anche su un altro elemento: le tre figure profonde, sacrificio, onore, parentela chiamano in causa, in modo più o meno intenso, caratteri già fortemente presenti nella moralità23 comunista: lo spirito di sacrificio è secondo Sandro Bellassai un tratto fondamentale del buon militante comunista, «unità di misura della fedeltà e dell'affidabilità politica di un comunista».24 La capacità di sacrificare se stessi, i propri affetti, le proprie risorse, è considerato un elemento formativo del militante: Bellassai ad esempio racconta che in un corso della scuola centrale di partito, le Frattocchie, gli allievi dovevano trasportare a spalla un mucchio di massi, a scopo di didattico.25 Si pensi poi a Marina Sereni, che scrive alla madre della sua decisione di rompere i rapporti con lei per le sue opinioni politiche.26 Sacrificio dunque anche dei propri affetti: questo perché il Partito era la vera famiglia e ad esso tutto doveva essere subordinato. Ciò nondimeno il PCI incentrava il proprio progetto politico sulle famiglie e si presentava come il vero difensore di esse.27 Abbiamo iniziato questo lavoro chiedendoci se i concetti di patria e di nazione fossero presenti nel discorso pubblico del Partito Comunista Italiano. Per far questo abbiamo analizzato un anno, prendendolo come campione. Per avere un quadro completo dell'idea di patria del PCI in questa fase della vita del paese sarebbe stato necessario visionare almeno tutto il periodo compreso tra il 1948 e il 1956.28 Concentrarsi su un solo anno ha d'altra parte consentito un'analisi più sistematica e attenta dei singoli articoli. Quindi, pur tenendo presenti i limiti, la risposta alla domanda iniziale è affermativa. I concetti di patria e di nazione sono presenti, nel contesto che abbiamo ricostruito, per le ragioni che abbiamo ipotizzato, seppure opportunamente modificati e ricontestualizzati. Inoltre non ho preso in considerazione due aspetti importanti: la visione dell'altro, dello straniero, che mi avrebbe portato a cercare esempi di come venivano rappresentati «gli altri» dei comunisti, cioè gli americani e magari i democristiani. In secondo luogo un altro elemento mancante o non approfondito è il rapporto tra i generi. Per ragioni di tempo e per mancanza di conoscenze adeguate non ho preso in considerazione questi due aspetti. Ciò nonostante credo di poter concludere che il fatto che anche i dirigenti del PCI abbiano utilizzato alcuni degli stilemi fondamentali del discorso nazional-patriottico testimonia una volta di più la profondità del radicamento di essi nella cultura dell'Italia contemporanea: il discorso nazional-patriottico è così profondamente radicato che ha la capacità di adattarsi ai contesti più diversi, di rimanere "in sonno" per molto tempo e di ritornare a galla, come accade in questi ultimi tempi. Emilio Gentile scrive che il tentativo del PCI di presentarsi nei primi anni del dopoguerra come partito nazionale, legittimo erede del primo Risorgimento e protagonista del secondo, è da considerarsi come «l'ultima metamorfosi laica del mito della Grande Italia e, per certi aspetti, potrebbe essere considerata come l'ultima versione del nazionalismo modernista».29 Se Gentile si riferisce al nazional-patriottismo ottocentesco, mi permetto di notare che manca uno de nuclei fondamentali del nazional-patriottismo, quello legato alla difesa dell'onore sessuale delle donne della nazione. In conclusione: il PCI, nel primo dopoguerra, in parte in virtù di un progetto strutturato e meditato di presentarsi come erede delle tradizioni nazionali «progressive»; in parte in virtù di un milieu che rendeva determinati i contenuti simbolici del nazionalismo familiari anche ai comunisti, portò i massimi dirigenti del comunismo italiano ad utilizzare ampiamente i concetti di patria e di nazione nel discorso pubblico. La persistenza, però, del contenuto internazionalista nell'ideologia marxista-leninista rendeva però quell'utilizzo non completamente coincidente con il nazional-patriottismo classico. Infine alcuni temi troppo compromessi dal nazionalismo fascista e nazista e dalla guerra non erano più riproducibili. Se nei successivi decenni della storia italiana il discorso nazional-patriottico è rimasto assente dallo spazio pubblico, per ricomparire magari in occasione delle partite della nazionale di calcio, non significa che sia scomparso. Le sue radici sono ancora presenti nel profondo e, come dimostra il neo-patriottismo rilanciato dalla presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi, sono facilmente riattivabili. Purtroppo i circuiti comunicativi del discorso nazional-patriottico sono innestabili anche in contesti e con intenti meno nobili. Si veda la vicenda dei due marò italiani arrestati in India per la morte di due pescatori indiani: aldilà delle effettive responsabilità, delle attenuanti, del contesto, che saranno ricostruite dai tribunali indiani, quello che in questa sede va sottolineato è che la vicenda ha fatto esplodere un'ondata di pulsioni nazionaliste e colonialiste da parte di giornalisti, politici e «popolo». Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono stati giudicati dall'opinione pubblica e dalla classe dirigente innocenti a-priori, e gli indiani degli incantatori di serpenti che hanno ingannato due soldati che facevano solo il loro dovere. La vicenda si è poi colorata in modo sinistro, con la presenza di sedicenti ingegneri provenienti da associazioni neofasciste come Casa Pound chiamati dal governo a ricostruire in parlamento il complotto indiano.30 E basta fare un giro sul web italiano per trovare messaggi come «Salviamo i nostri soldati» in stampatello maiuscolo sparato su fotografie dei due soldati ritratti in pose da «duri» con tricolore sullo sfondo e commenti razzisti non ripetibili in questa sede. E forse è un caso, forse no, che la stampa italiana, solitamente poco interessata alle questioni internazionali, abbia di recente prestato molta attenzione al problema degli stupri in India.